Una lineare applicazione, da parte della Cassazione,
dello spirito informatore della L. n. 297/’82 sul T.F.R. (tramite
l’affermazione del ricorso, per gli accantonamenti annuali, ai criteri della
disciplina legale o contrattuale pro-tempore vigente)
1. La
Corte di Cassazione nella decisione n. 3079 del 2 marzo 2001 ha stabilito, a proposito dei criteri per
l’inclusione o meno dello straordinario “non occasionale” nel t.f.r., quale
disciplinato innovativamente (rispetto alla vecchia indennità di anzianità ex
vecchio testo art. 2120 cod. civ., secondo cui all’atto della cessazione del
rapporto di lavoro al prestatore spettava una indennità calcolata sulla base
dell’ultima retribuzione per tutti gli anni di servizio prestati nella stessa categoria
o qualifica) il principio per cui : “ L’individuazione della retribuzione
annua utile al fine del calcolo del t.f.r., per quanto concerne specificamente
l’incidenza del lavoro straordinario e degli istituti contrattuali su di esso,
deve operarsi, ai sensi del 2° comma dell’art. 2120 cod. civ.,ai fini di
un’esigenza di certezza dell’entità degli accantonamenti, con riferimento alla
normativa legale o contrattuale in vigore al momento degli accantonamenti
stessi e non con riferimento a quella vigente all’atto della cessazione del
rapporto.
Qualora
si sostenga il carattere retroattivo dell’esclusione dello straordinario ai
fini del t.f.r. – pattuita nel ccnl vigente all’epoca di risoluzione del
rapporto ma estranea e non rinvenibile nei precedenti ccnl che rimandano ai
criteri della fonte legale – si osserva come la pattuizione collettiva sarebbe
comunque nulla perché contraria a norma di legge inderogabile, essendo vietato
ad un contratto collettivo successivo di peggiorare retroattivamente per un
istituto disciplinato ex lege (n. 297/’82 afferente la struttura del
t.f.r., in fattispecie) i criteri
diversi e più favorevoli definiti dai ccnl previgenti, individuati dalla
lettera e dalla ratio legis quali fonti, ratione temporis, immodificabili per
gli accantonamenti annuali.”
L’affermazione di principio
merita di essere integralmente condivisa e
spiegheremo di seguito le ragioni della nostra adesione(in senso conforme
Corte App. Milano, 25/1/2001, in D&L, Riv, crit. dir. lav. 2001, 476,
confermativa di Pret. Monza 24/5/1999; contra, Trib. Cuneo 16/3/2000, in Or.
giur. lav. 2000,434).
Essa è stata determinata da
una vertenza giudiziaria scaturita dalla richiesta di un dipendente (nella
fattispecie “ex operaio”, ma con estensibilità del principio alle altre
qualifiche) di un’azienda metalmeccanica, ubicata al Nord, il quale –
sostenendo e provando di aver svolto ogni mese lavoro straordinario
regolarmente retribuito dall’azienda – lamentava che, all’atto della
liquidazione del t.f.r. in occasione della risoluzione del rapporto avvenuta
nel 1997, non si era visto includere
nella “sommatoria” degli accantonamenti annuali strutturanti
cumulativamente (e previa rivalutazione ex lege) la quota parte annuale di “lavoro straordinario non
occasionale” prestato e retribuito nel periodo anteriore al 7 luglio 1994 (data
quest’ultima di stipula del nuovo ccnl in cui le parti, a differenza dei ccnl
precedenti, avevano pattuito l’esclusione dello “straordinario” dalla base
retributiva utile per il t.f.r.). A sostegno della rivendicazione (di mero
principio, in quanto il valore in contestazione superava di poco le 750 mila lire complessive) il lavoratore
sottolineava come tale comportamento omissivo aziendale per il passato (periodo
antecedente al ccnl 5.7.1994) si fosse concretizzato nonostante che il ccnl
metalmeccanici del 14 dicembre 1990 (applicato ed applicabile
pro-tempore dall’azienda) stabilisse all’art. 26, Disc. Spec., Parte Prima
(afferente agli “ex operai”) - per
quanto atteneva al Trattamento di Fine Rapporto: - che:“All'atto della risoluzione del
rapporto l'azienda corrisponderà al lavoratore un trattamento di fine
rapporto da calcolarsi secondo quanto disposto dall'art. 2120
del Codice civile e dalla legge 29 maggio 1982, n. 297.
Per
il computo dell'indennità di anzianità maturata fino al 31 maggio 1982, valgono
le norme di cui all'art. 26, Disciplina speciale, Parte prima, del Ccnl
16 luglio 1979 “ e, per l’anzianità antecedente, vale la previgente disciplina
contrattuale di liquidazione dell’indennità di anzianità a scaglioni.
La norma contrattuale del 1990 è inequivoca nel
rinviare alla L. n. 297/’82 per le modalità di calcolo del T.F.R., dopo la
novella del 1982.
E
l’art. 2120, comma 1° e 2° rispettivamente
- nel testo novellato dalla L. n. 297/82 – stabilisce:
“In
ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, il prestatore di
lavoro ha diritto ad un trattamento di fine rapporto. Tale trattamento si
calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non
superiore alla retribuzione dovuta per l’anno divisa per 13,5” - omissis – (1° comma).
Salvo
diversa previsione dei contratti collettivi la retribuzione annua, ai fini del
comma precedente, comprende tutte le somme, compreso l’equivalente delle
prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a
titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di
rimborso spese”(2° comma).
La
dottrina ha correttamente e pacificamente rilevato come “ La differenza tra
il nuovo t.f.r. rispetto all’indennità di anzianità è radicale. Rispetto
all’indennità, come moltiplicazione di
un quid dell’ultima retribuzione rispetto all’intera anzianità di servizio
in senso generico, il t.f.r. si risolve in una “ addizione”. Al termine del
rapporto si sommano i trattamenti determinati annualmente e poi periodicamente
rivalutati ad ogni fine d’anno; ogni trattamento annuale viene determinato
sommandosi le spettanze del lavoratore nell’anno e dividendosi il coacervo per
13,5. (omissis). In tal modo il t.f.r. rispecchia fedelmente lo sviluppo
economico della carriera del lavoratore senza artifizi finali” (cosi Pera,
in Trattamento di fine rapporto,
in Foro it., maggio 1986, 189, p. 21 dell’estratto e conf. Giugni, De Luca Tamajo, Ferraro, Il
trattamento di fine rapporto, Padova 1984, 49, secondo i quali il nuovo
t.f.r. “riflette fedelmente la storia retributiva di ciascun lavoratore
impedendo manovre o effetti sperequanti a vantaggio di chi presentava dei
picchi di carriera nella fase terminale del rapporto”). “I passaggi di
qualifica e soprattutto di categoria, prima così tormentati, diventano
relativamente indolori;la corsa all’ultima promozione non ha più l’incentivo di
poter ottenere, per questa via, l’incremento del trattamento finale” (così
ancora Pera, in Trattamento di fine
rapporto, cit., p. 21
dell’estratto).
E va
espressamente sottolineato come questa sommatoria di accantonamenti annuali
strutturante il T.F.R. deve– a mente dell’art. 2120, comma 1° - essere composta
da quote della “retribuzione dovuta per l’anno” divisa per 13,5. Ove per
“retribuzione dovuta nell’anno” non può che intendersi quella spettante
a norma delle fonti regolamentari del rapporto vigenti all’epoca e nell’arco
annuale di corresponsione della medesima. Nello stesso senso depone Cass.
5.6.2000 n. 7488 (in MGL 2000, 1079, 82 m.) secondo cui: " Poichè ai
sensi dell'art. 2120 c.c. (testo vigente) il trattamento di fine rapporto si
calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non
superiore all'importo della retribuzione dovuta per l'anno stesso divisa per
13,5, e la retribuzione annua, a tali fini, comprende tutte le somme, incluso
l'equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del
rapporto di lavoro, a titolo non occasionale, ne consegue che il giudizio di
non occasionalità va in primo luogo effettuato con riferimento a ciascun anno
(anche se è possibile che la corresponsione di una somma ritenuta occasionale
in un singolo anno possa invece rivelarsi non occasionale, se riferita ad un
arco temporale maggiore)".
E’
stato anche giustamente notato (Giugni, De Luca Tamajo, Ferraro, Il
trattamento di fine rapporto, cit., 51) come non a caso il legislatore
abbia usato la formula “retribuzione dovuta” per l’anno, giustappunto
per cautelare il lavoratore da inadempienze datoriali determinanti
scostamenti tra la retribuzione legalmente e
contrattualmente “dovuta”e quella effettivamente percepita per ipotetica decurtazione o errato conteggio in
busta paga. Con tale dizione, il t.f.r.
– sganciandosi da una nozione di “cassa” per correlarsi ad una nozione di “competenza” o “debenza”- dovrà essere sottoposto, pertanto, alle necessarie implementazioni (conguagli)
conseguenti a rivendicazioni giudiziali o sindacali del prestatore di lavoro,
positivamente fondate ed accolte.
Tornando
alla vicenda giudiziaria occasionante l’affermazione di principio in tema di
straordinario “non occasionale”, va
detto che con il successivo ccnl del 5.7.1994 gli agenti negoziali stipulanti
il ccnl metalmeccanici - avvalendosi
della facoltà di cui al 2° comma dell’art. 2120, codificata nella dizione “salvo
diversa previsione dei contratti collettivi”e per motivi di riduzione del
costo del lavoro – convennero (necessariamente per l’arco di vigenza del nuovo
ccnl, a partire dalla data di stipulazione in poi) – l’esclusione dello
straordinario, occasionale o meno, ai fini del computo del T.F.R.
A tal
fine la Dichiarazione a verbale in calce all’art. 26 Disc. Spec., Parte Prima
(“ex operai”, e corrispondenti articoli per le altre qualifiche, integralmente
riproposti nella versione precedente contemplante il rinvio per il calcolo del
T.F.R. all’art. 2120 cod. civ.. e alla L. n. 297/82) dispose che: “Le parti
in attuazione di quanto previsto dal 2° comma dell’art. 2120 codice civile, convengono che la
retribuzione, comprensiva delle relative maggiorazioni, afferente alle
prestazioni di lavoro effettuate oltre il normale orario di lavoro, è esclusa
dalla base di calcolo del trattamento di fine rapporto.
Quanto
sopra senza pregiudizio per le eventuali controversie giudiziarie attualmente
in corso”.
Si trattò, pertanto, di una
intesa – realizzatasi tra gli agenti negoziali in un determinato contesto
temporale (a far data dal 5.7.1994, di stipula del nuovo ccnl) senza pretese,
concessioni o spazi di supposta ed inespressa retroattività – con le quali gli
agenti negoziali esercitarono la facoltà di circoscrivere, per motivi di
opportunità, di scambio di
contropartite negoziali o di adesione sindacale alle lamentazioni
aziendali sull’eccesso di costo del lavoro, la base utile del trattamento di fine rapporto, del tutto pacificamente
per il futuro non reperendosi traccia di “retroattività” convenzionale
(peraltro nulla, se convenuta, in quanto non è giuridicamente ammissibile che
un ccnl successivo possa peggiorare per il passato e retroattivamente, per
istituti economici a consistenza certa legislativamente configurati e a sola
corresponsione o esigibilità differita, qual è il t.f.r., i criteri di computo
di “accantonamenti già maturati” e disciplinati da un precedente contratto
collettivo).
Le
OO.ss. poi si premurarono di puntualizzare – con quella propensione al
superfluo finalizzata a tranquillizzare di fatto i lavoratori meno giuridicizzati
- che il nuovo e più circoscritto
criterio di calcolo non avrebbe potuto determinare alcun riflesso sulle
controversie giudiziarie pendenti (come pacificamente non poteva, stricto
iure, averlo per pacifica carenza di valenza retroattiva della convenzione
realizzata per l’arco di vigenza del ccnl decorrente dal 5.7.1994 in poi, anche
se successivamente proseguita).
2. Il
lavoratore soccombeva in primo e secondo grado, dinanzi al Tribunale di Lecco,
ma otteneva accoglimento del ricorso in Cassazione, nell’annotata sentenza n.
3079/2001.
I
motivi del non accoglimento in sede di merito risiedevano eminentemente nella
convinzione dei magistrati che :
a)
l’atto di cessazione del rapporto era un elemento costitutivo del diritto al
T.F.R., non mero momento di esigibilità;
b)
gli accantonamenti in corso di rapporto avrebbero mera natura virtuale o
contabile (oggetto solo di eventuali
azioni di accertamento non idonee a far sorgere alcun diritto);
e,
poiché il ccnl vigente all’atto della risoluzione del rapporto, escludeva il
calcolo del lavoro straordinario, la pretesa del prestatore di lavoro era
infondata.
Non può non sfuggire la scarsa
pregnanza delle argomentazioni dei giudici
del merito che hanno incontrato un netto ribaltamento in sede di
Cassazione (con le conclusioni conformi del P.M.).
Solo
nel vecchio sistema di liquidazione dell’indennità di anzianità – di cui al
superato art. 2120 cod. civ. – si può
sostenere e condividere la datata affermazione della Cassazione, secondo cui: “Una
cosa è il diritto all’ ”an” che è il diritto alla percezione delle indennità e
che matura in ciascun istante dell’intero arco del tempo lavorativo,…altro è il
diritto al “quantum” che diviene liquido ed esigibile soltanto al momento
dell’effettiva estinzione del rapporto e nella quantità di cui alla disciplina
vigente in tale stesso momento” (cfr. Cass. 6 marzo 1973, n. 625, Enel c.
Franzante, in MGL 1973, (S), 156 m.).
Nel
nuovo sistema va subito detto che è
saltata per volontà legislativa la correlazione tra “quantità” del t.f.r. e
“disciplina vigente al momento della cessazione del rapporto”.
Anche se non mancano
autorevoli opinioni contrarie (di cui diremo successivamente), ed anche ipotizzando per mere finalità
argomentative che il momento
costitutivo del diritto al t.f.r. è in via di normalità l’epoca di cessazione
del rapporto (anche se in via di altrettanta normalità e diffusività è sancito
il diritto alle anticipazioni in corso di rapporto per causali socialmente
meritevoli e con superamento delle limitazioni ed angustie di legge, per “patti
individuali e collettivi” cioè per condizioni di miglior favore espressamente
legittimate ex art. 1, co.11, L. n.
297), da questo evento non può
assolutamente inferirsi che l’epoca di acquisizione del diritto condizioni la sua
configurazione strutturale e quantitativa e gli proietti, come un’ombra
immanente ed incombente, la disciplina legale e contrattuale dell’epoca di
cessazione del rapporto come unico metro o parametro di applicabilità e di
utilizzo per l’intero rapporto di lavoro.
Affermare
ciò significa non aver compreso l’innovazione dell’istituto di cui alla L. n.
297/82, ma ragionare condizionati da una normativa superata che è quella che
regolava l’indennità di anzianità. Infatti non va dimenticato che nella legge n.
297/82 - legge imperfetta e disarmonica
per esigenze di mediazione di interessi - esiste una dicotomia tra la fase di
costituzione o esigibilità del diritto e la fase di strutturazione e
concretizzazione quantitativa del medesimo. Quest’ultima fase – che è quella di
cui ci occupiamo nella fattispecie - è
espressamente prevista e regolata dal legislatore della L. n. 297 laddove
impone che il t.f.r. è strutturato da ”accantonamenti annuali” (cfr.
art. 2, co. 9°) sulla base della “retribuzione dovuta nell’anno” divisa
per il coefficiente 13,5; laddove
designa al 4° comma (ai fini della rivalutazione annuale) come “maturata”
la quota dell’anno corrente, ove il termine “maturata” depone
inequivocabilmente per un diritto già acquisito; laddove impone che dei “dati relativi all’accantonamento
effettuato nell’anno precedente ed all’accantonamento complessivo risultante a
credito del lavoratore” (cfr. art. 2, co. 9°, L. n. 297) sia data notifica
dal datore di lavoro al lavoratore che, per tale titolo conoscitivo, vanta un
vero e proprio diritto soggettivo, per il rinvio espresso all’art. 4, co. 4°
della L. n.467/78 “con la conseguenza che acquista ben altra credibilità la
tesi favorevole a riconoscere l’ammissibilità di azioni di accertamento e
cautelari a tutela del trattamento di
fine rapporto” (così Giugni, De Luca Tamajo, Ferraro, Il trattamento di
fine rapporto, cit., 146).
Tornando
ad opinioni dottrinali – quantunque prospettate problematicamente – che si
discostano dall’orientamento (fatto proprio dalla magistratura di Lecco, in
fattispecie), secondo cui sarebbe rimasto inalterato, per effetto della
spettanza in via di normalità, il momento costitutivo del diritto al t.f.r.,
merita riportare quanto prospettano in dottrina Ghera e G. Santoro Passarelli (Il
nuovo trattamento di fine rapporto, Milano 1982, 14-16): “Orbene si
tratta di accertare se la nuova disciplina abbia mutato o meno la struttura
della fattispecie, rispetto all’indennità di anzianità. Com’è noto, secondo la
disciplina previgente nell’interpretazione della dottrina prevalente, il
diritto all’indennità sorgeva nel momento della cessazione del rapporto, quando
per l’appunto il quantum era determinato o determinabile. Durante lo
svolgimento del rapporto di lavoro il prestatore di lavoro si trovava in una
situazione di giuridica aspettativa di diritto e perciò poteva limitarsi ad
esperire azioni conservative a tutela della sua situazione soggettiva. A meno
di ritenere, come pure è stato sostenuto, che in realtà il diritto sorgeva con
la costituzione e maturava con lo svolgimento del rapporto o meglio che si
trattava di un credito del lavoratore esistente ma non esigibile o di un
credito a termine incerto (cfr. autori in nt. 13). Queste ultime tesi
interpretative, minoritarie e invero non molto persuasive sotto il dominio
della precedente disciplina (dell’indennità di anzianità, n.d.r.)
potrebbero essere utilizzate per spiegare la struttura della fattispecie del
trattamento di fine rapporto se si
considera che secondo la disciplina attuale, gli accantonamenti annuali non
subiscono, salva l’indicizzazione, ulteriori variazioni durante lo svolgimento
del rapporto. Si tratterebbe insomma di accantonamenti determinati
definitivamente nel quantum, a differenza del regime precedente alla stregua
del quale la quantificazione poteva essere effettuata solo alla cessazione del
rapporto fondandosi sull’ultima retribuzione. Il mutamento del criterio di
calcolo dell’indennità di fine rapporto potrebbe perciò indurre l’interprete a
ritenere che il diritto al trattamento non sorge più al momento della
cessazione del rapporto, ma è un credito a termine incerto del lavoratore che
matura durante lo svolgimento del rapporto. Tale termine, in questo caso, non
atterrebbe alla sospensione dell’efficacia del negozio, ma riguarderebbe il
tempo della prestazione. Il termine sarebbe una modalità dell’adempimento.
Certamente secondo questa
interpretazione il termine, individuando il momento dell’adempimento
dell’obbligazione del datore di lavoro e non avendo riguardo alla sospensione
dell’efficacia del rapporto, identifica nella cessazione del rapporto il
momento di esigibilità e di determinazione del credito costituito, in questa
prospettiva, dalla somma di tante rate diverse per entità, quanti sono gli anni
di servizio prestati. Questa interpretazione potrebbe essere avvalorata dal
disposto del penultimo comma dell’art. 2 che menziona a certi fini
l’accantonamento effettuato e…l’accantonamento complessivo a credito del
lavoratore.”
Ciò riproposto per togliere
una eccesso di sicumera che abbiamo
avuto modo di riscontrare nelle sunteggiate conclusioni della magistratura di
Lecco, va detto che riteniamo sufficientemente fuorviante e sterile ai fini
della problematica in decisione – come ha detto la stessa Cassazione - la ricognizione o la condivisione (o meno)
della natura costitutiva o di mera esigibilità per l’epoca di cessazione del
rapporto del diritto al t.f.r. (da
intendersi quale sommatoria di quote certe di retribuzione a sola corresponsione
differita, per effetto di risparmio forzoso onde non lasciare le aziende
finanziariamente col “fiato corto”), ai fini e per gli effetti della
individuazione della fonte legale o contrattuale per la strutturazione del quantum
del t.f.r., che pacificamente avviene in corso di rapporto, secondo le regole
legislativamente fissate (ripetesi, “accantonamenti” pro-quota della
“retribuzione dovuta nell’anno”). Regole disposte per esigenze di certezza per
i bilanci delle imprese e per altro
verso per gli stessi lavoratori, che lumeggiano l’infondatezza della tesi che
tende a configurare gli accantonamenti
quali “dati virtuali o meramente contabili”, in luogo di somme certe ed
acquisite al patrimonio creditorio del lavoratore e solo differite a fine
rapporto nella loro esigibilità. Se così non fosse non si comprende a quale
esigenza corrisponda ed assolva l’obbligo datoriale ex lege di
comunicazione annuale dell’accantonamento per t.f.r. maturato al 31 dicembre
dell’anno precedente. Non è assolutamente ammissibile che chi abbia ricevuto la
comunicazione dell’accantonamento “maturato” per ciascun anno oltrechè
dell’accantonamento complessivo a credito (ex art. 2, penultimo comma, L. n.
297/82) ed abbia, ipoteticamente, azionato il proprio diritto all’anticipazione
del t.f.r., possa – per effetto di una eventuale normativa pattuita
sindacalmente a fine rapporto, limitativa (come in fattispecie) della base di
calcolo e delle componenti del t.f.r. rispetto a quelle contemplate nei ccnl
previgenti ed utilizzate per gli accantonamenti annuali – vedersi ridimensionato il proprio credito
per t.f.r. in epoca di esigibilità differita, sottostando così ad effetti di
incertezza e di labilità giuridica dell’istituto del t.f.r., con ipotetici
pregiudizi su impegni economici assunti o assumibili. Invero l’istituto del
t.f.r. – pur disciplinato da una legge imperfetta che non ha portato a
conclusione gli obbiettivi che si era riproposta – è comunque sorto e connotato
da esigenze di certezza giuridica bilaterale (dal lato delle aziende e dei
lavoratori), in contrapposizione con l’indeterminatezza in corso di rapporto
della precedente indennità di anzianità quantificabile solo all’atto
dell’estinzione, tant’è che tutta la dottrina innanzi sopra citata conferisce
agli accantonamenti annuali carattere di certezza e quantificazione
insuscettibile di modificazione, se non incrementativa per effetto del
meccanismo di rivalutazione annuale ex lege. A fronte di un panorama
così pacifico, l’opposta tesi sostenuta dall’azienda sarebbe stata quella di
ipotizzare una variabilità in negativo ed in decremento della misura ed entità
gia definita (e contabilizzata e comunicata al lavoratore creditore) degli
accantonamenti annuali. Per analogia – in campo previdenziale – il t.f.r. ha
trovato una emulazione nella “pensione contributiva” (che sta sostituendosi
alla “pensione retributiva” modellata sul criterio della vecchia indennità di
anzianità valorizzante gli anni di retribuzione finali), strutturata per
rispecchiare la “vita retributivo/contributiva” del prestatore di lavoro,
finalizzata a dotare il lavoratore all’atto della quiescenza un trattamento
rispecchiante e valorizzante le varie
misure della contribuzione versata periodicamente dal datore di lavoro,
in veste di sostituto, al Fondo di previdenza.
A conforto della nostra tesi assertiva
(in consonanza con l’opinione della Cassazione) della natura certa ed
immodificabile degli accantonamenti annuali risultanti dall’applicazione della
disciplina pro-tempore vigente – insensibile a quella di cessazione del
rapporto - militano poi decisive considerazioni ed affidamenti rivenienti dalla legislazione
in tema di previdenza complementare, costituite dal D.Lgs. n. 124 del 23 aprile
1993 (con le modifiche introdotte dalla L. n. 335 dell’8 agosto 1995 di riforma
del sistema pensionistico), illuminanti – a fini ermeneutici - di come il legislatore posteriore abbia
inteso la struttura degli accantonamenti annuali e dell’integrale t.f.r. (inequivocamente
come retribuzione a consistenza annuale certa, tramite la sommatoria dei
singoli accantonamenti annuali, ed a sola esigibilità differita nell’ammontare
complessivo a credito semprechè gli uni e l’altro non fuoriescano in precedenza
per obblighi di legge, come vedremo, dalla stessa spettanza del prestatore di
lavoro).
Il legislatore disciplinante i
“Fondi di previdenza complementare” – istituiti anche nel settore
metalmeccanico, con la denominazione di Cometa – ha previsto all’art. 8 (“Finanziamento”)
che per i lavoratori in servizio anteriormente alla data del 28.4.1993 di
entrata in vigore del D.Lgs. n. 124/93 “le
fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari su base contrattuale
collettiva possono prevedere la destinazione al finanziamento anche di una
quota dell’accantonamento annuale al TFR…” (comma 2°); e “per i lavoratori
di prima occupazione, successiva alla data di entrata in vigore del presente
decreto legislativo (28.4.1993, n.d.r.) le fonti istitutive delle forme
pensionistiche complementari su base contrattuale collettiva prevedono la
integrale destinazione ai fondi pensione degli accantonamenti annuali al TFR…”(comma
3°).
E’ pacifico che se gli accantonamenti non fossero dotati, anno
per anno, di consistenza certa ed non modificabile (da una futura disciplina vigente
all’epoca di fine rapporto, suppostamente dotata – secondo l’errata tesi
aziendale – di efficacia retroattiva con effetti riduttivi), il Fondo di
previdenza complementare (Cometa, per il settore metalmeccanico), soggetto
terzo con propria identità , personalità giuridica, bilanci, obblighi di investimento delle risorse, ecc.,
si troverebbe a ricevere degli accantonamenti “virtuali” del TFR, incerti fino
all’epoca di risoluzione del rapporto di lavoro di ciascun lavoratore iscritto
al Fondo, con tutte le intuibili, inevitabili e paradossali conseguenze di tipo
gestionale ed amministrativo. E’ quindi scontato che il legislatore “previdenziale”
posteriore (di 11 anni) a quello della
L. n. 297/82 ha - per ragioni di certezza giuridica, di affidamento del soggetto terzo (il Fondo) – dato per
scontato, con una interpretazione che non si può affatto obliterare, che gli
accantonamenti annuali di TFR hanno una consistenza certa ed immodificabile,
essendo un’assurdità la pretesa di principio datoriale (come sostenuto nell’attuale
controversia dall’azienda soccombente) di dover attendere per
acquisire certezza di ammontare, la
normativa contrattuale vigente all’atto della cessazione del rapporto, per
ridefinire somme determinate di anno in
anno sulla base della disciplina contrattuale vigente ratione temporis,
contestualmente contabilizzate, comunicate al lavoratore e fuoriuscite (in
parte o in tutto) dalla disponibilità dello stesso per confluenza nelle casse
ed a costituzione del patrimonio finanziario di soggetti terzi, quali i Fondi
di previdenza complementare di categoria.
3. A conclusione va detto che,
pertanto, non si possono che
condividere le argomentazioni di supporto della Cassazione per negare alla
convenzione o accordo raggiunto nel ccnl 5.7.1994 (vigente all’epoca di
cessazione del rapporto) idoneità alla “rimodulazione” o “reformatio” (in
peius per l’occasione) dell’entità o quote di accantonamento di t.f.r.
afferenti a periodi antecedenti, regolati da una diversa normativa, nei quali
era assente quella successivamente convenuta.
Giustamente pertanto la Cassazione sostiene il proprio
convincimento di principio affermando che: “Questo meccanismo a ‘maturazione
progressiva’ espressamente voluta dal legislatore per assicurare certezza nella
misura del diritto, postula che le regole per determinare la misura
dell’accantonamento siano quelle vigenti al momento in cui esso è effettuato”.
Ed ancora del tutto condivisibilmente asserisce che: “le questioni del
momento in cui sorge il diritto al t.f.r., se esso sorga al momento della
cessazione del rapporto, ovvero se la cessazione del rapporto sia solo una
condizione di esigibilità, e quella meramente contabile dell’accantonamento,
non rilevano necessariamente ai fini della decisione della presente causa.
Infatti anche ritenendo che il diritto
sorga alla cessazione del rapporto e che l’accantonamento sia virtuale, queste opinioni non comportano che
il calcolo dell’accantonamento vada fatto secondo l’area della retribuzione
individuata dalla contrattazione collettiva del momento della liquidazione e
non debba essere fatto, così come per la misura di essa, da quella vigente al
momento dell’accantonamento”, secondo i ccnl pro-tempore vigenti.
Ne
deriva la corretta e conseguenziale affermazione - da
parte della Cassazione - che
l’interpretazione seguita dal Tribunale di Lecco:
a)
“è in contrasto con
il meccanismo di accumulazione previsto dall’art. 2120 c.c. e, soprattutto, con
la natura di retribuzione differita dell’istituto” del t.f.r.;
b)
“contrasta
inoltre con l’esigenza di certezza dell’entità del trattamento, per le imprese
e per i lavoratori, che costituisce la ratio della norma. Infatti poiché la
contrattazione collettiva potrebbe raddoppiare o dimezzare la retribuzione
utile per il t.f.r., se a tale contrattazione si riconoscesse, come fa il
Tribunale, effetto retroattivo non vi sarebbe alcuna possibilità di prevederne
o contabilizzarne l’ammontare, sarebbero vanificate le descritte finalità della
riforma, diverrebbe rischiosa per le imprese l’anticipazione della indennità ed
inutile l’accertamento giudiziale dell’accantonamento. Questo rilievo esclude
anche che la contrattazione collettiva possa attribuire effetto retroattivo
alla individuazione della retribuzione utile per il t.f.r., in quanto tale
pattuizione sarebbe nulla perché si porrebbe in contrasto con i principi di
norma di legge inderogabile” ed incontrerebbe la caducazione ex art. 1418
cod. civ. Giacché se può ammettersi – come pacifica giurisprudenza ammette – la
modificazione peggiorativa per il futuro da parte di un nuovo contratto
collettivo delle previsioni economico/normative di uno precedente, non può
giuridicamente legittimarsi che la modifica peggiorativa possa estendersi
retroattivamente nel passato per rimodulare “in peius” – come sostenuto
infruttuosamente dall’azienda nella fattispecie - trattamenti
economico-normativi già diversamente disciplinati, attualizzati, maturati ed
acquisiti (o acquisibili successivamente) ovvero destinati a confluire ex
lege o per accordi collettivi istitutivi di Fondi di previdenza complementare,
nella casse e nei bilanci di organismi ed enti terzi rispetto al lavoratore ed
al datore di lavoro, che debbono necessariamente poter fare affidamento, sin
dall’epoca del versamento a loro favore, su contribuzioni (quote o integrale
t.f.r. maturato) certe e definite nel loro ammontare.
La modifica, con effetto retroattivo, è
inammissibile giustappunto in quanto la
lettera e la ratio della legge n. 297/82 (e poi il D.Lgs, n. 124/93
sulla previdenza complementare) presuppongono ed individuano – per le sopra
riferite ragioni di certezza giuridica che ispirano l’intera normativa del t.f.r. - nella disciplina legale o contrattuale vigente ratione temporis la
fonte immodificabile cui far ricorso per la determinazione e la contabilizzazione degli accantonamenti
annuali.
Per le considerazioni innanzi svolte la decisione incontra il nostro pieno e
disinteressato consenso
e va esente da censure di sorta.
Mario Meucci
Roma,
19 luglio 2001
(pubblicata su "Lavoro e previdenza Oggi", n. 8-9/2001, p. 1198)