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"Vengo
solamente per farmi sentire
quale
ineducata figlia del bosco"
La
futura Aglaja Anassilide - tale fu il suo nome "pastorale" in ossequio
alle convenzioni della poesia arcadica all'interno della quale si situerà
la maggioranza delle sue opere - nasce a Biadene, all'epoca una “villa”
(sobborgo) di Treviso il 20 dicembre 1778 da Pietro Rinaldo, giardiniere,
e Lucia (figlia di un fabbro). Tale connubio farà dire ad Angela
di essere in qualche modo il risultato dell'unione di Flora e Vulcano.
Sebbene
io non possa, ovviamente e per carenza di documentazione attendibile, sostenere
che Angela Veronese fosse lesbica, alcuni "tratti di famiglia" nella sua
produzione mi inducono a credere che come minimo (e non è poco,
se pensiamo all’ambiente ed all’epoca in cui scrisse) questa donna abbia
nutrito una stima ed un affetto sconfinati per il proprio sesso.
Preoccupata
che di lei si dicesse il vero, ad un'edizione dei suoi versi anteporrà
Le
notizie della sua vita scritte da lei medesima, che terminano appunto
con un appello alla verità, la quale dovrebbe essere:
Che la giovane poetessa sentisse il bisogno, a neppure trent’anni, di mettersi al riparo dalla diffamazione è un ulteriore segnale della sua posizione trasgressiva nella società in cui visse.
Fra i primi ricordi Angela colloca lo stampatore Bassanini di Venezia, che possedeva una casa di campagna vicina a quella in cui il padre di lei prestava servizio, e che era uso regalare libri alla famiglia. Quando Angela ha tre anni, i Veronese si trasferiscono a S. Bona (altra villa di Treviso), al servizio di Casa Zenobio, i cui signori seguiranno a Venezia tre anni dopo. La figura paterna è vista come mite e generosa, amante della natura e degli animali (Angela ricorda ad esempio che cane e gatta domestici li hanno seguiti in tutti i loro spostamenti; la micia morirà serenamente di vecchiaia in Venezia e, sepolta in giardino, sul suo tumulo verrà piantato un roseto che darà le rose della gatta); più severe, ma ugualmente amabili le figure della madre e della nonna, che appaiono maggiormente preoccupate, però, dall'ardimento e dal precoce ingegno della bambina. Il padre asseconda il desiderio di sapere di Angela, anche perché ella è l'unica figlia sopravvissuta ai molti nati (solo quando la fanciulla conterà tredici anni, una sorellina riuscirà a sopravvivere). A Venezia Angela si ammala di vaiolo; ricorda di esser stata cieca per sei giorni e di aver molto sofferto per la perdita dei capelli che erano di color "castagno oscuro", "folti e inanellati". A
tal proposito, accondiscendente ai pregiudizi del probabile lettore maschio
della sua autobiografia aggiunge: "Conobbi allora d'essere vera femmina,
poiché l'ambizione cominciava a prender possesso delle mie idee"
(ove, per "ambizione", noi useremmo oggi "vanità").
Si
vedrà in seguito, esaminando le sue liriche e le sue azioni, che
in realtà la vanità e l'ambizione di Angela erano più
alte e diversamente orientate...
A
Venezia si tenta di farle frequentare una scuola femminile, dalla quale
viene espulsa per vivacità, senza che questo turbi granché
il parentado.
Seguendo
i conti Zenobio, i Veronese tornano a S. Bona; del periodo Angela ricorda
che suo padre aveva stretto amicizia con due poeti trevigiani, il Marchese
Montanaro Bomben e Giovanni Pozzobon, autore di lunari detti "El Schieson
Trevisan", dal quale la bambina sentirà per la prima volta parlare
di astronomia, appassionandosi all'aspetto "lirico" di tale materia (le
stelle come sogno).
A
nove anni, incoraggiata dal padre, raccoglie la "sfida" del proprio padrone,
il conte Alvise Zenobio, a tirare al bersaglio con la pistola. Ne guadagnerà
uno zecchino e l'avversione per le armi da fuoco, di cui odia soprattutto
il rumore.
Apprende,
all'epoca, delle opere di Shakespeare da uno dei camerieri inglesi del
conte suddetto, opere che infiammano la sua fantasia, riempiendola di regine
e veleni.
All'età di undici
anni impara a scrivere, vincendo l'ostilità materna a tal progetto
(per una fanciulla leggere era commendevole, ma scrivere no...) da un falegname
prima e da un coetaneo, figlio del fattore della villa, poi.
A tale fanciullo chiede
in dono le Opere di Metastasio e ricorda di averlo fatto con tale
ardore da rendere impossibile all'altro un diniego.
nonché un sonetto per il conte Alessandro Pepoli (paragonato ad Apollo su aureo cocchio) che lei vede passare, appunto, in carrozza scoperta sul Terraglio. Angela
briga per far giungere il sonetto al destinatario, rivelando qui la sua
vera ambizione di donna di lettere, e sebbene il sonetto rischi (per incuria
dell'intermediario) di finire ad accendere una pipa, Francesco Bragadin,
nobiluomo presente al tentato scempio, lo previene e consegna i versi al
Pepoli.
Quest'ultimo
risponde in rima ad Angela, che pur ricordando ancora la propria stupefatta
gratitudine di fanciulla per il gesto, non si esime (da donna fatta) dal
fornirci un quadro piuttosto schietto del rimatore, che è sì
poeta sia tragico che comico, cavallerizzo, maestro di scherma ecc., ma
anche "amante di lussi e donne" al punto che quando muore, nel fior degli
anni, viene "compianto (...) principalmente dai suoi creditori".
Successivamente, Angela ha la ventura di incontrare Isabella Teotochi (che stava per sposare un Albrizzi) alla quale dona un fiore e un epigramma in lode della bellezza di lei. Ginevra Canonici Facchini, nel Prospetto biografico delle donne italiane rinomate in letteratura, dal sec. decimoquarto sino ai giorni nostri, edito nel 1824, lodò la "gentilezza d'immagini e sceltezza di stile" della poetessa, auspicando che un mecenate la innalzasse al posto che, secondo Ginevra, ella meritava. Né mancò di sottolineare la presunta umiltà di Angela che "paga di se stessa nulla chiede, e trae gli onorati suoi giorni nella ristrettezza e nella oscurità senza lagnarsi delle ingiurie della fortuna nemica". Eppure,
Aglaja Anassilide tentò invece con tenacia di farsi conoscere ed
apprezzare, scrivendo incessantemente sonetti e composizioni sui fatti
più banali accaduti a coloro i quali i versi erano indirizzati (e
molto spesso si trattava di personaggi "potenti" di cui Angela cercava
l'approvazione ed il favore: curiosamente, quasi tutti questi personaggi
erano donne!).
La
poetessa celebra un "bagno minerale" della tal nobildonna, auspica guarigione
dalle febbri per la tal altra, compone financo sul "gatto d'Angola" che
una terza regge in grembo (e dice di non essere l’unica a desiderare di
prendere il posto del gatto...); versifica lauree, matrimoni, insediamento
del nuovo parroco e così via, tanto che Giuseppe Vedova, nel volume
"Prose e poesie scelte di donne italiane del secolo 19°", edito nel
1837, riporta testualmente un giudizio dell'"Antologia" di Firenze, ove
si nota come la delicatezza delle sue rime "sarebbe più
cara se meno mitologiche fossero le immagini, e più degni della
poesia gli argomenti".
Angela
conobbe anche Ugo Foscolo, presentatole dalla contessa Spineda (il padre
aveva di nuovo cambiato padroni, trovando lavoro nella villa malinconica
- così la poetessa la ricorda - di Breda, ove resteranno dieci anni).
Quest’ultima
sarà legata da grande affetto alla fanciulla, ed Angela la riconoscerà
come propria protettrice e mecenate.
Al
Foscolo la giovane riconosce i tratti del genio, ma non manca di ricordare
che egli le si avvicinò "più che non permetteva la decenza
della vita civile".
Poiché
la contessa Spineda chiama Angela "la mia Saffo giardiniera", Foscolo le
chiede che ne pensi della poetessa di Lesbo, ed Angela risponde citando
la leggenda del suicidio di quest'ultima (che dobbiamo alla fantasia della
commedia attica di Menandro, databile circa settecento anni dopo il periodo
in cui la poetessa visse, ma che godette gran fortuna negli ambienti letterari
poiché, rendendo Saffo soggetta all'amore di un uomo che la respingeva
e per il quale ella finiva per uccidersi, "purgava" questa donna il cui
unico torto era quello di essere stata brava e famosa, dello sfacciato
amore per il proprio sesso. Va qui ricordato che a causa di ciò
la sua opera venne piamente distrutta nei cristianissimi secoli successivi).
Angela
dice ingenuamente al Foscolo che Saffo doveva essere stata ben poco avvenente
per essere respinta da Faone in modo tanto risoluto ed egli reagisce con
veemenza al preconcetto assimilato dalla ragazza, spiegando come bella
ed amabile fosse Saffo in realtà, ma non aggiungendo altro (a una
donna non si danno spiegazioni, a una giovane meno ancora, esse possono
e debbono solo ammirare e, qualora creino, restar molto umili).
Risale
a questo periodo (supponiamo Angela ancora adolescente, ma dopo essersi
puntigliosamente datata sino ai 13 anni, ella non ci dà altre informazioni
cronologiche) la prima "corrispondenza pastorale" in versi, con il dottor
Ghirlanda di Onigo (nell'Arcadia, Angela lo chiama Lisandro). Altri saranno
il giovane Abate Viviani (Dafni), la predetta Teotochi Albrizzi (Eurilla),
Angela Paganelli Fapanno (Fillide).
Il
già citato Vedova, nel presentare l'opera della poetessa, ricorda
oltre alle approvazioni mietute presso uomini d'ingegno e ai premi dei
prìncipi, che i versi furono inseriti nel Parnaso Anacreontico e
musicati da Perrucchini; né manca di sottolineare la generosità
con cui "la buona Aglaja profonde ad ogni persona e ad
ogni cosa le sue lodi con generosità veramente modesta".
Particolarmente
vero è questo quando Aglaja canta le donne celebrandone la bellezza
e l'onore (alle sue edizioni, spesso antepone un detto del Cigno Ferrarese,
ovvero l'Ariosto: "Le donne son venute in eccellenza in ciascun'arte ov'hanno
posto cura") e testimoniando un sincero amore per il proprio sesso;
all'egregia dama Margherita Contessa de Belgrado, ella offre una rosa non
ancora colta, e che rifiuta di farsi spiccare in quanto destinata appunto
"alla più bella", e conclude rivolgendosi al bocciolo che immagina
ormai in seno alla dama:
altrove, si rivolge a Barbara (che ribadisce tale di nome ma non di fatto) la quale, in grazia delle virtù possedute, è fonte di "delizia" per la poetessa e nel chiedere perdono alla citata "Fillide" per il ritardo con cui le spedisce i propri versi, chiede alla bellezza dell'amica, per la quale immagina l'invidia di dee, di trovare in se' ragione di misericordia (Cerca nei tuoi occhi la ragione del mio smarrimento, afferma più o meno il verso finale del sonetto). Smarrito,
purtroppo, è un poemetto in cui Aglaja faceva primeggiare la bellezza
delle donne di Treviso fra le ninfe d'Ausonia.
L'ironia,
di cui pure Angela è ben provvista, non colpisce che uomini: quando,
ad esempio, il poeta Zacchiroli le recita il proprio poema "Giuda all'albero",
la giovane non manca di notare che la fisionomia di lui è ben adatta
alla parte...
Anche
il più famoso dei suoi epigrammi, subito tradotto dagli estimatori
della poetessa in tedesco e in latino, brilla per malizia tutta femminile:
Ovvero: Venere, la donna, è innamorata; si sposa ed ecco l'amore sparire d'incanto...
A
poco più di vent'anni, Angela Veronese comincia ad essere conosciuta,
i suoi versi viaggiano fra una cerchia d'eruditi, né la poetessa
manca d'inviarli a sempre nuovi soggetti che potrebbero accrescere la sua
fama.
Di
propria iniziativa, manda un sonetto alla Principessa Augusta Amalia di
Baviera e poiché esso viene respinto (non è abbastanza "pastorale"),
Angela nel giro di due giorni ne ha pronto un secondo perfettamente "arcadico"
e che viene infine ben accolto.
Cesaratti,
letterato trevigiano, la introduce alla conoscenza dell'abate Barbieri
di cui si chiacchiera come donnaiolo, ma che Aglaja trova semplicemente
"gentile con le donne" e "diffidente con gli uomini".
Altri
amici letterati saranno Paganin Cesa, Francesconi, la Renier-Michel, Muzzarelli
e Carrer, grazie al quale le sue opere vennero stampate in Italia, a Parigi
e a Mosca.
Ha
circa venticinque anni quando conosce un giovane mantovano che "rispetta
la poesia" e piace molto, più che a lei stessa che comunque lo stima,
a suo padre. È quest'ultimo a proporglielo come marito (che Angela
accetterà) con parole del tutto sagge, conoscendo inclinazioni e
carattere della figlia: "diventando sua moglie, tu potrai leggere e
scrivere a tuo piacere".
Il
che, nel mentre i versi sottoriportati coniugano umiltà di fronte
alla grande (Saffo) e riconoscimento del proprio valore, era il fine ultimo
della vita di Angela:
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Note
[1] Edito originariamente su "Babilonia". [2] Da: Rime scelte, Le Monnier, Firenze, 1973 pp. 97-101.
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