Danno non patrimoniale da
molestie sessuali sul lavoro
Cass., sez. lav., 19 maggio 2010 n. 12318
Molestie sessuali sul luogo di lavoro – Risarcimento danno biologico, morale
ed esistenziale - Liquidazione equitativa - Legittimità - Fondamento
Correttamente la Corte territoriale, accertando la lievità
del danno biologico ma anche la particolare gravità ed odiosità del
comportamento lesivo e quindi la sua notevole capacità di offendere i beni
personali costituzionalmente protetti indicati come lesi dalla lavoratrice,
ha proceduto ad una liquidazione equitativa del danno non patrimoniale sulla
base di criteri diversi, che alludono esplicitamente, in particolare, per
ciò che riguarda il c.d. danno morale da reato, alla menzionata odiosità
della condotta lesiva, indotta soprattutto dallo stato di soggezione
economica della vittima e per la parte concernente il c.d. danno
esistenziale, al clima di intimidazione creato nell'ambiente lavorativo dal
comportamento del datore di lavoro e al peggioramento delle relazioni
interne al nucleo familiare della lavoratrice
in conseguenza di esso.
Svolgimento del processo
La Corte d'appello di Torino, in parziale riforma della decisione non
definitiva del Tribunale della medesima città, ha condannato la s.p.a.
Concessionaria (...) con sentenza
depositata il 17 luglio 2006 e notificata il 6 settembre successivo,
a pagare alla propria ex dipendente (...) la somma di € 30.150,00, oltre
accessori, a titolo di danni biologico, morale ed esistenziale da
quest'ultima riportati a seguito delle molestie sessuali subite dal legale
rappresentante della società.
Con ricorso, affidato a cinque motivi, notificato il 30 ottobre 2006, la
società chiede ora la cassazione di tale sentenza.
Resiste alle domande (...) rituale controricorso.
Motivi della decisione
1. Col primo motivo, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione
degli artt. 2698, 1° comma (recte, presumibilmente, 2697, 1° comma), 2729,
1° comma e 2730, 1° comma cod. civ. nonché il vizio di motivazione.
Riproducendo integralmente il contenuto dell'atto introduttivo del giudizio
nonché il contenuto dei verbali di udienza, quanto alle prove testimoniali
assunte nel giudizio di primo grado, la ricorrente rileva che le poche
dichiarazioni testimoniali (cinque testi su sedici) aventi ad oggetto
molestie sessuali poste in essere dal legale rappresentante della società
erano riferite ad episodi riguardanti esclusivamente la stessa persona della
teste oppure fatti, peraltro del tutto
generici, a lei narrati dalla (...)
Nessun testimone avrebbe viceversa confermato i pochi episodi riportati nel
ricorso ex art. 414 c.p.c.
Pertanto, in mancanza di prova, i giudici di merito avrebbero fatto
esclusivamente ricorso a meri indizi
relativi ad episodi riferiti come occorsi ad altre persone (tra
l'altro da testimoni di cui due poco attendibili in quanto promotori di una
causa nei confronti della società e non certo per molestie sessuali) e per
giunta secondo una dinamica diversa da quella descritta dalla (...)
Inoltre la Corte d'appello avrebbe fondato le proprie valutazioni su di un
giudizio di intrinseca credibilità delle dichiarazioni rese dalla (...) in
sede di interrogatorio libero, alle quali viceversa in via di principio non
può attribuirsi aprioristicamente piena credibilità, tanto più nel caso di
specie in cui vi sarebbe una notevole discrasia tra la versione
dell'episodio riferita in udienza e quella che la lavoratrice avrebbe
dichiarato al C.T.U. e risultante dalla relativa relazione.
Da qui la denuncia di violazione delle regole legali sulla ripartizione
dell'onere della prova, così come recentemente ricordate da Cass. 13 ottobre
2005 n. 19894 e di difetto di motivazione anche nell'esame della
verosimiglianza o meno delle dichiarazioni sia testimoniali che in risposta
all'interrogatorio libero, anche alla luce di elementi di genericità o di
silenzi significativi, in tal modo utilizzando una sorta di presumptio de
presunto a fondamento del preteso accertamento della responsabilità del
(...)
Il motivo conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto:
"Dica la Corte se, ai sensi del combinato disposto degli arti 2729, 1°
comma, 2730, 1° comma e 2698, 1° comma cod. civ., sia ammissibile per il
giudice di merito fondare il proprio convincimento e la conseguente condanna
della parte esclusivamente sulla scorta delle dichiarazioni direttamente
rese dalla parte lesa, senza considerare neppure le contraddizioni delle
dichiarazioni con i documenti versati in giudizio, così applicando
esattamente al contrario l'art.2730 cc. e su elementi indiziari provenienti
da alcune testimonianze indirette, a loro volta in contraddizione con altre
testimonianze, in assenza di riscontro delle circostanze di fatto dedotte in
giudizio ".
2 - Col secondo motivo, la società denuncia il vizio di motivazione della
sentenza, che non avrebbe tenuto conto della denuncia di contraddittorietà
del comportamento della (...) la quale, nonostante abbia lamentato episodi
di molestie sessuali avvenute sul luogo di lavoro a Venaria, ove il (...)
aveva il proprio ufficio principale, avesse impugnato il suo trasferimento
a Rivoli, ove il (...) recava viceversa
saltuariamente.
3 - Col terzo motivo, viene denunciato un ulteriore vizio di motivazione
della sentenza, in quanto la Corte territoriale non avrebbe tenuto adeguato
conto del fatto che numerosi testimoni di sesso femminile avevano negato di
avere subito molestie sessuali dal (...) o di avere assistito a molestie da
parte di questi.
4 - Col quarto motivo, la società denuncia la violazione o falsa
applicazione dell'art. 1226 cc. e dell'art. 432 c.p.c. nonché il vizio di
motivazione della sentenza impugnata.
Dopo aver rimarcato il fatto che col proprio modus operandi nella fase delle
indagini peritali, la Corte territoriale (assegnando al C.T.U. un quesito
"vincolante", col dare per certo l'accertamento di molestie, in realtà non
provati e con omettere ogni considerazione in ordine ai rilievi del C.T. di
parte relativamente alla probabile connessione del disagio psicologico con
il trasferimento a Rivoli piuttosto che alle pretese molestie) avrebbe di
fatto impedito di imputare diversamente il danno biologico lamentato o
comunque di modulare l'ammontare dei danni di cui è richiesto il
risarcimento, la società ricorrente censura la liquidazione equitativa del
danno:
-perché la stessa ricorrente aveva proposto l'adozione dei criteri elaborati
dal Tribunale di Torino;
-perché non erano indicati i criteri alla base della valutazione equitativa,
rimasta pertanto incomprensibile, tenuto altresì conto della sua enormità,
anche con riguardo alla liquidazione del danno biologico ed esistenziale.
Il ricorso conclude pertanto con la richiesta di annullamento della sentenza
impugnata, con ogni conseguenza di legge.
I primi tre motivi del ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente,
attengono sostanzialmente, ancorché in alcuni snodi evocanti violazioni di
legge, a censure relative alla motivazione della sentenza, in punto di
valutazione delle risultanze istruttorie, ritenuta erronea, parziale e
contraddittoria.
In proposito, va ricordato che il controllo di legittimità sulla motivazione
della sentenza riguarda unicamente (attraverso il filtro delle censure mosse
con il ricorso) il profilo della
coerenza logico-formale e della correttezza giuridica delle
argomentazioni svolte, in base all'individuazione, che compete
esclusivamente al giudice di merito, delle fonti del proprio convincimento,
raggiunto attraverso la valutazione delle prove, il controllo della loro
attendibilità e concludenza, scegliendo tra di esse quelle ritenute idonee a
sostenerlo all'interno di un quadro valutativo complessivo privo di errori,
di contraddizioni e di evidenti fratture sul piano logico, nel suo interno
tessuto ricostruttivo della vicenda (cfr., per tutte, Cass. S.U. 11 giugno
1998 n. 5802 e, più recentemente,
Cass., sez. lav. 6 marzo 2006 n. 4770 e Cass. sez. 1A, 26 gennaio
2007 n. 1754 e 21 dicembre 2009 n. 26825).
Né appare sufficiente, sul piano considerato, a contrastare le valutazioni
del giudice di merito il fatto che alcuni elementi emergenti nel processo e
invocati dal ricorrente siano in contrasto con alcuni accertamenti e
valutazioni del giudice o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei
fatti.
Ogni giudizio implica infatti l'analisi di una più o meno ampia mole di
elementi di segno non univoco e l'individuazione, nel loro ambito, di quei
dati che - per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra di loro
e convergenti verso un'unica spiegazione - sono in grado di superare
obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice
e di consentirne la rappresentazione in termini chiari e comprensibili.
Giudizio, quindi, che compete al giudice nei due gradi di merito in cui si
articola la giurisdizione.
Per delineare il vizio indicato, occorre pertanto che i "punti" della controversia
dedotti per invalidare la motivazione della sentenza impugnata con ricorso
per cassazione, siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o
dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero
ragionamento svolto dal giudicante o
determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare
o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (in
proposito, cfr., di recente, Cass. sez. 3A, 21 novembre 2006 n.
24744 e sez. 1A, 22 gennaio 2007 n. 1270).
Ciò premesso in via di principio, si rileva che la sentenza impugnata si
sottrae alle censure svolte con i
motivi in esame, avendo provveduto ad esaminare le risultanze in
giudizio, a partire dalle dichiarazioni rese dalla originaria ricorrente in
sede di risposta all'interrogatorio, ritenute attendibili anche e
soprattutto alla stregua dei riscontri probatori costituiti da testimonianze
che avevano riferito di ripetuti comportamenti di molestie sessuali posti in
essere dal datore di lavoro nei confronti di altre lavoratrici, valutati
come univocamente significativi della veridicità delle denuncie della (...)
(così correttamente utilizzando, come prove, presunzioni semplici, risalendo
da fatti noti ad un fatto ignoto da provare, come consentito dagli artt.
2727 e ss. cc. e non, come dedotto dalla ricorrente, mere presumptiones
de presunto).
Tale esame è stato completo e articolato, con argomentate valutazioni
relativamente alla attendibilità dei vari testimoni, alla intrinseca
credibilità dell'episodio narrato dalla originaria ricorrente in sede di
risposta all'interrogatorio, nonostante alcune divergenze rispetto alla
versione riferita dal C.T.U.,(dei motivi delle quali la Corte ha dato
ragionevole giustificazione), alle ragioni per cui non tutte le testimoni di
genere femminile sono risultate oggetto di molestie sessuali da parte del
legale rappresentante della società datrice di lavoro o non hanno assistito
ad episodi di molestie (difficilmente manifestabili in pubblico).
Rispetto a tale complesso, articolato, coerente esame delle risultanze
istruttorie, la ricorrente, oltre a fuorvianti censure di violazione della
legge, si limita a riproporre una
diversa possibile "lettura" delle stesse, cui aggiunge un rilievo
relativo alla mancata considerazione da parte della Corte d'appello del
comportamento della lavoratrice denunciato come contraddittorio e oggetto
del secondo motivo di ricorso, argomento la cui decisività in giudizio
appare in verità anche sfuggente, ove si consideri la molteplicità di
ragioni possibili del comportamento denunciato.
Nella sostanza, con i motivi in esame, la ricorrente finisce per chiedere a
questa Corte di legittimità una nuova valutazione dei fatti, favorevole alla
propria tesi difensiva, alla luce delle risultanze istruttorie già valutate
dai giudici di merito, e quindi una sorta di giudizio di terzo grado, non
previsto dall'attuale Ordinamento processuale.
Anche il quarto motivo è infondato.
L'esame del motivo va limitato alle censure relative ai criteri di
liquidazione equitativa del danno e alla motivazione in ordine
all'applicazione degli stessi, mentre ad esso resta estranea quella che nel
corpo del motivo costituisce la premessa svolta in ordine al cd. modus
operandi del giudice di merito, in quanto essa non si è tradotta in una
precisa censura nella rubrica relativa al motivo e soprattutto nel quesito
cd. di diritto formulato in ordine ad esso (che nel sistema vigente
all'epoca segnava il perimetro del ricorso per cassazione).
Nel merito delle censure, va premesso che anche i criteri adottati dal
Tribunale di Torino in materia di liquidazione del danno non patrimoniale e
richiamati dalla ricorrente per censurarne la mancata utilizzazione da parte
della Corte territoriale costituiscono e non possono non costituire
espressione di un giudizio equitativo, e ad essi la difesa della lavoratrice
aveva fatto riferimento, col valutarne opportuna l'adozione, non in
assoluto, ma partendo dalla considerazione di un danno cd. biologico di
rilevante consistenza (e quindi formulando richieste risarcitone ben più
elevate di quelle determinate dai giudici), senza quindi vincolarsi ad essi
in ogni caso.
Ne consegue che correttamente la Corte territoriale, accertando la lievità
del danno biologico ma anche la particolare gravità ed odiosità del
comportamento lesivo e quindi la sua notevole capacità di offendere i beni
personali costituzionalmente protetti indicati come lesi dalla lavoratrice,
ha proceduto ad una liquidazione equitativa del danno non patrimoniale sulla
base di criteri diversi, che alludono esplicitamente, in particolare, per
ciò che riguarda il c.d. danno morale da reato, alla menzionata odiosità
della condotta lesiva, indotta soprattutto dallo stato di soggezione
economica della vittima e per la parte concernente il c.d. danno
esistenziale, al clima di intimidazione creato nell'ambiente lavorativo dal
comportamento del datore di lavoro e al peggioramento delle relazioni
interne al nucleo familiare della (...)
in conseguenza di esso.
La parte ricorrente lamenta peraltro altresì che i giudici, nel procedere
alla liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, abbiano esplicitato
in maniera insufficiente e sommaria le ragioni a sostegno del livello,
ritenuto sproporzionato, della stessa.
In proposito, va peraltro ricordato che, secondo la recente giurisprudenza
di questa Corte, condivisa dal collegio (Cass. 26 gennaio 2010 n. 1529), la
valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata
da un certo grado di approssimatività, è suscettibile di rilievi in sede di
legittimità, sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se difetti
totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o
macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza, o sia
radicalmente contraddittoria; carenze che
non sono state denunciate in modo
specifico dal ricorso e che non sono comunque rilevabili nella motivazione della sentenza impugnata.
Concludendo, in base alle considerazioni svolte, il ricorso va respinto,
con le normali conseguenze in ordine al
regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione, così come
effettuato in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare a (...) le spese di
questo giudizio,
liquidate in €. 61,00 per spese ed €. 3.000,00, oltre accessori, per
onorari.