AVANTI CLICK

                     IL RITORNO DELLA FATA VERDEAVANTI CLICK

                                      SULL’ASPROMONTE

 Un  vecchio pastore dell’Aspromonte, quando ero bambino, mi raccontava sempre delle storielle. Una volta, transitando con il suo gregge per le colline vicino al piccolo borgo di Cosoleto, era il mese di marzo, quando la campagna incomincia a verdeggiare ed il tepore del sole riscalda l’aria e asciugava il bucato delle donne  del paese. In quel tempo, non avevano ancora inventato le lavatrici,  e le donne compresa mia madre, andavano al  torrente per fare il bucato. Io giocavo con gli altri bambini, proprio vicino  al ruscello, dove pascolavano e si abbeveravano le capre del pastore. Ricordo che il vecchio pastore, si sedeva su di un sasso e ci raccontava le favole. Una di quelle volte, ci ha raccontato la favoletta della primavera:  “ Come per magia, egli disse, la folle corsa del vento si placa mentre il sole a poco a poco scioglie il ghiaccio che ricopre gli abeti. I suoi raggi infuocati penetrano nella foresta che si riempie di richiami e brusii. Un altro lungo inverno é passato e lieta arriva la variopinta e gioiosa primavera. Alcuni anni fa, in un giorno di primavera, una mia musa ispiratrice, mi disse: “Sedendo tranquilli, senza fare nulla, come stiamo facendo adesso, arriva la primavera e cresce l’erba”. E’ vero! Il pastore aveva ragione. Se ci fermassimo un momento, soltanto un momento, a fare “ respirare” la nostra mente, come siamo soliti fare nelle nostre escursioni in mezzo ai boschi e i sentieri dolomitici, ci accorgeremmo del mutare delle stagioni e ci sentiremmo più vivi e più consapevoli di partecipare all’evolversi della vita.

In queste lunghe escursioni, mi sono accorto e con rammarico devo dire, che  sono rare le persone che si fermano un attimo per riflettere, per osservare e fare “ respirare” la mente e, soprattutto, per  capire e ammirare questa meravigliosa natura che ci circonda. I giovani di oggi, non si fermano mai, devono correre per arrivare prima al vertice della montagna, ma così facendo, non possono comprendere  e ammirare le bellezze della natura e della vita stessa.

Parlando di escursioni in montagna, le mie prime esperienze le ho fatte da ragazzo nei boschi dell’Aspromonte. In quelle rare occasioni, ci siamo  spinti fino a San Luca, il paese di Corrado Alvaro, in cui nacque l’autore di Gente in Aspromonte. Devo dire, e forse a ragione, che  San Luca é la porta dell’Aspromonte, il cuore selvaggio della may Calabria. Per capire, bisogna andare al santuario di Polsi, quattro ore e mezza di strada sterrata, partendo  da Cosoleto. In un paesaggio di sconvolgente bellezza, ammantato di fiori di montagna e solcato da pietrose e rabbiose fiumare, vigilato da giganteschi monoliti non meno belli ed affascinanti di quelle dolomitici che siamo abituati di ammirare spesso. Quella volta ero in compagnia di mio cugino Giuseppe e di altri amici più grandi di me. Giuseppe, era  appassionato dalla fotografia, che non ti lasciava andare avanti. Saltava come un  capriolo, tra una roccia e l’altra, per centrare con l'obiettivo di una vecchia macchina fotografica, un residuato bellico che abbiamo trovato in un accampamento dell’esercito tedesco, poco fuori, sotto gli ulivi del paese, un albero sventrato dal fulmine, un macigno corroso, una lapide in memoria di qualcuno ammazzato, una pletorica famiglia di porcelli selvatici incrociati con i cinghiali. Il santuario si trova in una  piccola valle , rivestito di decoro neoclassico alla Vergine della Montagna, metamorfosi cristiana di qualche oscura divinità terrestre.

Gli anni successivi, quando ci ritornai con mia zia Francesca, che svolgeva l’attività di venditrice ambulante di dolciumi, in occasione della festa della Santa Patrona della montagna, ne approfondì la leggenda. Questa leggenda racconta di un conte Ruggero che, stando alla caccia, fu tratto dai suoi levrieri sul luogo dove un giovenco, inginocchiato, frugava col muso la terra. La fu trovata una croce greca e là sorse il santuario. Dove si strinsero, fino a tempi recenti, patti di sangue e dove ancora oggi, per la Madonna di settembre, salgono da ogni parte della  provincia di Reggio a migliaia i pellegrini.

Dal pellegrinaggio di Polsi, fulcro della pietà popolare e del folclore calabrese, come pure di quello di San Rocco d’Acquaro, che dista pochi chilometri da Cosoleto, ne ha parlato più volte Alvaro. Segnatamente nella prime pagine di Gente in Aspromonte:   “Il vinattiere. là costruisce la sua capanna di frasche presso la sorgente dell’acqua, e la notte, per illuminare la strada, si appicca il fuoco agli alberi secchi”. La tessa cosa succedeva e forse succede ancora oggi anche ad Acquaro: un  grumo  di case e con poche anime, ma affollato da una folla incontenibile, dove anche il panettiere, il macellaio, il vivandiere e il cocomeraio al par del vinattiere, piantono le loro capanne di frasche di castagno, per riparare sia  gli avventori che le vivande dal sole. Oltre che una festa religiosa, quella di Acquaro e di Polsi, é una scampagnata popolare. Ovunque vedi fuochi accesi e cucine da campo improvvisate , dove fanno arrostire la carne di capra o di pecora che  vengono scozzate e subito dopo appese ad un ramo del grosso castagno e scuoiate. Questo rito si perde nella notte dei tempi, un rito pagano indifferenti ai valori morali della vita. Il tutto si svolge all’aria aperta e sotto lo sguardo dei pellegrini e dei curiosi, e dai ragazzini.  Per un momento, ti sembra di essere nella periferia di Marrakech, dove finisce la sponda del mare di sabbia, il cui orizzonte é cinto dalle cime nevose dell’Atlante , dove avverte la vicinanza delle vuote distese pre - sahariane, dove trovi, all’ombra delle palme,  accampate  le carovane di cammelli dal deserto, dove gli improvvisati macellai scozzano le capre. Qua e là fumano i bracieri rettangolari su cui cuociono le brochettes, serie di pezzi di carne, generalmente di montone, infilati su spiedini di ferro. Venditori di dolciumi, di giocattoli e di palloncini colorati , girano con l’assortimento a tracolla. La stessa cosa succedeva allora ad Acquaro e negli altri piccoli borghi della Calabria.

Questo rituale arcaico, che si tramanda nel tempo, ci richiama al Medioevo, quando i saraceni e gli arabi, scorrazzavano nelle coste della Sicilia e della Calabria, le capre.

“Gli innamorati girano tra la folla per vedere l’innamorato; e cani arrabbiati, vendicatori, devoti, latitanti e ubriachi che rotolano per i pendii come pietre. Allora vivi la montagna, e da tutte le parti il cielo é seminato dei fuochi dei razzi...” Quelli sono i luoghi frequentati del famoso bandito Giuseppe Musolino, che per anni ha terrorizzato la zona dell’Aspromonte.

L’ultima volta che ci siamo  stati, sono trascorsi circa sessant’anni e il nostro ricordo sta diventando sempre più labile, quasi che tende a svanire senza lasciare segni nella nostra memoria, ma la cronaca di viaggio di Lorenzo Mondo,  apparsa sulle pagine della “La Stampa“, ci fa ritornare indietro nel tempo e ci fa rivivere la nostra fanciullezza  e i luoghi della memoria. Egli così scrive: “  Il santuario é affidato a un giovane prete, che si adopera a restaurare l’annesso convento e gli ospizi dei pellegrini, a rianimare il sito predisponendo le strutture necessarie a incontri di spiritualità e a convegni culturali ( a Polsi si é appena varato un laboratorio annuale di scrittura creativa). Mentre parla, con fervore, dei suoi progetti in cui entra anche una strada asfaltata, gli é accanto un uomo di robusta vecchiaia, il volto cotto dal sole e dal vento. E’ il custode del santuario. Se ne sta' lassù tutto l’anno, spesso da solo. D’inverno si scalda al fuoco del camino e sente  ululare i lupi che mettono a repentaglio le sue capre. Questo Pasquale me lo figuro come uno spigolo del santuario, come l’emblema di una solitudine che si vuole oggi meno arcaica, più civile, spazio di riflessione e di svago contro le  frenesie e le smemoratezze della vita moderna. Polsi, rifiorente cenacolo di cultura e di storia nel cuore dell'Aspromonte, circondato da una natura incorrotta, suggerisce una possibile via di lenimento e di sviluppo per la povertà della Calabria. Il discorso vale per i monti abbandonati e la costa deturpata, per i villaggi rupestri e le città d’arte. Chissà se ci saranno abbastanza forze per raccogliere il segnale, per scuotere il lungo sonno di questa terra”.

L’INUTILE  MARE.

La  vecchia terra di Calabria, oltre ad aver dato i natali al sottoscritto, é stata una terra amata dai grandi viaggiatori dell’Ottocento, che l’hanno percorsa in lungo ed il largo, ma é stata anche la patria di musicisti come Francesco Cilea e grandi scrittori come Corrado Alvaro. Ma è stata anche il diverso esilio di due scrittori, in Calabria e dalla Calabria. E consente di scendere dalle pagine dei libri nella realtà che li ha ispirati, in quella almeno che ne rimane.

E così che si aggira  Lorenzo Mondo, per le stradine anguste di Brancaleone, rimasticando qualche verso della poesia di Pavese - Lavorare stanca.

 Lavorare stanca:

“ Uomo solo dinanzi all’inutile mare

Attendendo la sera, attendendo il mattino”;

“ Le ragazze al crepuscolo scendono in acqua

Quando il mare svanisce, disteso”.

Ma due file ininterrotte di case  chiudono a vista, e non ci sono ragazze sulla spiaggia, lambita da acque che sospetto inquinate. Resiste la suggestione delle poche rocce rotolate nel mare per qualche terremoto, le stesse che il poeta vide rosseggiare sotto la luna. In realtà, il mare largo e vibrante di Pavese bisogna cercarlo nelle coste che si dilungano solitarie e custodiscono la loro afflitta magia fuori degli abitati coatici e depressibi, nel percorso che va da Reggio Calabria alla Locride. Troppo tempo é passato, troppi mutamenti, non sempre vantaggiosi, si sono verificati anche quassù. Labili sono ormai le tracce di Pavese a Brancaleone. Anonimo il bar Roma, che ti dicono tale e quale, dove il confinato andava a leggere il giornale e a conversare con qualche conoscente. Ti conducono con qualche malcelata fierezza ed esuberante cordialità alla povera casa in cui abitò. Non c’è targa o iscrizione che lo ricordi, i testimoni stentano a individuare la sua stanza, che lo scrittore descrive angusta e soffocante, riscaldata d’inverno da un asfittico braciere. Inutile cercare la finestra, penetrata dall’illusoria libertà del mare. Il piccolo giardino, rincivilito, é chiuso da una siepe di fichidindia, forse il solo superstite profilo di allora. Aldilà corre, parallela alla costa, la strada ferrata che torturava Cesare Pavese con morsi di nostalgia.

Più seducente si rivela la salita a Brancaleone superiore, tra gialli calanchi che fanno venire in mente l’alta Langa. L’antico paese, dove era confinato un anarchico, viene rievocato nel romanzo Il carcere: “ Il poggio era un vero Monte Oliveto, cinerognolo e riarso. Quand’era stato in cima Stefano aveva guardato il mare e le case lontane. Per tutto il giorno s’era isolato come fuori del tempo soffermandosi a guardare le viuzze aperte nel cielo. C’erano donne e vecchi lassù, fra quelle muraglie scolorite  e calcinate, che non erano mai usciti dalla piazzetta silenziosa e delle viuzze”. Ma una disastrosa alluvione, e un progressivo disamore, hanno spinto gli abitanti verso il mare. Il paese abbandonato e depredato di ogni vestigia si é ridotto a muri crollati, si sgretola al sole, tra guizzi di lucertole, nel profumo del finocchio selvatico. Frammenti di lapidi sepolcrali, una grotta poggiante su una colonna che allude all’albero della vita.... Un’eco appena della cultura basiliana - i monaci venuti dall’Oriente - che fecondò queste terre impervie. Fuori, la vista é superba ma non basta a rasserenare lo spirito. Quando si pensa che gli uomini non hanno saputo mostrarsi più pietosi dei ricorrenti cataclismi  naturali.

A pochi chilometri si raggiunge San Luca, il paese di Alvaro. Le case piantate sulla pietra si inerpicano strette sulla montagna. La casa dello scrittore, che é sede della Fondazione Alvaro, custodisce un sobrio, ordinato museo: ritratti, foto d’epoca, suppellettili, libri, documenti. A fianco del duomo sopravvive il pretenzioso portale del palazzo Mezzatesta, i signori del luogo con i quali si confrontano, nel loro elementare senso di giustizia, i pastori di Gente in Aspromonte. Vicoli, archivolti, fontane, tradiscono l’abbandono, non ancora l’irrimediabile decadenza. Restano aggrappati alla banale insolenza del paese nuovo, marchiato di torbide fortune ( certe case - mi dicono - sono assegnabili al bottino dei sequestri di persona) L’abitato originario respira l’aria che Alvaro, transfuga verso un destino di scrittore europeo, consegnò ai suoi libri con nostalgia ritrosa. Per questo gli uomini della Fondazione Alvaro ( in primo luogo Fortunato Nocera e Aldo Maria Morace) si adoperano con generosità impaziente, contro ogni colpevole inerzia, perché sia sottratto allo sfacelo”.

Sull’altro versante, alle pendici del Monte Alto, che dalla piazza di Cosoleto si scorge nella sua meravigliosa bellezza, si trova  Gerace, sulla vetusta akropolis, là dove sorgeva la potente Locri, che offre alla nostra ammirazione il bellissimo duomo basilicale del secolo XI. Qualche castello baronale, dei Carafa, dei Marzano, dei Ruffo, aderge ancora gli ultimo baluardi rivestiti di edere sulle cime de’ contrafforti, appunto, di Monte Alto. A Brancaleone, non ci siamo mai stati o perlomeno siamo transitati sulla linea ferroviaria che da Reggio Calabria porta a Bari. In questi nostri viaggi, nel lontano 1947, quando frequentavamo la Scuola Allievi Carabinieri di Bari, abbiamo avuto modo di ammirare la meravigliosa costa Ionica, con tutti questi borghi antichi barbicati sui pendii. Ricordo ancora i paesi e i borghi lungo questa bellissima riviera , la strada ferrata attraversa corsi d’acqua amplissimi e ghiaiosi entro i quali d’estate scorrono modesti ruscelli argentei. Le fiumare, con le loro suggestive vedute le cui scarse e divise correnti riflettono la luce del tramonto.

I gialli calanchi  che fanno venire in mente la vecchia e sempre amata Toscana, ma anche l’alta Langa e quelle rocciose di Cassis  in Provenza, che confinano con la città di Marsiglia. I paesi, i borghi antichi, sia quelli della Locride, della Toscana e della Provenza, sono tutti uguali, rinchiusi fra le muraglie scolorite e calcinate, case piantate nella pietra che si inerpicano strette sulle colline e sui contrafforti delle montagne. Anche Cosoleto, sebbene non sia barbicato su di un costone roccioso, ma é immerso fra il verde argentato degli oliveti e dei castagneti che le fanno corona, é anch’esso un paese antico, un paese fuori del tempo, con le sue viuzze aperte nel cielo e con allo sfondo quella striscia di mare azzurro che si fonde con l’orizzonte della grande pianura di Petrace.

E’ un paese come gli altri abbandonato e ridotto a muri crollati, che si sgretola al sole. I giovani sono tutti partiti, sono andati in giro per il mondo in cerca di fortuna, come del resto  feci anch’io. Molti sono emigrati negli Stati Uniti d’America, in Canadà, in Australia  o nelle grandi città del nord’Italia. Sono rimasti soltanto le donne, i vecchi e i bambini. La testimonianza  di Lorenzo Mondo, non é una novità, ma é una realtà palpabile, una constatazione che si basa su prove concrete: é la pura verità. Da quando ho chiuso dietro di me il piccolo cancelletto della mera fanciullezza, troppo tempo é passato, troppi mutamenti: anonima é ormai la piazza dove andavo a giocare con i miei coetanei, come pure i castagneti dove andavamo in cerca di nidi e di castagne.  Di tutto questo, sono rimasti soltanto i ricordi: i ricordi della fanciullezza e di un paese che non ha potuto offrire ai suoi figli il benessere agognato.

Ma che dire dei meravigliosi boschi che circondano il piccolo borgo di Cosoleto? Non ci vogliono testimonianze per  affermare la loro bellezza. “In primavera, come per magia la folle corsa del vento si placa e le stelle, impallidendo, scompaiono fino a lasciarsi inghiottire dalla luce radente del primo mattino che, tenuemente tinge, illuminando la giogaia, gli oliveti, i castagneti e le vigne rivestiti dalla calaverna. Arrossendo dinanzi all’aurora liberano dalla morsa del gelo i rami e la prima gemma, eccitata, annuncia il nuovo ciclo.

Terra di ulivi e di castagne.

 Mentre il disco  solare scalda le pietre adagiate nei valloni e arrampicate nei pendii ospitano  ramarri verdastri, che spiccano come fiori nel biancore delle rocce, il castagno e l’ulivo dominano sulle colline quel paesaggio bellissimo che si fonde con il profondo del cielo e del mare. Il castagno racconta alle ginestre, che numerose si tingono di giallo, una piccola storia: “ Si narra che il mio nome derivi da Kastanis, città del Ponto a detta di Plinio particolarmente abbondante di miei fratelli. Sembra, per alcuni di quelli che si sono presi la briga di studiare la mia provenienza, ch’io sia originario dell’Europa orientale e dell’Asia Minore. Ormai però mi considero una pianta indigena italiana, poiché vengo coltivata da tempo immemorabile come pianta agraria e forestale che i Romani diffusero sulle Alpi e sull’Appennino settentrionale e poi negli altri Paesi europei. Le mie foglie sono alterne, seghettate e con nervature parallele. Gli amenti possono avere o solo fiori maschili, simili a fiocchi gialli, o fiori maschili verso l’apice e femminili verdi, più piccoli, alla base. I miei frutti, le castagne, sono ricche di amido e di zuccheri e sono nutrienti e digeribili ( hanno costituito fino ad alcuni decenni fa, l’alimento base delle popolazioni rurali  di zone collinari e montane, in inverno).

Le stesse l’uomo le utilizza fresche, al forno, secche e ridotte in farina, e l’industria dolciaria le usa per marmellate e marrons glacés. Il legno che mi riveste é molto simile a quello della quercia, sebbene non abbia la marezzatura argentea, tipica di quell’albero. In fatto di abitazione sono piuttosto esigente e cresce bene su suoli acidi di montagna raggiungendo, dopo una certa età s'intende, altezza di 30 - 35 metri. Famoso per le sue dimensioni é il vecchissimo “ Castagno dei cento cavalli” ( é un po' presuntuoso vi avverto) situato alle pendici dell’Etna, sotto la cui chioma, secondo la tradizione, si sarebbe rifugiata Giovanna d’Aragona con tutto il suo seguito di cavalieri per ripararsi da un’improvviso temporale. Sono molto orgoglioso, invece, di mio fratello maggiore dello “ Castagno Miraglia”, che abita la foresta di Camaldoli ed é diventato famoso in tutto il  mondo perché ad un fotografo, un giorno, venne in mente di riprendere con la propria macchina fotografica un monaco all’interno del suo fusto. Da quel momento però mio fratello maggiore ne ha passate di cotte e di crude: c’è stata gente che si é divertita a scrivere il proprio nome con un coltello sulla sua corteccia e altri a portare via pezzetti compromettendo la sua salute. Per fortuna il professor Michele Paluda, che in quel periodo era amministratore delle Foreste Casentinesi, s'accorse di questi atti vandalici e corse ai ripari, proteggendolo e togliendo l’inutile tavolo situato all’interno del fusto: adesso i monaci li fotografano in piedi e appoggiati al tronco: che gusti! Ah! Dimenticavo: sembra che al tempo del Sommo Dante mio fratello maggiore fosse appena nato.

A dir la verità credo che questa storiella sia un po' esagerata....”.

Ma qui, tra una esagerazione e l’altra, termina il fugace viaggio in quella terra antica e meravigliosa di Calabria. Ma prima di terminare questo nostro lungo racconto, vogliamo parlarvi di due “ memorial” di battaglie in Aspromonte.

Il pino di G. Garibaldi e la Battaglia dello Zilastro.

L’Aspromonte é diventato un osservatorio privilegiato per conoscere gli aspetti naturali e paesaggistici dell’ultimo lembo della penisola italiana.

Si tratta di un acrocoro, esteso su una superficie   di circa 1.648 kmq e caratterizzato da ampie terrazze ( pian alti) che degradano verso i tanti valloni che lo solcano in più  parti. La presenza, in queste terrazze, di fossili viventi un tempo in fondo al mare attesta chiaramente la sua origine marina. Il clima é temperato con due soli stagioni: quella freddo umida e quella caldo arida. La cima più alta é il Montalto, a quota 1956 metri. Le formazioni vegetali si possono sintetizzare in due grandi gruppi: la macchia mediterranea e la foresta delle latifoglie decidue La fauna era un tempo molto ricca, ma successivamente, per cause diverse, é diminuita. Tra le specie più interessanti ci sono il lupo, il gatto selvatico, lo scoiattolo, le volti, la poiana, il driomio, il cinghiale, l’aquila del Bonelli e il tordo migratorio, che dopo di aver mangiato le ulive nelle valli, la sera raggiunge l’altopiano delle Gambarie.

La prima delle due proposte, come scrive Teresio Valsesia, sul Club Alpino Italiano, di rilettura di carattere storico della terra aspromontana riguarda il “ Cippo Garibaldi”, nei pressi di Gambarie, località turistica estiva e invernale a una trentina di chilometri da Reggio Calabria. Cartelli segnaletici indicano il luogo in cui si riferisce l’avvenimento che é  di poco successivo all’impresa dei Mille.

Contro il parere del Governo italiano che non approvava l’impresa, ritenendola intempestiva e pericolosa. Garibaldi mosse da Palermo e sbarcò in Calabria quasi nello stesso luogo ( Melito Porto Salvo) in cui aveva compiuto l’attracco per la cacciata dei Borboni. Nel pomeriggio del 29 agosto 1862, a mezza costa del colle dei Pini, nel Comune di sant’Eufemia d’Aspromonte, i bersaglieri inviati dal Governo al comando del colonnello Pallavicini, aprirono il fuoco sulla colonna garibaldina, ridotta a poco più di mille uomini. Una palla ferì leggermente il Generale alla coscia e un’altra gli spezzò il malleolo del piede destro. Garibaldi allora si levò il cappello e gridò forte: “ Non fate fuoco. Viva l’Italia!” Fu  poi adagiato sotto un pino laricio tuttora visibile insieme a un piccolo museo che conserva qualche reperto dell’epoca. In questo luogo, nella primavera del 1971, vi portammo in gita la nostra “principessa” Tiziana,  per farle conoscere i luoghi che fecero la storia del nostro Paese, e anche e soprattutto, per conoscere la bella Calabria. In quel tempo, frequentava la scuola media a Bagnolo Cremasco, e nel corso  dell’anno scolastico, avevano studiato lo sbarco dei Mille in Sicilia.

La Battaglia dello Zilastro.

Io, che sono nato a pochi chilometri dalle Gambarie, se non avessi letto l’articolo di Teresio Valsesia, non avrei mai saputo che oltre alla battaglia dei garibaldini sull’altopiano delle Gambarie, ci fosse stata anche quella dello Zilastro, nel 1943. Tornando indietro con la memoria, ricordo che oltre a reparti corazzati tedeschi che si ritiravano verso nord, sotto un campo di olivi di alto fusto, vi era accampato un reparto della Divisione “Nembo”, e una sera al tramonto del sole, a bordo di quattro autocarri Fiat 26, sono partiti verso l’Aspromonte. Si diceva allora, che sarebbero andati per fermare l’avanzata degli americani. Successivamente non si seppe più nulla della sorte dei militari di quel reparto.

Quegli uomini della Divisione “Nembo, in quel pomeriggio del settembre 1943, avevano combattuto il nemico nella località di Zilastro, Quella località si raggiunge dal bivio del Crocifisso di Zervò, sulla dorsale aspromontana, seguendo il Sentiero Italia in direzione nord che in questo tratto é lastricato. Dopo cento metri, nella pineta, si incontra il monumento che ricorda  la battaglia dello Zilastro.

“ Se il telefono, introdotto in Aspromonte all’inizio del ‘900 per la ricerca del brigante Musolino, fosse stato utilizzato per comunicare l’avvenuto armistizio con gli angloamericani, non ci sarebbero state tante inutili vittime.

Infatti, il conflitto era già stato sospeso quando i paracadutisti della Divisione “ Nembo”, inviata in Calabria per fermare l’avanzata delle truppe alleate, dopo aver affrontato nel Comune di Santo Stefano in Aspromonte due reggimenti canadesi, ingaggiò una cruenta battaglia sull’altopiano dello Zilastro. Circa 400 valorosi soldati della “ Nembo”, stremati anche per i lunghi giorni di cammino e con poche scorte alimentari, andarono all’assalto, dando prova di incredibile coraggio, di un terzo reggimento canadese ( “ Nuova Scozia”) composta da 5 mila unità. Terminate le munizioni, fecero uso persino delle armi bianche ingaggiando un violento corpo a corpo. Ordinato il “ cessate il fuoco”, il comandante del reggimento canadese espresse il suo apprezzamento per il valore dimostrato dai soldati italiani: Su quell’altopiano dove  cresce rigoglioso il pungitopo ( “ u silastru”), insieme a una stele posta per ricordare quei valorosi paracadutisti, sembra aleggiare ancora tanta amarezza”.

Come abbiamo detto e scritto più volte, concludere in una sintesi le bellezze  dell’Aspromonte, non é facile. Dopo  centinaia di anni di vicende sempre più tristi con il brigantaggio, che ancora purtroppo resistono alcune cosche, ma per fortuna  ormai isolate, la Calabria si é ormai sollevata. Come tutte le cose veramente forti e pure, la Calabria ha bisogno di spiriti profondi per essere compresa e di anime vergini per essere amata, come lo furono  gli uomini dell’eroe dei due Mondi  e quelli della Divisione “ Nembo”, che scrissero pagine di vero eroismo, e irrorarono quelle zolle con il loro sangue generoso. Si, é vero, questa é una terra antica e di meditazione, si apre intera con le sue luci abbaglianti e le sue cupe ombre ai pellegrini silenziosi e pensosi di ieri e ai turisti chiassosi di oggi della sua bellezza. Un grande scrittore dell’Ottocento ha così scritto: “ Il suo fascino, lontano dai soliti allettamenti preparati in altri luoghi, é lento ma duraturo; “é come quei profumi, che sembra debbano subito sparire, eppure resistono al tempo e penetrano di sé ogni cosa”.