JUBILÆUM

Fonte:
ANNO SANTO
Giubileo del 1950
,
Milano, 1950, vol. I, pagg. 31-35.

 

DANTE E L'ANNO SANTO
di Luigi Pietrobono

 

Nella Commedia il giubileo del 1300, espressamente, è ricordato una volta sola, e in un luogo dove meno ci si sarebbe aspettato: nel canto XVIII dell’Inferno, a proposito dei ruffiani e dei seduttori di donne, condannati a correre giù nel fondo della prima bolgia, sotto le frustate dei diavoli, in due schiere distinte, gli uni da destra a sinistra, gli altri da sinistra a destra. Al vederli il poeta torna con la fantasia alla doppia fila che i pellegrini facevano passando su per il ponte Sant’Angelo, e continua dicendo che quei miserabili andavano così,

come i Roman per l’esercito molto
l’anno del giubileo, su per lo ponte
l'anno a passar la gente modo colto

che da l’un lato tutti hanno la fronte
verso ‘l castello e vanno a Santo Pietro,
da l’altra sponda vanno verso il monte.

verso cioè quello che ancora si chiama Monte Giordano.

Un altro passo che, pur non rammentandola direttamente, ci riconduce all’universale "perdonanza" largita da papa Bonifazio VIII, s’incontra al II del Purgatorio.

Tra le anime scese da poco dalla barchetta dell’angelo della buona morte, il quale dalla foce del Tevere attraverso il Mediterraneo e l’Atlantico le mena rapidamente alla spiaggia della santa montagna, una ce n’è, quella del musicista Casella, che fu amico di Dante ed era morto già parecchi mesi innanzi. Si riconoscono, meravigliati del loro incontro in quell’ora e in quel luogo, e si fanno le accoglienze più affettuose. Poi ciascuno naturalmente vuol sapere dell’altro, e il poeta:

"Come mai — domanda — sei arrivato tanto tardi?"
"A dire il vero — risponde il bravo cantore — cagione dell’indugio sono stato io. Preso, come sai, da una grande passione per la mia arte, sempre mi son mosso lento al vero bene; tanto che continuando in questa mala abitudine, solo ore mi son presentato all’angelo per essere accolto nella barca, ed egli senza difficoltà, come usa da tre mesi, mi ha ricevuto".

E da tre mesi appunto era stato aperto l’Anno Santo; il quale, dunque, anche per Dante, esercita la sue efficacia nel mondo di là e affretta la purgazione delle anime. Prima l’angelo toglieva nel suo "vasello snelletto e leggero" chi gli pareva e quando gli pareva; ma durante il giubileo riceve indistintamente le anime via via che gli si presentano.

Oltre questi, nel "poema sacro" altri accenni al giubileo non pare ci siano. A più di qualcuno nondimeno, trattando di quell’avvenimento, è parso conveniente, a fin di dimostrarne l’immensa risonanza che ebbe, accennare al capitolo XL della Vita Nuova, dove il poeta, con l’animo ancora angosciato dalla coscienza della sua infedeltà a Beatrice morta, parla dei sentimenti provati all’aspetto pensoso dei pellegrini che andavano "per vedere quella imagine benedetta la quale Iesu Christo lasciò a noi per esemplo de la sue bellissima figura", e che nell’anno giubilare due volte la settimana si esponeva all’adorazione dei fedeli. Ma poiché quel libro fu sottoposto a una larga revisione e la Veronica si mostra ogni anno, non possiamo sapere con certezza se quella pagina c’era già, quando circa il 1292 lo compose la prima volta, o sia state aggiunta assai dopo il 1300, allorché l’autore lo rimaneggiò perché servisse d introduzione alla Commedia. A mio avviso molto più verosimile è questa seconda ipotesi. Comunque il rifar presente quel capitolo dell’"amoroso libello" serve a darci un segno della simpatia con cui Dante si fermava a far le sue riflessioni su quei volti stanchi e pur animati da una cara speranza. Col tempo vedrà che tutta la vita è un pellegrinaggio, e dopo la morte di Clemente V il guasco, scrivendo ai cardinali adunati in conclave lo dirà esplicitamente nella sua esortazione alla concordia: "pro Sponsa Christi, pro sede Sponsæ quæ Roma est, pro Italia nostra, et, ut plenius dicam, pro tota civitate peregrinante in terris". E per avventura riassunto in questa immagine il concetto a cui era pervenuto intorno alla vita e al destino degli uomini.

Se il giubileo fu istituito per appagare il bisogno che, arrivati a un certo punto del cammino proviamo tutti, di riguardar indietro nel passato, riandar gli errori e le deviazioni, ossia, fuor di metafora, le colpe commesse, a fin di liberarsene e procedere più spediti e con nuova lena verve la meta, al mondo non c’è voce che con maggior ardore e potenza della Commedia ci sproni all’adempimento di tal dovere.

Sotto questo riguardo, con le debite distinzioni, è lecito affermare che i due, nemici nel campo politico irreconciliabili, Bonifazio e Dante, l’uno, con l’atto forse più solenne del suo pontificato promovendo nei cristiani il desiderio di purificarsi e innovarsi, l’altro, concependo il suo poema qual itinerario della mente verve il suo ultimo fine, si son trovati pienamente concordi. Ritengo perciò che fra le maniere diverse con cui s’è cercato di definire lo spirito poetico dantesco, nessuna risponda più intimamente al vero di quella che lo fa consistere nel bisogno, sempre vivo e sempre urgente, di rinnovarsi e ascendere più alto.

A me pare che il poeta lo dice da sé nel cielo di Marte, quando immagina che da tutti i lumi beati, ond’è costellata la croce in cui di quando in quando lampeggia Cristo, venga a’ suoi orecchi un inno di alta lode che lo rapisce, ma nel quale riesce a cogliere due parole soltanto: "Risurgi e vinci!". Sono le stesse che lo dominano, e rimormorano quasi di continuo in quella immense sinfonia che è il "poema sacro", e gli danno il suo tono.

Tornando il più possibile indietro a leggere nel libro della sua memoria, egli trova "una rubrica" la quale dice: "Incipit vita nova". Chi mai gli ha stampato nell’anima quel titolo, e in inchiostro rosso, perché spiccasse meglio tra le confuse e sbiadite reminiscenze della sue fanciullezza? Il lettore, partendo dal preconcetto che quel piccolo libro sia tutto sogni, in genere non ci fa caso: vede in quell’annunzio una delle tante ingenue fantasie di cui è intessuto il racconto del suo amore per Beatrice, e tira innanzi, senza neppur lontanamente sospettare che in quella sentenza, scritta per maggior solennità in latino, in un’età in cui Dante del latino avrà ignorato perfino l’esistenza, potrebbe celarsi la legge che doveva presiedere alla sue vita. Accade così che, leggendo, poco si badi che la materia, di cui tratta "l’amoroso libello", è nuova, nuovo lo stile, nuove le rime, nuova la intelligenza che le ispira e novissimo con tante altre cose il fine del suo amore. Nel "libello amoroso" si è limitato a descrivere come cominciasse la sua vita novella; in seguito canterà con le parole del maestro: "Secol si rinova". Perciò chi per Vita Nova intende vita giovanile, afferma cosa vera solo in parte; poiché la narrazione comincia dai nove anni e dei quarantadue capitoli dei quali si compone, soltanto gli ultimi dieci contengono cose avvenute dopo l’entrata della giovinezza, dopo cioè i venticinque, quando quel "novo miracolo e gentile" della sua donna era partito da questo secolo.

Circa tre anni appresso Dante s’innamorò a buono di una "donna gentile giovane e bella molto", la quale da principio sembrò corrispondere all’ardore della sue passione; per cui egli la cantò a lungo in parecchie delle sue rime, dando sfogo ai sentimenti diversi che gli suscitava nel cuore la vista mutevole degli occhi di lei, che ora lo riempivano di speranza, ora lo esaltavano e talvolta lo avvilivano. Quando pensò di scegliere fra questi componimenti quattordici canzoni e accompagnarle di un ampio commento, per mostrare che nell’amore alla "donna gentile" egli aveva figurato quello, quasi violento, nutrito per la filosofia, e pose mano al Convivio, anche allora si compiacque di tentar vie nuove.

Fino a lui i dotti nel trattare della loro scienza si erano serviti del latino. Con un ardimento che gli veniva dalla profonda conoscenza e dall’amore della lingua volgare, Dante ne trattò nella sue lingua materna; e nell’esporre le ragioni di tal ardimento, di mano in mano si accalora così nell’enumerazione de’ suoi pregi, che esce nella famosa esclamazione: "Questo (la lingua volgare) sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato (il latino) tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce". Deve illustrare l’amore per una "nuova donna", per un "nuovo pensiero", e riflettendo che non si convenga, se non promettendo "di dir nuove e grandissime cose" in una forma non mai prima adoperata, crea il primo notevole saggio di prosa scientifica in italiano.

È difficile stabilire in quali anni sia stato composto il De Vulgari Eloquentia. Per ragioni, che qui non è il luogo di discutere, ritengo si debba collocare a una discreta distanza dal trattato filosofico. Comunque, una cosa è certa: che quando si accinse a parlare della nostra poesia d’arte era guidato e sorretto dalla stessa idea. E lo fa sentire fin dalla prima battuta. Comincia: "Poiché nessuno prima di me ha trattato dell’eloquenza volgare", che pure è a tutti necessaria, ebbene... ne tratterà lui, servendosi del proprio ingegno e della propria dottrina. Era qualcosa di nuovo e di non tentato — novum aliquid atque intentatum — e non esita a lanciarsi nell’aringo. Non è quindi maraviglia se, dopo aver passati in rassegna i dialetti della penisola. andando alla ricerca del volgare illustre, con cui si espongono gli argomenti più alti, in stile tragico, conchiude che esso in qualibet redolet civitate, nec cubat in ulla: vale a dire che effettivamente non coincide con nessuno degli idiomi particolari, e l’artista se lo deve creare da sé.

Quanto di originale si contenga nel Monarchia lo sanno, o credono di saperlo, anche coloro che non l’hanno letto; ma per una ragione o per un’altra han sentito discorrere di quella che, se così piace, possiamo seguitar a chiamare la sua utopia, ma in realtà altro non è che la ricerca appassionata del modo di appagare l’aspirazione più viva e universale del genere umano. La forma sillogistica del ragionamento non vale a reprimere i palpiti generosi della sua anima, assetata di giustizia e di pace. Quest’uomo dal cipiglio duro e severo che siamo abituati a rappresentarci fremente di sdegni e di odii, è tormentato invece come pochi dalla coscienza dei mali che affliggono l’umanità e non si stanca mai di cercarvi rimedio. Crede di averlo trovato ne’ due reggimenti, della Chiesa e dell’Impero, dati da Dio agli uomini, e nella convinzione di esser penetrato al fondo del consiglio eterno in ciò che riguarda il governo della società, se ne fa banditore. "Alla stessa maniera che i padri han lavorato per noi e ci hanno trasmessa lo loro eredità, così noi dobbiamo lavorare per i posteri. Ma poiché a nulla gioverebbe dimostrare da capo un teorema di Euclide, o ricercare, dopo Aristotile, in che stia la nostra felicità, o ridire, dopo Cicerone, i pregi della vecchiezza, io— scrive Dante — tratterò della Monarchia, argomento utilissimo, del quale nessuno si è mai occupato".

"Nessun tuo passo caggia", si fa esortare da Virgilio intanto che, anelante, sale su per l’erta più aura dell’antipurgatorio. E neppure fa un passo indietro o si piglia un po’ di respiro, ma seguita ad arrampicarsi verso il balzo indicatogli dal maestro e oltre:

Sì mi spronaron le parole sue,
ch’i’ mi sforzai carpando appresso lui,
tanto che il cinghio sotto i pie’ mi fue.

(IV, 49)

L’opera in cui naturalmente questo suo bisogno di scoprir nuovi veri e pellegrinar per nuovi mondi ha assunto la forma più alta è la Divina Commedia. A persuadercene direi quasi sufficiente il rivedere con la fantasia i punti estremi, il principio e la fine del suo viaggio: "dall’infima lacuna de l’universo" all’empireo, dal "tristo buco", sopra il quale pontano tutte le altre rocce infernali, su cui gravita cioè tutto il male, al cielo "che solo amore e luce ha per confine", dalla vera morte alla vera vita. Ma per assaporare l’ebbrezza del trionfatore, quante lotte da sostenere, quanti passi, a primo aspetto invalicabili, da superare, e quanti dolori, quanto studio e quante rinunzie! Scendendo giù per i cerchi oscuri del baratro, andando incontro a Lucifero, sembra si allontani dalla meta; e le si avvicina via via che s’inabissa.

Una voce gli risuona dentro di continuo dicendo che la vita è un viaggio senza riposo verso un regno’ che la ragione apprende in confuso e si rivela al lume di quella Fede, che gli scintilla nella mente, come stella nel cielo lontano; ed egli s’avvia. Ma prima, come ad invocarne l’aiuto, torna con tutta l’anima al pensiero di Beatrice e si leva a ricercarla "oltre la spera che più larga gira", nell’empireo, dove "lo peregrino spirito la mira", seduta nel suo gran seggio di gloria, onorata e festeggiata dagli angeli e dai santi. Segno più chiaro che egli gode ancora della grazia di lei non poteva averlo; e dunque può farsi animo ed entrare "per lo cammino alto e silvestro". Ma scendendo giù "nel mondo defunto" è giusto non si senta pellegrino del mistero. Va per una selva che convien lasciarsi dietro le spalle, se vuol tornare "a la smarrita strada". La coscienza del fine verace del suo andare risorgerà non appena avrà ripreso il suo "cammin santo".

Sulla spiaggia del Purgatorio la schiera delle anime, con le quali da poco era approdato Casella, s’indirizza ai poeti, perché le insegnino la via "di gire al monte"; e Virgilio:

Voi credete
forse che siamo esperti d’esto loco;
ma noi siam peregrin come voi siete

(II, 61)

L’idea di andar in cerca di un luogo sacro risorge spontanea. Cala la sera e sentendosi invadere dalla malinconia che ci mette in cuore il finire del giorno, l’immagine del pellegrino che in quell’ora prova più pungente il desiderio degli amici a cui ha detto addio, si riaffaccia, salutata con grande dolcezza, alla fantasia di questo pensoso visitatore dei mondi ultraterreni.

L’ascensione alla vetta della montagna più alta del globo dura tre giorni; il quarto, ai primi albori del mattino, Dante si desta, pronto a varcare la soglia del Paradiso terrestre, del luogo cioè "eletto a l’umana natura per suo nido". Sicché il suo in fondo è un ritorno alla nostra dolce terra; ed ecco che l’idea del pellegrinaggio, affiorata ai piedi del Purgatorio, rivive:

E già per li splendori antelucani,
che tanto a’ pellegrin surgon più grati,
quanto, tornando, albergan men lontani,

le tenebre fuggian da tutti lati
e’l sonno mio con esse…

(XXVII, 109)

Il desiderio d’esser su, all’ultimo gradino dell’ultima scala del monte "ove l’umano spirito si purga", gli mette le penne ai piedi; ma a Virgilio succede come guida Beatrice che gli dà l’ala a un volo ben più vertiginoso.

Che anche qui, disponendosi alla sua più ardua ascesa, ci si ripresenti in figura di pellegrino spero non sorprenda nessuno. Dante ha posto uno studio speciale a ordir le fila del poema in modo che le parti si rispondano fra loro; è uno dei segreti della sua arte.

Stando ancora nel Paradiso terrestre — egli racconta— vidi la mia donna fissar nel sole i suoi occhi d’aquila, e, spinto dall’esempio di lei, ve li fissai io pure. Mi comportai alla stessa guisa di un raggio di luce che, cadendo sopra uno specchio, si riflette e risale alla sorgente da cui è scaturito, "pur come pellegrin che tornar vuole". Similmente, quando, presso al termine ultimo della sua visione, si sarà messo sotto i piedi non solo la terra, ma tutti e nove i cieli, volendo darci un saggio dello stupore che l’opprime nel punto che dal "giallo della rosa sempiterna" gli è concesso contemplare la corte celeste quanto è grande, il termine del paragone lo cerca nei pellegrini, i quali, movendo dalle selve del settentrione vengono a Roma e nel mirare la maestà dei templi e dei palazzi rimangono stupefatti. Non contento, rassomiglia se stesso a un pellegrino:

E quasi pellegrin che si ricrea
nel tempio del suo voto riguardando,
e spera già ridir com’ello stea

su per la viva luce passeggiando,
menava io li occhi per li gradi,
mo su, mo giù e mo recirculando.

(XXXI, 43)

La passione di vedere, rendersi conto d’ogni cosa e levarsi sempre più alto lo accompagna dovunque, sì che pochi quanto lui avrebbero diritto di credere dettata per sé la bella sentenza di Sant’Agostino: "L’uomo, così piccola parte della creazione, brama dir le tue lodi, o Dio. Tu gliene stillasti nel petto il gusto, perché ci hai fatti per Te; e il nostro cuore non ha pace fino a che non riposa in Te".

Ma, raccostando l’opera di Dante alla perdonanza bandita da papa Bonifazio, non ho inteso insinuare che si possa scoprir fra loro qualche rapporto, nel senso che l’idea della Commedia possa aver preso lo spunto dal giubileo; bensì dire che la natura aveva plasmato così il poeta che ardesse sempre del desiderio d’innovarsi e ascendere: la natura e la Fede cristiana fermamente professata. Movendo dallo spirito animatore di questa, che tra l’altro esorta a essere perfetti come è perfetto il Padre celeste, i due fieri avversari s’incontrarono, e ciascuno, nel modo che gli era proprio, insegnò agli uomini che durante il nostro pellegrinaggio è umano cadere o sviarsi ma più umano risorgere e andare continuamente dov’è più luce, più bontà, più vita.

Roma, 14 febbraio 1949.
Luigi Pietrobono

 


E-mail
jubilaeum@europart.it

 

 

Home Page