Quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore: requisiti perchè abbia valore di rinuncia o transazione - Cass. n. 13731 del 2006

 

Con la sentenza n. 13731 del 14 giugno 2006, la Cassazione ritorna sul valore della quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore - nel caso in esame un ex dipendente dell’ENEL Distribuzione s.p.a. – per chiarire che non basta il riferimento generico ad una serie di titoli in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, effettuata nella dichiarazione di rinuncia a maggiori somme, ma occorre che il documento, per la sua formulazione letterale o sulla base di altre specifiche circostanze desumibili aliunde, sia interpretabile nel senso di dichiarazione consapevole – da parte del lavoratore - dei diritti in esso indicati e ai quali espressamente si intende abdicare o transigere.

Il caso all’attenzione della Suprema Corte

In una controversia relativa alla determinazione del trattamento di fine rapporto dovuto da parte dell’ENEL Distribuzione s.p.a., ad un ex dipendente che aveva sottoscritto una dichiarazione di “quietanza a saldo”, impugnata oltre i termini previsti dall’art. 2113 c.c. e non contenente alcuna specifica indicazione del diritto alla inclusione dello straordinario nel computo della cd. retribuzione differita, i giudici di secondo grado avevano anzitutto escluso che l’atto sottoscritto dal lavoratore potesse integrare una rinuncia, dal momento che la mera affermazione di non avere null’altro a pretendere, pur nella consapevolezza dei criteri adottati dall’ENEL per il calcolo del t.f.r. medesimo, non consentiva di configurare un intento abdicativo in relazione al diritto in contestazione.

Altresì la Corte d’Appello aveva escluso – come invece sostenuto dal datore di lavoro - che fosse maturata la prescrizione all’impugnazione dell’atto da parte del lavoratore, in quanto il diritto al t.f.r. – secondo i giudici di secondo grado - sorge al tempo della cessazione del rapporto di lavoro e solo da quel momento decorre il termine di prescrizione. Neppure poteva ritenersi che la norma contrattuale per la quale, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, dovevano corrispondersi quattro mensilità aggiuntive, avesse qualche nesso – come invece pretendeva l’ENEL Distribuzione s.p.a. - con l’indennità di anzianità nè con la relativa quantificazione per cui tale corresponsione “una tantum” non poteva considerarsi migliorativa della disciplina legale.

Infine i giudici di seconde cure avevano affermato che al lavoro straordinario svolto periodicamente dal dipendente ed obbligatorio per contratto, doveva riconoscersi carattere di continuità, dal momento che, come risultava dalle buste-paga prodotte in giudizio, nelle retribuzioni mensili risultava costantemente la corresponsione del compenso straordinario.

A fronte di tale decisione, l’ENEL Distribuzione s.p.a. ricorreva in cassazione ritenendo prioritariamente, tra i vari motivi di doglianza (1), che fosse illogica e contradditoria la motivazione della Corte d’appello la quale aveva escluso l’efficacia della dichiarazione di rinuncia e transazione sottoscritta dal lavoratore, violando i principi di ermeneutica contrattuale applicabili anche alle dichiarazioni unilaterali di contenuto negoziale.

La ricorrente in sostanza affermava che, sulla base del comportamento del lavoratore, il quale, con la sottoscrizione della quietanza a saldo, aveva agito per far valere non già un diritto a sé stante ed autonomo da quello di credito connesso al complessivo trattamento di fine rapporto, ma piuttosto una pretesa, pur sicuramente azionabile autonomamente ma comunque attinente solo all’esatta quantificazione di tale trattamento ( e cioè il problema della computabilità o meno nel t.f.r. del compenso per il lavoro straordinario di un certo tipo), sarebbe stato necessario verificare se, al momento della rinuncia, un ipotetico diritto parzialmente diverso da quello oggetto della quietanza ed in essa chiaramente menzionato, potesse essere stato oggetto di espressa o implicita rinuncia. Secondo la società ricorrente, un’indagine di tal genere, avente ad oggetto un dato oggettivo, e cioè l’importo complessivo corrisposto al lavoratore a titolo di t.f.r., calcolato sulla base delle norme della legge n. 297/1982 (2) e del c.c.n.l. per i dipendenti ENEL (3), in particolar modo dell’art. 43 relativo all’ulteriore corresponsione di mensilità aggiuntive, avrebbe dovuto far concludere che una quietanza liberatoria con valore così ampio (e cioè quella avente ad oggetto il “trattamento di fine rapporto” del lavoratore suddetto) fosse stata rilasciata proprio al fine di rinunciare, anche con valore transattivo, ad ogni pretesa concernente il t.f.r.

La Cassazione, nella pronuncia che si annota, richiamandosi alla sua più recente giurisprudenza sul tema (vedi in particolare il successivo § 3 della presente), concorda con l’interpretazione dei giudici di seconde cure sul valore della quietanza a saldo sottoscritta dal prestatore di lavoro. In particolare la S.C. ribadisce che una simile attestazione contenente una dichiarazione di rinuncia, da parte del lavoratore, a non meglio specificate maggiori somme relative ad una serie indeterminata di pretese astrattamente ipotizzabili nei confronti del datore di lavoro in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, non possa assumere il valore di rinuncia o transazione che il lavoratore ha l’onere di impugnare nel termine di cui all’art. 2113 c.c. (ovvero entro sei mesi ) eccetto il caso in cui risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili aliunde, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi.

La Cassazione sostiene quindi, che dichiarazioni del genere di quella controversa oggetto del caso in esame, possono semmai essere assimilate a mere clausole di stile e non sono pertanto sufficienti di per sé a comprovare l’effettiva sussistenza di una volontà dispositiva dell’interessato. Sulla base dell’atto di quietanza in questione, la S.C. aggiunge come non fosse rinvenibile nella dichiarazione sottoscritta dall’ex dipendente dell’ENEL, alcun riferimento al compenso per il lavoro straordinario computabile al lavoratore ai fini dell’indennità di anzianità dovutagli. Nella medesima infatti, era contenuto solo un generico riferimento all’indennità di anzianità maturata alla data del 31 maggio 1982, dato del tutto insufficiente di per sé a radicare nel lavoratore la consapevolezza di dismettere la pretesa (poi azionata) al computo suddetto.

Altresì la Cassazione rileva la mancanza di specificità nella quietanza, nonostante l’elencazione oltre all’indennità di anzianità, delle somme imputate rispettivamente a trattamento di fine rapporto ed a mensilità aggiuntive ai sensi dell’art. 43 del c.c.n.l., dal momento che si trattava semplicemente di voci aggiuntive e distinte da quella in contestazione e non già di specificazione di quest’ultima.

Né si può ritenere – conclude sul punto la S.C. – che abbia qualche rilievo la circostanza che nella quietanza il lavoratore abbia dato atto che il t.f.r. fosse di miglior favore rispetto a quello previsto dalle norme di legge e del contratto collettivo, dal momento che si tratta semplicemente di dichiarazione di scienza in ordine al (ritenuto) carattere satisfattivo del computi effettuato dalla società e non di un atto abdicativo

I tipi di “rinunce” fatte sottoscrivere al lavoratore: in particolare il valore da attribuire alla quietanza a saldo

Spesso accade che l’azienda pretenda dal lavoratore in procinto di andarsene per dimissioni o altri motivi, dichiarazioni di rinuncia o addirittura “liberatorie”, contenenti l’affermazione che il lavoratore non ha null’altro a pretendere. In genere il lavoratore non ha piena consapevolezza di ciò che va a sottoscrivere, anche in considerazione del fatto che la dichiarazione gli viene presentata direttamente per la firma senza fornirgli alcuna spiegazione/ informazione e, soprattutto, senza consentirgli di avere alcuna assistenza sindacale.

Sebbene si ritenga che tali dichiarazioni possano in realtà avere un’efficacia piuttosto limitata per le aziende, qualora venissero (come nel caso in esame) sottoposte al vaglio dei giudici, è opportuno provare a tratteggiare quelle che sono le tipologie di “rinunce” più comuni in questo campo.

Sostanzialmente possiamo distinguere fra:

- le rinunce annullabili

- le rinunce nulle

- le liberatorie o quietanze a saldo

Per quanto riguarda le rinunce annullabili, è noto che l’art. 2113 del codice civile nega la validità sia alle rinunce che alla transazione che abbiano ad oggetto diritti dei lavoratori derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi. In ogni caso l’impugnazione è consentita nel termine di sei mesi (4), decorso inutilmente il quale la rinuncia non è più contestabile (5). Invece è previsto che essa sia contestabile fin dall’inizio qualora avvenga in sede sindacale o giudiziaria ovvero con adeguata assistenza e necessarie garanzie per il lavoratore.

Altro è il caso delle rinunce nulle, e cioè di quelle dichiarazioni di rinuncia aventi ad oggetto diritti che non sono ancora sorti o maturati nel momento in cui il lavoratore sottoscrive la rinuncia. Infatti in questi casi, il codice civile (art. 2113) consente l’impugnazione anche decorsi i sei mesi, dal momento che tali atti si considerano nulli, in quanto inammissibili poichè non è consentito regolamentare gli effetti del rapporto di lavoro in modo diverso da quello prescritto nelle norme di legge o nel contratto collettivo (6).

Sono comunque invalide, in base alle norme di diritto comune, le rinunce o transazioni inficiate da una delle cause nullità indicate dall’art. 1418 cod. civ. o da una causa di annullabilità del contratto (incapacità, errore, violenza e dolo ai sensi degli artt. 1425 e 1427 cod. civ.).

L’ultima tipologia di rinuncia ovvero le liberatorie o quietanze a saldo ( ed è il caso di cui si è occupata la Cassazione, con la pronuncia che qui si annota) consistono in generiche dichiarazioni da parte del lavoratore che rinuncia a maggiori somme riferibili ad una serie indistinta di pretese ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto. Questo tipo di dichiarazione può assumere il valore di rinuncia o transazione - con l’onere per il lavoratore di proporre impugnazione nel termine di sei mesi ex art. 2113 cod. civ. – solo qualora venga accertato che questo atto era stato sottoscritto proprio con la consapevolezza di riferirsi a diritti determinati o determinabili oggettivamente e con il cosciente intento di rinunciarvi o di transigere sui medesimi.

Del resto la rinuncia è una manifestazione unilaterale di volontà portata a conoscenza dell’altra parte, con cui un soggetto dismette un diritto certo, determinato e determinabile. La transazione è, invece, il risultato di un accordo, mediante il quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono termine ad un contenzioso già insorto o prevengono una lite che possa sorgere fra loro.

In effetti la giurisprudenza in materia ha ribadito che, affinché si possa parlare di rinuncia, occorrono essenzialmente due presupposti:

- che il lavoratore abbia la consapevolezza e rappresentazione dei diritti di sua spettanza;

- che egli intenda volontariamente privarsi, in tutto o in parte, della realizzazione delle sue ragioni creditorie, purché specificamente determinate o quantomeno oggettivamente determinabili, a vantaggio del proprio datore di lavoro.

Si considerano di conseguenza ammissibili rinunce che riguardino mere aspettative piuttosto che diritti acquisiti, nonché diritti pienamente disponibili in capo al lavoratore piuttosto che diritti inderogabili.

La transazione, invece, si distingue dalla rinuncia fondamentalmente per tre aspetti peculiari, e cioè:

- presuppone l’incertezza in ordine alla spettanza o meno dei diritti che ha ad oggetto (c.d. res litigiosa);

- consiste in un atto bilaterale (le parti si accordano, quindi contrattano);

- comporta la previsione di reciproche concessioni tra le parti.

I precedenti sul tema

Secondo la giurisprudenza in materia – in particolare le più recenti pronunce della Cassazione (7), la quietanza che attesta la riscossione di somme determinate e la liberazione del datore di lavoro da ogni ulteriore adempimento degli obblighi su lui gravanti, non costituisce – di regola – una rinuncia in senso tecnico, ma esprime solo la manifestazione dell’opinione del lavoratore sulla congruità delle somme percepite.

Così ad es. Cass., n. 15737/2005 (vedi nota 7), nega esplicitamente efficacia negoziale alla quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore e la considera una mera dichiarazione di scienza. Analogamente si esprime Cass., n. 10172/2004, in un caso del tutto assimilabile a quello della pronuncia n. 13731/2006 che qui si annota, la quale considera la dichiarazione del lavoratore di rinuncia a maggiori somme, riferita, in termini generici, ad una serie di titoli di pretese in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, idonea ad avere valore di rinuncia o transazione e quindi ad essere impugnabile nel termine previsto dall’art. 2113 c.c., a condizione che risulti provato sulla base del documento medesimo o altrimenti dimostrabile, che sia stata rilasciata con la consapevolezza, da parte del prestatore di lavoro, di diritti determinato o comunque determinabili obiettivamente e con il cosciente intento di abdicarvi o transigere sui medesimi.

Pertanto se il prestatore di lavoro sottoscrive una semplice quietanza a saldo, non è tenuto ad impugnarla nei termini di decadenza di sei mesi prescritti dall’art. 2113 cod. civ., ma ha facoltà di promuovere un’azione giudiziaria volta a soddisfare i crediti che ritiene non essere estinti o a rivendicare altri diritti entro il consueto termine prescrizionale.

E’ chiaro che il ragionamento di cui sopra non è applicabile qualora il lavoratore, nel rilasciare la quietanza a saldo, abbia invece, manifestato la consapevolezza dell’ammontare dei suoi diritti e la volontà espressa di dismetterli.

In ogni caso la volontà del lavoratore di rinunciare o transigere ad un proprio diritto deve risultare espressamente da una dichiarazione o dal suo comportamento concludente, per cui tale volontà non può essere in alcun modo desunta dal mero silenzio o dall’inerzia del lavoratore. L’affermazione, da parte del prestatore di lavoro, di fatti a sé sfavorevoli, non costituendo un atto dispositivo di un diritto, non è soggetta alla disciplina delle rinunce e delle transazioni.

Nota di Pierangela Dagna

(fonte:Altalex, 15 settembre 2006)

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(1) In considerazione della priorità del secondo motivo addotto dalla ricorrente (in quanto pregiudiziale per la decisione della controversia), e cioè quello relativo alla presunta erronea e falsa applicazione degli artt. 2113 e 1362 ss. c.c. ovvero in ordine all’efficacia della dichiarazione di rinuncia e transazione sottoscritta dal lavoratore e ai termini di impugnazione della medesima, in questa sede si dà conto solo in estrema sintesi degli ulteriori motivi di doglianza proposti dalla società ENEL Distribuzione s.p.a. In sostanza la ricorrente denunciava inoltre: 1) violazione e falsa applicazione dell’art. 2120 c.c. e degli artt. 115 – 116 c.p.c., nonché dell’art. 2697 c.c. per aver qualificato come continuativo il lavoro straordinario svolto dal dipendente sulla sola base dei prospetti mensili delle buste-paga; 2) violazione e falsa applicazione dell’art. 2120 c.c.; della legge 29/5/1982 n. 297, art. 4; degli artt. 1362 ss. c.c., per aver considerato che le quattro mensilità aggiuntive di retribuzione corrisposte al lavoratore non integrassero un trattamento più favorevole di quello che costui avrebbe potuto ottenere conteggiando il compenso straordinario con i parametri in vigore ante il 31 maggio 1982; 3) violazione e falsa applicazione dell’art. 2948 c.c., n. 5 e dell’art. 2934 ss. c.c., in relazione alla legge n. 297/1982, art. 2, per non avere il giudice a quo considerato che a fronte della precedente comunicazione rese al lavoratore in ordine agli accantonamenti effettuati dall’azienda ai fini della liquidazione del futuro t.f.r., fin dal momento di questa comunicazione, costui doveva ritenersi consapevole che il compenso da lavoro straordinario fosse da escludersi dal computo delle altre indennità indicate nella comunicazione e da quel momento decorresse il termine decennale di prescrizione per proporre azione di accertamento dei suoi diritti.

(2) Si tratta della legge 29 maggio 1982, n. 297 recante “Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica”.

(3) L’art. 43 del c.c.n.l. per i dipendenti dell’ENEL, che sostanzialmente riproduce il precedente testo del 1979, prevede la corresponsione di indennità supplementari al lavoratore nel caso di dimissioni al raggiungimento del 35° anno di attività lavorativa.

(4) Il termine di decadenza decorre: dalla data della rinuncia o transazione, se questa è intervenuta dopo la cessazione del rapporto di lavoro; dalla data di cessazione del rapporto di lavoro, se la rinuncia o transazione è stata posta in essere durante lo svolgimento del rapporto.

(5) Occorre però tenere presente che l’inoppugnabilità in oggetto non è rilevabile d’ufficio dal giudice, ma potrà essere dichiarata solo qualora il datore di lavoro chiamato in giudizio, sollevi la relativa eccezione.

(6) Cfr. Cass., sez. lavoro, sent. n. 12561 del 26 maggio 2006.

(7) Cfr. Cass., sent. n. 12561 del 26 maggio 2006, cit.; sent. n. 20449 del 21 ottobre 2005; sent. n. 15737 del 27 luglio 2005; sent. n. 3474 del 21 febbraio 2005; sent. n. 10172 del 26 maggio 2004; sent. n. 9047 dell’11 luglio 2001.

 

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Cass. sez. lav. 14 giugno 2006, n. 13731 – X.Y. c. Enel Distribuzione SpA

 

Svolgimento del processo

La sentenza specificata in epigrafe, pronunciata in grado di appello, ha condannato l'ENEL Distribuzione s.p.a. alla rideterminazione del trattamento di fine rapporto dovuto all'ex dipendente odierno intimato ed al pagamento delle relative differenze come conseguenza dell'affermata computabilità del compenso per lavoro straordinario continuativo, da costui prestato nel periodo maggio 1981 - maggio 1982, nell'indennità di anzianità maturata alla data di cessazione del rapporto.

In particolare, per quanto rileva nella presente sede, la Corte d'appello: a) ha escluso che l'atto di quietanza sottoscritto dal dipendente e dedotto dalla società - ritenuto dal primo giudice assorbente e decisivo per il rigetto della pretesa del lavoratore, in ragione del decorso del termine decadenziale previsto dall'art. 2113 c.c. - fosse idoneo a integrare una rinuncia, in quanto la dichiarazione contenuta in tale atto, sebbene fosse riferita al t.f.r., non conteneva la specifica indicazione del diritto alla inclusione dello straordinario nel computo della cd. retribuzione differita, sicché la mera affermazione di non avere null'altro a pretendere, pur nella consapevolezza dei criteri adottati dall'ENEL per il calcolo del t.f.r. medesimo, non consentiva di configurare un intento abdicativo in relazione al diritto in contestazione; b) ha escluso, altresì, che nella specie fosse maturata la prescrizione eccepita dalla società, osservando, al riguardo, che il diritto al t.f.r. sorge alla cessazione del rapporto di lavoro e solo da tale epoca decorre il termine di prescrizione, mentre, a tali fini, non può attribuirsi rilievo alla comunicazione degli accantonamenti nel corso del rapporto; c) ha ritenuto che la norma contrattuale prevedente la corresponsione di quattro mensilità aggiuntive al momento della risoluzione del rapporto non aveva alcun nesso con l'indennità di anzianità e con la relativa quantificazione, onde non poteva ritenersi migliorativa della disciplina legale; d) ha affermato che al lavoro straordinario svolto periodicamente dal dipendente ed obbligatorio per contratto doveva riconoscersi carattere di continuità, atteso che, in particolare, dalle buste- paga prodotte in giudizio, era risultata la corresponsione del compenso per straordinario nelle retribuzioni di tutti i mesi.

Di questa sentenza ha chiesto la cassazione l'ENEL Distribuzione s.p.a., con ricorso affidato a quattro motivi. Il lavoratore ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione

Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2120 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., dell'art. 2697 c.c., in una con vizi di motivazione.

Si censura la sentenza impugnata per aver qualificato come continuativo il lavoro straordinario svolto dal dipendente sulla sola base dei prospetti mensili, attestanti la corresponsione dei compenso straordinario, con una valutazione priva di adeguati riscontri probatori, idonei, in particolare, a configurare le prestazioni svolte in orario straordinario come funzionali al normale fabbisogno dell'impresa e ad escludere ragionevolmente che le medesime prestazioni lavorative fossero occasionali, transitorie o saltuarie (ad esempio, per essere collegate ad eventi eccezionali o a "picchi anomali" di attività).

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2113 e 1362 c.c., ss., nonché vizi di motivazione.

Si sostiene che è illogica e contraddittoria la motivazione con cui la Corte d'appello ha escluso l'efficacia della dichiarazione di rinuncia e transazione sottoscritta dal lavoratore, violando i principi di ermeneutica contrattuale applicabili anche alle dichiarazioni unilaterali di contenuto negoziale. Infatti - ad avviso della ricorrente - la sentenza impugnata ha errato nella valutazione circa l'effettiva intenzione del dichiarante, trascurando di considerare la dichiarazione in modo rispondente al significato proprio delle espressioni usate, al riferimento temporale, al complesso dei documenti scritti - direttamente collegati ad essa - e al comportamento del dichiarante; in particolare, poiché il lavoratore aveva agito per far valere non già un diritto a sè stante ed autonomo dal diritto di credito relativo al complessivo trattamento di fine rapporto, bensì una pretesa, pur sicuramente azionabile autonomamente ma comunque attinente solo all'esatta quantificazione di tale trattamento (ossia la computabilità, a tal fine, del compenso per il lavoro straordinario di un certo tipo), sarebbe stato necessario verificare se un ipotetico (al momento della rinuncia) diritto parzialmente diverso da quello oggetto della quietanza ed in essa chiaramente menzionato potesse essere stato oggetto di espressa od implicita rinuncia. Tale indagine - avuto riguardo al dato oggettivo costituito dall'importo complessivo corrisposto al lavoratore calcolato secondo i dettami della L. n. 297 del 1982 e del c.c.n.l. per i dipendenti ENEL e comprendente una somma quale indennità di anzianità maturata a tutto il 31 maggio 1982, una somma quale indennità di fine rapporto e un'ulteriore somma quale importo delle mensilità aggiuntive di cui all'art. 43 c.c.n.l., e tenuto conto che detta elencazione concretizza quello che nella dichiarazione di quietanza viene definito "trattamento globale di fine lavoro", anche di miglior favore, con particolare riguardo alle voci componenti il t.f.r. - avrebbe dovuto portare alla conclusione che una quietanza liberatoria dal tenore così ampio era stata rilasciata allo scopo di rinunciare, anche a fine transattivo, ad ogni pretesa concernente il trattamento di fine rapporto.

Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2120 c.c., della L. 29 maggio 1982, n. 297, art. 4, dell'art. 1362 c.c., e segg., in una con vizi di motivazione. Si censura l'affermazione della Corte territoriale secondo cui l'attribuzione al lavoratore, oltre al t.f.r., di quattro mensilità di retribuzione (cd. mensilità aggiuntive) non integra un trattamento più favorevole di quello che costui avrebbe ottenuto conteggiando il compenso per straordinario ante 31 maggio 1982 e si sostiene che la disciplina contenuta nell'art. 43 del c.c.n.l. del 1983, sostanzialmente produttiva di quella precedente (1979), mostra chiaramente che la corresponsione dell'anzidetta erogazione ha carattere generalizzato, vale cioè per tutti i casi di cessazione del rapporto e va, pertanto, ad integrare la indennità di anzianità; il che, del resto, trova conferma nella giurisprudenza di legittimità.

Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2948 c.c., n. 5 e art. 2934 c.c., ss., in relazione alla L. n. 297 del 1982, art. 2, per non avere il giudice a quo considerato che, essendo stato comunicato al lavoratore, in conformità al disposto della L. n. 297 del 1982, art. 2, penultimo comma, il prospetto degli accantonamenti utili ai fini della futura liquidazione del t.f.r., ivi compreso quello corrispondente all'importo dell'indennità di anzianità maturata fino al momento dell'entrata in vigore della detta legge, con indicazione delle singole voci retributive assunte a base del relativo calcolo, il destinatario era nella condizione di maturare, fin dal momento di questa comunicazione, piena consapevolezza dell'esclusione del compenso per lavoro straordinario dal coacervo di quelle, cosicchè avrebbe potuto e dovuto proporre nel termine di prescrizione decennale l'azione di accertamento del suo diritto all'accantonamento anche della quota corrispondente al menzionato compenso. Inutilmente decorso, nella specie, tale termine, l'intervenuta prescrizione dell'azione di accertamento precluderebbe l'esperibilità anche dell'attuale azione di condanna, essendo l'una il necessario presupposto dell'altra.

Per ordine logico devono essere esaminate, dapprima, le questioni - di carattere pregiudiziale - relative alla decadenza dell'azione, ex art. 2113 c.c. (secondo motivo), e alla prescrizione del diritto azionato (quarto motivo), e, successivamente, quelle (inerenti alla non cumulabilità del trattamento legale con quello convenzionale più favorevole (terzo motivo) e alla configurabilità del lavoro straordinario in relazione al requisito della continuità (primo motivo).

Il secondo motivo non è fondato.

Come questa Corte ha più volte affermato (cfr. ex multis Cass. 11 luglio 2001 n. 9407), la quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore, che contenga una dichiarazione di rinuncia a maggiori somme riferita, in termini generici, ad una serie di titoli di pretese in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, può assumere il valore di rinuncia o di transazione, che il lavoratore ha l'onere di impugnare nel termine di cui all'art. 2113 c.c., alla condizione che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili aliunde, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi; infatti, enunciazioni di tal genere sono assimilabili alle clausole di stile e non sono sufficienti di per sè a comprovare l'effettiva sussistenza di una volontà dispositiva dell'interessato.

Nella specie - come già osservato da questa Corte in analoghe controversie (cfr. Cass. 20 ottobre 2004 n. 20516) - è pacifico, in base all'accertamento del giudice di merito, che l'atto di quietanza in questione non contenesse alcun riferimento al compenso per lavoro straordinario computabile ai fini dell'indennità di anzianità dovuta al lavoratore, ma recava solo un generico riferimento all'indennità di anzianità maturata al 31 maggio 1982, del tutto inidoneo a radicare nel lavoratore la consapevolezza" di dismettere la pretesa (poi azionata) al computo suddetto. Né alla quietanza medesima poteva riconoscersi specificità per il fatto che essa elencasse, oltre all'indennità di anzianità, anche le somme imputate rispettivamente a trattamento di fine rapporto ed a mensilità aggiuntive di cui all'art. 43 c.c.n.l., trattandosi null'altro che di voci aggiuntive e distinte da quella in contestazione e non già di specificazione di quest'ultima.

Parimenti, non rileva la circostanza - dedotta ulteriormente dalla società - che nella quietanza il lavoratore abbia dato atto che "il trattamento globale di fine lavoro" era di miglior favore con particolare riguardo alle varie componenti del t.f.r., trattandosi all'evidenza di una mera dichiarazione di scienza in ordine al (ritenuto) carattere satisfattivo del computo effettuato dalla società e non di un atto abdicativo. Pertanto, correttamente la Corte d'appello, pur considerando sotto altro profilo il tema del possibile trattamento di miglior favore in ragione del riconoscimento delle mensilità aggiuntive, non l'ha valutato sotto il profilo della sua (insussistente) idoneità ad incidere sulla qualificazione dell'atto di quietanza del lavoratore.

Non fondato è anche il quarto motivo di ricorso.

L'interesse ad agire, in termini generali, senza confondersi con il diritto, costituendo una condizione per far valere il diritto medesimo mediante l'azione, si identifica nell'esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l'intervento del giudice.

Nell'azione di mero accertamento, esso presuppone uno stato di incertezza oggettiva sull'esistenza di un rapporto giuridico, tale da arrecare all'interessato un pregiudizio concreto ed attuale (cfr., per tutte, Cass., sez. un., 10 agosto 2000 n. 565 e, più di recente, Cass. 7 giugno 2003 n. 9172; 14 novembre 2002 n. 16022; 5 marzo 2001 n. 3157).

La giuridicità di una qualsiasi situazione di vantaggio, come tale protetta dall'ordinamento in modo immediato e diretto in capo ad un determinato soggetto, sì da assurgere al rango di diritto, mentre si concreta in un coacervo di poteri o di facoltà che ne costituiscono lo specifico contenuto e valgono a distinguere l'una dall'altra, poichè rappresentano l'intrinseco di ciascuna, postula un requisito che, per essere a tutte comune, si configura come estrinseco e si identifica nella necessaria certezza della sua esistenza, della quale, in presenza dei suindicati presupposti, è consentito l'accertamento giudiziale.

Orbene, quando sia posta oggettivamente in discussione la certezza di una situazione giuridica, intesa come bene in sé, senza che vengano in rilievo i suoi specifici contenuti identificativi, e tanto si ponga come fonte di attuale pregiudizio per il titolare di quest'ultima, lo stato di incertezza si sostanzia in una illegittima situazione di fatto continuativa, che si protrae de die in diem, così da rinnovare quotidianamente le condizioni di interesse ad agire, per ottenerne dal giudice la rimozione.

Si tratta, in sostanza, di un fatto che non può considerarsi istantaneo, ma si apprezza per la sua stessa permanenza, sicché, prima che questa cessi, non è dato identificare un unico momento destinato a costituire il dies a quo della prescrizione dell'azione di accertamento, mentre la sua cessazione fa venir meno il presupposto di tale azione, determinando, per definizione, l'insussistenza del fattore di incertezza.

In questi termini, può dirsi che l'azione meramente dichiarativa è dotata del requisito dell'imprescrittibilità, mentre prescrittibile é il diritto, quando la sua esistenza venga invocata non in sè e per sè, ma strumentalmente al concreto conseguimento del particolare bene della vita che costituisce il contenuto del diritto medesimo.

Ne consegue che la relazione ravvisabile fra azione di mero accertamento del diritto ed azione diretta alla sua concreta attuazione opera in senso esattamente inverso a quello preteso da parte ricorrente, perchè, mentre la mancata sperimentazione della prima, non soggetta a termini di prescrizione, risulta del tutto irrilevante ai fini della persistente sperimentabilità della seconda, è la possibile prescrizione di questa che può precludere l'azione di mero accertamento, per difetto di interesse, in quanto, una volta estinto il diritto, con conseguente impossibilità di realizzazione pratica del suo contenuto, viene meno, di norma, ogni utilità dell'accertamento della sua mera esistenza, così difettando il ricordato presupposto dell'invocazione dell'officium judicis (cfr. Cass. 9 aprile 2003 n. 9575; 16 gennaio 1997 n. 382; 23 ottobre 1991 n. 11215; 6 maggio 1991 n. 4886).

Corollario delle esposte considerazioni è quello dell'indifferenza della causa dello stato di incertezza che legittima all'azione di accertamento, la cui imprescrittibilità scaturisce dal perpetuarsi di uno stato siffatto e non dalla natura delle ragioni che lo determinano, sicchè le conclusioni cui si è pervenuti non mutano, sia nel caso in cui la composizione della base di computo del trattamento di fine rapporto sia stata conosciuta mediante la comunicazione degli accantonamenti, sia in quello in cui tale composizione possa venire in discussione a seguito dell'eventuale erogazione di anticipazioni. Quel che conta, infatti, è la situazione di incertezza che da luogo all'azione di accertamento, attraverso la quale il lavoratore può far valere il suo diritto: il quale, giova precisare, può essere tutelato, distintamente, mediante l'azione di accertamento, fin tanto che persista l'interesse ad eliminare lo stato di incertezza, e mediante l'azione di condanna, una volta che il rapporto sia cessato.

Parimenti infondato è il terzo motivo.

In più occasioni questa Corte ha enunciato il principio di diritto secondo il quale, in tema di indennità di fine rapporto, il confronto fra la disciplina legale e quella convenzionale, agli effetti previsti dall'art. 1419 c.c., impone, da un lato, la considerazione unitaria di tutte le disposizioni pattizie che incidono sulla determinazione della base di calcolo dell'indennità stessa, anche attraverso la previsione di maggiorazioni aggiuntive, e, dall'altro, la valutazione, parimenti unitaria, derivante dall'integrale applicazione della norma di legge (Cass. 1 febbraio 1994 n. 988; 7 maggio 1991 n. 5068).

Ma ha anche avuto modo di precisare che l'anzidetto principio è applicabile soltanto se, all'esito dell'operazione di ermeneutica contrattuale che deve compiere il giudice del merito, si giunge a qualificare la maggiorazione aggiuntiva come componente del trattamento di fine rapporto, mentre l'individuazione di un titolo diverso ed autonomo conduce alla conseguenza che il datore di lavoro deve riconoscere sia quel trattamento (calcolato ai sensi di legge) che l'erogazione aggiuntiva, senza decurtazioni di sorta (Cass. 6 dicembre 2002 n. 17418; 4 giugno 1994 n. 5418; 1 febbraio 1994 n. 988).

A conforto di tale conclusione la Corte ha richiamato il disposto, della L. n. 297 del 1982, art. 4, comma 5, il quale prevede che restano salve le indennità corrisposte alla cessazione del rapporto aventi natura e funzioni diverse da quelle dell'indennità di anzianità, di fine lavoro, di buonuscita, comunque denominate, sottolineando come, con tale previsione, il legislatore abbia inteso precisare che gli aspetti inderogabili della disciplina sono attinenti solo al "titolo" del trattamento di fine rapporto, sussister do la possibilità, per il datore di lavoro, di corrispondere al lavoratore, in occasione della cessazione del rapporto, erogazioni aggiuntive, a titolo diverso e distinto da quello del detto trattamento, rispetto al quale si collocano a latere.

A quest'ultima conclusione è giunta la Corte d'appello, la quale ha interpretato la norma convenzionale che dispone l'erogazione in favore dei dipendenti di quattro mensilità aggiuntive nel senso che la stessa non ha inteso dettare una disposizione derogatoria della disciplina legale dell'indennità di buonuscita. A fronte di una tale puntuale interpretazione del giudice di merito, condotta alla luce delle richiamate disposizioni legislative, le osservazioni critiche svolte in ricorso sono indirizzate, sostanzialmente, a sostenere un diverso risultato interpretativo della norma contrattuale, considerato preferibile a quello accolto nella sentenza censurata, soprattutto in base all'argomento - di tipo "residuale" - che l'assimilazione delle mensilità aggiuntive al t.f.r. sarebbe meglio compatibile con tutte le ipotesi contrattuali per le quali l'emolumento è previsto. Ma una prospettazione siffatta, oltre ad essere poco convincente di per sé, in quanto pretende di "ricondurre" nell'area del t.f.r. ogni emolumento di dubbia natura, è comunque ritenuta inammissibile dalla giurisprudenza della Corte nell'ambito del sistema processuale anteriore alle modifiche introdotte dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 (v. Cass. 21 novembre 2003 n. 17749; 20 agosto 1997 n. 7738; 26 giugno 1996 n. 5893; 2 febbraio 1996 n. 914), in quanto insufficiente a porre in dubbio l'accertamento di fatto in cui si risolve l'interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune e ad integrare un vizio denunciabile in sede di legittimità; mentre è opportuno precisare che, rispetto alla interpretazione della medesima clausola di un contratto collettivo di diritto comune, è ben possibile che, in sede di legittimità, si giunga a diverse conclusioni, giacché la decisione della Corte dipende, di volta in volta, dai limiti tracciati dalle censure proposte, il cui ambito circoscrive la verifica che essa può esercitare sulla correttezza del metodo interpretativo adottato dal giudice del merito e la congruità della relativa motivazione (Cass. 13 giugno 2003 n. 9499).

Infine, anche il primo motivo è infondato.

Pronunciando in analoghe controversie, questa Corte ha avuto modo di precisare che l'affermazione della continuità del lavoro straordinario reso per un certo tempo, mentre non può fondarsi sull'accertamento di una semplice reiterazione delle prestazioni eccedenti l'orario normale, trova invece giustificazione allorchè il carattere costante e sistematico di queste ultime venga individuato nella duplice condizione di una verificata regolarità o frequenza o periodicità della prestazione e di una ragionata esclusione dei caratteri di occasionalità, transitorietà o saltuarietà; in particolare, si è aggiunto, occorre misurare la riconoscibilità di regolarità, frequenza o anche mera periodicità di una prestazione eccedente l'orario ordinario con riguardo al suo ripetersi con costanza ed uniformità "per un apprezzabile periodo di tempo", così da divenire abituale nel quadro dell'organizzazione del lavoro (cfr. ex multis Cass. 14 ottobre 2004 n. 20278; Id., 10 marzo 2005 n. 5234; Id., 11 marzo 2005 n. 5362).

In base a tali principi deve ritenersi del tutto congrua, nella specie, l'affermazione del giudice di merito dell'esistenza della continuità dello straordinario, essendo essa fondata non già sulla mera asserzione che lo straordinario prestato era legato ad una stabile necessità dell'impresa di provvedere all'erogazione dell'energia elettrica senza interruzioni, sospensioni o disfunzioni (come era invece avvenuto in altre pronunce di merito che hanno dato luogo alla cassazione con rinvio: v. per es. la citata Cass. n. 20278 del 2004), ma sullo specifico accertamento che ha evidenziato il ripetersi delle prestazioni straordinarie con costanza e uniformità lungo un apprezzabile arco temporale, in particolare essendo risultato che i compensi per lavoro straordinario erano stati corrisposti, nell'anno antecedente la data del 31 maggio 1982, in maniera costante e continuativa (laddove, peraltro, anche la eventuale variazione di "intensità" dello straordinario - così come rilevata dalla società ricorrente, nel senso, cioè, che in qualche mese lo straordinario poteva essere molto elevato e in qualcun altro esiguo o addirittura mancante - non dimostra una significativa oscillazione, ma, piuttosto, prova che, durante il periodo considerato, l'effettuazione dello straordinario era la regola, e non l'eccezione).

Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato.

La ricorrente va condannata alle spese del giudizio, ai sensi dell'art. 385 c.p.c., con liquidazione come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio, liquidate in Euro 38,00 per esborsi ed in Euro mille per onorari, oltre a spese generali, I.V.A. e C.P.A..

Così deciso in Roma, il 6 aprile 2006.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2006.

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