Giuseppe Bonghi



Ritmi delle Origini della Letteratura italiana
(Duecento)



Tratti da: Vincenzo De Bartholomaeis, Rime giullaresche e popolari d'Italia, Arnaldo Forni
editore, Sala Bolognese, settembre 1977, ristampa dell'edizione di Bologna, 1926, eseguita per
gentile concessione della Casa Editrice Zanichelli di Bologna. 

La presente Opera può essere riprodotta su qualsiasi tipo di supporto magnetico, ma non su carta
in qualsiasi forma. Per i diritti d'autore rivolgersi a: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
-






Indovinello veronese


Introduzione


Si spingeva avanti i buoi, arava bianchi prati, teneva un bianco versorio, un nero seme
seminava. Ritmo risalente agli anni tra la fine dell'VIII e l'inizio del IX secolo, contenuto nel
codice LXXXIX della Biblioteca Capitolina di Verona; fu scoperto nel 1924 dal paleografo
italiano Luigi Schiapparelli, . L'indovinello, forse opera d'un chierico, che ricalca un tema
diffusamente popolare, il lavoro di aratura e semina del contadino, allude all'azione dello
scrivere: i buoi sono le dita, il prato arato è la pagina, il versorio bianco è la penna d'oca, il
seme nero è l'inchiostro.

È uno dei primi esempi di contaminazione volgare del latino che si stava trasformando
inesorabilmente in una lingua diversa, più agile e vicina all'esigenza quotidiana della
comunicazione popolare. L'anonimo compositore non ha derivato il suo indovinello dalla
tradizione orale, ma ha quasi certamente combinato spunti vari, suggeriti da testi diversi.
Dunque l'Indovinello deve essere interpretato come un'esercitazione letteraria e appunto per
questo è prezioso, perché un maestro di scuola (custode pertanto di una tradizione che per
l'espressione letteraria ammetteva solo il latino) si è abbandonato al piacere di comporre
utilizzando la lingua del volgo, una lingua ancora priva di una qualsiasi disciplina. Questo
componimento dialettale preannuncia emblematicamente la situazione linguistica italiana nei
secoli successivi: una polverizzazione degli idiomi che è stata la fonte di quella stupefacente
varietà dei dialetti che caratterizza la nostra lingua fra tutte le neolatine. (Aldo Budriesi,
Letteratura: forme e modelli, vol. 1: dalle origini al Quattrocento, S.E.I., Torino 1988) 

Testo

Boves se pareba
alba pratalia araba
et albo versorio teneba
et negro semen seminaba.







Alba del X secolo

Introduzione



Contenuta nel codice Reg. 3462 della Biblioteca Vaticana in Roma, aggiunta in uno spazio
bianco. Secondo il De Bartholomeis (op. cit.) questa l'interpretazione: Lasciando
impregiudicata la questione della provenienza, visto che il testo non offre nessun elemento
decisivo a favore della Provenza o della Ladinia, l'interpretazione mia si distacca dalle
altre... Dividendo at e ra', la prima parte del ritornello diviene chiarissima. La lezione pas si
impone per ciò che i vv. sono una successione di trisillabi. Bigil non può essere che vigile o
vigili; per cui l'a precedente dev'essere interiezione. È questo un canto di sveglia, scritto da
scolastici, ma di intonazione marziale. Le parole del ritornello son poste in bocca allo
spiculator o al preco, e contengono l'invito a destarsi. Cf. il famoso canto Modenese: «O tu
qui servas armis ista moenia, Noli dormire, moneo, sed vigila!». Io intendo insomma: «L'alba
appare, si gonfia il mare a' raggi del sole, poiché (ora che) io (scolta) vi passo (nel cammino
di ronda, forse), deh, svegli! ecco chiare le tenebre!». 

Testo

Phebi claro nondum orto iubare Fert aurora lumen terris tenue:
Spigulator pigris clamat: «Surgite!» L’alb’apar, [t]umet mar at ra’sol;
po y pas, a! bigil, mira clar tenebras! En encautos ostium insidie
Torpentesque gliscunt intercipere, Qus suadet preco clamat surgere.
L’alb’apar, [t]umet mar at ra’sol; po y pas, a! bigil, mira clar tenebras!
Ab Arcturo disgregatur Aquilo, Poli suos condunt astra radios,
Orienti tendit Septentrio. L’alb’apar, tumet mar at ra’sol; Po y pas, a! bigil. 







Carta del Montamiata

Introduzione



Versi trovati in una carta del Montamiata risalenti al 1087; Siena Archivio di Stato, Pergamene
della Badia di San Salvatore a Montamiata. Atto di donazione fatta da un tal Micciarello e dalla
moglie sua Gualdrada di tutti i loro beni alla Badia predetta. I versi si leggono dopo la
completio dell'atto e sono della stessa mano del notaio e giudice del sacro Palazzo Ranieri.

Testo

Ista cartula est de Caputcoctu:
ille adiuvet de illo rebottu
qui mal consiliu li mise in corpu.




Cantilena giullaresca o ritmo laurenziano

Introduzione



Risale agli anni 1150-1171 ed è contenuto in un codice della Biblioteca Mediceo-Laurenziana,
santa Croce, XV, IV, Firenze; per questo è detto anche Ritmo laurenziano. È la cantilena di un
giullare toscano, con tratti linguistici vicini a quelli umbri, che con una certa sfrontatezza si
rivolge ad un vescovo non ben identificato, non risparmiandogli, purché gli sia donato un
cavallo, lodi e adulazioni (dicendogli di essere il confidente intimo del Papa, di essere destinato
a diventare Papa a sua volta, di essere infine il più grande signore che sia mai esistito dai tempi
pagani, disceso sulla terra direttamente dal paradiso terrestre 

Testo

Salv’a lo Vescovo senato,
lo mellior c’umque sia nato,
ke da l’ora fue sagrato
tutt’allumina ’l cericato!
Né fisolaco né Cato
non fue sì ringratiato.
El Papa il [ . . ]
per suo drudo plu privato.
Suo gentile vescovato
ben è cresciuto e melliorato.
L’apostolico romano
k [ . . . . . . . . . . ] Laterano
san Benedetto e San Germano
’l destinoe d’esser sovrano
de tutto regno cristiano.
Peroe vene da Lornano:
del Paradis dilitiano.
Ça non fue questo villano:
da c’ el mondo fue pagano
non ci so tal marchisciano.
Se mi dà caval balçano,
monsteroll’ al bon Galgano,
al Vescovo Volterrano
cui bendicente bascio la mano.
Lo Vescovo Grimaldesco
cento cavaler’ a [desco],
d’in un tempo no ll’i[n]rescono,
ançi plaçono et abbeliscono.
Né latino né tedesco
né lombardo né francesco
suo mellior te non vestisco:
tant’ è di bontade fresco!
A llui ne vo [ . . . . ] aresco:
corridor caval pultresco:
li arcador ne vann’a tresco.
Di paura sbagutesco.
Rispos’ e disse latinesco:
«Sten’ et tietti nutiaresco»
Di lui bendicer non finisco
mentr’en questo mondo tresco.



Ritmo bellunese

Introduzione



Ritmo bellunese del 1198 circa. Belluno, Museo Civico, Catalogo De Vescovi di B. (Nell'anno
di Nostro Signore Gesù Cristo 1193, nono anno dell'indizione [l'indizione era un periodo di 15
anni; la prima indizione, decretata da Diocleziano, cominciò nel 313; il 1193 era il 15° anno
della 52a indizione da Diocleziano, ndr], nono giorno del mese di aprile. I valorosi soldati
Bellunesi e Feltrini occuparono con grande forza la fortezza di Mirabello: per otto giorni lo
incendiarono e distrussero tutti i suoi edifici. Ugualmente nello stesso mese conquistarono e
distrussero i luoghi fortificati di Quero e portarono con sé 66 prigionieri tra soldati, fanti e
arcieri e presero una preda ricca di 2000 libbre; altri li uccisero ed altri li ferirono gravemente.
Ugualmente nello stesso anno conquistarono il castello di Lampredo; vi uccisero gli uomini e
portarono con sé 26 prigionieri tra soldati, fanti e arcieri, e tutto il castello incendiarono e
distrussero dalle fondamenta.] testo del ritmo [Inoltre occuparono con la forza la casa di Bance
e la distrussero e di lì portarono con sé 18 ladroni. Successivamente, nell'anno 1196, nell'ottavo
anno dell'indizione, nel sesto giorno prima della fine del mese di giugno, i suddetti soldati
bellunesi e feltrini si recarono presso la piazzaforte di Giumelle: lo conquistarono con grade
violenza in 17 giorni e lo incendiarono e distrussero con tutti isuoi edifici e tornarono a casa con
grande letizia. E quasi tutto questo fu fatto sotto il nobilissimo e valoroso signor gerardo
vescovo bellunese, la cui anima sia posta in Paradiso. Amen.] 

Testo

Anno Domini nostri Iesu Christi millesimo centesimo nonagesimo tertio, Indictione XI, VIIII
intrante mense aprilis. Prudentissimi milites et pedites Bellunenses et Feltrenses Castrum
Mirabelli maxima vi occupeverunt: Illud vero infra octo dies combuxerunt atque in omnibus
edificiis ipsum destruxerunt. Item eodem mense clausas Queri ceperunt et destruxerunt et
sexaginta sex inter milites et pedites atque arceatores secum in vinclis duxerunt et predam
volentem duo millia librarum habuerunt, alios interfecerunt et alios vero graviter
vulnerarunt. Item eo anno castrum Landredi ceperunt; ibi vero homines interfecerunt et XXVI
inter milites et pedites atque arceatores secum in vinculis duxerunt, et totum castrum
conbuxerunt et funditus destruxerunt.

De Castel d’Ard havi li nostri bona part:
i lo zetta tutto intro lo flumo d’Ard:
e sex cavaler de Tarvis li plui fer
con sé duse li nostri cavaler.


Praeterea domum Bance vi occupaverunt et eam destruxerunt et XVIII latrones inde secum
duxerunt. Postea anno 1196, indictione VIII, die VI exeunte mense iunii, dicti milites
Bellunenses et Feltrenses ad castrum Giumellarum iverunt: illud autem magna vi in XVII die
ceperunt et e conbuxerunt, atque cum omnibus edificiis destruxerunt et cum maxima letitia
domibus redierunt. Et hoc totum factum fuit fere sub nobilissimo et prudentissimo d. Gerardo
Bellunensi episcopo, anima cuius sit locata in Paradiso. Amen.





Ritmo di Sant'Alessio


Introduzione


Ritmo marchigiano su Sant'Alessio; Ascoli, Biblioteca Comunale, Codice XXVI, A, 51
(miscellanea), del principio del secolo XIII. 

Testo

Dolce, nova consonanza
facta l’ajo per mastranza;
et ore odite certanza
de qual mo mostre semblanza
per memoria retenanza.
Lu decitore non se cansa;
se•nne avete dubitanza,
mon vo monstra la clara a[manza]
a li dubitanti per privanza,
poi li derisi per usanza.
Tansi in altitudine et finivi,
co [...] dessi et poi complevi.
Hore movo dico d’Efimiano,
de lu santu patriciu Romano,
como foe perfectu cristiano
et de tuttu Roma foi soldanu;
et poi foe riccu et multu potentissimu
de nobile slatta multu sapientissimu.
Magna dignitate avea
et grande onore possedea,
et patriciatu tenia
et in alta sede sedia,
et injustitia [si] ponia,
ja multu se mn’entremetia;
de tutta Roma si facia
ket amava et ket volia
et avea seco .iij. M. batzileri
ke•ttutti eranu soi fideli cavaleri.
Magnu bo[num triu]mph[alem]
coronam habebat principalem.
Ma, ket era grande male,
una menoanza avea cotale:
ket no avea red nettale
quillu homo spiritale;
set onni die [ . . ]
Et avea .iij. mense adhordinate:
ad honor de Deu deTrinitate
facianu grande caritate.
Vissetava infirmitate
et prosperava in paupertate;
comparava ra . . . . te
et judicis necessitate;
orfani per veritate
facianu grande prosperitate;
[a’ vian]nanti tutti dava ospitiu,
et poi lo facia multu gram propitiu.
Tuttu questo adoperava
le [cose] de Deu ordenava.
Issu enn astinentia stava
et onne jurnu dejunava;
ad soi possa [si] pregava,
et espressamente enterrogava
quanno ket filiu Deu li dava;
e la molie visi[tava chiese]
cui nomen vocabantur Anglaes.
Ammordoe se gianu continendo
e lu servitiu de Deu f[acendo],
la lor vita contenendo,
e·ll’unu e·ll’antru donu attendet;
e·ll’unu e·ll’antru [facia]nu questa prece:
purket Deu lo desse alcuna herede.
Questa prece non fal[lia];
deceano tuttavia:
«Sire Deu, tu nce pia,
la nostra prece a·tteve sia.»
Mai tantu lu pregaru pia,
questu clamore ad Deu salia,
e·ll’unu e·ll’altru ket petia
[tosta]mente lu exaudia.
Hor sempre sia glorificatu
quillu ket li l’àve datu!
Poi [lu] fante foe natu,
Alessiu for prenominatu.
Lu patre ne foe letificatu,
co tutta Roma lu parentatu;
et tutta Roma era assai gaudente:
majore letitia ne avea la gente.
E lu patre co la mamma
lauda Deu ka bonum foe lu ’nditiu
ket fece Christu tantu de propitiu.
Poi lu fante fo crescutu,
a la scola foe transutu;
Deu stal’ in atiutu,
quantu vole à provedutu.
Anni .xvij. complutu,
ballamente foe crescutu;
multu è·ssapiu devenutu.
Lu patre, poi ket li fa po . . .
como et quale conoscutu,
lauda Deu ka bonu fò lo enditiu
ket li fece Deu tantu de propitiu.
Multu se fae letu lu patritiu
et altru consiliu ce trova citiu;
lu vasu dell’auro britiu
no lo volze lassare sacrifitiu.
Ma Christu Deu a tuttesore
sì li stai custoditore,
ka non le vai per core amore
d’estu mundu traditore
ad quillu gillu, novo flore.
Pemsavali dare lu patre honore
d’estu mundu traditore;
feceli fermare uxore
ket de genere era ’mperatore
Mo·lla dite e scultate,
laonde Deu sempre laudate.
Ma poe ket tantu non potte stare
ke lu voleva puro exorare,
femina li fece fermare
ket em tutta Roma no avea pare.
Mai, quando la geo ad arrare,
quello vo volio recetare.
Fae sì grande laude fare
cket homo no lo potera estimare.
Doe thalomi fecenu adprestare,
ammerdura su levare.
Oveunqua eranu jullare,
tutti currunu per jocare:
cythari cum timpani et sambuci,
tutti giano cantando ad alta voce.
Lu sponsu e la sponsa foro adunati,
in thalamo for levati:
in templo sancti Boniphati
loco forne portati.
Li sacerdoti forunu adprestati,
adberoli coronati.
Due corone de auro mundo tennu em capu,
ammerdora li cori de sotta li non capu.
Lu core de Alessiu santu
lo non recepia né tantu
de questo honore ke avea tamantu.
Lu patre co la matre et tutta Roma
cogitavanu cket fosse adfrantu.
Ma de quantu vede
sanctu Alesiu multupocu attende:
altru cogitava ket homo non attende.
Et mo que giva cogitando?
De la molge remaritando
et como et quintu la renuntiando
et ad Cristu la sponsando.
Questa bona cogitata
emtro em core li foe nata.
Poe la messa foe cantata,
grande oratione foe data;
sanctu Alesiu l’à sponsata,
em palatiu ne foe portata.
Lu patritiu abbe adunata,
tutta Roma convitata,
e lu cunventu grande factu era;
ma ki be sedde non se passe due era.
Lu cunventu se finao.
Ora de vesperu poi kinao,
e lu sole tramontao,
e la nocte poi scurao.
Lu patriciu se levao
e lu filiu letamente sì clamao,
a la reccla li favellao
et a la molge l’aviao.
Sanctu Alesiu si scultao,
le precepta de lu patre observao;
sacce, mica non morao.
Entro em cammora s’enn·entrao
et po’ l’ussu dereto si ’mserrao.
Solu sanctu Alesiu co la molge resta.
Or la prese ad predicare et non dao resta.
Or la comenza ad predicare,
sapiamente ad favellare:
«Donna, voliote pregare:
una cosa te vollio mostrare,
set te lo plaquesse de fare,
estu meu comandu scultare.
Vuolliot’ estu anellu dare,
estu balzu adcommandare,
estu sudariu ad te lassare.
Pro Deu fàlume deservare.
Emfra me et te Deu ne sia mesu
emfratantu ke·tte sia erkesu.»
O poi ke questu audiu la sponsa çita,
cade em terra et foe stordita:
mae non se adcorgeva quella gita
net emtemdeva de quella vita
là ove Alesiu [volea]la m[enare],
certo, et non sapia commo se fare.
Ma mo, se quella remanea,
ora audite si·cque facea.
Argentu et auru assai tollea,
quomo et quantu ad lue placea;
gesse fora et via tenea
em quillu ke spena avea.
Qui emcontrava et ki videa
umqua non lu reconosia;
et ergo ad Christu Deu placia
estu viaju ket facia.
Mai la molge non sapia
quomo et quintu sola remanea.
Frate, quanta avea la mente desposata,
quano sola resta la sponsata!
Ma mo, set quella remanea,
sanctu Alesiu non figia;
tutta nocte sì foio
et citu ad mare set ne gio:
quantu volze ket peteo
Deu tuttu li complio:
nave li apprestao, ove sallio
et grande pellagu transio:
et Christi li foe guida et bona etniçia,
ke lu condusse em portu de Lauditia.
In Lauditia non demora,
geune em Siria em derectura,
là ove·nn’era bella figura,
de Christu Deu statura,
in una ecclesia per ventura
de Regina Mundi cura:
et era una figura in illo domo
ket non era facta ja per mano de homo.
Em quella estesse civitate
loco afflao sta sanctitate,
cui figura et claritate
foe de Christu veritate.
Adhoraola tre fiate
quanto l’era em voluntate.
Et mo, senjuri, or ascultate
quanta mustra bonitate.
Zo ket adbe em proprietate

tutte dede em caretate:
dispersit pauperibus divitia,
in eternum manet sua iustitia.
Et ipsu santu Alesiu se spolliao
multu ricke guarnimenta,
et vestiuse veramente
em figura d’un pezente.
«Quistu mondu m’è fallente,
refutar lu volio presente.»
De la syrica sua resplendente
non plaitava unquamente.

Era questa una civitate de Syria
là ’ve se spoliò la veste syrica.
Poi ket fó così adubbatu,
de cotale veste armatu,
co li poveri est assemblatu
et pelegrinu est clamatu.
Posqua vai dementicatu
et per lu mundu tapinatu;
ma certe de quantumqua ipsu mendicava,
multu pocu manicava,
tuttu quantu sì lo dava.
Quando giva mendicando,
lu su talentu condonanno,
en grande afflittione stando,
íaci ennanti en sancti entrando,
[guiderd]one de Deu spectando:
et tuttavia se giva orando
et ad Deu se pigitanno,
et sempre gia comunicanno,
sicket certo tantu
servio puro et munnu et bellu senza vitio,
ket multu pl[acque] ad Deu lu so servitiu.





Ritmo lucchese

Introduzione



Ritmo lucchese del 1213; Bologna, Biblioteca del Collegio di Spagna, codice 45 contenente il
De Natura hominis di Burgundione da Pisa.

In nomine Domini, Amen. In M.CC.XIII, existentibus consulibus Rustichello di Pogio et
Albertino Sanfreducci et sociis maioribus, per Crucis triumfum fuit sconfictus Marchio
Guilielmus Sardus cum flore peditum et militum Civitatis Pisane et districtus, et peditum et
militum Pistoriensium, et comitis Guidonis Guerre, et totius comitatus Lunensis et maxime
Massa del Marchese, et quasi omnes nobiles Val d’ere et di Val d’Arno et di Val d’Elsa et di
Val d’Ebola et comitatus Volterre, a civitate Luca et Rosso et Mediolombardo da Castello
Aghinolfi, cum Rosso tantum estantibus nobilibus Gotifredo et Ubaldo Eldissi, Pisanis civibus,
et filius Aldibrandi Bembon, et alio eorum militibus et filium Berlinghieri de Travalda et nobili
nostro confolanerio Uguicionello de Monte Calvori, castellano abatis Sestensis. Que sconficta
fuit i[n] medio januario justa Massam del Marchese uno miliaro, albergariam faciente Luca
al Fregioro. In qua sconficta captus fuit Rugerius comiti Guidonis filius cognatus Marchionis
predicti, comes Gerardus di Pian di Porto. Lanfrancus Lazari de Pistorio, Mussus de Pistorio
et Guittoncinus Sighiboldi, et alii VI de nobilioribus dicti Pistorii; et omnes Luce missi in
captuna. Item V de nobilioribus dicte Masse. Rossas vero et Mezolombardus habuerunt
Graccum de Sala et XII de nobilioribus dictae Masse in eorum captuna. Et ultra L fuerunt alii
qui malo more fuerunt tramanganati. Inter quos filius Gerardini Ghiandonis, qui cum esset a
Marchionis parte, per rolandum ceci fu abatuto et Orlando ebb’el cavallo. Similiter
Guidarellus Barletti fu dal Marchese et [fu] abatuto: Ma si fu tramanganato Guido Franchi che
batté ne la nostra Moneta et or no fu sopra.

[Nel nome del Signore, amen. Nel 1213, mentre erano consoli Rustichello di Pogio e Albertino
Sanfreducci con gli alleati maggiori, per il trionfo della Croce fu sconfitto Marchione Guglielmo
Sardo, col fior fiore dei soldati e dei cavalieri della città pisana e distrutto, e dei soldati e dei
cavalieri pistoiesi, e i compagni di Guidone Guerre, e di tutto il comitato di Luni e soprattutto
Massa del Marchese e quasi tutti i nobili della val D'ere e di Val d'Arno e di Val d'Elsa e di Val
d'Ebola e il comitato di Volterra e la città di Lucca e di Mezzolombardo da Castello Aghinolfi,
con Rosso presenti i nobili Gotifredo e Ubaldo Eldissi, cittadini Pisani, e il figlio di
Aldobrando Bembon, ed altri loro soldati e il figlio di Berlinghieri di Travalda e il nostro
nobile confaloniere Uguicionello de Monte Calvori, castellano dell'abate Sestense. Questa
sconfitta avvenne alla metà del mese di gennaio un miglio lontano da Massa del Marchese,
mentre Luca albergava al Fregioro. In quella sconfitta fu preso prigioniero Rugerio compagno
del figlio di Guidone, cognato del predetto Marchione, il compagno Gerardo di Pian di Porto.
Lanfranco Lazzaro di Pistoia, Musso da Pistoia e Guittoncino Sighiboldi ed altri 6 nobili della
detta Pistoia; e tutti furono portati prigionieri a luce. Anche 5 tra i nobili della detta Massa. Ed
altri 50 furono in malo modo feriti. Tra i quali il figlio di Gerardino Ghiandone, che, facendo
parte della compagnia di Marchione, fu abbattuto ed Orlando si prese il suo cavallo. Allo stesso
modo Guidarello di Barletto fu abbattuto dal Marchese. Ma fu ferito Guido Franchi che battè la
nostra moneta ed ora non è più al suo posto.] 

Testo


Ma come perdetero lor distrieri
così fussero rimasti prescioni
per li nostri cavalieri!
Altressì no fu sopra
Gualterotto Castagnacci
et Ronsinello Pagani;
ma per saramento fur distrecti
et ritornaro dai Christiani:
ma loro arme e lor cavalli
lassaro dai Pagani.
In quello stesse rio segno
fu Orlandin da Sogromigno
che fu Guido et Guidarello.
Pegio non fu lo Garfagnino,
quei che non fu paladino,
filiolo di Guido Garfagnino.
Prese a torto confalone
ke Luca ’l trasse di prescione;
e perciò quel mal portoe.
Mei lo portò Uguicionello,
quei che già no i fu Gainello,
ka Lucca aitò, la sua cittade,
in cui castello ten Christianitade.
Ebbev’ il Vescovo un suo frate
che no diede delle spade;
fece sì come nimico;
di Lucca non fu unque amico;
perciò sempre fu mendico.
Stiano a mente, ben lo dico:
che a Lluca sempre sia schifato
e a Lucca sempre sia odiato;
aver di Lucca non i sia dato;
tolto i sia quel che à pilliato,
ka di Lucca l’à ’nvolato:
tutto fu dello sacrato!
Di lui e li altri sia vendetta!
Di ciò Lucca non s’afretta!
Veggio ch’end’arà disnore,
si no i punisce cum suo honore.
Punisca in prima li contadini
ka metta mano ai cittadini!
Dell’un faccia tal vendetta
l’altro a casa non l’aspetta.
Alli altri affar ogn’on ten [ov]ra.
Ché già Lucca non s’[a]opra?






Ritmo Cassinese

Introduzione



Testimonio di una ricca tradizione culturale e letteraria monastica, questo ritmo, che risale alla
fine del secolo XII, è contenuto nel manoscritto Codice 552, 32, della Biblioteca dell'abbazia di
Montecassino, vera capitale linguistica, culturale ed economica del territorio posto fra Lazio,
Campania e Abruzzo, "una roccaforte, come ha detto il Folena, della cultura occidentale
all'incrocio fra molte correnti latine, greche e longobarde. Si pensava in origine che tutte le
stanze dovessero avere lo stesso numero di versi, e quindi che il testo presentasse numerose
lacune; ma la scoperta del Ritmo di sant'Alessio ha fatto conoscere una forma strofica
giullaresca composta in una serie non fissa di ottonari (o novenari) monorimi, chiusa da una
coppia di endecasillabi. Pertanto oggi si ritiene ragionevolmente che il Ritmo cassinese non
contenga lacune e che il senso sia sia compiuto e scorrevole. Il Ritmo, è opera di un autore
indubbiamente colto, e lo dimostra l'uso di un linguaggio nel quale possiamo mettere in evidenza
la presenza di provenzalismi (langue d'oc) e di latinismi. L'autore, rinchiuso in un convento, nel
quale svolge le sue pratiche ascetiche, si fa interprete della vita, esprimendo quello che sa
secondo le Sacre Scritture, colle quali si può esprimere bene, e si chiede come potrebbe
condurre un uomo una vita regolare, visto che questo mondo è godibile e renderebbe
miscredente ognuno: l'unico rimedio è di tenere bene a mente ciò che è scritto nella Scritture.
Ogni cosa è fatta nel nome di Dio, ogni cibo o bevanda non è di questa terra, ma deve essere del
regno celeste. Dopo un breve prologo, che serviva, secondo le regole retoriche classiche, ad
attirare l'attenzione del lettore (captatio benevolentiae), sono posti in scena due personaggi: uno
che viene dall'Oriente e un altro che viene dall'Occidente si scambiano proprio questo sapere. Il
ritmorappresenta l'incontro e il dialogo dei due personaggi, il Mistico, che viene dall'Oriente e
espone il bene della vita monastica dedicata a Dio, al quale si chiede qualunque cosa serve e
che si trova nelle Scare Scritture, e un Tale, che viene dall'Occidente e rappresenta le
caratteristiche della vita secolare, di quelli che "vivono nel secolo", non vivono cioè in
conventi o monasteri, ma lavorano e mettono al mondo i figli. Ricordiamo a questo proposito
che nel Medioevo possiamo distinguere tre grandi classi sociali: i bellatores (nobili che
combattevano per tutti), gli orantes (preti e monaci che pregavano per tutti), e infine i
laborantes (il popolo che lavorava per tutti, anche per mantenere gli orantes e i bellatores.

Testo

Eo siniuri, s’eo fabello,
lo bostro audire combello:
de questa bita interpello
e ddell’altra bene spello.
Poi k’enn altu m’encastello,
ad altri bia renubello.
Em meb’e[n]cendo flagello.
Et arde la candela, s’è be libera,
et altri mustra bia dellibera.
Et eo, se nce abbengo culpa
jactio,
por vebe luminaria factio.
Tuttabia me nde abbibatio
e ddiconde quello ke sactio:
c’alla Scrittura bene platio.
Ajo nova dicta per fegura,
ke da materia no sse transfegura
e coll’altra bene s’affegura.
La fegura desplanare;
c’apo i lobollo pria mustrare.
Ai, dumque, pentia null’omo fare
questa bita regu[l]are?
Deducer’e deportare
mort’è, non guita, gustare.
Cunqua de questa sia pare?
Ma tantu quistu mundu è gaudebele
ke l’unu e l’altru face
mescredebele!
Ergo, poneteb’a mente
la Scriptura como sente.
Ca là sse mosse d’Oriente
unu magnu vir prudente,
et un altru Occidente.
Fori junt’in albescente;
addemandaruse presente.
Ambo addemandaru de nubelle,
l’unu e ll’altru dicuse nubelle.
Quillu d’Oriente pria
altia l’occlu, sì llu spia,
addemandaulu tuttabia
como era, como gia.
«Frate meu, de quillu mundu bengo,
loco sejo et ibi me combengo.»
Quillu, auditu stu respusu
cuscì bonu ’d amorusu,
dice: «Frate, sedi, josu;
non te paria despectusu;
ca multu foracolejusu
tia fabellare ad usu.
Hodie maiplu non andare,
ca te bollo multu addemandar’
e serbire, se mme dingi
commandare.»
«Boltier’ audire nubelle
de sse toe dulci fabelle:
onde sapientia spelle,
dell’altra bene spelle.
Certe credotello, frate,
ca tutt’è ’m beritate.
Una caosa me dicate
d’essa bostra dignitate:
poi k’en tale destuttu state,
quale bita boi menate?
Que bidande mandicate?
Abete bibande cuscì; amorose
como queste nostre saporose?»
«Ei, parabola dissensata!
Quantu male fui trobata!
Obebelli ài manucata
tia bibanda scellerata?
Obe l’ài assimilata?
Biband’avemo purgata
d’ab evitia preparata:
perfecta binja piantata,
de tuttu tempu fructata.
En qualecumqua causa delectamo
tutt’a quella binja lo trobamo
e ppuru de bedere ni satiamo.»
«Ergo non mandicate?
Non credo ke bene ajate!
Homo ki nimm bebe ni manduca
non sactio comunqua se deduca
nin quale vita se conduca.»
«Dumqua, te mere scoltare:
tie que te bollo mustrare.
Se tu sai judicare
tebe stissu, metto a llaudare.
Credi, non me betare
lo mello, ci tende pare.
Homo ki fame unqua non sente
non è sitiente.
Qued à besonju, tebe saccente,
de mandicare e de bibere? Niente!»
«Poi k’en tanta gloria sedete,
nulla necessu n’abete;
ma quantunqu’a Deu petite
tuttu lo ’m balia tenete;
et en quella forma bui gaudete.
Angeli de celu sete!»
Io, signori, se parlo
eccito il vostro ascolto,
di questa vita duco
e dell'altra ben spero.
Dopo che in alto mi sono rinchiuso
lascio ad altri la vita secolare.
Verso di me uso penitenze.
Arde la candela, ma io son libero,
ad altri mostra la via libera.
E se giaccio in una colpa,
per voi illumino la via.
Tuttavia mi eccito
e dico quello che so:
che trovo nella Scrittura.
Ho nuove parole in allegoria, 
che colla materia non si trasfigura 
e coll'allegoria si può ben
esprimere.
Voglio spiegare l'allegoria,
ma prima la voglio mostrare.
Dunque, potrebbe qualche uomo
fare
questa vita regolare?
Divertirsi e sollazzarsi
è morte, non è gustar la vita.
Che cosa è l'origine di questa vita?
Ma tanto questo mondo è godibile
che l'uno e l'altro rende
miscredente.
Per questo ponetevi in mente
cosa è scritto nella Scrittura.
Si mosse di là, dall'Oriente
un grande uomo prudente,
ed un altro dall'Occidente.
Sono giunti verso l'alba;
si chiesero del presente.
Entrambi chiesero cose nuove
l'uno e l'altro si dicono cose nuove.
«Quello d'Oriente prima
alza l'occhio, lo guarda
e gli chiede tuttavia
come era, come va.
Fratello mio, da quel mondo vengo
lì risiedo e lì voglio ritornare.»
Quello, udita questa risposta,
così ben affettuosa,
dice: «fratello, resta, siedi,
non apparire dispettoso,
che molto sarebbe desiderabile
parlarti familiarmente.
Oggi non camminare più
perché ti voglio chiedre molte cose
e servirti, se mi comandi
qualcosa.»
«Volentieri ascolto cose nuove
se tu ne parli dolcemente,
per cui di sapienza parli,
parla dell'altro bene.»
«Certamente ti credo, fratello,
che tutto è detto con verità:
che mi diciate una cosa 
di questa nostra dignità:
poiché state in questo sollazzo,
quale vita voi menate?
quali cibi mangiate?
Avete bevande così amorose
come queste nostre saporose?»
«O parola insensata!
Quanto male hai creato!
Dove l'hai mangiata
questa vivanda scellerata?
Quando l'hai ingerita?
Noi abbiamouna bevanda pulita, 
preparata bene dall'inizio
abbiamo piantato una vigna
perfetta, 
che in ogni stagione porta frutto.
E qualunque cosa ci serve (e ci
diletta)
in quella vigna la troviamo;
e anche da bere ci saziamo.»
«Dunque, non mangiate?
Non credo che ne riceverete bene!
Uomo che non beve e non mangia
non so come si possa divertire
né quale vita possa fare.»
«Dunque, ti conviene
ascoltarmi,
perché te lo voglio dimostrare.
Se tu sai giudicare,
tu stessi da solo lo loderai.
Credimi, non mi vietare
il meglio, se ti sembra.
Un uomo che fame mai non sente
e non ha sete
ha bisogno, perché tu lo sappia,
di mangiare e di bere? Niente!»
«Poi che in tanta gloria sedete,
e nessuna necessità avete;
ma ogni cosa a Dio chiedete, 
tutto ciò che vale avete;
e in quella forma voi godete.
Angeli del cielo, siete.»



Home Page