I BENEFICI PREVIDENZIALI PER ESPOSIZIONE AD AMIANTO DOPO LA FINANZIARIA 2004

 

TRIBUNALE DI RAVENNA

Sentenza 10 dicembre 2003

 

REPUBBLICA  ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Giudice del Tribunale di Ravenna, in funzione di Giudice del lavoro, dott. Roberto RIVERSO, ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

nella causa civile iscritta a ruolo il 05.02.2003  al n. 60/03  del registro generale contenzioso promossa da :

- TM

- RS

- FP

- CA

- DS

rappresentati e difesi dall’Avv. *** del Foro di Bologna ed elettivamente domiciliati  in Ravenna;

attori - ricorrenti

c o n t r o

- I.N.A.I.L. (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale)

in persona del suo Direttore Regionale pro tempore, rappresentato e difeso in virtù di procura generale alle liti per atto del notaio, dall’Avv. ***, ed elettivamente domiciliato presso lo stesso, nella Avvocatura INAIL presso la Sede INAIL di Ravenna; 

convenuta

  e  c o n t r o

- I.N.P.S. (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale)

in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. ***, giusta procura generale alle lit, domiciliatario con studio in Ravenna, presso la Sede Provinciale dell’Istituto;

convenuta

Oggetto: riconoscimento dei benefici previdenziali da esposizione amianto.

C o n c l u s i o n i

All’udienza del 10.12.2003, i procuratori delle parti hanno così concluso:

- per la parte ricorrente: “Voglia l’Ill.mo Giudice accogliere le seguenti conclusioni – nei confronti di entrambi i convenuti – accertare e dichiarare che i ricorrenti sono stati esposti all’amianto per oltre dieci anni ai fini dell’art. 13 co. 8 L. nr. 257/92 e pertanto dichiarare il loro diritto ad usufruire della maggiorazione contributiva, ivi disposta, per tutto il periodo, ovvero per il diverso periodo che risulterà nel corso di causa, durante il quale hanno prestato la loro attività lavorativa presso gli impianti PVC/S, PVC/M del Petrolchimico di Ravenna; e per il signor Ferrari Pietro anche relativamente al periodo di lavoro da lui svolto presso la ditta Isolfin Romagnola. Con vittoria di spese diritti ed onorari da distrarsi in favore del procuratore ut sopra, che se ne dichiara antistatario”.       

- per la parte convenuta  - INAIL -: “Voglia l’Ill.mo Giudice – in via preliminare: dichiarare le domande inammissibili nei confronti dell’INAIL perché dirette ad accertare mere situazioni di fatto di cui difetta l’interesse ad agire di cui all’art. 100 C.P.C.; - dichiarare altresì l’inammissibilità nei confronti dell’INAIL per difetto di legittimazione passiva, avendo solamente l’INAIL prestato all’INPS un proprio organo di consulenza tecnica, la CONTARP, che ha emesso un parere tecnico comunque non vincolante per l’INPS. In subordine: disporsi la riunione della presente causa alla causa promossa da altri compagni di lavoro dei ricorrenti, con udienza fissata, avanti l’Ill.mo Signor Giudice del Lavoro di Ravenna. Vi è infatti connessione oggettiva, trattandosi di compagno di lavoro, e del medesimo beneficio di compagno di lavoro, e del medesimo beneficio invocato; ciò ai fini dell’economia processuale. Nel merito: respingersi le domande nei confronti dell’INAIL in quanto infondate in fatto e in diritto. Con vittoria di spese, competenze ed onorari”.

- per la parte convenuta – INPS -: “Voglia l’Ill.mo Signor Giudice adito, contrariis reiectis, in via preliminare e/o pregiudiziale,disporre ex art. 107 c.p.c. la chiamata in causa della Ditta – Datore di Lavoro di parte ricorrente, in persona del legale rappresentante pro tempore; in via principale, rigettare l’avversa domanda in quanto infondata. Spese come per legge”.

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 5.2.2003 TM e gli altri ricorrenti sopra indicati, adivano questo giudice del lavoro contro l’INPS e l’INAIL, sostenendo di aver lavorato come dipendenti presso lo stabilimento petrolchimico di Ravenna gestito da varie società nel corso degli anni e di aver maturato il diritto alla rivalutazione dei periodi contributivi ai sensi dell’art.13, comma 8 della legge 27/3/92 n.257 il quale prevede tale beneficio per i “lavoratori che siano stati esposti all’amianto per un periodo superiore a dieci anni...”.

A sostegno della domanda i ricorrenti deducevano: di aver svolto le loro mansioni, precisamente indicate in ricorso e per i periodi ivi indicati, come operatori di impianto nel reparto PVC/sospensione, PVC/massa,  rimanendo esposti all’amianto sia nella forma diretta derivante dalla manipolazione di materiali contenenti amianto, sia nella forma indiretta connessa allo svolgimento delle mansioni all’interno dell’ambiente di lavoro costantemente inquinato dalla presenza di fibre d’amianto; che l’amianto era presente in grandi quantità nell’ambiente di lavoro su tubazioni che si estendono per chilometri, apparecchiature presenti in impianto, materiali utilizzati nell’espletamento delle mansioni (cordini, baderne, teli, guanti, ecc.) ed era soggetto a facile dispersione nell’ambiente; ciò accadeva sia per ragioni collegate al ciclo produttivo, sia per ragioni collegate al normale processo di usura e degrado implicante screpolature e rotture con dispersione delle fibre d’amianto nell’ambiente circostante.

Il ricorrente FP deduceva altresì di aver lavorato presso la ditta I R nel perido dal 2.11.1981 al 30.01.1988, periodo per il quale la stessa ditta ha provveduto a pagare il premio supplementare per asbestosi.

I ricorrenti deducevano in diritto che secondo la più corretta interpretazione della normativa il riconoscimento del beneficio previsto nel comma 8 dell’art.13 non poteva considerarsi subordinato all’accertamento dell’esistenza di una determinata soglia quantitativa di esposizione, né alle condizioni previste dalla legge per la sussistenza in capo all’impresa dell’obbligo del pagamento del premio supplementare per il rischio asbestosi (ai sensi dell’art.153 TU 1153/65), essendo stato invece collegato dal legislatore a qualsiasi esposizione nociva all’amianto, nel luogo di lavoro, per un periodo maggiore di dieci anni.

Sulla scorta di tali premesse, illustrate in punto di fatto e di diritto, la difesa dei ricorrenti chiedeva l’accoglimento delle conclusioni precisate in epigrafe nei confronti dell’INPS e dell’INAIL.

Con memoria ritualmente depositata si sono costituiti in giudizio i convenuti ; l’INPS rilevava che per ottenere il beneficio previsto dall’art.13, comma 8 cit. i lavoratori interessati erano tenuti a produrre all’atto della domanda una apposita certificazione rilasciata dall’INAIL cui era stato affidato l’accertamento del rischio di esposizione all’amianto per ogni lavoratore interessato, nonché dei relativi periodi di esposizione secondo uno schema concordato col Ministero del Lavoro (Circ. INPS n.129/94 ; messaggio INPS n.22759 del 20/4/96) ; rilevava inoltre che i ricorrenti non avevano allegato alla domanda una positiva certificazione rilasciata dall’INAIL attestante i periodi di esposizione all’amianto (che anzi l’INAIL aveva rilasciato una dichiarazione negativa di non esposizione); che pertanto l’Istituto aveva respinto la domanda di accredito del beneficio contributivo; contestava  comunque la sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto, per l’applicabilità del beneficio di cui all’art.13, comma 8 cit. in favore dei ricorrenti; chiedeva inoltre la chiamata in causa del datore di lavoro e concludeva per il rigetto integrale delle domande.

Nella causa si è costituito anche l’INAIL dando atto delle proprie competenze in materia e sosteneva che la CON.TA.R.P. Regionale sulla scorta di propri accertamenti ed indagini,  aveva ritenuto insussistente per il ricorrente il rischio di esposizione all’amianto di cui all’art.13, comma 8 L.271/93; sosteneva che il rischio considerato dall’art.13 cit.non poteva prescindere dall’accertamento di una soglia di esposizione superiore a 0,1 fibre per cm. cubo ( ovvero 100 fibre litro); la difesa dell’INAIL concludeva contestando la fondatezza del ricorso, ed in via preliminare la stessa sussistenza della propria legittimazione passiva in quanto all’INAIL sarebbe stato affidato in questa materia unicamente un compito di consulenza a favore dell’INPS.

La causa è stata istruita con il deposito di documenti e l’assunzione di  testimonianze. Dopo la discussione effettuata dalle parti veniva pronunciata la decisione come da separato dispositivo.

Motivi della decisione

I. La questione di diritto

1. Premessa

Chi scrive non condivide (come altri giudici di merito; da ultimo v. Corte d’Appello Milano sentenza 4.3.2003, est. De Angelis) la tesi sostenuta in giurisprudenza secondo cui il riconoscimento del beneficio contributivo previsto dall’art.13,8 della legge 257/92 è subordinato all’accertamento del superamento del limite di 100 fibre litro per più di dieci anni con onere della prova a carico del lavoratore; nè condivide la tesi, pure sostenuta in giurisprudenza ( ma, incoerentemente, solo quando si discute di pensionati ante legem 257/92) secondo la quale il beneficio avrebbe l’esclusiva finalità di agevolare all’esodo i lavoratori del dismesso settore amianto al fine di far raggiungere loro la soglia contributiva necessaria per l’accesso a pensione.

La norma è già stata applicata da questo giudice con diverse sentenze (per tutte la sentenza n.139/99) nelle quali è stata sostenuta la tesi secondo cui il beneficio è riconosciuto, secondo una chiara e meditata scelta discrezionale compiuta dal legislatore (resa evidente dalle modifiche che la norma aveva subito nelle sue varie edizioni), a tutti i lavoratori esposti per più di dieci anni al rischio di contrarre malattie da amianto secondo il sistema c.d. misto di assicurazione gestito dall’INAIL.

In particolare si era sostenuto nelle stesse sentenze che la norma: a. non seleziona i destinatari del beneficio in base al tipo di rischio ( asbestosi o altre malattie correlate all’asbesto); b. non seleziona i destinatari in relazione alla tipologia dell’impresa presso cui il rischio sarebbe stato contratto; c. non seleziona in base a limiti di esposizione rigidamente prefissati; e. ha una funzione compensativa-risarcitoria; d. deve essere armonizzata con il sistema assicurativo di tutela dalle malattie professionali.

I risultati interpretativi raggiunti in dette sentenze sembravano confermati dalla sentenza n.5 del 12.1.2000 con la quale la Corte Costituzionale si era pronunciata una prima volta sull’argomento.

Nel dichiarare infondate le doglianze sollevate dal giudice a quo la Corte aveva sostenuto che la norma delinea una fattispecie legale attributiva di un beneficio previdenziale, la quale pur concentrandosi sul dato temporale dell’esposizione ultradecennale all’amianto ( ritenuto scarsamente determinato dal giudice a quo), consente una congrua selezione degli aventi diritto, essendo sufficiente allo scopo l’impiego degli ordinari criteri ermeneutici (letterale, sistematico e teleologico); tramite i quali la norma trova congrua definizione nella sua portata “ in vista della sua piana e puntuale applicazione“.

In particolare, gli argomenti utilizzati allora dalla Corte per giungere alla corretta interpretazione della fattispecie erano stati: il richiamo dell’evoluzione subita dalla disciplina di cui si tratta attraverso le modifiche via via apportate dal legislatore per giungere all’attuale testo normativo; il richiamo dello scopo della disposizione; il criterio costituito dalla durata della esposizione ( che deve essere ultradecennale); l’elemento dell’attività lavorativa (artt. 1 e 3 del DPR 1124/65) che rimanda al concetto di rischio morbigenorispetto alle patologie quali esse siano che l’amianto è capace di generare per la sua presenza nell’ambiente di lavoro“.

L’impiego di tali criteri aveva portato la Corte a concludere che “La disposizione denunciata poggia quindi su un sicuro fondamento rappresentato sia dal dato di riferimento temporale sia da quella nozione di rischio che, come è noto, caratterizza il sistema delle assicurazioni sociali“.

Nonostante queste chiare direttrici (in sintesi: tempo + rischio morbigeno) indicate dalla Corte Costituzionale, la giurisprudenza ha disseminato il percorso applicativo della disposizione di ostacoli di ogni tipo: limiti di carattere finanziario ( sufficienza della copertura), limiti di tempo ( vale solo l’esposizione fino ad una certa data);  limiti soggettivi ( il beneficio si dirige solo ai lavoratori dipendenti da alcune imprese); limiti oggettivi (necessità che l’esposizione superi determinate soglie); limiti di carattere  assicurativo (necessità di selezionare all’interno della stessa assicurazione gestita dall’INAIL); tutta una serie di ostacoli che fanno pensare ad una incoercibile idiosincrasia nei confronti di questa norma, cose se si trattasse di una norma che non piace e che non si vuole applicare quindi nel suo giusto tenore; del resto ciò è reso visibile dal fatto che, salve poche eccezioni,  non vi è pronuncia giurisprudenziale in cui non sia stato scritto che la norma non sia chiara , non sia fatta bene, ecc. (arrivando alcuni ad ipotizzare addirittura l’attentato al libero esercizio dell’attività di impresa).

2. I limiti di esposizione; le 100 fibre litro.

La via attraverso cui si snoda il tentativo principale di cambiare la portata egualitaria della legge in sede applicativa, e di svuotarla del suo contenuto, è quella che passa attraverso i c.d. limiti quantitativi di esposizione.

Tutti sanno che per l’amianto (come per altre sostanze cancerogene: il CVM, benzene, il fumo, ecc) la scienza medica ha unanimemente affermato che non esistono limiti espositivi tollerabili, accettabili.

Non esiste quindi una discrimen tra concentrazioni innocue e concentrazioni nocive.

Il fatto è chiarito espressamente nella Direttiva CEE del 1983/477 dedicata all’amianto.

Lo stesso concetto, è stato espressamente menzionato nei lavori preparatori ( che sempre vengono richiamati in modo parziale da chi vuole restringere la portata del beneficio) che hanno portato alla modifica della norma, con la 271/93. Dice nel suo intervento l’on. Muzio ( v. atti parlamentari, seduta della Camera dei Deputati 12.7.1993) , che per uno strano scherzo del destino viene sempre citato dalla tesi qui disattesa, “ questa sostanza cancerogena non ha alcun livello di soglia o limite che possa garantire la salute  di coloro che sono stati o siano esposti, nel senso che è dannosa una quantità anche minima  .

Questa tesi è acquisita al patrimonio dell’ordinamento giuridico italiano ed appartiene nella formazione culturale di ogni giudice di qualsiasi estrazione (civile, penale, amministrativo); sicchè non può che destare stupore il fatto che da ultimo la Corte Cost.nella sentenza 434/2002 abbia sostenuto in un obiter dictum che per ottenere il beneficio occorra la prova di essere stati esposti ad un limitesuperato il quale la concentrazione dell’amianto aveva potenzialità morbigene”(!).

a. Su un piano generale si è sempre affermato che l’art.2087 del c.c. obblighi il datore di lavoro a tutelare la sicurezza sul luogo di lavoro attraverso il principio della massima protezione tecnologicamente fattibile ( che non tollera quindi alcuna rigidità).

b. A tale principio è stata sempre ispirata l’applicazione del DPR 303/56 sull’igiene nel lavoro per quanto riguarda l’obbligo del datore di abbattere fumi, ridurre le polveri ( art 21).

c. Più specificamente per l’amianto, tutta la giurisprudenza civile e penale, senza che vi sia una sola eccezione conosciuta, ha messo in evidenza, che il d.lgs 277/91 che ha recepito la direttiva CEE cit., non  contiene “valori limite” nel senso che al di sotto di quelli pure previsti dalla stessa legge, a taluni precisi fini, l’esposizione sia innocua e si possa tranquillamente trascurare;  ma “soglie di allarme” che hanno la funzione di far scattare ulteriori obblighi di attivarsi per il datore di lavoro al fine di agire sui tempi di esposizione (di ridurre i tempi, l’altro versante della prevenzione): quindi il datore è sempre obbligato ad adottare tutte le misure per abbassare il rischio, per proteggere al massimo il lavoratore quale che sia il livello della esposizione; se poi si superano alcuni limiti  (fissati convenzionalmente)  egli ha l’obbligo di fare di più, per proteggere meglio il lavoratore dalla più intensa esposizione e per rientrare nel più breve tempo possibile al di sotto di quel limite.

E’ questo il punto centrale che deve essere ribadito: come riconosciuto da tutta la giurisprudenza il d.lgs 277/91 stabilisce che in tutte le attività che espongono il lavoratore ad amianto il datore di lavoro deve:

1) valutare il rischio (ambientale e personale);

2) consultare i lavoratori ed informarli sui rischi;

3) adottare le misure tecniche per la pulizia, per ridurre la qualità di amianto impiegate, adottare adeguati strumenti per la protezione individuale e per ridurre al minimo l’esposizione (art.24/ art. 36);

a prescindere da qualsiasi soglia limite.

Questo perché per l’amianto non esistono limiti di accettabilità dell’esposizione; anche l’esposizione inferiore ai limiti di soglia è nociva, tanto più se è duratura ( tanto più se deve durare più di dieci anni come è previsto per il beneficio previdenziale in oggetto). Lo dice espressamente il capo III e gli artt.22, 24, 26, 28 del dlgs 277  “protezione dei lavoratori contro i rischi connessi all’esposizione  ad amianto durante il lavoro”; le norme si applicano a “tutte le attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione”

- Tuttavia nonostante queste insuperabili premesse scientifiche e prescrizioni normative, quando viene in rilievo l’esposizione prevista dall’art.13,comma 8° della legge257/92 si sostiene meccanicamente, pur in mancanza di agganci in questo testo normativo, che l’esposizione per essere rilevante deve aver superato un limite; e con quale argomentazione la si sostiene questa tesi? Proprio con il richiamo al dlgs.277/91, il quale a proposito della protezione dell’amianto si premura di precisare che qualsiasi esposizione è rilevante e che non esistono limiti, come ribadisce da sempre la giurisprudenza penale quando si occupa del dlgs. 277/91 (condannando chi non si attivi in questo senso; Cass.pen sez III 18.3.1992).

Basterebbe dunque leggere le norme: nell’art.13,8 non c’è un limite espositivo. Nella norma c’è invece la durata, l’esposizione all’amianto senza limiti predeterminati, che deve durare più di dieci anni; il limite non c’è ed anche giusto, congruo e razionale che non ci sia per tutto quello che si sa sull’amianto (sulla nocività a basse dosi, sul concetto di esposizione cumulativa, sul fatto che un’esposizione a basse dosi ma duratura è un esposizione alta, che cioè procura danni; le basse dosi di amianto si accumulano infatti nell’organismo, lì rimangono e procurano danni).

Negli artt. 22, 24, 25, 2°comma , 26, 1° comma, 28 dell’art.dlgs 277/91 non ci sono limiti espositivi; le norme dicono invece che in tutte le attività che comportino un’ esposizione bisogna adottare delle misure di protezione.

I valori limiti di esposizione ci sono in altre norme del dlgs.277/91;  sono soglie di allarme, hanno la funzione di costringere il datore a rientrare in limiti più bassi, di obbligarlo a mettere in atto ulteriori misure di protezione.

Dunque se il legislatore avesse voluto introdurre un limite di esposizione ai fini del riconoscimento del beneficio lo avrebbe detto; avrebbe dettato però una norma diversa (che non possono dettare i giudici, che non sono legislatori); avrebbe semplicemente detto il beneficio deve essere accordato ai lavoratori che sono stati esposti alle concentrazioni di cui all’art.3 L. 257 o all’art. 31 o 24, 2° comma del d.lgs 277/91.

Il legislatore  questo però non lo ha detto!

Questo discorso vale per il limite di 0,1 fibre per cm3 ( le 100 fibre litro) previste dall’art.24,2° comma che la giurisprudenza e la CONTARP assumono come il limite cui  è subordinato il riconoscimento del beneficio per esposizione ambientale.

Fermiamoci ad analizzare questo limite delle 100 fibre .

Esso è stato dettato dall’art.24 per stabilire che in caso di superamento scatti l’obbligo di notifica all’organo di vigilanza, l’informazione del lavoratore deve avere una periodicità più breve (almeno annuale), bisogna delimitare i luoghi di lavoro farvi accedere solo i lavoratori addetti, predisporre servizi igienici adeguati ecc. (art.27, 2).

Cosa rileva tutto ciò con il beneficio previsto dall’art.13,8 comma?

Si tratta di un limite mediato su un periodo di 8 ore di lavoro oppure in caso di attività a carattere saltuario per un periodo di 40 ore (quindi al massimo una settimana lavorativa ); si tratta di limite che vale per specifici lavoratori verso i quali deve attuarsi uno specifico più adeguato apparato prevenzionale.

Soprattutto si tratta di un limite, il cui superamento determina l’immediata adozione di misure idonee ad abbattere il rischio.

A cosa servirebbe altrimenti l’apparato di protezione del dlgs.277 se non a sottrarre il lavoratore dal rischio di quella esposizione superiore a 100 fibre?

I lavoratori del beneficio previdenziale sono invece quelli che sono stati esposti per 10 anni, e quindi per lo più prima dell’introduzione nel ’91 di questo imponente apparato previdenziale, in periodi in cui non vi era alcuna informazione, prevenzione, valutazione, accertamento  del rischio; come può valere per essi un limite che è stato introdotto per tutelare maggiormente alcuni lavoratori sul piano della prevenzione e della salute e per obbligare il datore a sottrarli al rischio di una esposizione continuativa considerata assai pericolosa ?; come può valere se qui parliamo di un esposizione che deve durare almeno più di 10 anni, mentre quei valori sono indicati per brevissimi periodi (8 ore o 40 ore) e prevedono che le zone devono essere delimitate, rese accessibili  solo ad alcuni i quali vi devono rimanere solo per il tempo strettamente necessario? e  che bisogna rientrare in valori più bassi?

I valori indicati dal dlgs.277/91 hanno quindi tutt’altro fine e tutt’altra logica; una  logica che deve essere valutata nell’ambito del complessivo sistema di prevenzione predisposto dal d.lgs. 277. Quei valori non hanno nessuna logica ( tantomeno dal punto di vista medico) se vengono calati in un ambito normativo che non obbligava all’adozione di  questo specifico apparato di prevenzione.

Dunque questa tesi delle 100 fibre non soltanto viola l’art.13,comma 8 ed il dlgs. 277; ma snatura la stessa filosofia del sistema di prevenzione attuato con il dlgs 277/91; apre contraddizioni insanabili nell’ordinamento; si utilizza un limite mediato che per specifici fini di protezione del lavoratore deve valere al massimo per 40 ore di lavori saltuari e per 8 ore di lavori continuativi ( dopo di che scatta l’obbligo di abbassarlo e di scongiurare il rischio per il lavoratore con misure adeguate) e lo si proietta in una differente dimensione;  dimensione differente non solo sotto il profilo temporale ( da 8 o 40 ore a più di dieci anni), ma soprattutto per lo scopo: dalla prevenzione alla previdenza; dalla protezione della salute del lavoratore all’indennizzo del rischio morbigeno.

Una proiezione che provoca un evidente ribaltamento logico delle normative; la legge 257 mira ad indennizzare il rischio corso dal lavoratore che non è stato protetto, il dlgs.277 mira a far sì che questa situazione non si verifichi mai più!

Come si può veramente immaginare un’esposizione ultradecennale del lavoratore superiore a 100 fibre di amianto vigente il sistema di protezione del dlgs 277 ?; nel sistema del dlgs la presenza di quelle fibre deve portare all’adozione di misure così precise e valide da scongiurare qualsiasi rischio per la salute del lavoratore. A cosa serve altrimenti il dlgs.277?

Per riconoscere il beneficio previdenziale si ipotizza quindi la esistenza di una condizione che vale a sancire il fallimento del sistema di protezione introdotto dal d.lgs 277/91.

Insomma quello che è l’orlo del baratro, l’inizio del precipizio, è stato trasformato in una condizione normale per misurare un’esposizione che deve durare per oltre dieci anni.

2. Ancora sulle 100 fibre. Il metodo utilizzato dalla Contarp.

Sulla pretesa scientificità del criterio delle 100 f/litro vi è altro da dire; in realtà quello che viene indicato come un criterio oggettivo (la prova di esposizione a determinate concentrazioni di fibre) finisce per essere  un criterio latamente discrezionale; infatti le 100 f/l (0,1 cm3) rappresentano il prodotto  di un’operazione moltiplicativa i cui fattori sono rappresentati dalla durata giornaliera o settimanale dell’esposizione per la sua intensità; basta variare uno dei fattori perché cambi ovviamente il prodotto finale.

La formula si presta  a manipolazioni: perché non c’era nessuno a misurare né tempi né intensità di esposizione, e soprattutto perché la lavorazione non è un esperimento condotto in vitro, sotto una campana di vetro, in quanto bisogna tener conto della concreta realtà ambientale.

Se si guarda alla nota tecnica della Contarp, che si pone all’origine della distinzione effettuata in sede amministrativa fra lavoratori considerati esposti e non, si prevede il superamento del limite di 100 f/l per il muratore addetto occasionalmente per 20 giorni all’anno al taglio di manufatti di amianto; e i colleghi che ci lavoravano attorno? il manovale che lo coadiuvava, che caricava e trasportava l’amianto?; e se quel muratore avesse lavorato solo 19 giorni e poi quei manufatti rimanevano comunque nell’ambiente; e se non si procedeva alla raccolta immediata, alla pulizia?  che si dice? che non c’è stata esposizione fino a 100 f/l per tutti gli altri quelli che lavoravano nell’ambiente di lavoro?.

Lo stesso vale per la mansione di chi è stato “addetto 2 ore al giorno per 60 giorni al taglio e allo smontaggio di coibentazioni di amianto”. E se queste operazioni fossero continuative ed effettuate da squadre diverse di addetti, come si considerano quelli che lavoravano nello stesso ambiente per 240 giorni all’anno 8 ore al dì e facevano mansioni diverse; questi lavoratori hanno corso un rischio minore o maggiore dell’operaio che faceva coibentazioni 2 ore al giorno per 60 giorni oppure il che è lo stesso 15 giorni di attività lavorativa (sempre 120 ore).

Questa formula appare quindi astratta, avulsa  dalle reali condizioni operative aziendali; e sembra escogitata per dire che il superamento ambientale del limite non è mai avvenuto se non quando lo ritiene la Contarp ( per alcune dirette lavorazioni).

Nella pratica delle centinaia di cause che sono state fatte da questo giudice questi livelli secondo la Contarp non sarebbero stati MAI superati.

Eppure da qui sono passati meccanici, strumentisti, caldaisti, elettricisti, manutentori, vari addetti che intervenivano in coibentazioni e lavoravano nello stesso ambiente di lavoro per ben più di 15 o 20 giorni o 60 all’anno per due ore al giorno; stavano e lavoravano in quel posto dove venivano effettuate scoibentazioni e manutenzioni di linee e macchine di vaste proporzioni; eppure questo limite non sarebbe stato mai integrato. E perché?; perché si fanno i calcoli in vitro in laboratorio, si misurano ore minuti e secondi in modo astratto ed irreale e li si moltiplicano per valori che nessuno ha mai accertato; senza tener conto della realtà del tempo, della pulizia (se venisse o meno effettuata), delle polvere (se venissero o meno asportate), degli strumenti di protezione ( se venissero o meno impiegati).

E senza fare mai alcun concreto accertamento. In  pratica questo delle 100 f/l è un criterio che è valso ad attribuire alla pa il massimo possibile della discrezionalità; non è vero quindi che esso rappresenti un dato di garanzia, di certezza e di verità; è vero il contrario! Si tratta di una formula che senza la “ benevolenza” della stessa Contarp rende assai improbabile per il lavoratore poter raggiungere la prova del suo diritto.

Per i lavoratori dei benefici previdenziali non ci sono limiti quantitativi determinati; perché non ci possono essere: sul piano probatorio sarebbe stato come non riconoscere alcun diritto (come riconosce la giurisprudenza della Corte Cost. sull’art.38 della Cost.) ; sul piano sostanziale della tutela della salute perché il nostro ordinamento non accoglie il concetto del limite espositivo rigido e predeterminato per tutelare la salute; ogni sorta di esposizione è considerata nociva per il lavoratore.

Nel d.lgs 277  il limite vale solo per il datore e solo per far scattare ulteriori obblighi di attivarsi e mettere in atto sistemi di prevenzione più adeguati aggravati.

Che cosa c’è, che cosa vale per questi lavoratori?

Vale solo un limite di durata (10 anni di esposizione almeno: 240 giorni lavorativi per 8 ore giornaliere).

Un criterio che è suscettibile di più concreto accertamento. A questo proposito bisogna chiarire che qui non si intende affatto sostenere che non ci deve essere l’amianto nell’aria che respiravano i lavoratori; nessuno dice “basta la presenza di amianto nell’azienda”. No; ci vuole la comprovata  l’esposizione ultradecennale: occorre cioè accertare che le condizioni ambientali e di lavorazione fossero tali per cui venga in concreto accertato e stabilito che le fibre si liberassero nell’aria e fossero soggette ad essere inalate: non si parla di un rischio teorico o astratto (la mera presenza di materiali contenti amianto); no; si parla di esposizione, di provata presenza di fibre  disperse soggette ad inalazione per oltre 10 anni; e solo si dice che è esposizione anche quella che si consuma a 90, 50, 30,f/l in conformità ad una verità giuridica e scientifica incontestabile; solo non si afferma, perché è in contrasto con la verità giuridica e scientifica, che ci vogliono necessariamente le 100 f/l mper essere considerati esposti a rischio morbigeno.

4. Sulla ratio legis: la sentenza 434/2002 della Corte Costituzionale.

Recentemente sull’art.13,8 è tornata a pronunciarsi, per la terza volta, la Corte Costituzionale con una sentenza (434/2002) che segna un totale capovolgimento interpretativo, un vero e proprio cambiamento di rotta, rispetto all’interpretazione dello scopo della norma fin lì adottata da tutta la giurisprudenza che si era pronunciata sull’argomento; quest’ultima sentenza sostiene che il fine principale del beneficio è di far ottenere la pensione per i lavoratori del settore amianto che rischiavano di perdere il posto con la cessazione dell’uso dell’amianto; quindi il rispetto di questa ratio impedirebbe di riconoscere il beneficio in tutti i casi in cui questo presupposto non si verifica; come ad es. per chi è pensionato.

La sentenza non tiene conto però delle modifiche che sono state apportate con la legge 271/1993 all’interno della stessa disposizione per renderla applicabile a tutti i lavoratori esposti (come risulta esplicitamente dai lavori preparatori) e non solo ai lavoratori del c.d. settore amianto; come si evince espressamente dai lavoratori parlamentari la legge è stata infatti modificata appositamente proprio per “far sì che per tutti i lavoratori che siano stati esposti all’amianto per un periodo superiore a dieci anni l’intero periodo lavorativo soggetto ad assicurazione obbligatoria sia moltiplicato per il coefficiente di 1,5” (relatore on. Morgando).

Non solo; la Corte Cost. contraddice anche la Cassazione che richiamandosi proprio alla giurisprudenza della Corte Costituzionale aveva sostenuto la natura indennitaria e risarcitoria del beneficio; essa nega soprattutto se stessa, le due precedenti sentenze rese sull’argomento: la sentenza del 12.1.2000 n.5 in materia di determinatezza della fattispecie; e la sentenza del 22 aprile 2002, n. 127 in materia di lavoratori addetti alla Ferrovie dello Stato; e quest’ultima sentenza pur  essendo stata pronunciata solo pochi mesi prima della sentenza 434/2002 sullo identico aspetto soggettivo della disposizione.

Anche in questa sentenza viene ribadito che lo scopo del beneficio va correlato alla possibile incidenza invalidante di lavorazioni che, in qualche modo, presentano potenzialità morbigene».

Anche in questa seconda sentenza, relativa ai lavoratori delle Ferrovie, non vi è nessun riferimento all’incentivo all’esodo dei lavoratori del settore amianto al fine di ricostruire la ratio della disposizione;

Per la Corte Costituzionale dell’aprile 2002, per sapere se i lavoratori della ferrovie fossero o meno destinatari del beneficio, la ratio della norma doveva essere individuata esclusivamente nella “nozione di rischio morbigeno, caratterizzante il sistema della assicurazione obbligatoria gestita dall’INAIL” ( concetto  che ha come ulteriore portato costituzionale il criterio di parità di tutela a parità di rischio; v. Corte Cost.’74/206; Corte Cost.114/1977); mentre nella sentenza dell’ottobre 2002 sui pensionati il criterio del rischio morbigeno risulta scomparso; non vi si fa nemmeno un cenno; e la ratio del beneficio diventa quella dell’agevolazione all’esodo .

Nella medesima sentenza 127/2002 i presupposti per ricomprendere nel beneficio previdenziale i lavoratori delle Ferrovie dello Stato sono stati individuati dalla Corte Cost. negli stessi comuni presupposti valevoli per la generalità dei lavoratori: “ attinenti, segnatamente, all’esposizione ultradecennale all’amianto, alla soggezione all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall’esposizione all’amianto e al rischio morbigeno”; e senza che sia  stato minimamente richiesto che gli stessi ferrovieri abbiano sofferto crisi occupazionale.

Nella sentenza n.434 del 31 ottobre 2002 sui pensionati la Corte Costituzionale sostiene poi di non aver mai riconosciuto il carattere compensativo del beneficio.  Per dimostrare il contrario è sufficiente richiamare le parole  della stessa Corte Costituzionale dell’11 aprile 2002 n. 127, allorché osservava come esistano “plurimi elementi esegetici, i quali portano a ritenere che essa sia volta a tutelare, in linea generale, tutti i lavoratori esposti all’amianto

Ed inoltre che “ la legge n. 271 del 1993 ha voluto tener conto della capacità dell’amianto di produrre danni sull’organismo in relazione al tempo di esposizione, sì da attribuire il beneficio della maggiorazione dell’anzianità contributiva in funzione compensativa dell’obiettiva pericolosità dell’attività lavorativa svolta.”

Ciò vale, ovviamente, non tanto per ricostruire una sorta di verità filologica, quanto per evidenziare come ai lavoratori delle Ferrovie  il beneficio sia stato riconosciuto in quanto lavoratori assoggettati al medesimo rischio morbigeno da amianto (e non già perché riconosciuti lavoratori coinvolti nel processo di dismissione dell’amianto); e per dirla con le stesse parole della Corte Cost. in considerazione dell’ “obiettiva pericolosità che indubbiamente non manca anche nell’ambito del servizio ferroviario”; obiettiva pericolosità che invece non è stata minimamente considerata nella sentenza sui pensionati, nonostante essi fossero già certificati dall’Inail come esposti al rischio.

Insomma si usano due pesi e due misure. Ai lavoratori in attività si dice che la legge non mira a tutelare il posto di lavoro ma a concedere un beneficio che ha di mira il rischio morbigeno ; ai lavoratori pensionati si dice invece il contrario che la legge non ha funzione compensativa del rischio bensì a tutelare la perdita del posto e siccome essi non possono correre questo rischio il beneficio non spetta ai pensionati.

5. L’art.18, 8° comma della legge 31.7.2002 sulle certificazioni Inail.

Entrambe le tesi disattese ( quella sui limiti di esposizione e quella sulla ratio legis) oltre ad essere contraddette dagli argomenti fin qui esposti, risultano poi in contrasto eclatante con la legge 31.7.2002 n.179 ( art.18,8), che ha riconosciuto validità alle certificazioni amministrative emesse sulla base dei tavoli tecnici del ministero dove è stato deciso per molte aziende quando riconoscere come obiettivamente pericolosa una lavorazione e quindi riconoscere come rilevante un’esposizione oppure no.

Proprio la legge 179/2002 dimostra, a chi vuole vedere, due cose molte evidenti ed elementari.

Primo: che alla base di questi benefici non vi sia il fine di agevolare l’esodo dei lavoratori in difficoltà occupazionale che avrebbero potuto perdere il posto di lavoro con la cessazione dell’amianto…(come continua a dire la giurisprudenza dominante, ma solo quando parla dei pensionati).

Secondo: che per riconoscere il beneficio non occorrono le 100 fibre litro ma basta il rischio morbigeno, l’esposizione all’amianto pericolosa per la salute.

Infatti, tutti sanno che gli atti di indirizzo ministeriali cui si riferisce la norma riguardano le più disparate imprese e settori di attività; nessuno di essi , per quanto se ne sa, attiene al c.d. settore amianto; ad es. a Ravenna, gli stessi atti di indirizzo hanno riguardato i lavoratori del polo chimico e gli addetti ai lavori di facchinaggio della Compagnia Portuale: lavoratori che dopo la legge 257/92 non hanno mai rischiato il posto di lavoro; che dopo l’abolizione dell’uso dell’amianto hanno continuato a produrre prodotti chimici ed a scaricare sacchi e merci presso il porto di Ravenna; essi non avevano bisogno di essere agevolati ad alcun esodo.

Tutt’altro: la ratio di questa recente norma ( che riconosce per legge la validità di un’atto amministrativo) è esattamente opposta a quella che si suppone a fondamento della legge 257; l’art.18,8 della l.31.07.2002 n. 179 è stato infatti emanato per far cessare le opposizioni e le controversie che le imprese avevano intentato sotto vari aspetti contro questi provvedimenti ministeriali, impugnandoli davanti al Tar Lazio e al Consiglio di Stato,   al fine di impedire ai lavoratori di lasciare il posto di lavoro; alla base di questo provvedimento di legge non vi è dunque alcuna difficoltà di mantenere il posto di lavoro o di trovarne altro. Al contrario, i lavoratori volevano abbandonare il posto, mentre le imprese volevano tenerli al lavoro e hanno promosso addirittura delle cause per cercare di trattenerli quanto più a lungo possibile al lavoro.

Proprio per impedire che si realizzasse questo risultato il legislatore è intervenuto; per affermare che gli stessi lavoratori pur non avendo alcuna difficoltà occupazionale avevano comunque diritto alla rivalutazione contributiva per l’amianto; e che le certificazioni loro rilasciate dall’INAIL avevano validità.

Dunque dopo la legge del 271/1993, ed a maggior ragione dopo la legge 179/2002, affermare che la norma abbia ancora la principale o esclusiva funzione di permettere ai lavoratori pregiudicati dal processo di dismissione dell’amianto di ottenere il diritto a pensione,  significa negare il principio di realtà .

Oggi la stragrande maggioranza dei lavoratori a cui il beneficio è stato accordato sia in base alla legge 271/1993, sia in base agli atti  di indirizzo ministeriali (ed alla legge 179/2002) sono lavoratori che non appartengono al settore amianto (sono lavoratori della chimica, delle centrali elettriche, delle ferrovie, dei cantieri navali, delle compagnie portuali, ecc.); per cui continuare ad opporsi alle istanze dei pensionati sostenendo che il beneficio abbia la esclusiva finalità di alleviare le ricadute e le difficoltà occupazionali derivanti in quel  settore dalla cessazione dell’amianto appare non solo sommamente ingiusto, ma soprattutto privo di qualsivoglia collegamento con la realtà.

In secondo luogo questa legge conferma che per riconoscere il beneficio non ci vogliono 10 anni di esposizione a più di 100 fibre litro, la respirabilità (sic), come è stato pure scritto in qualche sentenza,  di più di 100 fibre litro per 10 anni; che è un concetto assurdo che si pone contro qualsiasi possibilità umana di resistenza fisica.

Nel corso dell’istruttoria che è stata fatta sul punto in altre cause, i tecnici che hanno partecipato ai tavoli ministeriali hanno dichiarato che per riconoscere se in quelle imprese sussistevano le condizioni di esposizione richiesti dalla legge per accordare il beneficio non è stato accertato il superamento delle 100 fibre litro per 10 anni, bensì solo se la lavorazione rappresentasse un rischio alla salute, senza fare riferimento ad un limite predeterminato.

E’ del tutto evidente quindi come questa legge ponga un chiaro problema di costituzionalità per disparità di trattamento  a chi sostiene che per l’applicazione dei benefici in sede giudiziaria occorrono le 100 fibre litro.

Perché i lavoratori non compresi nelle direttive ministeriali devono provare l’esposizione superiore a 100 fibre litro per vedere garantita l’applicazione della stessa norma; e gli altri lavoratori (in alcuni casi colleghi di lavoro dei primi nella stessa azienda) beneficiano invece del più favorevole criterio dell’obiettiva pericolosità dell’attività svolta assunto come discriminante in sede ministeriale; come può la stessa norma consentire una interpretazione così sperequata a seconda della sede in cui si procede alla sua applicazione?

Per chi invece adotta l’interpretazione, che qui si adotta, secondo la quale alla base dell’applicazione del beneficio vi è la tutela del rischio morbigeno senza limiti di soglia, questa legge conferma al massimo livello (e cioè a livello normativo) che l’art.13,comma 8 è tale da comprendere qualsiasi l’esposizione purchè superiore al decennio.

6. La nuova normativa di cui all’art.47 d.l.269/2003 (conv.con mod. in  l. 24.11.2003 n.326). Il successivo art. 3, comma 132 l. 24.12.2003 n.350 (finanziaria 2004).

Deve essere a questo punto osservato che la materia dei benefici previdenziali di cui si tratta è stata di recente modificata dall’art. 47 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito con la legge 24.11.2003 n.326.

a. Per quanto qui interessa, va notato che la nuova disciplina ha operato anzitutto una riduzione del 50% del beneficio in vigore (art. 47, comma 1).

La norma ha inoltre modificato l’ambito di operatività del beneficio stabilendo espressamente che a decorrere dal 1° ottobre 2003 esso “si applica ai soli fini della determinazione  dell’importo delle prestazioni pensionistiche e non della maturazione del diritto di accesso alle medesime”; con ciò sancendo, come qui si è sempre sostenuto, che lo stesso beneficio ha una essenziale finalità di natura compensativa risarcitoria e non quella di incentivare l’esodo o di rimediare a crisi occupazionali o di allontanare qualcuno da un pericolo già consumato; tant’è che sulla scorta di questa previsione viene congelato l’effetto favorevole dei contributi maturati in virtù dell’esposizione ai fini dell’accesso a pensione; e diventa necessario per il lavoratore rimanere in servizio, ancora, a tutt’oggi, fino a quando non maturi autonomamente i prescritti requisiti di anzianità contributiva (oltre che anagrafica) per accedere al pensionamento di anzianità o di vecchiaia; ed utilizzare poi i benefici amianto ed ai soli fini della misura della prestazione. Risulta così evidente che questa normativa ha il solo scopo di attribuire un beneficio ai lavoratori esposti all’amianto in ragione del rischio che hanno subito e che la norma mira in qualche misura a compensare.

Tramonta dunque definitivamente la parabola interpretativa secondo cui il beneficio in questione avrebbe avuto invece la finalità di “agevolare all’esodo i lavoratori del dimesso settore amianto” allo scopo di far raggiungere loro la soglia contributiva necessaria per l’accesso a pensione.

b. In sede di conversione sono stati eliminati gli aspetti maggiormente discriminatori contenuti nel decreto legge, perché il beneficio torna ad essere riconoscibile a tutti i lavoratori (ad es. ai marittimi iscritti all’Ipsema) e non solo ai lavoratori iscritti all’Inail. E’ stata tuttavia mantenuta l’iniqua previsione che fissa il limite di soglia di esposizione necessaria per aver diritto al beneficio alle 100 fibre litro.

Come si è detto, subordinare l’applicazione di questi benefici alla dimostrazione, da parte del lavoratore, dell’esistenza di 100 fibre litro per 8 ore per 10 anni, rimane però una previsione arbitraria e vessatoria sotto molteplici aspetti: perché quel limite è dettato dal D. Lgs. 277/1991 in funzione preventiva, per fissare un allarme ed impedire il protrarsi dell’esposizione per più di otto ore (ed è assurdo che venga proiettato in una dimensione temporale di dieci anni a fini previdenziali);  perché rende assai improbabile per il lavoratore poter raggiungere la prova del suo diritto; perché significa soltanto affidare alla Contarp il diritto di stabilire dove e quando riconoscerlo; perché non esiste limite di salvaguardia per l’amianto (è una favola, diceva il prof. Maltoni), tanto più rispetto ad un’esposizione che per essere rilevante ai fini della norma deve durare più di 10 anni.

Non c’è Consulente Tecnico d’Ufficio che possa oggi accertare il superamento di quel limite, a più di dieci di cessazione dell’uso dell’amianto cui hanno fatto seguito bonifiche e dismissioni; il lavoro, come l’ambiente nel quale viene reso, non è un esperimento che si possa sempre ricostruire sotto una campana di vetro (bisogna esserci quando si fanno certe lavorazioni per poter capire). Si tratta quindi di una formula che è stata escogitata per dire che il limite non è stato mai superato… senza la “ benevolenza” della Contarp…, come dimostra l’esperienza (le cause condotte, le note tecniche emesse dalla Contarp, le testimonianze rese dai tecnici Contarp che hanno partecipato ai tavoli ministeriali).

c. Sotto altro aspetto la norma vale a confermare che la stessa soglia delle 100 fibre litro non era prevista all’interno dell’art.13, comma 8 della legge 257/92 come invece ha sempre sostenuto la giurisprudenza della Corte di Cassazione; non essendovi altrimenti alcuna necessità per doverla prevedere ora in nuova normativa che fissa la data della propria decorrenza a partire dall’1.10.2003.

Si tratta pertanto di  questione che si porrà solo in relazione ai casi per i quali la stessa normativa risulti applicabile ratione temporis; il che porta a riflettere sul problema  dell’efficacia nel tempo della stessa normativa.

A tale proposito deve pure  affermarsi che è privo di qualsiasi fondamento il tentativo di attribuire una qualche efficacia retroattiva all’art. 47 di cui si discute.

Già la versione originaria della normativa dettata con il decreto legge disponeva per l’avvenire - e non poteva essere altrimenti, per il rispetto dovuto ai c.d. diritti quesiti; essa non poteva essere applicata sotto alcun profilo nei confronti di chi avesse già acquisito il diritto all’applicazione della normativa precedente (richiesto l’accertamento del proprio diritto presentando domanda all’Inps ovvero agendo in giudizio prima dell’entrata in vigore del decreto legge); in tal senso era sufficiente notare che la retroattività di una norma costituisce deroga al principio generale opposto (irretroattività della legge), sicchè avrebbe dovuto essere quantomeno esplicita; mentre nella fattispecie l’art.47 del decreto legge era semmai espressamente irretroattivo siccome fissava la data della sua entrata in vigore all’1.10.2003 e riguardava pertanto soltanto le situazioni giuridiche prodottesi da tale data.

Questa corretta soluzione enucleabile in base ai principi generali risulta ora esplicitamente convalidata (ed ampliata) dalla legge di conversione dal momento che il comma 6 bis dell’art.47, introdotto in questa sede, fa salva l’applicazione delle disposizioni previgenti per tutti coloro che abbiano già “maturato il diritto al trattamento pensionistico” alla data di entrata in vigore del decreto legge (del 2.10.1993); questa previsione salva quindi non solo la situazione di chi avesse fatto domanda di trattamento fino al 30.9.2003 ovvero agito in giudizio entro quella data, ma anche la situazione soggettiva di tutti coloro che avessero maturato comunque i requisiti di contribuzione e di età previsti per la prestazione dovuta, anche se la stessa prestazione non fosse stata richiesta ovvero dovesse avere una decorrenza successiva.

La norma fa pure salva la normativa previgente per coloro che “fruiscono dei trattamenti di mobilità” (ossia che, pur non avendo maturato il diritto al trattamento, si trovino in mobilità); così come per coloro che “abbiano definito la risoluzione del rapporto di lavoro in relazione alla domanda di pensionamento” (che dovrebbe voler dire coloro che si siano dimessi o concordato la risoluzione del rapporto o si trovino in periodo di preavviso al momento dell’entrata in vigore del decreto, senza aver fatto domanda di pensione; ergo basta essere in preavviso ed aver risolto il rapporto prima del 02.10.2003 per aver salvato il diritto alla vecchia più favorevole disciplina).

Soprattutto appare del tutto ovvio che nei giudizi pendenti non si possa applicare la normativa sopravvenuta rispetto ad un fatto che si sia prodotto nel vigore della legge precedente; ed il fatto è qui rappresentato sia dall’esposizione ultradecennale, sia dalla maturazione dei requisiti contributivi ed anagrafici per il diritto al trattamento (ovvero dall’aver agito in giudizio per il riconoscimento dell’esposizione e per l’erogazione del beneficio, dopo aver fatto domanda di prestazione all’Inps). L'accertamento giudiziale retroagisce poi sempre quantomeno al momento del deposito del ricorso (ma qui ancor più indietro fino al momento in cui era maturato il diritto alla pensione o alla maggiorazione disatteso dall'Inps); si finirebbe altrimenti per far pagare al lavoratore il ritardo imputabile all'Inps. 

Risulta comunque evidente che nei giudizi  pendenti  non si possa applicare una normativa che fa espressamente salva l'applicazione delle previgenti disposizioni per coloro che abbiano maturato il diritto al trattamento pensionistico alla data di entrata in vigore del decreto legge (e cioè al 2 ottobre 2003, superandosi così anche la moderata  ma espressa retroattività fissata col decreto legge all’1 ottobre 2003 ); ciò vale dunque per tutti i lavoratori che prima dell’entrata in vigore della nuova normativa si trovassero in possesso dei requisiti contributivi ed anagrafici necessari per il trattamento richiesto; i quali hanno quindi diritto all’applicazione della vecchia più favorevole disciplina anche se agiscono in giudizio dopo il 2.10.2003. E per trattamento pensionistico si deve intendere sia quello di pensione sia quello di maggiorazione.

Deve essere infine osservato che queste considerazioni risultano convalidate anche dall’Inps che in data 18.12.2003 ha emanato una circolare (195/2003) nella quale ha riconosciuto che l’art.13,comma 8 continua ad applicarsi  a tutti i lavoratori che alla data del 2.10.2003 avevano perfezionato i requisiti contributivi ed anagrafici per il diritto al trattamento pensionistico; e che a tale fine non rileva né la data di presentazione della domanda di pensione, né la decorrenza da attribuire al trattamento pensionistico.

Infine va sottolineato che la legge 24.12.2003 n.350 (legge finanziaria 2004) è di nuovo intervenuta nella materia e con l’art.3, comma 132 ha disposto che : “In favore dei lavoratori che abbiano già maturato alla data del 2.10.2003, il diritto al conseguimento dei benefici previdenziali di cui all’art. 13,comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257, e successive modificazioni, sono fatte salve le disposizioni previgenti alla medesima data del 2 ottobre 2003. La disposizione di cui al primo periodo si applica anche a coloro che hanno avanzato domanda di riconoscimento all’Inail o che ottengono sentenze favorevoli per cause avviate entro la stessa data. Restano valide le certificazioni già rilasciate  dall’Inail”.

In sostanza la norma ha fatto salvo il diritto di tutti i lavoratori che prima del 2.10.2003 avessero ottenuto o semplicemente richiesto all’Inail la certificazione dell’esposizione all’amianto, riconoscendo come intangibili detti accertamenti, ancorché gli stessi lavoratori non avessero maturato alla stessa data e nel contempo i requisiti contributivi ed anagrafici per il diritto al trattamento pensionistico o non avessero effettuato alcuna domanda all’Inps.

La norma fa quindi salvo il diritto all’applicazione della più favorevole normativa precedente sulla base della semplice richiesta all’INAIL di certificazione dell’esposizione; solo se la domanda di certificazione sia avvenuta in data successiva al 2.10.2003 si applica il nuovo regime stabilito dall’art.47.

In sostanza la norma abroga, ad un mese di distanza, quanto era stato ribadito con la legge  24.11.2003 n.326 di conversione dell’art. 47 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269; l’art, 47, comma 2 prevedeva infatti espressamente che sia la riduzione, sia la limitazione del beneficio, come stabilite nel primo comma, “si applicano anche ai lavoratori a cui sono state rilasciate dall’Inail le certificazioni relative all’esposizione all’amianto sulla base degli atti d’indirizzo emanati nella materia dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali antecedentemente alla data di entrata in vigore della legge”.

Si trattava di una grave sperequazione che ledeva espressamente la situazione soggettiva di quei lavoratori che nel vigore della precedente legge fossero riusciti ad ottenere (l’agognato) certificato di esposizione dall’Inail; sperequazione che con l’art.3, comma 132 della legge finanziaria n.350/2003 è venuta meno.

II. La questione di fatto

a. Per ciò che attiene alla soluzione della questione di fatto relativa  all’esposizione all’amianto dei ricorrenti, bisogna fare riferimento a tutte le prove testimoniali e documentali legittimamente acquisite  nella causa (v. pure la documentazione depositata in cancelleria dall’AUSL di Ravenna a seguito dell’ordine di esibizione in data 24.9.2003).

b. La difesa degli istituti convenuti ha lamentato in più occasioni che il giudice non abbia anche avvertito la necessità di far luogo allo svolgimento di una consulenza tecnica per accertare l’esposizione all’amianto dei ricorrenti; ad avviso di questo giudice però tutti i fatti necessari per esprimere compiutamente la valutazione sull’esposizione all’amianto del ricorrente, nei termini corretti richiesti dalla norma, emergono pacificamente dagli atti del processo.

Inoltre, come si è ripetutamente detto, ad avviso di questo giudice, per il riconoscimento del beneficio non è necessario accertare se i ricorrenti siano stati esposti a determinate concentrazioni di fibre di amianto: a che pro allora la CTU?  Deve essere ribadito ancora una volta che il concetto di rischio rispetto all’esposizione all’amianto, oltre ad essere oramai di comune acquisizione sociale ( tutti sanno che l’amianto provoca malattie terribili ), è soprattutto normativamente determinato ( dal Testo unico 1124/65, dalla legge 277/91, dalla direttiva CEE 477/ 83 ) in termini di mancanza di limiti di soglia; nessun CTU dinanzi all’accertata esposizione a fibre di amianto (raschiato, soffiato, tagliato, raccolto, ecc), potrebbe mai affermare che non ci sia stato rischio per il lavoratore, senza commettere un grave errore; pertanto l’istanza di CTU sempre effettuata dai convenuti INAIL ed INPS deve ritenersi meramente dilatoria (oltre che dispendiosa) per un verso e priva di qualsiasi effettivo valore per altro verso.

c. Deve essere affermato a questo punto che  i ricorrenti sono stati esposti all’amianto per oltre dieci anni ed in via continuativa nel corso dello svolgimento delle mansioni dedotte per come risulta, senza nessuna contestazione dei convenuti, dalle prove acquisite nella causa e qui di seguito richiamate.

“La copiosa produzione documentale allegata al ricorso e le disposizioni testimoniali rese in sede istruttoria hanno ampiamente provato che i ricorrenti sono stati esposti a polveri e fibre di amianto in ragione della loro attività lavorativa svolta all’interno degli impianti PVC/S, PVS/M e CVM. Al riguardo, si richiama inoltre la documentazione depositata in cancelleria dall’AUSL di Ravenna in base all’ordinanza emessa dal giudice all’udienza del 24.09.2003 con cui si autorizzava la produzione dei piani di dismissioni di materiali in amianto presso gli impianti EVC del petrolchimico di Ravenna.

Rispetto al periodo di esposizione all’amianto accertato in corso di causa, si ritiene che il momento terminale sia da individuarsi nel marzo 2000 quando venne condotto un censimento amianto – censimento eternit dal quale risultavano essere presenti all’interno dell’impianto PVC/S  e dei magazzini siti all’isola 23 circa 9500 m2 di coperture in eternit e 250 m di linee coibentate in amianto. Risultavano, inoltre, essere presenti 600 mq di pannelli in amianto (cfr. all. 11: censimento amianto 2000).

A tutto il marzo 2000 all’isola 22 risultavano da bonificare le seguenti linee del piperack generale di impianto coibentate in amianto:

- linea olio grezzo per CTE (360 m);

- linea Stirolo (360 m);

- linea fanghi (420 m);

- linea vapore a 4.5 Ate (350 mt);

- linea H2O per l’integrazione (40 m);

- linea di vapore a 18 Ate (550m) (cfr. all. 12: Nota tecnica elenco linee in amianto da smantellare o bonificare).

Dovevano essere smantellate le seguenti linee fuori servizio:

- linea condensa;

- linea area servizi;

- linea di vapore a 18 Ate;

- linea H2O per l’integrazione (cfr. all. 12).

Furono, inoltre, previsti ulteriori interventi di segregazione e di eliminazione dell’amianto su altre linee di piperack generale di impianto presenti all’interno dell’isola 22 (cfr. all. 12).

Benché ancora nel luglio 2002, in esecuzione del piano amianto 12/02, si diede luogo, da parte degli addetti alla manutenzione e con l’assistenza degli operatori d’impianto PVC/S, allo smontaggio ed alla sostituzione delle seguenti linee e componenti coibentate in amianto:   

· smontaggio aerotermo alla Reazione A- B;

· smontaggio pompa e vecchie linee V 208 alla Reazione A – B;

· montaggio linee V154 alla Reazione A – B;

· smontaggio condotti d’aria alla Reazione A – B;

· smontaggio vecchie linee V10 alla Reazione A – B;

· smantellamento V 210 alla Reazione A – B;

· smontaggio vecchie linee vapore su box ex sala controllo alla Reazione A – B;

· demolizione del condizionatore alla Reazione A – B.

In precedenza, si segnalano soprattutto i risultati delle analisi effettuate nel novembre 1998 dal Laboratorio B. Buozzi, presso gli impianti E.V.C., sui campionamenti ambientali che hanno rivelato una concentrazione di fibre aerodisperse molto alta e nettamente superiore  al valore limite di 2ff/ll stabilito dal D.M. del 06.09.94 indicativo di una situazione di inquinamento in atto (cfr. risultati analisi, all. 9):  

- 4 ff/l nel magazzino isola 23;

- 4 ff/l nella zona analizzatori CVM;

- 6 ff/l al piano terra del reparto Essiccamento A / B;

- 4 ff/l al 4° piano del reparto Essiccamento A / B;

- 8 ff/l all’altezza del tetto del silos 1007 / 1015;

- 5 ff/l al piano condizionatore del reparto Reazione A / B.

Oltre alle numerose apparecchiature e tubazioni coibentate in amianto ed alle coperture in eternit, l’amianto era presente in tutte le guarnizioni (cfr. all. 16-20), nelle baderne (cfr. all. 21-23); nelle trecce per premistoppa o di tenuta (cfr. all. 24); nei materiali (per es. fogli di amianto) per coibentazione che rivestivano molte delle numerose apparecchiature presenti negli impianti E.V.C. (cfr. all. 25 e all. 26).

Molte delle numerosissime coibentazioni in amianto di tubazioni ed apparecchiature versavano in cattivo stato di conservazione o non erano segregate opportunamente. Tale fenomeno generava lo sgretolamento delle coibentazioni e favoriva la dispersione di fibre e polveri di amianto negli ambienti di lavoro. Sul punto, cfr. deposizioni testimoniali rese all’udienza del 24.09.2003.

Come ci è stato confermato da entrambi i testimoni escussi all’udienza del 24.09.2003 gli impianti PVC/S, PVC/M e CVM necessitavano di frequenti manutenzioni alle strumentazioni, alle tubazioni ed alle apparecchiature presenti all’interno dei vari reparti.

Nel corso di tali interventi, che venivano svolti con cadenza giornaliera, si procedeva alla rimozione di guarnizioni in amianto, alla pulizia degli accoppiamenti glangiati, alla manutenzione di prepolimerizzatori e condensatori, alla sostituzione di baderne in amianto, alla costruzione di guarnizioni da fogli di amianto compresso, alla scoibentazione ed alla coibentazione di numerose apparecchiature e tubazioni.   

A partire dagli anni ’70 tutto il personale degli impianti PVC/S, PVC/M, CVM veniva impiegato, durante le fermate parziali e generali dell’impianto, mediamente due volte l’anno, in lavori di manutenzione (cfr. all. 30: accordo tra dirigenza ANIC e Consiglio di Fabbrica ANIC – RA).

· attività di ricerca perdite su tubazioni;

· attività di rimozione e sostituzione guarnizioni;

· attività di saldatura;

· attività di manutenzione alle tenute degli agitatori autoclavi e degli agitatori reattori;

· attività di sostituzione filtri degasaggio gas cvm.

Tutte le sopradescritte attività, che vedevano coinvolti gli operatori d’impianto (PVC/S, PVC/M, CVM) durante la fermata, comportavano l’apertura e il controllo di apparecchiature, serbatoi e linee coibentate in amianto, il ripristino di guarnizioni in amianto su accoppiamenti flangiati e passi d’uomo, la pulizia e la sostituzione di filtri. I lavoratori degli impianti PVC/S, PVC/M. CVM erano tenuti, inoltre, ad offrire supporto agli operatori del servizio di manutenzione per lo smontaggio e la sostituzione di valvole, anch’esse dotate di guarnizioni in amianto (cfr. all. 19). In tutte queste fasi, come per l’impianto in marcia, si dovevano poi sostituire le guarnizioni, rimuovere le coibentazioni delle linee e apparecchiature e predisporre i luoghi di lavoro per i lavori di saldatura.   

Il sistema della polivalenza venne riconosciuto, formalizzato ed esteso con l’accordo del 24.07.1980, intercorso tra l’ANIC e i sindacati (cfr. all. 31, accordo sulla polivalenza del 24.07.1980). 

Con esso si attribuiscono formalmente all’operatore di impianto, ad integrazione delle mansioni già svolte, le attività di manutenzione, di effettuazione di controlli analitici e di sicurezza (cfr. all. 31). Da questo momento in poi la gran parte degli interventi manutentivi di cui le varie apparecchiature e le tubazioni necessitavano, vennero effettuati direttamente dagli operatori e dai capi turno degli impianti PVC/S, PVC/M, CVM con frequenza giornaliera. Nei capitoli 42-50, a cui si rinvia, del ricorso sono state ampiamente e dettagliatamente descritte tutte le attività manutentive svolte dai ricorrenti e confermate dai testimoni escussi all’udienza del 24.09.2003.

Rispetto alle mansioni svolte dai ricorrenti, si ribadisce che l’Atto di indirizzo emesso in data 07.03.2001 dal Ministero del Lavoro (cfr. all. 3.5) ha riconosciuto come rilevante ai fini dell’art. 13 co. 8 l. n. 257/92 e successive modificazioni, le mansioni inerenti la manutenzione di strutture, impianti e macchine svolte da altri lavoratori del petrolchimico dell’ENICHEM di Ravenna (compresi i lavoratori di società terze interne al polo petrolchimico, quale la E.V.C.) purchè risulti attestato lo svolgimento di tali operazioni. L’accordo sulla polivalenza del 1980 attribuisce espressamente ai lavoratori degli impianti PVC/S, PVC/M, CVM lo svolgimento continuativo e regolare di lavori di manutenzione, in precedenza svolti come prassi; tale accordo aveva tra i suoi obiettivi, infatti, l’identificazione di nuove professionalità validamente utilizzabili sia in manutenzione che in produzione (cfr. all. 31). “   

d. Per quanto attiene al calcolo del periodo di oltre dieci anni rilevante ai fini della maturazione del diritto al beneficio, rileva, ad avviso di questo giudice, il rapporto di lavoro; senza che sia possibile alcuna scomposizione per periodi di ferie, assenze, malattie, come riconosciuto dalle circolari INAIL - INPS.

Per tutti i motivi fin qui esposti deve essere dunque affermato che tutti i ricorrenti hanno diritto alla rivalutazione contributiva nella misura di 1,5 per i periodi in cui hanno lavorato alle dipendenze dell’Enichem nei termini sopra e pertanto per i seguenti periodi lavorativi:

TM: dal 01.08.88 al marzo 2000;

FP: dal 02.11.81 al 30.01.88 e dal 03.02.88 al  marzo 2000; 

RS: dal 23.10.89 al marzo 2000;

DS: dal 12.05.71 al marzo 2000;

CA: dal 17.05.71 al marzo 2000.

L’Inps è quindi tenuto a procedere all’accredito contributivo previsto dalla legge.

e. Le spese del giudizio seguono la soccombenza nei termini risultanti dal dispositivo.

P.Q.M.

Visto l’art. 429 c.p.c.  e definitivamente pronunciando sulla domanda ogni diversa domanda, eccezione od istanza disattesa, così decide:

Dichiara che i ricorrenti hanno diritto alla maggiorazione ex art. 13, comma 8 l. 257/92 per i periodi di effettiva esposizione all’amianto subiti nel corso del rapporto.

Dispone che l’INPS provveda all’accredito contributivo.

Condanna l’INPS alla rifusione delle spese processuali liquidate in complessivi Euro 4000 di cui 2600 per onorari oltre IVA e CPA, con distrazione per il procuratore.  

Ravenna, 10.12.2003

Il Cancelliere

Il Giudice  del  Lavoro

dott. Roberto RIVERSO

 

Depositato in Cancelleria il .........

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