La prova del danno è ragionevolmente presunta in caso di dequalificazione di lunga durata e per mansioni professionalmente qualificate richiedenti aggiornamento

 

Cass., sez. lav., 7 maggio 2008, n. 11142 - Pres. Ciciretti – Rel. Picone - Pm Riello – (conf.) - Ricorrente B. Italia Spa - Controricorrente F.

 

Danno da dequalificazione - Presunto se di lunga durata e per mansioni qualificate necessitanti aggiornamento - Risarcibilità. 

 

L’inadempimento dell’azienda è stato identificato nel comportamento di sostanziale disinteresse per la prestazione del F. , lasciato praticamente inattivo dal 1996, mentre le iniziative intese al suo recupero e il dedotto rifiuto di collaborazione si erano verificate soltanto nel mese di gennaio 2001, cioè nel mese precedente a quello di instaurazione del giudizio, allorquando la fattispecie di dequalificatone si era ormai perfezionata.

Lasciando inattivo il dipendente dal 1996 e concretando così il comportamento aziendale una fattispecie di dequalificazione professionale, la cessazione della permanenza dell’illecito non poteva certo essere individuata nella sospensione per collocamento in Cigs, a sua volta accertata illegittima, continuando, al contrario, l’inadempimento dell’obbligo di attivarsi per consentire l’esecuzione della prestazione lavorativa.

Risulta inoltre condivisibile la considerazione della Corte d'appello, secondo cui la non utilizzazione per un periodo così lungo e in un settore in continua evoluzione aveva prodotto un notevole danno alla professionalità.

 

Ritenuto in fatto

 

1. La sentenza di cui si domanda la cassazione rigetta l’appello di B. Italia SpA e conferma la decisione non definitiva del Tribunale di Torino n. 568212002, con la quale si accertava l’illegittimità del collocamento in cassa integrazione guadagni straordinaria del lavoratore Silvano F. per il periodo 1.5.1999-5.6.2000 e si condannava la Società al pagamento delle differenze tra trattamento Cigs e retribuzione dovuta nel periodo indicato; si accertava altresì la dequalificazione professionale subita dal F. nel periodo intercorrente dall’aprile 1996 al 30 giugno 2001 e si condannava la Società al risarcimento del danno determinato in via equitativa nell’80% della retribuzione.

2. La sentenza ritiene accertato: a) l’inadempimento dell’obbligo legale di precisare il criterio di scelta dei lavoratori da sospendere; b) il sostanziale non impiego del F. in attività lavorative dall’aprile 1996, addebitabile alla datrice di lavoro che non aveva avviato alcuna iniziativa preordinata ad una formazione professionale che ne avrebbe consentito l’utilizzazione; c) il pregiudizio prodotto dalla dequalificazione, identificato nella mancata formazione professionale e persistito nel periodo di sospensione illegittima.

3. Il ricorso di B. Italia SpA è articolato in cinque motivi; resiste con controricorso Silvano F. , ulteriormente precisato con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

 

Considerato in diritto

 

1. Con il primo motivo di ricorso, denunciando vizio di motivazione e violazione degli art. 1362 ss. c.c., in relazione all’accordo sindacale 22 dicembre 1998, si deduce che i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in Cigs si desumevano dalla specificazione degli obiettivi della riorganizzazione del lavoro, cui non potevano partecipare che i dipendenti in possesso di particolare professionalità, come indicati dall’accordo sindacale e non esaminati dalla sentenza al fine di ricostruire l’intento delle parti stipulanti.

1.1. Il motivo, limitato alla denuncia del vizio di motivazione in difetto di specificazioni circa la violazione delle norme sull’interpretazione degli atti negoziali, non può essere accolto. L’affermazione che il criterio di scelta applicato nei confronti del F. si desumeva dalla natura della causa integrabile, contrasta con l’accertamento di fatto compiuto nel giudizio di merito, secondo cui né il piano di rilancio elaborato dall’azienda in data 11.12.1998, cui risultavano estranee le problematiche relative alla Cigs, né l’accordo sindacale 22.12.1998 consentivano di stabilire quale fosse il criterio applicato per sospendere il F. ; in particolare, l’accordo, nella parte in cui si riferiva alla "fungibilità delle mansioni" con riguardo ai dipendenti a conoscenza dei nuovi sistemi operativi, stabiliva che tale criterio di scelta sarebbe stato utilizzato solo per individuare i lavoratori destinati alla rotazione (43 su un totale di 190), non per gli altri. Si è in presenza, quindi, di motivazione sufficiente e logica sull’inadempimento dell’obbligo procedurale, non suscettibile di essere sindacata in questa sede.

2. Con il secondo motivo, denunciando violazione di norme di diritto (art. 2103 e 1227 c.c.), unitamente al vizio di motivazione contraddittoria, si deduce: a) la sentenza. non aveva valutato che il disposto (in data 14 luglio 1995) trasferimento alla sede di Avellino, contestato giudizialmente dal F. e mai attuato, era stato ricondotto, nella motivazione del provvedimento emanato ex art. 700 c.p.c. il 26.3.1996, alla finalità, perseguita dall’azienda di recuperare il F. ad una qualche produttività aziendale; b) la Società si era attivata, sia nel 1996 che nel 2001, al fine di avviare la riqualificazione professionale del F. , sul quale, in ogni caso, incombeva l’obbligo di collaborare segnalando l’insufficienza delle sue conoscenze informatiche.

Per la connessione tra le argomentazioni va esaminato, unitamente al secondo, il terzo motivo, con il quale si denuncia violazione dell’art. 41, secondo comma, Cost. e dell’art. 2103 c.c. per avere la Corte di Torino affermato che l’impresa aveva l’obbligo giuridico di colmare le lacune professionali del dipendente, avviandolo ad idonea formazione.

2.1. I motivi in esame si rilevano infondati sia nella parte in cui denunciando violazione di norme di legge, sia in quella diretta a contestare la motivazione della sentenza impugnata sui punti investiti dalle censure.

2.2. Può convenirsi con la ricorrente che, in linea generale, tra gli obblighi del datore lavoro non rientra quello di curare la formazione professionale del dipendente per metterlo in grado di eseguire esattamente la prestazione lavorativa. Ma un obbligo specifico sorge, ed è stato correttamente individuato dal giudice del merito, allorché, per effetto di scelte imprenditoriali - particolarmente frequenti ed incisive nel settore produttivo dell’informatica - si introducono radicali innovazioni dei sistemi e metodi tali da incidere, modificandoli, sugli originari contenuti dell’oggetto della prestazione lavorativa. In siffatte ipotesi, i precetti desumibili dalle clausole generali di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto di lavoro (art. 1175 e 1375 c.c.) fondano l’obbligo dell’impresa di predisporre strumenti di formazione idonei a consentire il necessario aggiornamento professionale del dipendente.

2.3. In punto di fatto, l’inadempimento dell’azienda è stato identificato nel comportamento di sostanziale disinteresse per la prestazione del F. , lasciato praticamente inattivo dal 1996, mentre le iniziative intese al suo recupero e il dedotto rifiuto di collaborazione si erano verificate soltanto nel mese di gennaio 2001, cioè nel mese precedente a quello di instaurazione del giudizio, allorquando la fattispecie di dequalificatone si era ormai perfezionata. Non possono, evidentemente, prendersi in considerazione, in questa sede, le contrarie affermazioni in fatto della ricorrente.

2.4. In ordine alla decisione aziendale di trasferire il dipendente alla sede di Avellino, con motivazione sufficiente e logica la Corte di Torino nega alla circostanza qualsiasi rilevanza sul piano dell’imputabilità all’azienda della dequalificazione consistita nel lasciare il dipendente inattivo per oltre quattro anni. Ed infatti, anche ammesso che l’intento perseguito con il provvedimento di trasferimento fosse quello di impiegare utilmente il lavoratore presso una diversa sede, quel che conta è che il trasferimento non venne attuato e non certo per effetto di comportamento imputabile a colpa del lavoratore, il quale legittimamente aveva reagito giudizialmente al provvedimento (giudizio poi definito mediante conciliazione).

3. Con il quarto motivo si denuncia violazione dell’art. 1223 c.c. e vizio di motivazione in relazione all’affermazione della Corte di Torino secondo cui nel periodo di Cigs si erano sommati per il lavoratore i pregiudizi derivati dalla sospensione illegittima e dalla dequalificazione. Si sostiene, in sintesi, che l’inattività nel periodo di Cigs non avrebbe potuto comportare lesione della professionalità.

3.1. Questa censura si manifesta palesemente priva di fondamento. Lasciando inattivo il dipendente dal 1996 e concretando così il comportamento aziendale una fattispecie di dequalificazione professionale, la cessazione della permanenza dell’illecito non poteva certo essere individuata nella sospensione per collocamento in Cigs, a sua volta accertata illegittima, continuando, al contrario, l’inadempimento dell’obbligo di attivarsi per consentire l’esecuzione della prestazione lavorativa.

4. Con il quinto e ultimo motivo di ricorso si denuncia violazione degli art. 112 e 324 c.c. per avere la Corte di Torino ritenuto non compresa tra le censure sollevate con l’atto di appello la contestazione del criterio di liquidazione del danno da dequalificazione adottato dal primo giudice. Si sostiene di avere dedotto nell’atto di impugnazione che il complessivo comportamento tenuto dal lavoratore era stato tale da contribuire alla produzione del danno; ed altresì che mancava la prova del danno.

4.1. Anche quest’ultimo motivo va rigettato, non riscontrandosi il denunciato vizio di omessa pronuncia. La sentenza si limita esclusivamente a rilevare la mancanza di contestazioni in ordine al criterio di liquidazione del danno. Il complesso della motivazione, come esaminato ai punti precedenti, esclude che la configurabilità di comportamenti del lavoratore che possano aver contribuito a produrre il danno da dequalificazione.

Viene preso in esame poi, specificamente, il tema della prova del pregiudizio, enunciando il principio (che non è stato oggetto di censura) della non necessità di una specifica dimostrazione e osservando che, nel caso di specie, la non utilizzazione per un periodo così lungo e in un settore in continua evoluzione aveva prodotto un notevole danno alla professionalità.

5. Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio di cassazione, nella misura determinata in dispositivo e con attribuzione al difensore del controricorrente che ne fatto richiesta ai sensi dell’art. 93, comma primo, c.p.c..

 

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso; condanna la Società ricorrente al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio di cassazione, liquidate le prime in Euro 44,00 e i secondi in Euro 3.000,00, con attribuzione all’avv. Roberto M..

 

Nota

 

RISARCIMENTO DANNO DA DEQUALIFICAZIONE PROFESSIONALE ED OBBLIGATORIETÀ DEI CORSI FORMATIVI PER IL REINSERIMENTO DEL LAVORATORE NEL MERCATO.

 

 

            La recentissima sentenza della Cassazione sez. lav. n. 11142/08, emessa in data 30/01/08 e depositata il 07/05/08 (consultabile in allegato) ha una grande importanza, perché riconosce il danno da dequalificazione professionale subito da un lavoratore, prima, lasciato inattivo per oltre quattro anni e, poi, collocato in Cigs illegittimamente perché non era stato inserito dal suo datore di lavoro in un obbligatorio processo di riqualificazione (corsi di perfezionamento e formativi), violando, così, sia il contratto nazionale che gli accordi sindacali.

            La sentenza di primo grado, sottoposta al vaglio della Corte, infatti, aveva accertato: “1) l’inadempimento dell’obbligo di precisare il criterio di scelta dei lavoratori da sospendere; b) il sostanziale non impiego del […] in attività lavorative dall’aprile 1996, addebitabile alla datrice di lavoro che non aveva avviato alcuna iniziativa preordinata ad una formazione professionale che ne avrebbe consenti l’utilizzazione; c) il pregiudizio prodotto dalla dequalificazione, identificato dalla mancata formazione professionale e persistito nel periodo di sospensione illegittima”.

            Il caso: un tecnico di una ditta operante nel settore dell’informatica, a causa di una riorganizzazione aziendale, lamentava un’ingiusta lesione delle sue competenze, poiché dopo aver rifiutato il trasferimento presso un’altra struttura, collocata in un’altra regione, ergo a grande distanza dall’abituale luogo di lavoro, per cause a lui non imputabili, non gli era stata proposta alcuna occupazione alternativa né era stato adibito a mansioni simili a quelle sino ad allora svolte.

            La S.C. rileva un concorso di colpa tra il dipendente, che non aveva comunicato alla società le sue carenze specialistiche e questa ultima che “aveva l’obbligo giuridico di colmare le lacune del dipendente avviandolo ad idonea formazione”. Infatti la normativa in materia e lo statuto dei lavoratori (l.300/70) impongono al datore rigidi vincoli per garantire al dipendente un sereno e salubre ambiente di lavoro e per favorire la sua crescita professionale.  Stante il rapido progredire dell’ambito operativo dell’impresa de qua,  la sua forzata inattività  ed il suo mancato processo di riqualificazione professionale, però, il ricorrente aveva palesemente subito un danno tale da non poter eseguire la sua obbligazione lavorativa e da aver accumulato un ritardo nella conoscenza delle nuove tecnologie  tali da non poter più essere competitivo sul mercato.

Quindi l’azienda aveva violato sia le più elementari regole del fair play contrattuale ex  artt. 1175 e 1375 cc che gli obblighi sindacali siglati in sede di redazione ed approvazione del CCNL; invece aveva rispettato i criteri di scelta degli impiegati da sospendere: solo chi conosceva i nuovi sistemi operativi, in base al principio della “fungibilità delle mansioni”, doveva essere inserito in turni di rotazione lavorativa.

Infine la S.C. evidenzia che, anche se spetta al lavoratore curare la sua preparazione tecnica, il proprio aggiornamento ed evidenziare all’impresa le sue eventuali carenze e/o difficoltà nel prestare la sua opera, la datrice di lavoro era costretta a fornire ed/od a predisporre tutti gli strumenti idonei al perfezionamento professionale del suo personale, sì da evitare qualsiasi forma di pregiudizio e colmare ogni gap formativo.

Per queste e per le altre motivazioni, cui si rinvia integralmente alla sentenza, la S.C. ha condannato, in via equitativa, la suddetta ditta a risarcire il pregiudizio subito dal ricorrente con una somma pari allo 80% della retribuzione maturata nel periodo compreso tra la sospensione del lavoro ed il collocamento in cassa integrazione straordinaria (aprile 1996- 30 giugno 2001).

Si può,infine, ricavare il seguente principio di diritto (non ufficiale): pur essendo premura del dipendente curare le proprie conoscenze specialistiche, aggiornarsi e comunicare all’impresa, in cui è impiegato, le sue eventuali lacune professionali  il datore di lavoro ha l’obbligo giuridico di attivarsi per poter permettere la crescita professionale del lavoratore, fornendogli i mezzi idonei a colmare queste carenze, sì da permettergli di esser sempre competitivo, anche in vista di un suo eventuale reinserimento nel mercato.

 

Giulia Milizia, foro di Grosseto.

 

 

(Torna alla Sezione Mobbing)