Versione per lettura scorrevole: sono state solo riordinate le parole all’interno delle frasi. Lo stile dell’epoca infatti prevede periodi lunghissimi con una costruzione piena di digressioni e soprattutto con il verbo principale in fondo. Sono state inoltre attualizzate alcune parole e forme verbali.

Esempio:
    Divenuti gli due amanti, nella guisa che udito avete, segretamente marito e moglie, più notti del loro amore felicemente goderono, aspettando col tempo di trovar modo, per lo quale il padre della donna, che agli loro desii essere contrario sapeano, si potesse placare.
Diventa:
    I due amanti, divenuti segretamente marito e moglie nel modo che avete udito, goderono più notti felicemente del loro amore, aspettando col tempo di trovare il modo per placare il padre della donna che sapevano esser contrario ai loro desideri.

Nell’eseguire questo lavoro ho avuto la netta sensazione che la cosiddetta “Invettiva contro le donne” del finale faccia uso di una sintassi molto diversa dal resto del testo, molto più difficile da analizzare e da riordinare. Potrebbe trattarsi di un’aggiunta successiva alla stesura originale, potrebbe essere perfino di un altro autore. Ricordo che nell’edizione curata da Bembo o dal fratello di Da Porto quella parte fu rimossa.

STORIA
DI
GIULIETTA E ROMEO
CON LA LORO PIETOSA MORTE
avvenuta già in Verona
NEL TEMPO
DEL SIG. BARTOLOMMEO DELLA SCALA
SCRITTA
DA LUIGI DA PORTO


L’EDITORE A CHI LEGGE
    Di questa celebratissima novella di Luigi Da Porto si sono fatte, forse per la piccolezza del volume, assai poche edizioni, e quelle poche non sono molto degne né per eleganza, né per esattezza, di un componimento così gentile. Ora, vedendo come ai giorni nostri la dolorosa storia dei due Amanti Veronesi formi il soggetto d’altre novelle - sia in versi che in prosa - e di spettacoli teatrali, mi sono accinto alla presente ristampa la quale, se non elegante come alcuni avrebbero desiderato, impossibile per il prezzo mitissimo a cui ho voluto venderla per servirne ogni specie di lettori, sarà nondimeno purgata da tutte le false e scorrette lezioni che imbruttivano le precedenti edizioni. Dall’accoglimento che verrà fatto dal pubblico a questa novella vedrò se muovermi a procurargli altre, non meno di questa, innocenti e dilettevoli letture.
Gaspare Truffi, Milano 1831


ALLA BELLISSIMA E LEGGIADRA
MADONNA LUCINA SAVORGNANA
    Poiché già molti giorni fa parlando con voi dissi di voler scrivere una compassionevole novella, da me udita più volte e avvenuta a Verona, m’è sembrato d’obbligo stenderla in queste poche carte perché le mie parole a voi non sembrassero vane, e anche perché spetta a me, che misero sono, ragionare dei casi di miseri amanti di cui essa è piena; e indirizzarla al vostro valore. Così che, benché vi conosca prudentissima tra le donne belle come voi, possiate leggendola vedere più chiaramente a quali rischi, a quali trabocchetti e a che crudelissime morti i miseri e cattivelli amanti siano il più delle volte condotti dall'Amore; e la mando anche volentieri alla vostra bellezza perché, avendo fra me deciso che essa sia l'ultimo mio lavoro in questa arte, stanco e sazio di essere zimbello del volgo, in voi finisca il mio sciocco poetare.
    E come siete un porto per il valore, la bellezza e la leggiadria, così lo siate anche per la piccola barchetta del mio ingegno - la quale ha molto solcato sospinta dall'Amore le basse acque della poesia, carica di molta ignoranza - e che essa giungendo a voi, accorta del suo errore, possa legarsi alle vostre rive in sicurezza e disarmarsi, donando timone remi e vela ad altri che navigano con più scienza e miglior stella nello stesso mare.
    Prendetela dunque Signora nell’abito che le conviene e leggetela volentieri, tanto per il soggetto che mi pare bellissimo e pieno di pietà, quanto per lo stretto vincolo di consanguineità e dolce amicizia che si trova tra la persona vostra e chi scrive.
    Il quale vi si raccomanda sempre con ogni riverenza.

 
 
PROLOGO
    Come voi stessa vedeste, prima che il cielo tutto rivolgesse verso di me ogni suo sdegno, nel bel principio di mia giovinezza mi diedi al mestiere delle armi; e seguendo in quello molti grandi e generosi uomini, esercitai per qualche anno nella dilettevole vostra patria del Friuli. Per la quale, quando dovevo andare cavalcando a servire privatamente qui o là secondo i casi, avevo per abitudine di portare con me un mio arciere, uomo di circa cinquant’anni, pratico nell’arte, piacevolissimo, molto loquace come quasi tutti quelli di Verona (dove era nato) e chiamato Peregrino.
    Questi, oltre che soldato animoso ed esperto, era leggiadro e si ritrovava sempre innamorato, forse più di quello che sarebbe convenuto alla sua età; il che aggiungeva doppio valore al suo valore perché si dilettava di raccontare le più belle storie, soprattutto quelle che parlavano d’amore, con più ordine e grazia di chiunque altro io abbia mai sentito. Per cui quando partii con costui e altri due dei miei da Gradisca, dove ero alloggiato, venendo verso Udine - forse sospinto dall’amore - per una strada che in quel tempo era molto solitaria e tutta arsa e distrutta per la guerra, vedendomi lontano dagli altri chiuso in pensieri opprimenti il detto Peregrino mi si accostò, come indovinando i miei pensieri, e mi disse: “Volete vivere sempre in tristezza perché una bella crudele vi ama poco mostrando il contrario? Lo dirò contro me stesso ma, visto che i consigli è più facile darli che riceverli, vi confiderò padron mio che non solo è disdicevole per l’esercizio in cui siete star molto nella prigione d’Amore, ma questi ci porta quasi tutti a una fine così triste che è pericoloso seguirlo. In testimonianza di ciò, se vi piace, potrei raccontarvi una storia avvenuta nella mia città che ci renderebbe la strada meno solitaria e rincrescevole, e nella quale sentireste come due nobili amanti sono stati guidati a misera e pietosa morte.” E avendo io fatto segno di udirlo volentieri, cominciò così:
 
NOVELLA DI GIULIETTA E ROMEO
    Nel tempo che Bartolomeo dalla Scala, signore cortese ed umanissimo, stringeva e rallentava a suo piacere il freno alla mia bella patria, due nobilissime famiglie furono in lei nemiche per fazione contraria o per odio personale, come mio padre diceva di aver sentito; una era nominata Cappelletti, l’altra Montecchi. Ad una delle quali si stima certo appartengano messer Niccolò e messer Giovanni che dimorano a Udine - ora detti Monticoli di Verona, per strano caso venuti ad abitare qui, benché abbiano recato poco con sé in questo luogo degli antichi averi, a parte la loro cortese gentilezza; e si dà il caso che leggendo alcune vecchie cronache abbia trovato che queste due famiglie sostenevano unite una stessa parte: nondimeno ve la esporrò come la udii, senza mutarla altrimenti.
    Le sopraddette nobilissime famiglie furono dunque, come dico, dotate dal cielo, dalla natura, e dalla fortuna di valorosi uomini, e ugualmente di ricchezza, sotto quel signore a Verona. Tra di esse regnava, come il più delle volte si vede tra le gran case, una crudelissima ostilità, checché ne fosse la ragione, per la quale già diversi uomini erano morti sia dall'una che dall'altra parte; tanto che s’erano decise di non farsi più torti, sia per stanchezza come spesso avviene in questi casi, sia per le minacce del signore, che con dispiacere grandissimo le vedeva nemiche; e col tempo senza altre tregue s'erano tanto addomesticate che molti dei loro uomini parlavano assieme.
    Essendo così pacificati costoro, avvenne che un carnevale si fecero molte feste di giorno e di notte in casa di messer Antonio Cappelletti, primo della famiglia, uomo festoso e giocondissimo, e quasi tutta la città vi partecipava; ad una di quelle si recò una notte un giovane dei Montecchi, seguendo la sua donna com'è costume degli amanti, che seguono le loro donne ovunque vanno col cuore come col corpo, purché possano. Costui era molto giovane, bellissimo, grande nella persona, leggiadro e assai accostumato: infatti toltasi la maschera, come ogni altro faceva, e trovandosi in abito di Ninfa, non ci fu occhio che non si girò a rimirarlo, sia per la sua bellezza che superava quella d’ogni donna presente, sia per la meraviglia che fosse venuto in quella casa, specialmente di notte. Ma venne visto con più effetto di tutti da una figliola del detto messer Antonio - era sua figlia unica - la quale era di soprannaturale bellezza, baldanzosa e leggiadrissima.
    Questa, visto il giovane, ricevette la sua bellezza nell'anima con tanta forza che al primo incontro dei loro occhi le parve di non essere più padrona di se stessa. Costui se ne stava tutto solo con poca baldanza a margine della festa e rare volte si inseriva nel ballo o in qualche discorso; stava là con molta titubanza come avrebbe fatto uno guidatovi dall'amore. Il che spiaceva molto alla giovane perché sentiva dire ch'egli era piacevolissimo e giocoso. Passata la mezzanotte e arrivati alla fine della festa, s’incominciò il ballo del Torchio - o del Cappello, come dire lo vogliamo - come si vede fare ancora oggi alla fine delle feste: nel quale stando in cerchio alternati, uomini e donne disposti a piacere si tengono per mano. Il giovane fu trascinato in questa danza da una donna e fu posto per caso appresso alla fanciulla già innamorata.
    Dall'altro lato di lei c'era un giovane nobile chiamato Marcuccio Guertio che per natura aveva le mani sempre freddissime, tanto a luglio come a gennaio. Così, giunto Romeo Montecchi - che così era chiamato il giovane - al lato sinistro della donna e presa la sua bella mano come si usa in tal ballo, la giovane desiderosa forse d’udirlo parlare gli disse quasi subito: “Benedetta sia la vostra venuta qui presso di me, messer Romeo.”
    Alla quale il giovane, che già s’era accorto dei suoi sguardi, meravigliato del parlar di costei disse: “Come, benedetta la mia venuta?”
    “Sì, benedetto il vostro venire qui da me perché almeno voi mi terrete calda questa stanca mano mentre Marcuccio m’agghiaccia la destra.”
    Costui, preso alquanto d’ardire, proseguì: “Se io riscaldo la vostra mano con la mia, voi accendete il mio cuore coi begli occhi.”
    La donna dopo un sorriso, evitando di essere veduta o udita ragionare con lui gli disse ancora: “Io vi giuro in fede mia Romeo, che ai miei occhi non c'è donna qui che sia bella quanto voi.”
    Alla quale il giovane già tutto acceso di lei rispose: “Qual io mi sia sarò fedel servo della vostra beltà, se a quella non spiacerà.”
    Lasciata poco dopo la festa e tornato a casa sua, considerata la crudeltà della sua prima donna che gli dava poca tregua dal molto languire, Romeo decise di donarsi tutto a costei, se a lei fosse piaciuto, nonostante facesse parte dei suoi nemici.
    Dall'altro canto la giovane, pensando a poco altro che a lui solo, dopo molti sospiri stimò tra sé che sarebbe stata sempre felice se avesse potuto avere costui per sposo; ma aveva molto timore e poca speranza di giungere a tal lieto traguardo, per l'ostilità che c’era tra l’una e l’altra casa. Quindi passando di continuo fra due pensieri disse più volte a se stessa: “O sciocca me! Da che desiderio mi lascio guidare in un labirinto così strano da cui, essendo senza guida, non potrò uscire neanche volendo giacché Romeo Montecchi non m’ama: infatti per l'ostilità che ha coi miei non può volere altro che la mia vergogna; e anche se mi volesse per sposa, mio padre non consentirebbe mai di darmi a lui.” Poi venendo all’altro pensiero diceva: “Chissà forse che per pacificare queste due case, già stanche e sazie di farsi la guerra, mi possa succedere d’averlo come desidero!” E fermatasi in questo, cominciò a essergli cortese di qualche sguardo.
    Accesi dunque i due amanti di ugual fuoco, l’uno portando scolpita nel petto il bel nome e l’effigie dell’altro, cominciarono a vagheggiarsi a volte in chiesa, a volte a qualche finestra; tanto che né l’uno né l’altra stavano bene se non quando si vedevano. Egli si trovava così tanto acceso dai soavi costumi di lei che se ne stava da solo quasi tutta la notte davanti alla casa dell’amata donna, con grandissimo pericolo per la sua vita; e a volte, tiratosi a forza sulla finestra della sua camera, vi si sedeva a udire il suo bel parlare senza ch’ella o altri lo sapessero, e a volte giaceva sulla strada.
    Avvenne una notte che, come amor volle, con la luna che splendeva più del solito, mentre Romeo stava per salire su quel balcone la giovane, che fosse per caso o che l’avesse udito le altre sere, venne ad aprire la finestra, e fattasi fuori lo vide. Il quale, credendo che non ella ma qualche altra aprisse il balcone, voleva fuggire nell’ombra di un muro. Lei, riconosciutolo e chiamatolo per nome, gli disse: “Che fate qui a quest’ora così solo?”
    Ed egli riconosciutala rispose: “Quello che Amor vuole.”
    “E se vi trovassero” disse la donna, “non potreste morire facilmente?”
    “Signora, certo che potrei agevolmente morire, e ci morirò di certo una notte se non mi aiutate. Ma poiché anche in ogni altro luogo sono vicino alla morte come qui, procaccio di morire più vicino possibile alla vostra persona, con la quale bramerei di vivere sempre se piacesse al cielo e a voi.”
    “Da me non verrà mai che non viviate con me onestamente; non venga neanche da voi, o dall’ostilità che vedo tra la vostra e la mia casa!”
    “Potete credere che non si possa bramare cosa più di quanto io bramo voi continuamente: e perciò se a voi piacesse essere mia come io desidero esser vostro, lo sarò volentieri; senza temere mai che qualcuno vi tolga a me.” E detto questo, accordatisi di parlarsi un’altra notte con più tranquillità, ciascuno se ne partì.
    In seguito, andato il giovane più volte a parlarle, una sera che cadeva molta neve la ritrovò al disiato luogo e le disse: “Deh! Perché mi fate così languire? Non vi stringe pietà di me che vi aspetto tutte le notti su questa strada con questo tempo?”
    “Certo che mi fate pietà: ma che vorreste che facessi se non pregare che voi ve ne andiate?”
    “Che voi mi lasciaste entrare nella vostra camera ove potremo parlarci insieme più agiatamente.”
    Allora la bella giovane quasi sdegnando disse: “Romeo, io vi amo tanto quanto persona si possa lecitamente amare e vi concedo più di quello che si converrebbe alla mia onestà: e faccio ciò vinta dall’amore nel vostro valore. Ma se voi, grazie al lungo vagheggiarmi o per altro motivo, pensaste di godere più oltre dell’amor mio come innamorato, lasciate da parte questo pensiero che alla fine lo trovereste del tutto vano. Ma per non tenervi più nel pericolo in cui vedo essere la vostra vita venendo ogni notte da queste parti, vi dico che se volete accettarmi per vostra sposa io son pronta a darmivi tutta e a venire con voi in ogni luogo che vi sia in piacere senza alcun indugio.”
    “Questo solo io bramo: si faccia ora.”
    “Si faccia, ma sia reintegrato poi alla presenza di Frate Lorenzo da san Francesco mio confessore, se volete che io mi vi dia in tutto e contenta.”
    “Oh! Dunque frate Lorenzo da Reggio è quello che sa ogni segreto del vostro cuore?”
    “Sì, e per mia soddisfazione si serbi a far ogni nostra cosa dinanzi a lui.” E qui, posto discreto modo alle loro cose, si separarono l’uno dall’altro.
    Questo Frate dell’Ordine Minore di Osservanza era un grande filosofo e sperimentatore di molte cose, sia naturali che magiche; e si trovava in così stretta amicizia con Romeo che forse in molti luoghi non se ne sarebbe trovata una più grande tra due persone, in quei tempi. Infatti volendo il Frate a un certo punto sia restare in buona opinione del suo volgo sia godere di qualche suo diletto, gli era convenuto per forza fidarsi di qualche gentiluomo della città; tra i quali aveva scelto questo Romeo, giovane temuto, animoso e prudente; e a lui aveva scoperto il suo cuore nudo, che fingendo teneva celato a tutti gli altri.
    Così, durante una visita, Romeo gli disse liberamente come desiderasse avere per sposa l’amata giovane, e come insieme avessero concordato che lui stesso dovesse essere testimone segreto del loro sposalizio per poi fare da mezzano perché il padre di lei consentisse a questo accordo. Il Frate fu contento di ciò, sia perché non avrebbe potuto negare niente a Romeo, sia perché pensava che forse questa cosa sarebbe finita bene anche per mezzo suo, il che gli avrebbe portato molto onore presso il signore e presso ogni altro che desiderava vedere in pace le due case.
    Essendo la quaresima, fingendo di volersi confessare la giovane andò al monastero di san Francesco e, entrata in uno di quei confessionali che usano tali Frati, fece chiamare Frate Lorenzo. Il quale ivi sentendola, entrato nel medesimo confessionale dall’interno del convento insieme a Romeo e levato via l’uscio - una lama di ferro tutta forata che stava tra la giovane ed essi - le disse: “Io vi vedo sempre volentieri, ma ora mi siete qui più cara che mai, se è vero che volete il mio messer Romeo per vostro marito!”
    Al quale lei rispose: “Non desidero nessun’altra cosa più che essere legittimamente sua; per questo sono venuta qui al cospetto di voi, di cui mi fido molto; perché voi siate testimone insieme con Iddio di quello che vengo a fare spinta dall’Amore.”
    Allora in presenza del Frate, che diceva di accettare il tutto in confessione, la bella giovane sposò Romeo per parole di presente. E accordatisi di stare insieme la notte seguente, baciatisi una sola volta si separarono dal Frate. Questi, rimessa nel muro la sua grata, restò a confessare altre donne.
    I due amanti, divenuti segretamente marito e moglie nel modo che avete udito, goderono più notti felicemente del loro amore, aspettando col tempo di trovare il modo per placare il padre della donna che sapevano esser contrario ai loro desideri.
    Così stando le cose successe che la fortuna, nemica d’ogni mondano diletto, spargendo non so quale malvagio seme fece rinverdire la quasi morta ostilità tra le loro case; in modo che una volta, né Montecchi né Cappelletti volendo cedere la via del corso, la cosa precipitò ed essi si attaccarono a vicenda; in quella situazione Romeo, combattendo ma tenendo al rispetto per la sua donna, si guardava dal percuotere chiunque dell’altra casa; però alla fine, essendo feriti molti dei suoi e quasi tutti cacciati dalla strada, vinto dall’ira corse sopra Tebaldo Cappelletti che pareva il più fiero dei suoi nemici e lo distese morto in terra di un colpo, e rivolse in grandissima fuga gli altri che erano già smarriti per la morte di costui. Romeo era stato visto ferire Tebaldo così chiaramente che l’omicidio non si poteva celare. Per cui, data querela dinanzi al Signore, ciascuno dei Cappelletti gridò solamente sopra Romeo, finché fu bandito dalla giustizia in perpetuo da Verona.
    Ora di qual cuore divenisse la misera giovane vedendo queste cose, lo può facilmente considerare ciascuno che ben ami ponendosi nel suo caso. Ella piangeva così forte di continuo che nessuno la poteva consolare; e quanto più aspro era il suo dolore, tanto meno osava scoprire il suo male con persona alcuna. Dall’altra parte al giovane doleva separarsi dalla sua patria per il solo fatto di abbandonare lei; e non volendo assolutamente partire senza prendere lacrimevole commiato da lei, e non potendo andare a casa sua, ricorse al Frate.
    Al quale fu fatto sapere, tramite un servo del padre di lei molto amico di Romeo, che ella sarebbe venuta. Ed ella vi si condusse, e andati entrambi nel confessionale, piansero assai insieme la loro sciagura. Alla fine lei gli disse: “Che farò senza di voi? Il cuore non mi dà più da vivere; sarebbe meglio che io venga con voi ovunque ve ne andrete. Io m’accorcerò queste chiome e vi verrò dietro come servo, e non potrete esser servito meglio o più fedelmente che da me.”
    “Non piaccia o Dio, anima mia cara, che quando veniste con me vi portassi in altro modo che come mia signora” disse a lei Romeo. “Ma poiché sono certo che le cose non potranno restare a lungo così e che la pace tornerà tra i nostri, per cui otterrò facilmente di nuovo la grazia del signore, voglio che voi restiate per qualche giorno senza il mio corpo, ché l’anima mia dimora sempre con voi. E se le cose non andranno come prevedo, prenderemo un’altra strada per il nostro vivere.”
    E questo deciso tra loro, abbracciatisi mille volte si separarono piangendo; la donna pregandolo assai ch’egli le volesse stare più vicino che potesse e non andarsene a Roma o a Firenze come aveva detto. Così pochi giorni dopo Romeo, che fino ad allora era stato nascosto nel monastero di Frate Lorenzo, partì e si diresse come morto a Mantova; avendo prima detto al servo della donna che ciò che di lui avesse udito in casa intorno al fatto di lei lo facesse sapere subito al Frate, ed eseguisse fedelmente ogni cosa che la giovane gli comandava, se desiderava avere il rimanente della ricompensa promessagli.
    Partito Romeo da molti giorni, la giovane mostrandosi sempre lacrimosa - il che faceva mancare la sua gran bellezza - le fu più volte domandato con lusinghevoli parole, dalla madre che teneramente l’amava, da cosa derivasse questo suo pianto: “O figliola mia, da me amata quanto la vita, che dolore ti tormenta da poco tempo in qua? Com'è che non stai neanche un poco senza piangere? Se forse brami qualche cosa dilla a me sola; che ti consolerò in qualunque modo purché sia lecito.”
    Nondimeno dalla giovane le furono rese sempre deboli ragioni di tal pianto. Per cui pensando la madre che in lei vivesse desiderio di aver marito, tenuto celato per vergogna o per timore, e che questo generasse il pianto, un giorno credendo di cercare la salute della figliola e procacciandole invece la morte disse al marito: “Messer Antonio, già da molti giorni vedo sempre piangere questa nostra fanciulla tanto che, come potete vedere, non sembra più quella che suole essere. Io l'ho molto interrogata sulla ragione del suo pianto senza poter ottenere da lei da cosa venga; né saprei io stessa dire da cosa proceda se non forse per voglia di maritarsi, la quale da saggia fanciulla non osasse far palese.
    “Per cui prima che si consumi di più direi che sarebbe meglio darle marito; che in ogni modo questa santa Eufemia finì diciotto anni e le donne, quando li superano di molto, perdono in bellezza piuttosto che guadagnarne. Inoltre non sono mercanzia da tenere molto in casa, anche se non ho mai conosciuto la nostra altro che onestissima in ogni atto. So che avete già preparato la dote da molti giorni: vediamo dunque di darle un decente marito.”
    Messer Antonio rispose che sarebbe stato bene maritarla; e apprezzò molto la figliola che avendo questo desiderio volesse affliggersene tra sé prima che farne richiesta a lui o alla madre; entro pochi giorni cominciò a trattare le nozze con uno dei conti di Lodrone. Ed essendo già vicini alla conclusione, la madre disse alla figliola credendo di farle grandissimo piacere: “Rallegrati ormai figliola mia, che fra pochi giorni sarai degnamente maritata a un gran gentiluomo e cesserà la causa del tuo gran pianto; la quale, anche se non me l’hai voluta dire, ho comunque compreso per grazia di Dio; e così con tuo padre ho operato per farti piacere.”
    A queste parole la bella giovane non poté trattenere il pianto. Per cui la madre le disse: “Credi che ti dica una bugia? Non passeranno otto giorni che sarai moglie di un bel donzello della casa di Lodrone.” La giovane a queste parole raddoppiava più forte il pianto. Per cui la madre accarezzandola disse: “Dunque figliola mia, non ne sei contenta?”
    “No madre, non ne sarò mai contenta.”
    “Che vorresti dunque? Dillo a me, che per te sono disposta ad ogni cosa.”
    “Vorrei morire, nient’altro.”
    Qui madonna Giovanna (così si chiamava la madre), che era una donna savia, comprese che la figliola era accesa d'amore; e rispostole non so che si separò da lei.
    La sera, venuto il marito, gli narrò ciò che la figliola le aveva risposto piangendo. Il che gli spiacque molto; e pensò che fosse bene capire quale fosse la sua opinione prima che le nozze si trattassero più avanti, in modo che non si cadesse in qualche vergogna. E fatta un giorno venire innanzi le disse: “Giulietta (che così era il nome della giovane), io sto per maritarti nobilmente: non ne sarai contenta, figliola?”
    La giovane, taciutasi alquanto dopo il dire di lui, rispose: “Padre mio no, che non sarò contenta.”
    “Come! Vuoi dunque entrare nelle monache?”
    “Messere, non lo so.” E insieme con le parole mandò fuori le lacrime.
    “So che non vuoi questo. Datti dunque pace che voglio maritarti con uno dei conti di Lodrone.”
    Al quale la giovane piangendo forte rispose: “Questo non sia mai.”
    Allora messer Antonio molto turbato la minacciò assai sopra la persona se avesse ardito mai più contraddire al suo volere, e inoltre se non avesse manifestato la ragione del suo pianto. E non potendo ottenere altro che lacrime da lei, scontento oltremodo, la lasciò con madonna Giovanna; né poterono scorgere dove la figliola avesse l'animo.
    La giovane aveva riferito tutto ciò che sua madre le aveva detto al servo di suo padre, il quale aveva nome Pietro ed era consapevole del suo amore, e aveva giurato in presenza di lui che avrebbe bevuto volontariamente il veleno piuttosto che prendere per marito altri che Romeo, se avesse potuto. Di che Pietro aveva avvisato nei particolari Romeo per mezzo del frate secondo l'ordine ricevuto; e questi scrisse a Giulietta che non acconsentisse per nessun motivo al matrimonio e ancora meno svelasse il loro amore, che senza alcun dubbio egli avrebbe fatto in modo di levarla dalla casa del padre entro otto o dieci giorni.
    Ma messer Antonio e madonna Giovanna, non potendo intendere dalla loro figliola né per lusinghe né per minacce la ragione per cui non si volesse maritare; né trovando per altre vie di chi fosse innamorata; e avendole più volte detto madonna Giovanna: “Vedi figliola mia dolcissima, non piangere ormai più che ti si darà il marito che vuoi, anche se volessi uno dei Montecchi, che sono certa non vorrai” e la Giulietta non rispondendole mai altro che con sospiri e pianto; ancora più insospettiti, decisero di concludere il prima possibile le nozze che avevano trattato tra lei e il conte di Lodrone.
    Saputolo, la giovane ne divenne oltremodo dolente; e non sapendo cosa fare desiderava la morte mille volte al giorno. Decise comunque di comunicare il suo dolore a frate Lorenzo, come persona su cui contava più di tutti dopo Romeo, e che aveva udito dal suo amante essere in grado di fare grandissime cose.
    Un giorno disse quindi a madonna Giovanna: “Madre mia, non voglio che vi meravigliate se non vi dico la ragione del mio pianto poiché io stessa non la so; sento però di continuo in me una tale malinconia che mi rende - non dico le altre - ma la mia stessa vita noiosa; né riesco a capire da cosa mi succeda, per dirlo a voi o a mio padre; a meno che non m'avvenga per qualche peccato commesso che non mi ricordo. E poiché mi giovò molto la scorsa confessione vorrei riconfessarmi, a voi piacendo; così che questa Pasqua di maggio che è vicina possa ricevere la soave medicina del sacro corpo del nostro Signore a rimedio dei miei dolori.” Madonna Giovanna rispose che era contenta.
    Portatala a san Francesco due giorni dopo la pose davanti a frate Lorenzo, che aveva molto pregato prima perché cercasse di capire, dalla confessione, la ragione del suo pianto. La giovane come vide allontanata la madre raccontò subito con mesta voce tutto il suo affanno al frate e, per l’amore e la cara amicizia che sapeva esserci tra lui e Romeo, lo pregò che la volesse aiutare in questo suo grande bisogno. Alla quale il frate disse: “Che posso fare in questo frangente figliola mia, con tutta l’ostilità che c’è tra la tua casa e quella di tuo marito?”
    “Padre, so che voi conoscete tante cose rare e mi potreste aiutare in mille modi se voleste, ma se non mi volete fare altro bene concedetemi almeno questo: io so che preparano le mie nozze in un palazzo di mio padre due miglia fuori di questa terra verso Mantova, dove mi devono portare perché io abbia meno baldanza di rifiutare il nuovo marito, e non sarò là prima che giunga colui che mi deve sposare; datemi tanto veleno che io possa a un certo punto liberare me da tal dolore e Romeo da tanta vergogna; se no configgerò un coltello in me stessa, con maggior sofferenza mia e dolore suo.”
    Frate Lorenzo udendo costei essere in tale animo, e pensando quanto egli fosse ancora nelle mani di Romeo che senza dubbio gli sarebbe diventato nemico se non avesse provveduto a questo caso, disse alla giovane: “Vedi Giulietta, io confesso metà di questa terra come sai, e sono in buon nome presso tutti; non si fa testamento o conciliazione senza che io intervenga; quindi non vorrei per tutto l'oro del mondo incorrere in qualche scandalo o che si sapesse che ho avuto parte in questo. Tuttavia poiché amo te e Romeo insieme, mi disporrò a fare una cosa che non feci mai per nessun altro; purché tu mi prometta veramente di tenermi sempre nell’ombra.”
    “Padre, datemi pure questo veleno in sicurezza che non lo saprà mai nessun altro oltre a me.”
    “Non ti darò veleno figliola, che sarebbe troppo peccato che tu morissi così giovane e bella; ma se avrai il coraggio di fare quello che ti dirò, io mi vanto di guidarti sicuramente dal tuo Romeo.
    “Tu sai che l'arca dei tuoi Cappelletti è posta nel nostro cimitero fuori da questa chiesa. Io ti darò una polvere che, se la berrai, ti farà dormire più o meno per quarantotto ore in un modo che ogni uomo, per gran medico che sia, non saprà giudicarti altro che morta. Tu sarai senza alcun dubbio seppellita in quella arca come se fossi passata da questa vita; e io al momento giusto verrò a tirarti fuori e ti terrò nella mia cella fino al momento di andare al capitolo che facciamo a Mantova, che sarà tra breve, e ti porterò da tuo marito travestita nel nostro abito. Ma dimmi, non avrai paura del corpo di tuo cugino Tebaldo che vi fu seppellito poco tempo fa?”
    La giovane già tutta lieta disse: “Padre, se potessi arrivare a Romeo in questo modo ardirei senza timore di passare per l'Inferno.”
    “Orsù dunque, poiché sei disposta così son contento d'aiutarti; ma prima che si faccia cosa alcuna sarà meglio che tu scriva tutto di tua mano a Romeo perché egli, credendoti morta, non incorra per disperazione in qualche strana azione, poiché so che egli ti ama oltre modo. Io ho sempre frati che vanno a Mantova dove lui si trova, come sai. Fa’ che io abbia la lettera, che manderò a lui con un messo fidato.”
    Detto questo il buon frate (senza il mezzo dei quali non vediamo nessuna gran cosa condursi a perfetto fine) lasciando la giovane nel confessionale corse alla sua cella, ritornò subito con un piccolo vasetto di polvere e disse: “Prendi questa polvere e, quando ti parrà il momento, la berrai in acqua fredda senza timore verso le tre o quattro di notte, ché comincerà ad operare intorno alle sei; e il nostro piano riuscirà senza fallo. Ma non scordare per questo di mandarmi la lettera che devi scrivere a Romeo, che è assai importante.”
    Presa la polvere Giulietta ritornò dalla madre tutta lieta e le disse: “Veramente signora, frate Lorenzo è il miglior confessore del mondo. Mi ha così confortata che non ricordo più la passata tristezza.”
    Madonna Giovanna per la contentezza di vedere la figliola non più triste rispose: “Alla buona ora figliola mia, alle volte farai che consoli anche lui con la nostra elemosina; ché sono poveri frati.” E così parlando tornarono a casa loro.
    Dopo questa confessione la Giulietta s’era fatta tutta allegra, tanto che messer Antonio e madonna Giovanna avevano perso ogni sospetto che lei fosse innamorata e credettero che i pianti li avesse fatti per uno strano e malinconico accidente; e volentieri l'avrebbero lasciata stare così per il momento senza più parlare di darle marito, ma erano andati tanto dentro in questo fatto che non se ne potevano più tirare indietro senza problemi.
    Per cui volendo il conte di Lodrone che uno dei suoi vedesse la donna, ed essendo madonna Giovanna di salute alquanto cagionevole, fu ordinato che la giovane andasse accompagnata da due sue zie a quel palazzo del padre che abbiamo nominato, poco fuori città; al che lei non fece nessuna resistenza e ci andò. Là, credendo che il padre l'avesse fatta andare così all'improvviso per darla subito in mano al secondo sposo e avendo portato con sé la polvere che il frate le diede, la notte vicino alle quattro chiamò una sua fantesca, che era cresciuta con lei e che teneva quasi come sorella, si fece dare una coppa d'acqua fredda dicendo che aveva sete per i cibi della sera prima e versatavi dentro la virtuosissima polvere se la bevve tutta. Poi in presenza della fantesca e di una sua zia che con lei s'era svegliata disse: “Mio padre per certo non mi darà marito contro il mio volere, se potrò.”
    Le donne, che erano di pasta grossa, anche se l'avevano vista bere la polvere, che lei diceva di aver versato nell'acqua per rifrescarsi, e udita dire quelle parole, comunque non le intesero e non sospettarono niente e tornarono a dormire. La Giulietta spento il lume, e partita la fantesca, fingendo una necessità naturale si levò del letto e si rivestì tutta dei suoi panni; tornata nel letto compose il suo corpo meglio che seppe come se avesse creduto di morire e poste le mani in croce sopra il suo bel petto aspettò che la bevanda operasse; la quale stette poco più di due ore a renderla come morta.
    Venuta la mattina ed essendo salito il sole per un gran pezzo, la giovane fu ritrovata sopra il suo letto nella posa che v'ho detto; e non riuscendosi a svegliarla e trovatala già quasi tutta fredda, ricordandosi la zia e la fantesca dell'acqua e della polvere che aveva bevuto la notte e delle parole da lei dette; e in più vedendola essersi vestita da se stessa e sistemata sopra il letto a quel modo, considerarono senza alcun dubbio la polvere veleno e lei morta.
    Tra le donne si levarono grandissimi il rumore e il pianto, soprattutto dalla sua fantesca che continuamente chiamandola per nome diceva: “O signora, è questo che dicevate: ‘mio padre non mi mariterà contro la mia volontà!’ Voi mi domandaste con inganno l’acqua fredda che apparecchiava la vostra dura morte a me trista. O misera me! Di chi prima mi affliggerò? Della morte o di me stessa? Deh! Perché morendo sprezzaste la compagnia d'una vostra serva che vivendo mostraste d'avere così cara? Che come sono sempre vissuta con voi volentieri, così sarei anche morta volentieri con voi. O signora! Io vi portai l'acqua con le mie mani per essere - misera me! - in questo modo abbandonata da voi? Avrò morti ad un tratto voi e me, vostro padre e vostra madre.” E così dicendo salita sopra il letto, abbracciava stretta la giovane come morta.
    Messer Antonio, che non lontano aveva udito il rumore, corse tutto tremante nella camera della figliola e vedutala stare sopra il letto e inteso ciò che aveva bevuto e detto la notte, quantunque la stimasse morta preferì mandare a chiamare in fretta a Verona un suo medico che reputava molto dotto e pratico. Venuto il quale, e veduta e toccata alquanto la giovane, disse che per il veleno bevuto era già passata da questa vita da sei ore; e vedendo questo il tristo padre entrò in dirottissimo pianto.
    La mesta notizia pervenne di bocca in bocca in breve tempo all'infelice madre; la quale abbandonata da ogni calore cadde come morta. E risvegliatasi con un grido femminile, divenuta quasi fuori di senno, tutta percotendosi, chiamando l'amata figliola per nome riempiva di lamenti il cielo dicendo: “Io ti vedo morta o mia figliola, sola consolazione della mia vecchiaia! Come hai potuto lasciarmi così crudelmente senza dar modo alla tua misera madre di udire le tue ultime parole? Almeno fossi stata io a serrare i tuoi begli occhi e a lavare il tuo prezioso corpo! Come puoi farmi intendere questo di te? O carissime donne che siete qui presenti, aiutatemi a morire, e se in voi vive alcuna pietà, le vostre mani (se tal opera vi si conviene) spengano me prima che il mio dolore. E tu gran Padre del cielo, poiché non posso morire presto quanto vorrei toglimi a me stessa odiata con la tua saetta.” In questo stato, sollevata e posta sopra il suo letto da alcune donne e confortata con molte parole da altre, non smetteva di piangere e dolersi.
    Poi, tolta la giovane dal luogo dov’era e portata a Verona, fu pianta da tutti i suoi parenti ed amici con esequie grandi e onorevolissime e sepolta per morta nella detta arca nel cimitero di san Francesco.
    Frate Lorenzo, che era andato poco fuori città per un bisogno del monastero, aveva dato la lettera di Giulietta che doveva mandare a Romeo ad un frate che andava a Mantova; il quale giunto nella città ed essendo stato due o tre volte alla casa di Romeo senza mai trovarlo per sua gran sciagura, non volendo dare la lettera ad altri che proprio a lui ce l'aveva ancora in mano; quando Pietro quasi disperato, credendo morta la sua signora, non trovando frate Lorenzo a Verona decise di portare egli stesso a Romeo una tale notizia, quanto pensava gli dovesse esser la morte della sua sposa.
    Per cui tornato la sera al palazzo del suo padrone fuori città, la notte seguente camminò verso Mantova e vi giunse per tempo la mattina. E trovato Romeo che ancora non aveva ricevuto dal frate la lettera della donna, piangendo gli raccontò come aveva visto seppellire la Giulietta morta; e gli espose tutto ciò che lei aveva fatto e detto prima. Romeo udendo questo, diventato pallido come morto, tirata fuori la spada si volle ferire per uccidersi. Ma trattenuto da molti disse: “La mia vita in ogni caso non può essere molto più lunga, poiché la sua vita è morta. O Giulietta mia! Io solo sono stato causa della tua morte perché non venni a levarti dal padre come ti scrissi; tu volesti morire per non abbandonarmi mentre io vivrò per il solo timore della morte? Questo non sia mai.” E rivolto a Pietro, donatogli un vestito bruno che aveva addosso disse: “Vattene, Pietro mio.”
    Partito Pietro e chiusosi Romeo da solo in casa, parendogli ogni altra cosa meno triste della vita pensò molto a quello che dovesse fare di se stesso; e alla fine vestitosi da contadino, presa una fiaschetta di acqua di serpe che conservava da tempo in una sua cassa per qualche suo bisogno e infilatala nella manica, si mise a venir verso Verona; pensando tra sé di rimaner privato della vita per mano della giustizia se fosse stato trovato, oppure di rinchiudersi con la sua donna nell'arca, che sapeva molto bene dove fosse, e lì morire.
    La fortuna gli fu così favorevole a questo ultimo pensiero che entrò a Verona senza esser riconosciuto da nessuno la sera del giorno dopo la sepoltura della donna; e aspettata la notte, già sentendo ogni luogo pieno di silenzio si condusse verso il posto dei frati minori dove stava l'arca.
    Questa chiesa stava una volta nella Cittadella dove questi frati vivevano in quel tempo; successe in seguito che, lasciatala non so come, venissero a stare nel borgo di san Zeno nella chiesa che ora si chiama santo Bernardino, che fu abitata anch’essa dal loro santo Francesco; presso le mura della quale all’esterno erano appoggiati allora certi avelli di pietra, come vediamo in molti luoghi fuori delle chiese; uno dei quali era un’antica sepoltura di tutti i Cappelletti, nella quale stava la bella giovane.
    A questa accostatosi Romeo (poteva essere verso le quattro circa) e levatole a forza il coperchio da uomo di gran nerbo com’era, dopo averlo puntellato con dei legni che aveva portato con sé in modo che non si potesse chiudere inavvertitamente, vi entrò dentro e lo richiuse.
    Lo sventurato giovane aveva recato con sé un lume orbo per vedere alla meglio la sua donna; appena rinchiusosi nell'arca lo tirò subito fuori e lo accese. E lì vide giacere la sua bella Giulietta come morta, tra le ossa e gli stracci di molti morti; per cui immediatamente piangendo forte cominciò a dire: “Occhi, che foste chiare luci agli occhi miei finché piacque al cielo! O bocca da me baciata così dolcemente mille volte! O bel petto che ospitasti il mio cuore con tanta letizia! Dove vi ritrovo ciechi, muti e freddi? Come vedo, parlo, e vivo senza di voi? O misera mia donna, dove sei stata condotta dall'Amore, che vuole che poco tempo spinga e alberghi due tristi amanti! Ohimè! Non mi promisero questo la speranza e il desiderio che all’inizio mi accesero del tuo amore. O sventurata vita mia, a cosa ti reggi ormai?”
    E così dicendo le baciava gli occhi, la bocca e il petto, abbondando in sempre maggior pianto; nel qual diceva: “O mura che state sopra di me, perché non fate ancor più breve la mia vita cadendomi addosso? Ma poiché la morte è in libertà d'ognuno, desiderarla e non prenderla è di certo una vilissima cosa.”
    E così tirata fuori l'ampolla con l'acqua velenosissima che aveva nella manica, proseguì: “Io non so quale destino mi conduca a morire sopra i miei nemici da me uccisi, nel loro sepolcro. Ma poiché giova morire così presso la nostra donna, o anima mia, ora moriamo.” E postasi in bocca la cruda acqua, la ricevette tutta nel suo ventre.
    Presa poi nelle braccia l'amata giovane, stringendola forte diceva: “O bel corpo, ultimo termine di ogni mio desiderio! Se ti è restato del sentimento dopo il partir dell'anima o se ella vede il mio crudo morire, prego che non le dispiaccia che non avendo io potuto vivere con te lieto e palese, almeno io muoia segreto e mesto.” E tenendola molto stretta aspettava la morte.
    Già era giunta l'ora che il calore della giovane dovesse aver estinta la fredda e potente virtù della polvere ed essa si svegliasse. Infatti stretta e agitata da Romeo si destò nelle sue braccia; e risentita, dopo un gran sospiro disse: “Ohimè, dove sono? Chi mi stringe? Misera me! Chi mi bacia?” E credendo che fosse frate Lorenzo gridò: “In questo modo serbate la fede a Romeo, frate? In questo modo mi condurrete sicura?”
    Romeo sentendo la donna viva si meravigliò tanto; e forse ricordandosi di Pigmalione disse: “Non mi riconoscete, o dolce donna mia? Non vedete che sono il vostro triste sposo venuto da Mantova per morire presso di voi qui solo e segreto?”
    La Giulietta vedendosi nel monumento e sentendosi in braccio a uno che diceva di essere Romeo era quasi fuori di se stessa e, sospintolo un po’ da sé e guardatolo in viso, gli donò mille baci dicendo: “Qual sciocchezza vi fece entrare qua dentro e con tanto pericolo? Non vi bastava avere inteso dalle mie lettere che mi dovevo fingere morta con l’aiuto di frate Lorenzo e che entro breve sarei stata con voi?”
    Allora il triste giovane accortosi del suo gran fallo incominciò: “O miserissima mia sorte! O sfortunato Romeo! O dolorosissimo molto più di tutti gli altri amanti! Io non ebbi vostre lettere di ciò.” E qui le raccontò come Pietro gli avesse detto per vera la sua non vera morte; per cui credendola morta aveva preso lì vicino a lei il veleno per farle compagnia; il quale sentiva che acutissimo cominciava a mandargli la morte in tutte le membra.
    La sventurata fanciulla udendo questo restò così vinta dal dolore che non seppe fare altro che battersi e stracciarsi le belle chiome e l'innocente petto; e a Romeo che già giaceva supino, baciandolo spesso e spargendogli sopra un mare delle sue lacrime, essendo diventata più pallida della cenere disse tutta tremante: “Dunque dovete morire in mia presenza e per causa mia, mio signore? E il cielo concederà che io viva dopo di voi benché per poco? Misera me! Almeno potessi donare a voi la mia vita e morire io sola!”
    Alla quale il giovane rispose con voce languida: “Se la mia fede e il mio amore vi furono mai cari, viva speme mia, per quelli vi prego che non vi spiaccia la vita dopo di me, se non altro almeno per poter pensare a colui che tutto ardente per la vostra bellezza morì dinanzi ai vostri begli occhi.”
    “Se voi morite per la mia finta morte, che devo fare io per la vostra non finta? Mi dolgo solo che non abbia modo di morire dinanzi a voi e porto odio a me stessa perché vivo tanto. Ma spero bene che non passi molto prima che, come sono stata causa, così sia compagna della vostra morte.”
    E finite queste parole con gran fatica, cadde tramortita; e risvegliatasi andava poi raccogliendo miseramente con la bella bocca gli estremi spiriti del suo caro amante, che camminava di gran passo verso la propria fine.
    Nel frattempo frate Lorenzo, inteso come e quando la giovane aveva bevuto la polvere e come fosse stata seppellita per morta, sapendo esser giunto il termine nel quale la detta polvere finiva la sua virtù, preso un suo fidato compagno venne all'arca circa un'ora prima del giorno. Giungendo alla quale e udendo Giulietta piangere e dolersi, guardando per la fessura del coperchio e vedendovi un lume dentro, meravigliandosi molto pensò che in qualche modo la giovane avesse portato con sé la lucerna lì dentro e che, svegliata, si rammaricasse e piangesse in tal modo per timore di qualche morto o forse per timore di restar rinchiusa per sempre in quel luogo. Aperta velocemente la sepoltura con l'aiuto del compagno vide la Giulietta, che s'era levata a sedere tutta scapigliata e dolente e s’era presa l’amante quasi morto sul grembo. Alla quale egli disse: “Dunque temevi figliola mia che io ti lasciassi morire qui dentro?”
    Ed ella udendo il frate, raddoppiando il pianto rispose: “Anzi, temo che voi me ne tiriate fuori con la mia vita. Deh! Per pietà di Dio rinserrate il sepolcro e andatevene in modo che io muoia; oppure porgetemi un coltello, che io mi tolga dal dolore ferendo il mio petto. O padre mio! O padre mio! Ben mandaste la lettera! Ben sarò io maritata! Ben mi guiderete a Romeo! Vedetelo qui nel mio grembo già morto.” E glielo mostrò raccontandogli tutto il fatto.
    Frate Lorenzo sentendo queste cose restò come senza sensi; e guardando il giovane che stava per passare da questa all'altra vita disse: “O Romeo! Che sciagura mi ti ha tolto? Parlami un po’; drizza verso di me un poco i tuoi occhi: o Romeo! Vedi la tua carissima Giulietta che ti prega che la guardi! Perché non rispondi almeno a lei nel cui grembo giaci?”
    Romeo al caro nome della sua donna alzò un po’ i languidi occhi appesantiti dalla morte vicina, e vedutala li richiuse; e poco dopo scorrendo la morte per le sue membra, tutto torcendosi, fatto un breve sospiro morì.
    Morto il misero amante nel modo che vi ho divisato, dopo molto pianto, già avvicinandosi il giorno il frate disse alla giovane: “E tu Giulietta, che farai?”
    La quale prontamente rispose: “Morirò qui dentro.”
    “Come? Figlia mia, non dire questo; esci comunque fuori che, anche se io non so cosa fare o dire, nulla ti impedirà di rinchiuderti in qualche santo monastero e lì pregare sempre Dio per te e per il tuo sposo morto, se ne ha bisogno.”
    “Padre, non vi chiedo altro che questa grazia, che mi farete volentieri per l’amore che portaste alla felice memoria di costui (e gli mostrò Romeo): e questa sia di non far mai palese la nostra morte, così che i nostri corpi possano stare sempre insieme in questo sepolcro; e se per caso si risapesse il morir nostro, per lo stesso amore vi prego che vogliate pregare i nostri miseri padri, a nome di tutti e due, che non sia loro grave lasciare in uno stesso sepolcro quelli che Amore arse in uno stesso fuoco e guidò ad una stessa morte.”
    E voltatasi al corpo giacente di Romeo, il cui capo aveva posto sopra un origliere che era stato lasciato con lei nell'arca, avendogli richiusi meglio gli occhi e bagnandogli di lacrime il freddo volto disse: “Che devo più fare in vita senza te, signor mio? E che altro mi resta da fare verso te se non seguirti con la mia morte? Nient’altro, certo; affinché da te, dal quale solo la morte mi poteva separare, la morte separare non mi possa.” E detto questo, recatasi nell'animo la sua gran sciagura e ricordandosi la perdita del caro amante, decidendo di non vivere più, raccolto a sé il fiato ed alquanto trattenutolo e quindi mandandolo fuori con un gran grido, sopra il morto corpo morta si rese.
    Frate Lorenzo, dopo aver riconosciuto morta la giovane, tutto stordito per la pietà non sapeva egli stesso consigliarsi; e insieme al compagno, dal dolore passato fin nel cuore, piangeva sopra gli amanti morti. Quand’ecco sopraggiunse la guardia del Podestà, che correva dietro a un ladro; e trovatili a piangere sopra questo avello nel quale vedevano una lucerna, corsero quasi tutti là; e circondati i frati dissero: “Che fate qui signori, a quest'ora? Fareste forse qualche malìa sopra questo sepolcro?”
    Frate Lorenzo, visti, uditi e riconosciuti gli ufficiali, avrebbe voluto essere morto. Comunque disse loro: “Nessuno di voi mi s'accosti, perché non sono un uomo vostro; e se volete qualcosa chiedetela da lontano.”
    Allora il loro capo disse: “Vogliamo sapere perché avete aperto così la sepoltura dei Cappelletti, dove per di più l'altro ieri si seppellì una loro giovane; e se non fosse che vi conosco come uomo di buona condizione, frate Lorenzo, direi che siete venuti qui a spogliare i morti.”
    I frati spento il lume risposero: “Quello che facevamo non lo saprai, che non sta a te saperlo.”
    “È vero; ma lo dirò al Signore.”
    Al che frate Lorenzo reso sicuro dalla disperazione aggiunse: “Di’ quello che vuoi;” e serrata la sepoltura entrò nella chiesa col compagno.
    Il giorno si mostrava quasi chiaro quando i membri dalla sbirraglia si sciolsero; per cui uno di loro rapportò subito la notizia di questi frati a qualcuno dei Cappelletti. I quali, forse sapendo anche che frate Lorenzo era amico di Romeo, furono presto davanti al Signore pregandolo che volesse sapere dal frate per forza, se non in altro modo, quello che cercava nella loro sepoltura.
    Il Signore, appostate le guardie in modo che il frate non potesse partire, mandò a prenderlo. Venutogli il quale dinanzi per forza, gli disse il Signore: “Cosa cercavate stamane nella sepoltura dei Cappelletti? Ditecelo, che noi lo vogliamo sapere in ogni modo.”
    “Signor mio, lo dirò a vostra signoria molto volentieri. Io confessai già in vita la figliola di messer Antonio Cappelletti, che morì l'altro giorno così stranamente; e poiché l'amai molto come figliola di spirito e non potei trovarmi alle sue esequie, ero andato a dire su di lei certe sorte di orazioni che, dette nove volte sopra il corpo morto, liberano l'anima dalle pene del Purgatorio; e poiché molti non sanno o non capiscono queste cose gli sciocchi dicono che ero andato lì a spogliare morti. Non so se sono tal masnadiero da fare queste cose: a me basta questa povera cappa e questo cordone; né darei un niente per i tesori che hanno i vivi, né per i panni di due morti; e fa male chi mi accusa in questo modo.”
    Per poco il Signore avrebbe creduto a questo; se non che, molti frati che volevano male a frate Lorenzo sentendo che era stato trovato sopra quella sepoltura la vollero aprire; e apertala e trovatovi dentro il corpo dell’amante morto, subito con grandissimo rumore fu detto al Signore, che ancora parlava col frate, che nella sepoltura dei Cappelletti su cui il frate era stato colto la notte giaceva morto Romeo Montecchi.
    Questo parve a ciascuno quasi impossibile e apportò a tutti somma meraviglia. Il che vedendo frate Lorenzo, e sapendo di non poter nascondere quello che desiderava celare, postosi in ginocchio dinanzi al Signore disse: “Perdonatemi Signor mio, se a vostra signoria dissi la bugia di quello che m'ha richiesto; che non fu né per malizia né per guadagno alcuno ma per serbare la fede promessa a due amanti miseri e morti.”
    E così davanti a molti presenti fu costretto a raccontargli tutta la storia passata. Bartolomeo dalla Scala udendola e quasi mosso a piangere dalla gran pietà volle vedere egli stesso i corpi morti, e con grandissima quantità di popolo andò al sepolcro; e presi i due amanti li fece porre sopra due tappeti nella chiesa di san Francesco.
    Nel frattempo i loro padri erano venuti nella chiesa; e piangendo sopra i loro figlioli morti, vinti da doppia pietà (nonostante fossero nemici) s'abbracciarono, così che la lunga ostilità che c’era stata tra essi e tra le loro case, che né le preghiere di amici, né le minacce del Signore, né i danni ricevuti, né il tempo avevano potuto estinguere, per la misera e pietosa morte di questi amanti ebbe fine.
    E ordinato un bel monumento sopra il quale in pochi versi venne scolpita la ragione della loro morte, i due amanti furono sepolti con pompa grandissima e solenne e pianto, accompagnati dal Signore, dai parenti e da tutta la città. Tal misera fine ebbe l'amore di Romeo e di Giulietta, come avete udito e come Peregrino da Verona mi raccontò.
    O fedele pietà che anticamente regnavi nelle donne, dove sei andata ora? In qual petto oggi t'alberghi? Quale donna morirebbe al presente sopra il suo amante come fece la fedele Giulietta? Quando sarà mai che di questa sia celebrato il bel nome dalle lingue più pronte? Quante ce ne saranno ora che prima ancora di veder morto l'amante avranno pensato di trovarne un altro, e non di morirgli accanto? Che se vedo alcune donne contro ragione dimenticare ogni fede e ogni ben servire, e abbandonare non morti ma alquanto percossi dalla fortuna gli amanti che ebbero più cari, cosa si deve credere che esse facciano dopo la loro morte? Miseri gli amanti di questa età che non possono sperare, né dando lunga prova di servire fedelmente, né morendo per le loro donne, ch'esse muoiano mai con loro; anzi sono certi di non essere più cari a quelle se non possono gagliardamente provvedere ai loro bisogni.
 
Qui finisce l’infelice innamoramento
di Romeo Montecchi e Giulietta Cappelletti.
Stampato nella inclita città di Venezia da Benedetto de Bendoni.