AVANTI CLICKPELLEGRINAGGIO ALLA MADONNA DEL CARMINE DI PADOVA

16 maggio 2002

Il mattino del 16 maggio, quando abbiamo aperto la finestra che da sul giardino, il cielo incominciava ad albeggiare e una leggera foschia fasciava i fossi, le case e le strade del piccolo villaggio di Campitello. Nella Piazza Garibaldi: una Piazza di nuova costruzione, che rispecchia le linee prospettiche di un disegno innovativo, era completamente vuota.  Era vuota perché oggi é giovedì, una giornata anomala per andare in gita turistica, mentre le   domeniche scorse a quell’ora, incominciava a popolarsi dei numerosi  mercantini che  si apprestavano a sistemare le loro bancarelle merceologiche. Si, perché, tutte le domeniche in Campitello, da data immemorabile, si svolge  il mercato settimanale e che richiama moltissime persone anche dai paesi limitrofi. Vedendo tutta quella gente eterogenea, che comprende elementi diversi di razza e di colore, che si muove tutta indaffarata, ti da la sensazione di vivere una giornata nei quartieri di Napoli o di un’altra città del Sud del Mediterraneo, ma se vogliamo, é anche una giornata d’incontro con gli amici. Per capire meglio l’essenza di questa diversità, vi invito a riflettere su un verbo, esistente nella lingua greca, che, non avendo corrispettivi in nessun’altra lingua, é di fatto intraducibile, a meno che non si voglia ricorrere a delle frasi complesse. Questo verbo é “ogorazein”.

“ Agorazein” vuol dire “ recarsi in piazza per vedere che si dice” e quindi parlare, comperare, vendere e incontrare gli amici; significa però anche uscire di casa senza un’idea precisa, gironzolare al sole d’estate e immersi nella nebbia d’inverno, trattenendosi al bar, per dare un’occhiata alla Gazzetta di Mantova, sorbire un buon caffè, fare due chiacchiere in attesa che si faccia ora di recarsi a messa e poi a pranzo, in altre parole “intalliarsi”, come si dice a Napoli e nelle città partenopee, ovvero attardarsi fino a diventare parte integrante di un magma umano fatto di gesti, di sguardi e di rumori. Come  scrive Luciano De Crescenzo, “ Agorazonta”, in particolare, é il participio di questo verbo e descrive il modo di camminare di colui che pratica l’ “agorazein”, e cioè il procedere lento, nel nostro caso fumare la pipa o con le mani dietro la schiena e su un percorso quasi mai rettilineo. Lo straniero che, per motivi di lavoro o di turismo, si trovasse di passaggio in un paese greco, sia esso Corinto o Pozzuoli, resterebbe molto stupito nel vedere un così folto numero di cittadini camminare su e giù per la strada, fermarsi ogni tre passi, discutere ad alta voce e ripartire per poi fermarsi di nuovo. Ma noi, non siamo a Corinto e neppure a Napoli o a Pozzuolo, ma siamo  in Lombardia e precisamente a Campitello, che se lo vogliamo o no, sta diventando un centro multi etnico, ove ci sono altri usi e costumi e dove la vita scorre diversamente che nella Magna Grecia, oppure a Napoli o nel Sud d’Italia.

Dopo questa divagazione o digressione come dir si voglia rispetto all’argomento, ritorniamo a parlare della nostra escursione nella Città di Padova. Davanti alla chiesa parrocchiale, c’era il pullman e un gruppetto di partecipanti che discutevano del più e del meno.  Dalle stradine laterali e dalla Piazza G. Garibaldi, (ex piazza Sigulina) insonnoliti ed in piccoli gruppetti, si avvicinavano  a passo lento verso il luogo di partenza. Alle ore 7 precise, come previsto dal programma, il torpedone  si apprestava  alla partenza.  All’ultimo minuto, dalla porta della canonica, é uscito Don  Enrico Castiglione, il parroco della nostra parrocchia, che ci ha guidato in questa escursione, che infondo non é stata una vera escursione, ma un raduno spirituale per  noi della “Terza età”.

E’ meraviglioso osservate la campagna padana alle prime luci del giorno, con i suoi filari di pioppi, i fossati e i campi  seminati, col contorno lontano lontano delle Alpi e degli Alpennini che serve a fondere insensibilmente l’immensità verde del piano con l’immensità azzurra del cielo. Il Monte Baldo, é stato il primo ad essere baciato dal sole di maggio, e sotto quella luce, mostrava le sue bellezze naturali, che poco prima erano nascoste  dai misteriosi veli della natura  e dalla luce poco diffusa delle prime ore del mattino.

 Mentre il grosso torpedone viaggiava ad andatura turistica sull’Autostrada verso Verona, alcuni degli amici Campitellesi chiacchieravano, mentre altri sonnecchiavano, mentre noi , come al solito, eravamo intenti ad osservare il paesaggio. Possiamo dire, che ovunque é bellezza di fertili campi ben avviati al par di giardini e subito si scorge come l’agricoltura sia la principale fonte del benessere; ma qua e là sono sparse anche l’opera dell’umano ingegno.

Subito dopo Mantova, abbiamo ammirato le risaie specchianti, che in un certo senso, ci hanno fatto rammentare la Lomellina ed il Monferrato, luoghi da noi noti dai quali  conserviamo un caro ricordo. “Uno chiude dietro di sé il piccolo cancello della mera fanciullezza - come scrive Joseph Conrad -  ed entra in un giardino incantato. Là perfino le ombre splendono di promesse. Ogni svolta del sentiero ha una sua seduzione. E non perché sia una terra ignota. Si sa bene che tutta l’umanità ha percorso quella strada. Ma si é attratti dall’incanto dell’esperienza universale da cui si attende di trovare una sensazione singolare o personale: un po' di se stessi ”.

Si va avanti, allegri e frementi, riconoscendo il bene e il male insieme - le rose e le spine, come si dice - la variopinta sorte comune che offre tante possibilità a chi la merita o, forse, a chi ha fortuna. Si, uno va avanti e il tempo pure va avanti, finché ci si scorge di fronte una linea d’ombra che ci avverte di dover lasciare alle spalle anche la regione della prima gioventù.

Questo é il periodo della vita che può portare ai momenti ai quali abbiamo  accennato. Quali momenti? Momenti di tedio, di stanchezza, di scontento, di sofferenza dopo una lunga e disastrosa guerra mondiale. Momenti d’irriflessione. Da questi luoghi, se vogliamo puntualizzare, é  maturata l’idea ed ha  avuto inizio la nostra lunga carriera militare, sotto le grandi ali dell’aquila turrita, che ha dimostrato sempre ed ovunque, una grande fierezza e nobiltà, tanto che a questa nobile istituzione, giustamente, le é stato attribuito l’appellativo di Arma benemerita. 

Centottantasette anni, di storia e di cronaca, densi di gloria, di illusioni, di severe realtà, di dolori, di entusiasmi. Oggi, é la quarta potenza militare del nostro meraviglioso Paese. Possiamo dire, senza alcun timore, e di questo ne siamo orgogliosi, di aver servito con onore per oltre 40 anni di onorato servizio questa grande famiglia, che é l’Arma dei Carabinieri, per il bene della nostra Italia. Inoltre,  possiamo dire, con un certo orgoglio, che la divisa da maresciallo e gli alamari argentati, ci sono rimasti cuciti a doppio filo sulla nostra pelle.

 A Verona, abbiamo imboccato l’Autostrada Serenissima, percorrendo un  paesaggio meraviglioso, diverso da quello padano, perché qui incominciano le verdi e lenti propaggini di quei monti Berici nati per essere sfondo alle arcadie di Francesco Zuccarelli non meno che alle olimpiche architetture di Andrea Palladio. Ma noi oggi, non andiamo a Vicenza, ma  a Padova, nella città del Santo, come la chiamano i padovani.

 Ecco, siamo giunti  a Padova, dove scopriamo insieme ai nostri amici della cosiddetta “Terza età” di Campitello,  la Città  e la Basilica di S. Antonio: uno dei più famosi santuari d’Italia.  Questa bella città del Veneto centrale, é situata sul Bacchiglione. E’ conosciuta pure, oltre alla Basilica di S. Antonio, per  la statua equestre di Donatello, che campeggia in mezzo alla Piazza, di fronte alla Basilica, dedicata a Erasmo Gattamelata da Narmi, detto il ( ci. 1370 - Padova 1443), capitano di ventura al servizio di Venezia, che combatté contro i Milanesi: sconfisse Nicolò Piccinino a Tenno ( 1439),  riconquistò Verona occupata dai Visconti. La Scuola del Santo ( dipinti del Tiziano). L’Oratorio di S. Giorgio. Il Museo civico.  L’Orto botanico ( il più antico d’Europa). La Basilica di S. Caterina.  La Chiesa degli Eremitani e l’antichissima Università, ove ebbero cattedra Pietro d’Abano, Galilei e Morgani.

Nel programma c’era compresa la visita alla Cappella degli Scrovegni, ma per questione di orari e di prenotazione, non é stato possibile visitarla. Proseguendo nella nostra visita in questi luoghi sacri e storici, qualcuno del gruppo, che non ricordo chi fosse, mi ha domandato, ma chi erano gli Scrovegni? Gli Scrovegni, era una potente famiglia  della nobiltà padovana. La storia ci dice che, partecipò alle contese cittadine ora a fianco ora contro i Carraresi. Enrico Scrovegni (m. dopo il 1336), fece decorare da Giotto la famosa cappella nell’Arena di Padova, detta Cappella degli Scrovegni ( con i celebri affreschi di Giotto), che recentemente, dopo un lungo restauro, é stata aperta al pubblico.  Questa Cappella, non era inclusa nel nostro itinerario, e dietro nostro suggerimento, Don Enrico, si é preoccupato di prenotarla, ma come abbiamo detto sopra, non é stato possibile. Vuol dire che la prossima volta che capitiamo a Padova, andremo a visitare questo gioiello della pittura italiana.

GIOTTO E LA SUA PITTURA.

Per comprendere la pittura  di Giotto, dobbiamo fare un passo indietro nel tempo, dobbiamo risalire alle origini dell’arte figurativa che nasce in un’epoca molto remota, con le prime immagini di animali graffite e dipinte sulle volte delle grotte  naturali. Con esse l’uomo primitivo comunicava, in modo immediato ed essenziale, le proprie necessità materiali e spirituali in una serie di figurazioni intensamente espressive ed emotivamente coinvolgenti.

Questa ricerca, di sintesi, che faccia appello ai bisogni spirituali più elementari e, conseguentemente più universali dell’uomo, diviene consapevole con l’avvento della storia. Nelle loro molteplici espressioni formali, le grandiose effigi Sumeriche, Assiro - Babilonesi, Egizie, Fenicie e Gretesi ci trasmettono, tramite lo spirito della  civiltà a cui esse partecipano, un messaggio più profondo che ricollega il presente al passato  e lo proietta nel futuro. La cultura Greca con la sua ricerca nell’assoluto  nella perfezione e le colossali statue ed architetture Romane, non si discostano dalle stilizzatissime icone Bizantine  nel tentativo di trasmettere ai posteri la nostra capacità di percepire e fruire dell’eredità spirituale che esse ci trasmettono. La ricerca dell’unità nella pluralità unisce spiritualmente Giotto a Michelangelo e Leonardo da Vinci, come pure ai grandi pittori e scultori Barocchi.

Sebbene usino tecniche diverse, adeguate al momento in cui vivono, questi grandi artisti ci suggeriscono una chiave di lettura che non si sofferma su ciò che l’episodio racconta, bensì su ciò che esso evoca e suscita nel fruitore emozioni legate alla sua esperienza di vita, che si allargano in esperienze universali,  e che rispondono a profonde esigenze interiori. L’opera figurativa del ‘900, nella scomposizione e ricomposizione appartenente  arbitraria di immagini, nell’annullamento completo della figura in un’astrazione di luci e colori, nelle molteplici manifestazioni a volte di difficile interpretazione, può apparire inusuale ad una lettura superficiale. Essa non deve essere analizzata rapportandola a ciò che essa rappresenta, poiché la sua natura simbolica esula da qualsiasi precisa definizione.

Essa deve essere fruita e goduta in modo istintivo, lasciando che le emozioni e sensazioni che essa sprigiona si impossessino di noi  e ci conducono ad una lettura intuitiva del messaggio.

 Giotto  proviene dalla scuola di Cimabue che gli trasmise il gusto per la ricerca plastica e volumetrica, operò fino in fondo il distacco della tradizione bizantineggiante, contrapponendo alle astratte idealizzazioni che le erano proprie la sofferta umanità delle sue figure, costruite con una essenzialità di mezzi pittorici che é perimenti lontana dal decoratissimo delle scuole goticheggianti. Le sue opere, oltre a quelle della Cappella degli Scrovegni, che avremmo dovuto visitare  oggi per la prima volta, le abbiamo ammirate ad Assisi, nella chiesa superiore, a Firenze a S. Maria Novella, a Madonna d’Ognissanti, agli Uffizi; affreschi con Storie della Madonna e del Cristo e il Giudizio universale (1303 - 1350), a Santa croce e alla Cappella Bardi. Come architetto, ideò il campanile di S. Maria del Fiore di Firenze e ne iniziò la costruzione.

 Quest’antica e nello stesso tempo moderna città, che conserva le strutture, le Piazze, i portici, i palazzi e i bellissimi monumenti, é l’antica Patavium, alleata di Roma dal sec. III a .C., ne divenne municipio nel 49 a. C. Libero Comune (sec.XII), passò sotto la signoria di Ezzelino III da Romano (1237- 56) e poi ( sec. XIV) dei Carrara. Nel 1405 passò alla Repubblica Veneta. Interamente pianeggiante, se si eccettuano i rilievi dei Colli Euganei ad W. Ben irrigata dai fiumi ( Brenta, Astico ecc) e da  una fitta canalizzazione si presta ad un’intensa agricoltura.

Appena giunti  nella città di Padova, abbiamo visitato la Basilica di S. Antonio: uno dei più famosi santuari d’Italia. Venne eretta in forme romanico - gotico fra il 1232 e la metà del ‘300 per custodire la tomba di S, Antonio da Padova ( nato a Lisbona il 1195 e morto a Padova, all’Arcella, nel 1231. Sull’altare maggiore vi sono bronzi di Donatello. Nel transetto a sinistra é la cappella di S. Antonio costruita nel 1500 e contornata da bassorilievi marmorei di famosi scultori come Lombardo e Sansovino che descrivono fatti della vita del santo. Nel transetto a destra si nota la bellissima cappella decorata da affreschi di Giusto De’ Menabuoi ( lo stesso pittore che dipinse il Battistero di Padova).

Dopo la basilica, con in testa al gruppo dei Campitellesi, vi era il nostro parroco Don Enrico, che ci ha condotti a visitare il Museo da poco istituito, ai Chiostri ( ses.XIII . XV), al negozio ( libri e ricordi...).

 Abbiamo scoperto , che  Don Enrico, oltre ad essere un sacerdote  all’avanguardia, con le sue innovazioni nella celebrazione della S. Messa domenicale,  e poi, ha un particolare ascendente derivante da spiccate doti personali: é una persona dotata di carisma, non solo con i giovani che gli fanno corona, ma con tutti i parrocchiani di Campitelo. In queste poche escursioni che abbiamo effettuato con lui, possiamo dire, che é una  brava persona  e una guida turistica sufficientemente preparata.

Prima di lasciare il tempio del Santo, abbiamo piegato il ginocchio davanti alla tomba di S. Antonio per devozione, recitando una preghiera personale, una preghiera semplice, come sappiamo dirla noi  anziani della così detta “ terza età”:

Preghiera rivolta a Maria, nostra Madre

“ Siamo a maggio, il mese più bello per la natura in fiore e perché dedicato a Maria, la Madre che, per la sua intima partecipazione alla storia della salvezza, interviene efficacemente per salvare tutti coloro che la invocano con animo retto. “ Con la sua materna carità si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora pellegrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata” (LG 62).

Ma il ritmo frenetico del nostro vivere quotidiano, le molte preoccupazioni, le delusioni e gli insuccessi, i diversi modi di pensare e di agire intorno a noi ci fanno avvertire spesso un profondo senso di disorientamento e di dispersione, ci fanno sentire disuniti nel nostro intimo, creano in noi una sensazione di insicurezza, talvolta di inutilità, di scoraggiamento e di paura. E’ facile in questi momenti smarrire i senso di quanto viviamo e facciamo, può subentrare un vivere rassegnato o superficiale, un vivere alla giornata, come si sul dire. Ma é giusto rinunciare a trovare un senso più grande alla nostra vita e a ogni istante della nostra esistenza? Non solo noi della “ terza età”, che siamo qui giunti dai nostri villaggi padani in pellegrinaggio, ma tutti siamo in balia di avvenimenti e situazioni, oppure possiamo riscoprire nuovi modi di speranza e nuove energie di vita per essere ancora protagonisti della nostra storia? In questo mese di maggio con Maria di Nazaret ciascuno di noi può avere, nella fede, la certezza di essere dentro un disegno di salvezza e di realizzazione piena, fondata sulla fedeltà e sull’amore di Dio. Per questo é importante lasciare illuminare la nostra vita e le situazioni che viviamo dalla parola di Dio”.

Subito dopo questo momento di preghiera e di riflessione, ci siamo trasferiti  per la visita a Santa Giustina ( patrona di Padova): grandiosa costruzione del 1500 dalla nuda facciata sormontata da 8 cupole. Nell’abside: il coro intagliato del 1566 e grande pala del Veronese col martirio di Santa Giustina.

Alle ore 11.00, abbiamo visitato il “Duomo ( sec. XVI) con interno maestoso su poderosi pilastri. Recentemente é stata risistemata tutta l’area del presbiterio secondo i nuovi criteri della liturgia, opera dello scultore moderno Vangi, che merita di essere ammirata per la sua audacia innovativa e finezza artistica”.

Annesso al Duomo  vi é il Battistero ( sec XIII.) A pianta quadrata con ampia cupola cilindrica, tutto ricoperto di un ciclo di affreschi di Giusto De’ Menabuoi, che per questioni di orario non abbiamo potuto visitare.

IL MUSEO DIOCESANO

Il Museo Diocesano é allestito nei prestigiosi ambienti del Palazzo Vescovile e si sviluppa su una superficie di oltre duemila metri quadrati. Il Museo raccoglie preziose opere di pittura, scultura, oreficeria, codici e incunaboli, paramenti sacri provenienti dal territorio della Dicesi di Padova. Abbiamo  potuto ammirare, esposti in questi spazi secondo criteri cronologici e per sezioni, le opere che testimoniano la ricchezza culturale, la sensibilità artistica e la profonda fede della Chiesa padovana dai secoli immediatamente anteriori al Mille fino ai giorni  nostri.

Il percorso espositivo si apre con due preziosi oggetti provenienti dal Tesoro della Cattedrale: un calamaio trasformato, come ci ha spiegato la nostra simpatica guida: una giovane signora con una grande preparazione culturale ed artistica, in crismino ( sec. IX) e una formella in steatite con Cristo benedicente ( sec.XI). Risalgono al XIII secolo la croce processionale ( 1228) e la preziosa coperta di Evangeliario proveniente dalla Collegiata di santa Giustina di Monselice -

Nelle sale del Belvedere sono presente opere dei secoli XIV e XV che testimoniano la vivacità culturale e artistica della città e del territorio. Tra le opere pittoriche di particolare interesse il ciclo con le storie di san Sebastiano realizzato nel 1367 dal pittore veneziano Nicoletto Semitecolo, collaboratore di Guariento a Padova; e le tavole di Giorgio Schiavone provenienti dalla chiesa di San Francesco Grande di Padova; tra la produzione orafa spicca il grande reliquiario della Croce ( 1435 - 1453).

Nelle sale del Seicento e Settecento, secoli in cui le chiese si rinnovano nelle forme architettoniche e nell’arredo sacro, dalle suppellettili ai parati, sono esposte le opere degli artisti attivi nel territorio quali la famiglia di scultori Bonazza, Giambattista Tiepolo con il figlio Giandomenico e Angelo Scarabello, orafo di Este presente a Padova con la sua bottega.

Abbiamo ammirato inoltre e  con grande interesse la sala di San Gregorio Barbarico, i codici e gli incunaboli della Biblioteca. Tra questi ricordiamo i libri liturgici della Cattedrale e le opere manoscritte e a stampa accuratamente miniate provenienti dalle biblioteche rinascimentali dei vescovi Zeno e Borazzi.

Nel Palazzo Vescovile si trovano anche le prigioni, che non abbiamo potuto visitare per mancanza di tempo, ma la nostra guida ci ha fatto un piccolo cenno: “ Trattasi un complesso di celle, formatosi almeno dal trecento, che risulta costituito da quattro piccoli ambienti: due interni e due rivolti verso il cortile. Sulle pareti si conservano iscrizioni eseguite dai reclusi con il fumo delle candele o con cocci..

Durante la strada che ci ha condotti alla “ Casa del Pellegrino”, che sorge accanto alla Basilica del Santo, dove abbiamo pranzato, ci siamo fermati per ammirare la bella struttura del Palazzo della Ragione, che é a forma rettangolare, cinta da logge trecentesche.

Alle ore 15 circa, abbiamo visitato la chiesa di Santa Maria del Carmine, luogo della celebrazione odierna con il nostro Vescovo. Prima di parlare della  celebrazione eucaristica celebrata da Sua Eccellenza, il Vescovo Caporello di Mantova,  con i sacerdoti della  varie parrocchie del mantovano e con i gruppi parrocchiali della terza età, vogliamo spendere due parole su questa bellissima chiesa: fu costruita all’inizio del XVI secolo su disegno di Lorenzo da Bologna, ha la sua facciata incompiuta, come certe chiese che abbiamo visto  nella bellissima Firenze, e conserva l’abside gotica; nell’interno, ha un’unica grande navata, fastosa decorazione architettonica nella parte absidale e sagrestia rinascimentale sempre di Lorenzo da Bologna. Accanto a questa chiesa, sorge la Scuola del Carmine, edificata nel sec. XIV e tutta decorata all’interno di affreschi con storie di Cristo e di Mario di pittori veneti del sec. XVI ( G. Campagnola Girolamo del Santo e altri).

 Questo di oggi, é il secondo  pellegrinaggio dedicato a tutti quelli della “terza età” della diocesi di Mantova, che noi abbiamo partecipato. Il primo raduno si é svolto l’anno scorso al Santuario della Colomba, in provincia di Pavia, mentre quello di oggi, ci ha visti numerosi qui a Padova, nel Santuario della Madonna del  Carmine.

Parlando con numerose persone anziane come noi, abbiamo compreso che alcune di esse hanno una grandissima memoria. Ricordano le poesie, le date storiche studiate nelle scuole elementari o in quelle medie. Fra questa massa eterogenea, che differisce per genere, qualità o altro, e che comprende  elementi diversi tra loro per estrazione sociale, non abbiamo notato una grande diversità, anzi, se vogliamo, la diversità esiste. Un grande scrittore ha detto: “ Noi, camminiamo su di un tappeto di foglie morte, dove è sepolta la nostra storia e le radici del  nostro passato prossimo, quindi ricordiamo il passato ed ignoriamo spesso il presente”.

Da che cosa dipendono queste differenze? Da capacità innate, da fattori genetici? In minima parte. La vera, profonda causa delle differenze di memoria sta nei nostri interessi e nel modo in cui impariamo. Il sociologo Francesco Alberoni, così scrive: “ Noi ricordiamo le cose che consideriamo importanti, vitali e che vogliamo ricordare per sempre. Dimentichiamo quelle che non ci sembrano essenziali e che debbiamo usare solo un momento”.

Prima della diffusione della scrittura, la gente ricordava tutto a memoria. Ricordo che nelle lunghe sere d’inverno, quando tutta la famiglia era riunita attorno al focolare, mia zia Cristina, che era analfabeta, ci raccontava interi poemi, per esempio, come quelli omerici, per averli appresi nella sua fanciullezza da altre persone che li leggevano o li raccontavano. Se andiamo ad analizzare questo principio della memoria, riscontriamo che i libri sacri indiani sono stati conservati in questo modo per almeno mille anni. Il Corano, nei primi tempi, é stato trasmesso oralmente. Ma anche il greco citava a memoria l’Odissea e il fiorentino La Divina Commedia. Lo stesso faceva l’ebreo osservante con il Talmud, il protestante con la Bibbia.

Oggi, a scuola i ragazzi non imparano più nulla a memoria, come ci spiega nostra figlia Tiziana, che da molti anni insegna alle scuole elementari. Ma anche il testo lo dimenticano subito perché materie come la matematica, la storia o la filosofia, non le sentono importanti, essenziali per la loro mente per  ricordare per sempre. Le tengono in memoria per il momento della interrogazione, poi le lasciano scivolare via, come le facce incontrate a un ricevimento, o ai paesaggi osservati passando in treno.

E’ questo il motivo per cui, arrivati all’università, hanno dimenticato quasi tutta la matematica, la storia, la letteratura studiate negli anni precedenti. Ricordano solo ciò che li ha impressionati veramente: le canzoni, il nome dei cantanti, gli sport, il nome dei campioni sportivi, i personaggi del mondo dello spettacolo, le marche dei prodotti che comperano per il loro tempo libero.

Il sociologo  Alessandro Cavalli, ha dimostrato che l’ultima generazione europea ha perso il senso del futuro e del progetto. Perciò ha perso anche il senso del passato. Vive nel presente. Per duemila cinquecento anni l’Occidente ha costruito la sua civiltà sullo slancio verso il domani, sulla speranza. Ha sentito la storia come un vettore proteso verso l’alto, verso una meta infinita. Scrutava il passato per plasmare il futuro. Lottava per realizzare una vita infinitamente più giusta, più nobile, più pura. Forse questa spinta si é interrotta. La nostra civiltà - continua  il sociologo F. Alberoni - giunta ad un apogeo, ha incominciato il declino.

“ L’Occidente resta potente, domina il mondo con la sua tecnica e la sua economia. Ma ha perso la potenza spirituale delle origini, il fuoco che accendeva gli animi e dava loro una meta. Quando ogni individuo considerava la sua vita un difficile viaggio alla ricerca dell’assoluto. Perfino nell’amore.

In questo nostro tempo tecnologico e consumistico, abbiamo compreso che le nuove generazioni non hanno la forza per valorizzare e far crescere nulla.

La sofferenza dell’uomo contemporaneo.

Osservando la moltitudine  di persone come noi della terza età, che sono intervenute a questo convegno - pellegrinaggio della fede, in questo  raduno spirituale di Padova, abbiamo notato gente gagliarda e gente sofferente per gli acciacchi. Vedendo tutto questo, ci é venuto di pensare al dolore fisico,  perché il dolore fisico non si può comunicare agli altri, ma si può intuire. Nel passato la gente si lamentava e persino piangeva. Il cristianesimo dava voce e significato alla sofferenza attraverso la passione di Cristo, il Calvario, la crocifissione. La rappresentava nelle torture e nella morte dei martiri e dei santi. Questa testimonianza, l’abbiamo osservata anche oggi, in questo tempio della fede, dove é raffigurata sui numerosi quadri che mostrano il dolore, lo strazio, il lamento.

Invece negli innumerevoli film e telefilm sugli ospedali, si vedono ammalati, interventi chirurgici, si vede l’angoscia dei parenti, si vedono i medici che corrono a salvare vite umane. Ma non viene mai rappresentata la sofferenza fisica. Forse vogliamo dimenticare che, nonostante i suoi progressi, la medicina ha poche risorse nella terapia del dolore. Tant’è vero che, nei casi estremi, ricorre ancora a farmaci antichi come i prodotti dell’oppio.

Il risultato é una nuova morale, come scrivono i sociologi Cavalli e Alberoni, una nuova etichetta, che impone di soffrire in silenzio, di non disturbare gli altri con storie dei propri dolori fisici.

Si può parlare di quelli spirituali, si può cercare consolazione nella comprensione degli amici per le sofferenze amorose, si può piangere per l’incomprensione dei figli e per il loro egoismo, per una cattiveria dell’amico più caro o del capufficio. Ma non per la spaventosa sofferenza di una sciatica. Molti di queste persone, che sono sedute davanti a noi, in questo momento di riflessione e di preghiera, si rivolgono  direttamente al Signore. Le parole del Vescovo Caporello nella sua omelia, sono state parole di profonda fede e soprattutto di incoraggiamento a continuare ad avere fiducia in noi stessi e nella preghiera. Perché, solo con la preghiera e la fiducia, ognuno di noi, po' ritrovare la serenità dello spirito.

PADRE DAVID MARIA TUROLDO:

UN GRANDE UOMO DELLA SOFFERENZA.

Dall’omelia del Vescovo Caporello, ci  viene in mente  “la parola poetica in difesa degli ultimi” di Padre David Maria Turoldo. Egli, ha così scritto: “ Non é importante che la parola sia perfettamente levigata ma che aderisca alla realtà della condizione umana, che non tradisca insomma la verità dell’uomo. In una delle sue raccolte più significative, Nel segno del Tau, del 1988, il poeta, dopo di aver lamentato di non aver saputo lodare in modo adeguato la divinità, così come hanno fatto certi grandi musicisti del passato, rivendica il dovere morale dell’umanità ( anche nel dire) e l’assoluta poeticità di una parola povera ma autentica. Noi anziani, oggi più che mai, abbiamo bisogno di quella parola povera ma autentica, per elevare la nostra mente  e il nostro spirito religioso. Scrive dunque padre Turoldo:  “Signore// ma da me avrai appena/ rudi versi: stanze di versi degni della mia/ miseria d’origine.// Ad altri (...) Celebrare il favoloso corteo: // ma la madre mia contadina/ del paese usava dirmi: Figlio// sono cose troppo grandi per noi!”

La poesia di Turoldo non é mai puro esercizio retorico. E’, certo, una realtà simbolica, enigmatica, alata, che presuppone però un’altra realtà, quella della storia, aspra, dolorosa, talvolta sanguinante. La sua parola, ha scritto uno  dei suoi interpreti più acuti, Andrea Zanzotto, “ deve sentirsi vera anche come forza tra le forze caotiche del mondo, di questo mondo cui deve in qualche modo “ giovare”. C’è in essa, quindi, un insegnamento e, prima ancora dell’insegnamento, il senso del potere e dover mettersi al suo livello, a livello del suo dolore. E a questo punto appare un sentimento d’impotenza che si fa strada inevitabilmente perché collegato al male di tutti i tempi ed a quello orribile dei nostri tempi”.

Ricordo una frase bellissima di Padre Turoldo, con la quale  era solito concludere il suo sermone televisivo,   annunciando   la buona novella, con quel sorriso enigmatico che non  lasciava trasparire il dolore e la sofferenza, ma il buon umore e i buoni principi:  “Ricordatevi o miei cari fratelli, che domani é una giornata meravigliosa, una giornata piena di vita e di speranza, una giornata che nossun ha ancora mai vissuto, ecco perché, é meravigliosa e  degna di essere vissuta”. Terminava sempre con la solita frase,  che ormai é passata alla storia: “ Pace e bene a tutti”! .

IL BINOMIO TUROLDIANO: “ PENSIERO E FEDE

Ci siamo più volte domandati, ma chi era padre  David Maria Turoldo?  Era un umile frate che predicava ai fedeli  dal piccolo schermo della televisione, la Sacra Scrittura o altri argomenti di carattere religiosi, ma spesso si soffermava su argomenti della vita di ogni giorno. Ma  oltre che un predicatore, era un poeta autentico, attento alle suggestioni della parola, ma mai disponibile a porre in secondo piano il perseguimento della verità, l’impegno civile e il dovere della denuncia; soltanto adesso, a dieci anni della scomparsa, si configura come una delle voci più significative del Novecento.

  Egli é stato definito dalla critica: “ un poeta religioso del Novecento, in un contesto in cui “ religioso” é assunto come sinonimo di credente e, più ancora, di aderente a una religione specifica, che nel caso in questione é la cattolica. Allo stesso modo, se questo dire avesse un senso, potremmo affermare che Alessandro Manzoni é un poeta religioso dell’Ottocento o che Giacomo Leopardi é un poeta ateo dell’Ottocento.

Ma forse bisognerebbe approfondire il concetto di religiosità, ma noi non siamo teologi e neppure studiosi di teologia, di quella dottrina che si occupa della divinità e della religione, ma semplici osservanti: cattolico praticante. Se così fosse,  si scoprirebbe allora che essa é una dimensione permanente e universale dello spirito umano, “ la coscienza del legame col cosmo”, come afferma Benedetto Croce, quel rapporto dell’uomo con un ordine di cose divino e morale, che induceva Francesco De Santis a dire che l’anima del Leopardi é profondamente religiosa. In questa ottica riduttiva si spiega anche, ma non si giustifica, come l’opera di Turoldo non abbia potuto trovare alcun posto nell’antologia, pur eccellente e per certi versi insostituibile, di Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, edita da  Mondadori.

Padre Turoldo, oltre ad essere un teologo e un poeta,  aderì alla Resistenza, di cui il 25 aprile, tutta l’Italia ne ha festeggiato la ricorrenza. Nel momento in cui la storia presentava il suo volto più livido e inquietante, egli si schierava con i più deboli, con i perseguitati, con gli ultimi. Era il tentativo di non subire la storia, ma di trascinarla in giudizio, e di lì ricominciare da capo e inventare un futuro possibile. Scrive a proposito della storia Zanzotto: “  Che sei?, dove vai?, perché sei così?, sei una deriva che va avanti casualmente, o mossa da forze “ ulteriori”, non umane? Sei o no qualcosa su cui si può incidere? Sei un insieme di responsabilità in cui tutti siamo colpevoli nello stesso tempo, o in cui siamo forse innocenti perché già plagiati da altrui colpe? Questo é l’incalzare delle domande che si ricava seguendo l’ininterrotto processo turoldiano alla storia”.

“La resistenza di Turoldo non finisce con la fine della guerra, con la costruzione di una società aperta, libera e democratica, dove le occasioni di prevaricazione dei più forti son ridotte al minimo. La sua é una resistenza permanente, contro la desolazione morale del nostro mondo, che si é appaga di beni materiali e non si cura del vuoto dell’anima. In questo simile al suo conterraneo Pier Paolo Pasolini, é angosciato dalla riduzione dell’uomo a strumento di produzione e di consumo, della perdita generalizzata della parola e insieme del silenzio.

 Noi stessi ci domandiamo, perché  citiamo questi due poeti friulani - Pasolini e Turoldo - e non altri? Perché essi nutrono la stessa preoccupazione per le sorti del mondo contemporaneo. Nel momento in cui le risorse - come scrive Paolo Pinto - della scienza e della tecnologia consentirebbero di risolvere secolari problemi, sembra affievolirsi tensione e morale. Il risultato terribile é che  l’efficienza del sistema economico finisce per prevalere sulla solidarietà fra gli uomini. Entrambi i poeti si preoccupano infine di salvare la parola poetica, ma anche la parola tout court, oggi sommersa dall’immane frastuono che ci assedia.

Alla morte dell’anima si accompagna il pericolo della morte fisica dell’uomo, sia che si tratti della violenza incontenibile covata nelle immonde periferie suburbane delle grandi città, come pure nei piccoli centri come il nostro, é guarda caso, le spese le fanno sempre gli anziani, quelli della “Terza età”. Il sentimento di disfatta é lì, a portata di mano: come salvare questo mondo, a volte malvagio e a volte benevole? Con la misericordia di Dio, certo, ma anche affidandosi alla poesia, alla perennità dell’idea di bellezza.

Da questo pellegrinaggio di Padova, ne siamo usciti più ricchi, sia nell’anima che nello spirito. Abbiamo condiviso le nostre amarezze, le nostre sofferenze, ma anche e soprattutto la nostra fede. La salvezza, dunque, é nella parola, é nell’innocenza dei fanciulli, é nel colloquio ancora possibile con la “ buona gente”, é, soprattutto nella certezza dell’amore di Dio. “ Dio sola necessità”, come é detto in un testo di Padre Turoldo. Dio che ha compassione di tutti, che ama ogni cosa e nulla disprezza delle sue creature.

Prima di lasciare il Tempio della Madonna del Carmelo, abbiamo pregato la Vergine Santissima, recitando questa bellissima preghiere:

“Sotto la Tua protezione

Cerchiamo rifugio,

Santa Madre di Dio;

 Non disprezzare le suppliche

 Di noi che siamo nella prova,

 E liberarci da ogni pericolo,

O Vergine Gloriosa e Benedetta.

O Maria, splendore del Carmelo,

Prega per noi”.