Ferdinando
Maurici
La terminologia delle fortificazioni nella Sicilia
normanna e sveva
A stampa con il titolo Il vocabolario delle fortificazioni e dell’insediamento nella Sicilia ‘aperta’ dei normanni: diversità e ambiguità, in “Castra ipsa possunt et debent reparari”. Indagini conoscitive e metodologie di restauro delle strutture castellane normanno-sveve (Atti del Convegno Internazionale di Studio, Castello di Lagopesole, 16-19 ottobre 1997), I, Roma, De Luca, 1998, pp. 25-39 – Distribuito in formato digitale da “Reti Medievali”,il cui sito è http://retimedievali.it
La
Sicilia ‘aperta’ dei normanni: diversità ed ambiguità
Fra
lo sbarco dei normanni del 1061 e la morte di Federico II nel 1250, la Sicilia
compie l’ultimo grande basculamento della sua storia medievale. Quello che
dopo due secoli circa di appartenenza al dar al Islam porterà l’isola
nel mondo cattolico e neolatino, in una parola occidentale. Un cambiamento
epocale, profondissimo, drammatico, iniziatosi e conclusosi nel sangue. Dopo le
violenze della trentennale guerra di conquista, l’esperimento di inserimento
graduale e convivenza tentato dagli Altavilla lascerà spazio, a mano a mano che
l’elemento latino diveniva anche numericamente maggioritario, ad impennate
sanguinose di odio razziale e veri e propri pogrom antisaraceni. L’ultimo,
quello del 1189, aprì una crisi senza ritorno. Alla affermazione di libertà ed
indipendenza assoluta da parte degli ultimi musulmani, Federico II imperatore e
re di Sicilia risponderà con una guerra feroce e totale, fino alla completa exterminacio
dei musulmani dall’isola.
La
storia dell’insediamento, e già soltanto l’analisi del vocabolario legato
all’habitat fortificato, costituisce una traccia importante per seguire le
vicende dell’isola lungo questi due secoli di trasformazioni radicali. La reductio
ad unum ottenuta da Federico II a sangre y fuego completa
violentemente anche una profonda ridistribuzione dell’insediamento,
rarefacendolo, eliminando in alcune aree quasi del tutto l’abitato sparso di
tradizione islamica, concentrando la popolazione, ora unificata dalla religione
cattolica e dalla lingua romanza, in centri spesso murati e forniti di castello.
La fine delle varietà delle forme di insediamento tipiche della Sicilia
‘aperta’ degli Altavilla, comporta anche la semplificazione del vocabolario
dell’abitato e quindi delle fortificazioni. Da una situazione iniziale di
trilinguismo si va progressivamente verso il monolinguismo o il binomio latino
documentario e letterario-volgare d’uso. All’abbandono quasi improvviso di
decine e decine di insediamenti, aperti o murati, indifesi o ferratamente
muniti, alla sparizione quasi completa della lingua araba e all’atrofizzazione
del greco, fa riscontro un larghissimo fenomeno di fossilizzazione archeologica
e toponomastica.
La
gran parte dei casali e degli insediamenti fortificati musulmani spopolati negli
anni 1189-1246 non verrà mai più riabitata. Decine di siti rimasti deserti per
più di otto secoli vengono riscoperti in questi anni da una archeologia
medievale che in Sicilia sembra purtroppo condannata all’atrofia ed al nanismo
tanto dal mondo accademico che dalla burocrazia regionale. Decine e decine di
toponimi arabi in qalca
(fortezza, cittadella), in qasr (castello), in rahl e manzil (casale)
sopravvivono, non più compresi e progressivamente storpiati, volgarizzati,
stravolti. Racaljohannis, il ‘casale di Giovanni’, diviene
Regiovanni; Manzil Iusuf, il ‘casale di Giuseppe’, approda ad una
forma attuale Mezzoiuso, con una pseudo-etimologia popolare che vorrebbe il nome
del paese legato alla sua posizione topografica (Menziusu, ‘mezzo-sotto’).
Qalcat abu-Tawr (la ‘rocca di
Abu Tawr’, probabilmente un eroe musulmano della conquista nel IX secolo)
diviene Caltavuturo; dove all’incompreso Calta-
si affianca la clamorosa storpiatura del nome (o meglio della kunya)
in ‘vuturo’, avvoltoio. Mentre, passando ai territori di popolamento
greco, sulla montagna messinese, i molti choria di tradizione bizantina,
pronunciati appunto alla bizantina, divengono le incomprensibili Furìe della
toponomastica (ad es. Castanea delle Furìe).
Il
trilinguismo e la necessità di tradurre continuamente da una lingua all’altra
concetti e realtà materiali diversi, complicano ulteriormente il vocabolario
delle fortificazioni della Sicilia normanna. Si insiste, ‘ulteriormente’,
perché, fra XI e XII secolo una certa ambiguità terminologica è comune, anche
se in forme e modi diversi, a tutta la cristianità occidentale.
Nelle
tre lingue della cancelleria normanna e degli scrittori di XI e XII secolo, non
diversamente da ciò che succede nella parte continentale del regnum
magistralmente studiata da Licinio[1],
“gli stessi termini usati solitamente in relazione a strutture e insediamenti
fortificati presentano significati spesso disomogenei e non sempre decifrabili
con sicurezza”.
Tanto
nel latino dei cronisti che in quello della cancelleria, castrum e castellum
vengono impiegati spesso alternativamente per indicare due realtà molto diverse
quali, da un lato, il fortilizio, il ‘castello’ e, dall’altro, l’abitato
chiuso, difeso da mura. In Malaterra, ad esempio, i fortilizi eretti da Ruggero
a Mazara e Paternò sono detti rispettivamente castellum e
castrum, con uso dei due vocaboli per indicare realtà probabilmente
simili[2].
Non di rado, però, è possibile in Malaterra individuare la differenza di
significato: castrum è normalmente il centro fortificato; castellum
il fortilizio[3].
Con molta chiarezza il cronista designa come urbes i centri abitati
demograficamente, amministrativamente ed urbanisticamente eminenti: Palermo,
Messina, Catania, Trapani, Siracusa, Noto, Agrigento.
La
documentazione cancelleresca adotterà senz’altro civitas o
urbs per le sedi vescovili ma presenterà una certa ambiguità nell’uso
di castrum e castellum. Tanto per l’uno che per l’altro
termine sono ben documentate le due accezioni: alternativamente castellum
e castum indicano tanto il fortilizio che l’abitato munito[4].
Meno
incerto è l’uso di due cultismi come municipium e oppidum. Il
primo, adoperato per Iato e Calatrasi nel 1176[5],
sottolinea probabilmente il carattere di capoluogo amministrativo di distretto
per i due abitati. Oppidum, tanto nei documenti che nella prosa del c.d.
Ugo Falcando, è praticamente sempre il centro abitato fortificato, inferiore
alla civitas o all’urbs per dignità ma sempre ben distinguibile
dal castellum, il fortilizio, nell’accezione univoca e chiarissima del
termine così come adoperato dallo stesso scrittore. Nel caso di Butera, ad
esempio, Falcando distingue fra tutto il centro, l’oppidum Buterie, ed
il castello residenza del signore locale, il castellum Buterie[6].
Con molta precisione, lo stesso Falcando adopera il cultismo arx per la
Rocca di Cefalù, qualcosa più di un semplice castello ma qualcosa meno di una
vera e propria cittadella[7].
Meno
preciso è il latino di Romualdo Salernitano per il quale, anche nello stesso
passo, castrum può indicare tanto un rilevante centro urbano difeso come
Lentini o Modica, quanto un fortilizio urbano come il castello di Siracusa[8].
Stessa ambiguità anche con castellum, usato tanto per il fortilizio che
per l’abitato munito: in quest’ultimo caso con la possibile sfumatura di
minore grandezza e rilevanza rispetto all’abitato munito definito castrum[9].
Una
notevole ambiguità presenta anche il latino villa che può designare
abitati certamente o probabilmente fortificati e comunque di notevole rilevanza
(Mistretta, Sperlinga, Vicari, Caltanissetta, S.Filippo, Termini)[10]
ed essere usato nel contempo da Falcando come esatto sinonimo di casale,
abitato rurale aperto ed indifeso[11].
Nelle
fonti latine d’età normanna, palatium è di uso assai infrequente:
Falcando lo usa per entrambi i castelli palermitani[12],
il primo dei quali in particolare (l’attuale Palazzo dei Normanni, per secoli
- semplicemente - il Palazzo Reale) già nel XII secolo ad una facies certamente
fortificata, univa come caratteristica principale quella di lussuoso e
multiforme complesso residenziale e dirigenziale di tipo orientale.
Un
discorso a parte merita il termine terra che a partire dal XIV secolo e
fino al XVIII definirà in Sicilia l’abitato giuridicamente eminente, con
individualità fiscale (al contrario dei casali superstiti, considerati assieme
al centro da cui dipendono), quasi sempre murato, in possesso di propri organi
amministrativi. Questo significato non appare ancora l’unico nella
documentazione normanna. Al contrario, terra, fra XI e XII secolo, tanto
in Sicilia che nel Mezzogiorno continentale[13]
designa ancora prevalentemente il territorio dipendente da un abitato, sul quale
si restringerà progressivamente la definizione.
Sono
assenti dalla documentazione siciliana tanto donjon (donio, domignonus,
donjo) che motta, mentre rocca, o meglio rocche, è
d’uso frequente solo nella traduzione francese di Amato.
Ambiguità
simile a quella riscontrabile nelle fonti latine presentano i termini kastron
e kastellion nella documentazione greca; mentre nella documentazione
araba, ed in primo luogo in Idrisi, una duplicità ed interscambiabilità di
significati in qualche modo paragonabile è quella presentata dai termini hisn
e qalca. Quest’ultimo
(plur. qila), ben attestato già dalla toponomastica, designa
normalmente, tanto in ambito andaluso[14]
che magribino e quindi siciliano, una fortezza o una vera e propria città di
sito particolarmente inaccessibile. L’accento è posto più sulle
caratteristiche topografiche del luogo che sull’esistenza di strutture murarie
ed altre difese artificiali. Non è senza importanza notare come manchi
sostanzialmente un concetto e quindi un termine simile in latino e nelle lingue
romanze medievali, dal momento che anche il termine apparentemente più vicino a
qalca, rocca, può indicare a
volte anche fortilizi quasi privi di difese naturali e non posti in siti di
difficile accesso. E si è già detto, inoltre, quanto raro sia l’impiego di
‘rocca’ nelle fonti siciliane.
Al
contrario, hisn (plur. husun) indica, secondo V.
Dalliere-Benelhodj, qualsiasi opera architettonica atta a difendere una porzione
di terrritorio, tanto una semplice cinta a difesa di una sorgente che una città
intera, sottolineandone l’aspetto murato[15].
In quest’accezione, il termine è adoperato frequentemente da Idrisi,
designando anche località dal toponimo in qalca
come Caltanissetta, Caltagirone, Calatafimi, Calatubo, Caltavuturo[16].
Oltre che una certa interscambiabilità della terminologia, occorre ipotizzare
che nella nascita e nell’affermarsi di questi toponimi siano prevalse le
caratteristiche topografiche delle qila, immediatamente evidenti; mentre
in un’opera ufficiale come la Geografia di Idrisi si adoperò il lessico più
corretto e rispondente alle realtà urbanistiche ed architettoniche descritte.
Verso
l’unità di lingua e cultura: il vocabolario dell’insediamento e delle
fortificazioni nella Sicilia sveva
Anche
nella documentazione della Sicilia sveva è utilizzato un vocabolario
dell’insediamento e delle fortificazioni non privo di alcune ambiguità. In
linea generale, però, si accentua quella tendenza alla semplificazione e
chiarificazione già evidente nella tarda età normanna, ad esempio nella prosa
di Falcando. A questo processo dette naturalmente un contributo importantissimo
in primo luogo l’affermazione del latino come lingua ufficiale e quasi unica
della cancelleria e la marginalizzazione, poi in pratica la sparizione,
dell’arabo e del greco.
Occorre
però anche tenere nel giusto conto il fatto che già dalla fine del XII secolo
si assiste in Europa (in Francia ed in Inghilterra in primo luogo) ad una
progressiva e crescente razionalizzazione dell’architettura difensiva. Ad
elementi e complessi dalle funzioni e dalle tipologie sempre più precise e
specifiche corrisponderà progressivamente una terminologia che sempre meno
spazio concede all’incertezza ed all’ambiguità.
I
nuovi, grandi castelli svevi in costruzione verso il 1239 ad Augusta, Catania e
Siracusa, così come quelli che si ampliavano o restauravano a Milazzo,
Caltagirone, Lentini, sono definiti senz’altro castra. Nel caso di
Caltagirone si nomina però, nello stesso documento cancelleresco, anche un castellum
novum[17].
Sembra quindi continuare, ancora verso la metà del XIII secolo e già
all’interno di uno stesso documento, quell’ambiguità lessicale che già
nella Sicilia normanna aveva caratterizzato l’uso spesso interscambiabile di castrum
e castellum.
Gli
esempi di questa frequente e duplice identità di
significato fra le due parole sono numerosi anche nella Sicilia sveva.
Entrambi, in primo luogo, possono designare il fortilizio. Nel 1224
la fortezza della Rocca di Cefalù è definita castellum[18].
La stessa, nel 1238, è designata indifferentemente col termine castrum e
con il cultismo arx[19]
già attestato, come si è visto, in età normanna proprio per la stessa località.
Castellum è adoperato nel 1208 per indicare il fortilizio esistente nel
centro munito, nella terra di Naso[20].
I due termini terra et castellum descrivono nel 1203 anche la realtà di
Caccamo[21],
abitato probabilmente fortificato e munito di castello. Militello, invece, nel
1249 è detto casale et castrum[22],
abitato aperto e fortilizio. Certamente al solo fortilizio e non all’insieme
abitato-castello è relativa la denominazione castellum attribuita a
Guastanella da una fonte databile circa al 1240[23].
Il documento parla infatti della prigionia di un vescovo di Agrigento,
incarcerato dai ribelli saraceni nel castellum di Guastanella.
Quest’ultimo è in parte costruito in muratura ed in parte costituito da
ambienti scavati nella roccia, uno dei quali potrebbe essere stato proprio la
prigione dello sventurato presule.
Tanto
castrum che castellum, però, come in epoca normanna, possono
ancora indicare l’abitato munito o comunque eminente per rango giuridico. I castella
di Jato e Calatrasi ricordati da un documento del 1203[24]
sono due grandi qila, due popolosi centri muniti e certamente non
soltanto due fortilizi. Anche nel caso di Pollina, ricordata in un documento del
1232, il termine castellum[25]
designa più probabilmente l’intero abitato munito, per quanto di modestissime
dimensioni, che non un semplice fortilizio. Lo stesso può ritenersi per i castella
di Gratteri ed Isnello menzionati nel 1250[26].
Per l’uso di castrum nella stessa accezione di centro munito si può
ricordare la menzione nel 1199 del tenimentum castri Pericii (Prizzi)[27],
quella del castrum Ficarie (Ficarra) nel 1210[28],
il castrum Calatabianum cum casalibus - evidentemente tutto il
centro munito di Calatabiano - attestato nel 1213[29]
ed ancora il castrum Montis regalis ricordato nel 1236[30]:
qui il termine dovrebbe designare l’insieme fortificato della cattedrale, del
convento benedettino e del palazzo reale normanno con tutti gli annessi.
Insieme
a questa persistente ambiguità, non è però certo senza importanza il fatto
che la legislazione di Federico impieghi costantemente o preferenzialmente castra
per designare i fortilizi[31].
In definitiva, è relativamente valido anche per la Sicilia sveva quanto
riscontrato per Puglia e Basilicata da Licinio: il termine castrum
“indica sempre più frequentemente il castello, la fortezza militare, e sempre
meno, come in passato, il complesso delle opere difensive di un dato
insediamento, il borgo fortificato”
[32].
Castra, come plurale tantum, continua naturalmente anche a
designare gli accampamenti. In castris ante Iatum o in obsidione Iati
sono datati alcuni documenti di Federico II fra 1222 e 1224[33].
La
generalizzazione dell’uso documentario e letterario di castrum nel
senso esclusivo di fortilizio apparirà comunque completa nel XIV, quando sparirà
praticamente del tutto l’antico rivale latino castellum. La forma
volgare (castellu-castiddu), invece, si affermerà totalmente
nell’uso comune e nella toponomastica, mentre castrum lascerà traccia
solo in pochissimi toponimi come Castronuovo e Castroreale, definito nel ‘300
semplicemente lu Castru. Ma si noti come il castrum maris de gulfo,
attestato per secoli nelle fonti, in volgare sarà sempre chiamato senza alcuna
esitazione - e fino alla canonizzazione del toponimo - Castellamare del Golfo.
Il
significato di Palatium, che in epoca normanna poteva designare realtà
edilizie scarsamente fortificate ed insieme un fortilizio potente come il
castello a mare di Palermo[34],
sembra restringersi sempre più al primo caso. Palacium, in primo luogo,
designa sempre la reggia di Palermo[35]
e quindi la residenza reale di Messina[36],
il palazzo “bianco come una colomba” che nel 1184 aveva incantato Ibn Jubayr[37].
Palatium è definito nel 1240 anche un complesso edilizio quod est in
Chindia, una località non lontano da Siracusa[38].
Il sito però non è identificabile con assoluta certezza e nessuna ipotesi si
può formulare circa l’aspetto del complesso[39].
In
una delle lettere ‘lodigiane’ del 1239, però, gli edifici reali di Siracusa
e Lentini vengono detti da Federico palatia nostra[40].
Potrebbe trattarsi delle strutture poco prima definite castra, con un uso
ambiguo ed interscambiabile dei due termini. Ma, vista la presenza in età
federiciana – tanto a Lentini che a Siracusa - di due ‘castelli’ per
ciascuna città, potrebbe anche ipotizzarsi che la definizione palatia
riguardasse in questo caso i due complessi dalle minori caratteristiche
militari. E cioè, rispettivamente, il castellum novum di Lentini (del
tutto scomparso) ed il castello Maniace a Siracusa.
Per
quest’ultimo, è chiarissimo il carattere di complesso residenziale e di
altissima rappresentanza, sottolineata ipoteticamente anche da possibili
significati simbolici. Accenno nuovamente a ciò che ho già proposto altrove
con maggiore dettaglio[41].
Il pianterreno del Maniace (probabilmente l’unico piano realizzato, certamente
l’unico giunto fino a noi) consta di un gigantesco salone unico diviso in
venticinque campate da colonne, semicolonne e quarti di colonna che sostenevano
venticinque volte a crociera costolonate su pianta quadrata. Lo straordinario
ambiente, di chiarissima ascendenza cistercense, potrebbe esser stato ispirato
direttamente da Federico II che volle una realizzazione architettonica per la domus
fantastica cantata da Pietro da Eboli nei versi 1545-1570 del suo Liber
ad honorem Augusti ed in particolare per il teatrum e l’aula a
colonne in quibus imperii tota quiesciit humus. A questi versi si
riferisce la nota e misteriosa miniatura di c. 142r che mostra il teatrum come
uno spazio composto da un’area centrale ed altri ventiquattro settori (arcate
o volte) ognuno dei quali designato con il nome di una provincia o un regno
dell’impero. Quest’immagine simbolica si sarebbe quindi concretizzata nel
salone a venticinque campate del castel Maniace.
Tornando,
più prosaicamente, al binomio castrum-castellum, una certa ambiguità
rimane in ogni caso e, d’altra parte, era stata notata già da Haseloff[42].
Ha quindi almeno in parte ragione Bellafiore quando afferma che questo uso a
volte incerto dei due termini “dipende dalla mancanza di una coscienza
categoriale nella cultura del tempo, ma dipende anche dalla compresenza nel
medesimo manufatto di funzioni appartenenti alle diverse categorie[43].
L’ambiguità sembrerebbe però esclusa, a mio parere, in un celebre passo del
cronista Salimbene de Adam che afferma esser stata precisa volontà di Federico
II avere in ogni città palacium aut castrum[44].
Dove l’accento dovrebbe esser posto più sulla diversità che sull’eventuale
interscambiabilità delle definizioni e delle realtà sottese.
In
definitiva, se in linea di massima palatium designa sempre più
chiaramente una realtà differente da quella del castrum[45],
continua senza dubbio una certa utilizzazione ambigua dei due termini. Solo nel
XIV secolo, il termine palatium uscirà definitivamente dall’ambiguità,
designando quasi soltanto il sacrum regium palatium, la reggia
palermitana.
Anche
domus, nella documentazione sveva, è utilizzato con diverse possibili
sfumature di significato. Può indicare gli ambienti di un castello[46],
altre volte assai genericamente definiti edificia[47],
ma anche un edificio o, al plurale, un complesso di edifici dalle
caratteristiche estremamente variabili. Si va dal palazzo probabilmente elegante
e ben difeso, a complessi dal predominante aspetto ‘civile’, a locali
dall’uso decisamente prosaico[48].
A caratteristiche palaziali e sostanzialmente ‘civili’ delle domus
sembrerebbe fare riferimento, ad esempio, la sommaria descrizione del complesso
del Càntera presso Augusta. Qui l’elemento più qualificante è nel 1240 una sala
cum miniano[49],
che sembrerebbe essere un piccolo avancorpo come quello esistente nel castello
normanno di Caronia[50].
Ma gli unici resti del complesso del Càntara attualmente esistenti sono quelli
di una torre con spessori murari superiori al metro e mezzo che quindi, se
fossero databili con certezza ad età sveva, attesterebbero una tipologia
fortificata per le domus ricordate dal documento[51].
Anche al casale Silvestro le domus dell’imperatore appaiono difese nel
1240 da una torre[52]
che conferisce al complesso un certo aspetto militare e fortificato.
Si
può ipotizzare che rientrassero nella categoria multiforme delle domus e
dei palatia anche i complessi di Bellumvidere e Bellumreparum,
da localizzarsi in Sicilia occidetale, presso l’odierno comune di Campobello
di Mazara. L’area, infatti, era boscosa, ricca d’acqua, semispopolata e di
nessuna importanza militare attorno al 1240. Non è possibile ipotizzare per
essi altra destinazione che quella di “castelli forestali”
[53].
Entrambi, però, sono definiti castra nell’unica fonte d’età sveva
che li ricorda[54]
e vengono compresi nel novero dei castra exempta che comprende
normalmente castelli di grande importanza militare: non bisogna quindi mai
perdere di vista il dato di fatto di una certa ambiguità di base del lessico.
Rocca,
molto diffuso nel Mezzogiorno continentale[55],
continua ad essere praticamente assente nella Sicilia sveva. Nella
documentazione compare invece, generalmente al plurale, il vocabolo munitiones.
Così sono dette, ad esempio, le roccaforti dei musulmani ribelli[56],
con riferimento generico alla loro natura di centri fortificati[57].
Lo stesso termine, nei Gesta regis Henrici[58],
è utilizzato più specificatamente per designare le mura o comunque le
fortificazioni di Messina. Nelle Assise e nelle Costituzioni di Federico, poi, munitiones
sembra poter indicare tanto opere fortificate in genere che singoli
complessi edilizi muniti[59].
Ancora
i Gesta regis Henrici impiegano anche il semplice murum per le
mura urbane[60]
ed il termine, al plurale, indica normalmente nella documentazione della
cancelleria federiciana anche le mura dei castelli[61].
In senso più generale muri è presente anche nelle fonti normative[62].
Una delle lettere ‘lodigiane’ del 1239 ricorda i muris luto confectis del
castello di Lentini ed il loro rafforzamento ottenuto con incisis cantonibus[63].
Le mura sembrerebbero realizzate originariamente in fango, con una tecnica che
potrebbe rimandare al tapial (in siciliano tabbia) di
tradizione araba. Non si può però del tutto escludere che l’espressione
luto confectis indichi principalmente il legante utilizzato. In entrambi i
casi venne ritenuto opportuno un rinforzo con conci squadrati.
Come
già per l’epoca normanna[64],
la documentazione siciliana d’età sveva è estremamente povera per quanto
riguarda singole parti od elementi delle fortificazioni. Oltre il già ricordato
murum, oltre fossatum e turris ritorna anche barbacanum
-us, più volte presente nella documentazione d’età sveva con
riferimento alle mura di Palermo e Messina[65].
Il termine è già utilizzato in età normanna e il suo significato continua ad
essere non perfettamente chiaro[66].
Barbacanum indica forse il fossato o più probabilmente il contrafforte
anteriore della cinta urbana.
Nel
1240 è menzionato il ballium, il cortile del castello nuovo di
Messina[67].
Il termine, di certa origine normanna, è già attestato per il castello di
Vicari nel 1194[68].
Se la parola rimane la stessa, cambia però completamente rispetto all’epoca
normanna il significato e la natura stessa dello spazio designato. Nell’XI-XII
secolo il ballium è la basse court, il cortile cintato che
precede il nucleo residenziale e più fortificato del castello, secondo il
modello cristallizzatosi in Sicilia ad Erice. Qui le cosiddette ‘torri del
Balio’, in realtà una cinta turrita racchiudente un ampio cortile o ballium,
precedono il nucleo del castello e ne rappresentano la difesa avanzata[69].
Anche
nell’isola, a partire dal XIII secolo, parallelamente alla generale evoluzione
del castello europeo “d’un ordre lache à un ordre serré”
[70],
il ballium diviene invece elemento interno, spazio centrale aperto dei
castelli siciliani. La voce dialettale bagghiu, ed il corrispondente
italianizzato ‘baglio’, designerà quindi fino a questo secolo interi
complessi edilizi caratterizzati dalla presenza di una corte chiusa da un
recinto murario, perlopiù a pianta quadrata o quadrangolare.
Fossatum
è impiegato dai Gesta regis Henrici[71]
e nella legislazione federiciana in cui compare anche turres[72].
Il termine indica ovviamente tanto la torre di un castello o di una cinta urbana
che quella isolata o posta a guardia di un casale o di un complesso di domus.
Singoli ambienti o edifici all’interno dei castra possono essere
definiti, come si già è visto, domus o edificia. Le lettere
‘lodigiane’ nominano anche le volte et officina di cui era necessario
assicurare la copertura onde prevenire danni e crolli dovuti alla pioggia: quod
si alique volte essent in eis aut aliqua officina que nisi cohoperiretur
possent destrui vel deteriorari, eas quatenus commode substineri poterit,
commode volumus cohoperiri et aptari, ne propter pluviam destruantur[73].
La menzione di ‘volte’ da coprire può risultare piuttosto singolare. La
spiegazione più semplice è che l’espressione indichi tutta l’operazione
del voltare un ambiente: ma non si può del tutto escludere che si trattasse di
volte già terminate ma il cui estradosso risultava scoperto e non ancora
impermeabilizzato. Per le officine non si possono proporre spiegazioni
certe: potrebbe trattarsi semplicemente di un termine generico per designare
locali dei castelli in costruzione ma anche di ambienti temporaneamente adibiti
ad opifici funzionali alla vita del cantiere e che quindi occorreva completare
al più presto.
In
definitiva, se dovessimo contare solo sulle fonti scritte, la nostra idea dei
castelli siciliani d’età normanna e sveva sarebbe assolutamente evanescente.
Né molto di più potrebbero aggiungere le fonti iconografiche. Il Carmen ad
honorem Augusti è pieno di raffigurazioni in genere piuttosto
convenzionali di castelli e fortificazioni e si riferisce in ogni caso ad una facies
castrale pienamente normanna, precedente di circa un quarantennio alla grande
riforma architettonica federiciana. Anche nelle miniature raffiguranti castelli
siciliani - celebre quella con i castra di Caltabellotta, Vicari,
Caltavuturo e Calatameth[74]
- è data particolare enfasi alla torre centrale. Il donjon era d’altra
parte l’elemento più importante e caratterizzante dei
castelli, anche in Sicilia, ancora alla fine del XII secolo. Alla multiforme
tipologia dei ‘castelli forestali’, “edifici turriti e di tipo
signorile”
[75],
sembrano rimandare invece le miniature del De arte venandi cum avibus[76].
L’abitato
sparso ed intercalare di tradizione musulmano-normanna continua ad essere
definito casale dalle fonti d’età sveva, mentre nel 1257 ed in
pochi altri casi è attestato uno sporadico habitatus[77].
Nella documentazione sveva compare anche il termine habitacio che sembra
essere relativo più ad un centro abitato, di dimensioni anche variabili, che ad
un singolo edificio. Habitacio è infatti definita nel 1240 Augusta[78],
ma lo stesso termine è adoperato in una lettera del 1239 per Burgimill-Menfi[79].
Habitacio designa quindi un abitato decisamente modesto, assimilabile ad
un casale (Burgimill), ed un insediamento ragguardevole come Augusta,
generalmente definito terra.
Quest’ultimo
è il termine che, sempre più spesso e sempre meno ambiguamente[80],
designa in epoca sveva l’abitato giuridicamente eminente e spesso fortificato.
Alla terra di Naso guardata da un castellum[81]
si è già fatto riferimento. Aidone è detta terra nel 1210[82]
anche se ancora senza la certezza assoluta che il termine indichi esclusivamente
l’abitato e non il suo territorio. Nessun dubbio può sollevarsi invece
rispetto alla menzione della terra Randacii (Randazzo) e del suo territorium[83]
o, nel 1237, della terra et territorium di Corleone[84].
Fra età federiciana ed epoca angioina si completa quindi il percorso semantico
che vede restringersi il significato di terra dall’accezione iniziale
di distretto amministrativo con centro abitato esclusivamente a quest’ultimo.
Da ora in poi terra indicherà per secoli in Sicilia gli abitati dotati
di propri organismi amministrativi e generalmente murati, mentre civitas verrà
riservato alle sedi vescovili. Il territorio dipendente da un centro
abitato verrà designato, ad esempio nel 1249, come territorium et districtus[85].
Più tardi, quando castrum indicherà il fortilizio senza residue
ambiguità, terra et castrum sarà la definizione corrente e canonica per
i centri muniti e guardati da un castello. La Sicilia degli ultimi due secoli
del medioevo e del XVI secolo, con eccezione del Val Demone, conoscerà in
pratica solo questo tipo di abitato, la terra cum castro.
L’evoluzione
o - se si vuole - l’involuzione semantica del termine terra può
assumersi come paradigmatica dei cambiamenti che l’insediamento siciliano
conosce, o meglio subisce, fra 1061 e 1250. Il significato originario - porzione
di territorio con centro abitato eminente, sede di potere, e casali dipendenti
sparsi per le campagne - si restringe a quello basso-medievale e
moderno di borgo o cittadina murata, unico centro demico isolato in una campagna
altrimenti deserta.
I
borghi difesi e muniti, abitati da ‘borgesi’ latini di condizione personale
libera, militanti fra XI e XII secolo in spirito di crociata ed affamati di
terre di cui disporre in piena libertà, hanno fagocitato il territorio
circostante, eliminando i casali ed i loro abitanti, i villani adscripticii,
legati alla terra e diversi per razza, lingua, religione, casta. La sede dei
vincitori occidentali domina totalmente la campagna da dove i vinti sono stati
fisicamente eliminati o deportati, ne fa una sua dipendenza, la sottomette
interamente. La trasforma in latifondo cerealicolo e pastorale eliminando
progressivamente, insieme alle forme diverse di insediamento, anche quelle
differenziate di colture.
In
ultimo, il borgo latino sottrae alla campagna ridotta a feudo anche il nome e
diviene per secoli la terra. Si suggellerà così la vittoria definitiva
del ‘burgisato’ sui villani musulmani. E sarà, dopo l’esperimento
a termine tentato dagli Altavilla, il trionfo della nuova Sicilia
‘chiusa’ che sta per prendere il suo posto definitivo alla periferia
meridionale d’Europa, sulla Siqilliya ‘aperta’ della Gheniza.
[1] R.Licinio, Castelli medievali. Puglia e Basilicata: dai Normanni a Federico II e Carlo d’Angiò, Bari 1994, p, 117.
[2] G. Malaterra, De Rebus Gestis Rogerii Calabriae et Siciliae Comitis et Guiscardi Ducis fratris eius, a c. di E.Pontieri, Rerum Italicarum Scriptores, V, Roma 1928, III, I, p. 56. Cfr. inoltre F.Maurici, Castelli medievali in Sicilia. Dai bizantini ai normanni, Palermo 1992, p. 97.
[3] Ivi, p. 93.
[4] Ivi, pp. 124-125.
[5] C.A.Garufi, Catalogo illustrato del Tabulario di S.Maria la Nuova di Monreale, Palermo 1902, p. 12 doc. 16. Cfr. F.Maurici, Castelli medievali, p. 126.
[6] U.Falcando, La Historia o Liber de regno Sicilie, a c. di G.B.Siragusa, Roma 1897, p. 20.
[7] Falcando, p. 155. Cfr. inoltre Maurici, Castelli medievali, p. 128.
[8] Romualdi Guarna episcopi Salernitani, Chronicon, a c. di C.A.Garufi (Rerum Italicarum Scriptores, VII), Città di Castello 1935, p. 258.
[9] F.Maurici, Castelli medievali, p. 128.
[10] Per Mistretta cfr. Pirri, Sicilia sacra, Palermo 1733, II, p. 1043 (dipl. del 1176); per Sperlinga, R.Starrabba, I diplomi della cattedrale di Messina raccolti da A.Amico, Palermo 1888, p. 10 doc. VII (dipl. del 1133); per S.Filippo, Pirri, II, p. 934 (dipl. del 1172); per Caltanissetta, L.T.White jr., Latin Monasticism in Norman Sicily, Cambridge Mass. 1938; trad. it., Il monachesimo latino nella Sicilia normanna, Catania 1984 1984, p. 425, doc. XXXI (dipl. del 1170-1176); per Vicari, C.A.Garufi, I documenti inediti dell’epoca normanna in Sicilia, Palermo 1899, p. 127, doc. LV (dipl. del 1171); per Termini, ivi, p. 418, doc. XXIX del 1174. Su tutto cfr. inoltre, F.Maurici, Castelli medievali, p. 126.
[11] Villas (optimas) quae Siculi casalia vocant: Falcando, p. 112.
[12] Falcando, p. 177.
[13] Per la Sicilia F.Maurici, Castelli medievali, p. 126; per la parte continentale del regnum cfr. E.Cuozzo, “Quei maledetti normanni”. Cavalieri e organizzazione militare nel Mezzogiorno normanno, Napoli 1989, p. 127.
[14]
Cfr. V.Dalliere-Benelhadj, Le «chateau» en el-Andalus: un probleme de
terminologie, in Habitats fortifiés et organisation de l’espace en
Méditerranée médiévale. Actes de la Table Ronde tenue à
Lyon de 4 et 5 mai 1982, a c. di A.Bazzana e P.Guichard, Lyon 1983, p.
64.
[15] Ivi, p. 63.
[16] Idrisi in M.Amari, Biblioteca arabo sicula, trad. italiana, 2 voll., Torino 1880-81; testo arabo, 2a ed. a c. di U.Rizzitano, 2 voll., Palermo 1988, I, p. 54 (Calathamet); p. 56 (Calatafimi e Calatubo); p. 58 (Caltanissetta); p. 60 (Caltagirone); p. 64 (Caltavuturo. Cfr. inoltre F.Maurici, Castelli medievali, p. 130.
[17] J.L.A. Huillard-Bréholles, Historia Diplomatica Friderici Secundi, 6 voll., Paris 1852-1861, rist. anast. Torino 1963, V, p. 509.
[18] Ivi, II, p. 919.
[19] Ivi, V, p. 251.
[20] E.Winkelmann, Acta Imperii Inedita, I, Innsbruck 1880, p. 90 doc. 103.
[21]
C.A. Garufi, Per la storia dei monasteri di Sicilia nel tempo normanno,
in “Archivio Storico per la Sicilia”, VI, 1940, pp. 95-96, doc. XIII.
[22]
Huillard-Bréholles, VI, p. 697.
[23] P.Collura, Le più antiche carte dell’archivio capitolare di Agrigento, Palermo 1961, p. 309.
[24] Huillard-Bréholles,, I, pp. 102-103.
[25] Pirri, II, p. 806.
[26] A.Mongitore, Bullae, privilegia et instrumenta Panormitanae Metropolitanae Ecclesiae Siciliae Primariae, Palermo 1734, p. 107.
[27]
Winkelmann, p. 73 doc. 78.
[28] Huillard-Bréholles,, I, p. 169.
[29] Huillard-Bréholles,, I, p. 254.
[30]
Ivi, IV, p. 909.
[31] Si vedano gli estratti delle fonti normative citate in Licinio, Castelli, pp. 312-314.
[32] Licinio, Castelli, p. 128.
[33]
Huillard-Bréholles,, II, p. 255, p. 258, p. 265; Winkelmann, p. 233 doc.
257, p. 243 doc. 267.
[34] Cfr. Maurici, Castelli, p. 127.
[35] Huillard-Bréholles, V, p. 570.
[36] Huillard-Bréholles, V, p. 863 (1240 mar. 29, Foggia).
[37] Ibn Jubayr, in Amari, Biblioteca, I, p. 147.
[38] Huillard-Bréholles, V, pp. 869.
[39] G.Agnello, L’architetttura sveva in Sicilia, Roma 1935, p. 102 propose di identificare il palatium della Chindia con l’attuale complesso della Targia. Sthamer (citato da A.Haseloff, Die Bauten der Hohenstaufen in Unteritalien, I, Leipzig 1920; trad it., Architettura sveva nell’Italia meridionale, Bari 1992, p. 22 nota 18) propose di correggere la lettura del toponimo in Cernindia o Cerninda. In quest’ultimo caso si potrebbe avanzare un’ipotesi di localizzazione di Chindia nei pressi dell’attuale comune di Floridia, chiamato in siciliano Ciuriddi, un toponimo non diversissimo da Cernindia o Cerninda. A Floridia però, che io sappia, con esistono resti databili ad epoca sveva.
[40] Huillard-Bréholles, V, p. 511.
[41] Cfr. Maurici, La Sicilia di Federico II. Città, castelli e casali, Palermo 1995, pp. 94-95.
[42] Haseloff, Architettura, p. 17: “le definizioni di «castrum», «palatium» e «domus» che in seguito, sotto gli Angiò, vengono differenziate più nettamente, sono ancora fluttuanti e incerte e si sovrappongono”.
[43] G.Bellafiore, Architettura dell’età sveva in Sicilia, Palermo 1993, p. 67.
[44] Salimbene de Adam, Cronica, a c. di G.Scalia, 2 voll., Bari 1966, II, p. 647.
[45] Su questo ha recentemente posto l’accento anche G.M.Agnello, La Sicilia e Augusta in età sveva, in G.M.Agnello, L.Trigilia, La spada e l’altare. Architettura militare e religiosa ad Augusta dall’età sveva al Barocco, Siracusa 1994, p. 30.
[46] E’ il caso, già ricordato, delle domus dei castelli di Trapani, Marsala, Mazara e Sciacca; Huillard-Bréholles, V, p. 506 (1239, nov. 17, Lodi).
[47] Ad esempio Huillard-Bréholles, V, p. 510.
[48] Ad esempio Huillard-Bréholles, V, p. 869 (1240, marzo). Nel documento sono ricordate le domus dell’imperatore esistenti nel casale Silvestro e quelle di Cantara presso Augusta. Nello stesso documento però ma domus designa anche una costruzione da realizzarsi ad opus pullorum.
[49] Ibid.
[50] Cfr. F.Maurici, Castelli medievali, p. 168. Questo significato della parola minianum era già chiaro a G.Agnello, L’architettura sveva, p. 218.
[51] Ivi, pp. 211-218. G.Bellafiore (Architettura d’età sveva, p. 73) data però “indubitabilmente” al XV secolo i resti della torre.
[52]
Huillard-Bréholles, V, p. 868, 1240 mar. 31.
[53] Cfr. Licinio, Castelli, p. 146.
[54]
Huillard-Bréholles,, V, p. 414 (1239, ott. 6); inoltre cfr. E.Sthamer,
Die Verwaltung der Kastelle im Konigreich Sizilien unter Kaiser Friedrich
II. und Karl I. von Anjou, Leipzig 1914, p. 58.
[55] Cfr. Licinio, Castelli, p. 127.
[56] Huillard-Bréholles, I, p. 895.
[57]
Diverso è quindi il senso di munitio nella Sicilia federiciana
rispetto a quello che la stessa parola ha nello stesso periodo nelle
Fiandre. Qui, secondo J.F.Verbruggen,
munitio designa in genere una piccola fortificazione (Note sur les
sens des mots castrum, castellum et quelques autres expressions qui désignent
des fortifications, in “Revue belge de philologie et d’histoire”,
1950, pp. 152-153).
[58]
Gesta Regis Henrici secundi
(The Chronicle of the reigns of Henry II. and Richard I. A.D.
1169-1192), a c. di W.Stubbs, Rerum Britannicarum Medii Aevi, Scriptores,
49, II, London 1867, p. 129.
[59] Si vedano gli estratti delle fonti normative riportati in appendice da Licinio, Castelli, pp. 312-314.
[60] Ibid.
[61] Huillard-Bréholles, V, p. 510.
[62] Cfr. Licinio, Castelli, pp. 312-314.
[63] Huillard-Bréholles, V, p. 509.
[64] Cfr. Maurici, Castelli medievali, pp. 160-164.
[65] Huillard-Bréholles, V, p. 820 (1240 mar., Viterbo). Per altri casi cfr. G.Caracausi, Arabismi medievali in Sicilia, Palermo 1983, p. 121.
[66] Cfr. F.Maurici, Castelli medievali, p. 162.
[67] Huillard-Bréholles, V, p. 722 (1240, feb. 6).
[68] Cfr. F.Maurici, Castelli medievali, p. 163.
[69] Cfr. F.Maurici, Erice: problemi storici e topografico-archeologici fra l’età bizantina ed il Vespro, in Giornate Internazionali di studi sull’area elima (Gibellina, 19-22 sett. 1991), Atti, Gibellina-Pisa 1992, II, p. 453.
[70] G.Fournier, Le chateau dans la France médiévale. Essai de sociologie monumentale, Paris 1978, p. 94.
[71] Gesta regis Henrici, p. 138. Riccardo Cuor di Leone nel novembre 1190 fa scavare un fossatum magnum latum et profundum quasi certamente nella zona del monastero del Salvatore, confuso dal cronista con Matagrifone.
[72] Cfr. Licinio, Castelli, pp. 312-314.
[73] Huillard-Bréholles, V, p. 510. Nuova menzione di volte et officina, ivi, p. 511.
[74] Petrus de Ebulo, Liber ad honorem Augusti sive de rebus siculis. Eine Bilderchronik der Stauferzeit aus der Burgerbibliotek Bern, ed. Th.Kolzer e M.Stahli, Sigmaringen 1994, miniatura a c. 134r, p. 191.
[75] Licinio, Castelli, p. 129.
[76] Friderici Secundi Imperatoris, De arte venandi cum avibus, utilizzato nell’ed. facsimile a c. di C.A.Willemsen, Graz 1969.
[77] Si tratta di Castronovo, cfr. G.Battaglia, I diplomi inediti relativi all’ordinamento della proprietà fondiaria in Sicilia, Palermo 1896, p. 75.
[78] Huillard-Bréholles, V, p. 773.
[79] Huillard-Bréholles, V, p. 505.
[80] Cfr. F.Maurici, Castelli medievali, p. 126.
[81]
Winkelmann, I, p. 90 doc. 103.
[82] Huillard-Bréholles, I, p. 178.
[83] Ivi, p. 893.
[84] Ivi, V, p. 129.