Chi è Silvia Geraci?

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Stanata dal cesareo è nata a Carini (PA) il 16/04/82 da subito diffidente, misantropa e incontentabile. Silvia ha occupato l'infanzia a leggere e "giocare a partire", attività che l'accompagnano tutt'ora nella forma di continui traslochi emotivi. Scritta la prima storia a sei anni, non ha quasi mai smesso, ritraendosi dal racconto, al monologo, alla poesia. Attualmente passa il tempo a disgustarsi del mondo, inginocchiarsi di fronte alla bellezza, e indignarsi della morte. Studiare da tre anni Filosofia non l'ha aiutata, ma lei ne è contentissima





 

 

 > Il rapporto col proprio corpo
 > Immunitas
Accarezzami con guanti
sterili
per non sfogliarmi

il tuo respiro come fruscio di pagine

i miei occhi obliqui
come foglie secche.

avvolgimi
nel cellophane
se necessario

è un contagio
che non puoi propormi
qui al centro
del mio cerchio per serpenti

Lasciami integra
come terra sabbiosa

 

Bagnodigiugno
A piedi nudi sul pavimento
verso un'acqua
di ceramica smaltata
-e non è mare.

Voglio accucciarmi
nel vapore,
nell'eco delle gocce.

C'è la luce delle sette di sera
che lecca le stanze

e fuori è così tiepido
fino a notte

che io non posso uscire.

Quaggiù
mi sento fin troppo
organismo.

Apro gli occhi
soltanto
sotto l'acqua invetrata

 

> La stanza
E rientrando
con la polvere d'altrove addosso
si slaccia la dovuta compressione,
il corpo sa come dilagare
sciogliendo il limite
e si confonde con gli oggetti

il consueto è docile a lasciarsi risucchiare
e a contenere;
nella mia stanza tutto
sostiene l'alito appannato del mio sguardo.

Nessuno ha mosso niente finchè ero via
nella penombra delle serrande.

Le cose sono rimaste
come arte didascalica
allucinate e fisse
suppellettili impietrite
a spiegare al tempo quando passa
che forma ha il mio sguardo
e per che per ora resta.

 

> Corruzione
Sto cercando
di non sporcarmi

l'occhio controlla
una purezza simulata
che raggiri il tempo.

E oli profumati
scivolano
tra le pieghe di carne,
si stendono
le ombre rugose
di desideri di piombo.

La pelle luccica
come finta
seta da bancarella.

Ed io accarezzo
senza contatto
per evitare un altro respiro

disinnesco
la metamorfosi
della corruzione

mentre spio
dietro una tenda

come bambina
un letto disfatto.

 

> Immersione di un corpo


Non so dissimulare il mio odore d’ubriaco buttato su una sedia appoggiata al muro, mentre nella piazza di paese ballano donne corvine e rosee, floride, e uomini abbronzati. Ma il mare non sembra curarsene, non minaccia di abbandonarmi e non accarezzarmi più ad un tratto accortosi di chi sono. Lui lo sa. E se riprende a gridare in me una voce, basta correre fuori, verso la spiaggia, sentire la sabbia che frana sotto i piedi e vederlo sempre più vicino, scorgere indistinte strisce luminose e azzurre, fino a conoscere i segreti d’ogni singolo flutto, ogni sua rincorsa ed ogni fatica, la tensione mai paga che lo pervade... e un attimo dopo esserci dentro, sentire il suo respiro facendone parte, sentirmi mare anch'io, essere acqua che evapora in superficie, e gocce libere nel profondo eppure mai perdute.

Nascondermi a me stessa lì dove tutto traspare e non vi sono specchi. Nuotare nell'acqua senza guardarmi mai le mani.

E il mondo cessa di bandirmi dal suo ordine, dalla bellezza che innamora di perfezione. Sembrano parvenze le sue forme che mi costringono innanzi a loro proibendomi di viverle dall'interno. M'accoglie il mare, ma non basta perchè l'immersione è infranta dal respiro che manca: ho bisogno dell'aria da cui sfuggo. Non sono mare. Annegare o riconoscermi. Risalgo in superficie... non ho che quei passi sulla spiaggia in cui sento ancora il suo sapore in bocca.

E a volte mi stendo sulla terra e piango il male della lontananza.

 

> Finto ritorno d'estate

E vestiti, ancora, dalla valigia al letto,dal letto al pavimento. La stanza invasa,e loro come auto-generati insinuano ansia,quasi a non finire. Finché ci sono, attendono, e le mani non possono che prenderli,sentire le pieghe che offendono le forme,smentiscono le ore passate ad adattarsi ad un corpo. E ora sotto le dita sono sottili come fotografie, pieni di rughe, alcuni accartocciati, altri avvolti con cura,esito di finte rabbie e finto ordine.
La fatica di dar loro la forma da valigia, illusione di forma.
Corpi bidimensionali sono, ora, e nient'altro,mentre lei li svolge piano,niente di meno,non riescono ad essere niente di meno per occhi che sensualmente seguono le dita a percorrere ogni piega,che si chiudono stretti se il viso affonda in una manica, a inseguire l'odore di armadio umido. Corpi bidimensionali, silenzi allusivi, macchie come testimonianze.

Tutto sul letto,a terra ciò che va lavato, e la valigia vuota,anzi svuotata,campeggia come una bocca sdentata e cadente,va messa via nel buio,dietro una porta,per non sentire le sue accuse.
Sbatte lei stessa i denti qualche volta, inghiottendo, tornando a sentire la stanza intorno a sè. Lei e una valigia. Lei dentro una valigia,o al contrario. Lei, una valigia.

Via le scarpe,piedi sul pavimento freddo,aderiscono le superfici, si sente la polvere, le mattonelle spizzicate. E guarda intorno. Nella penombra delle serrande abbassate a metà sul balconcino, entrano raggi netti e obliqui, polverosi da ogni singola fessura.
Il soffitto troppo alto in un angolo s'increspa e si scurisce, umidità. Alle pareti è appoggiata qualche sedia in vimini, un comò dallo specchio macchiato sta accanto ad un armadio enorme con intarsi,e riempie la stanza un letto senza lenzuola, con i materassi nudi naturalmente gonfi e grigio rosa,come malati. Un ritratto molto scuro copre mezza parete, si percepisce appena un viso tra le volute nere di sfondo e vestito. Dall'altro lato, sopra il letto,una Madonna con bambino senza cornice. Dalla porta s'intravede solo il muro del corridoio, ma si percepiscono innumerevoli camere e pareti, si immaginano divani bordeaux biancastri di polvere, tende pesanti, tende impalpabili, balconcini salvati da gerani,con il tubo per innaffiare, lettini a castello in stanze senz'altri mobili, saloni come vetrine, con tavoli tondi dai piedi scolpiti, poltroncine e cuscini verde chiaro, a fiorellini scuri,credenze e centrini.

Silenzio di cicale sui rami più alti dei pini che giocano a spezzare i raggi,a creare ombre ondeggianti sul cortile,e graffio di aghi trascinati dallo scirocco nella stanza attraverso lo spiraglio del balcone. Silenzio da sguardo che si posa,da mente che si muove e sguscia e rotola tra pareti e cassetti e infissi,da corpo che riposa nel caldo del primo pomeriggio. Lei potrebbe smettere di respirare per ridursi a quell'immobilità,se non decidesse di raccogliere i capelli lunghi sulla nuca; intravedendo il proprio collo sullo specchio del comò, torna con lo sguardo alla Madonna sopra il letto che scopre un seno e un figlio,le guarda gli occhi il petto il collo la bocca. Non le piace quell'accoglienza. Un collo troppo bianco, quello. E occhi miti fino al rimprovero. I propri come fessure lucide, palpebre semichiuse evidenti allo specchio.

Pantaloni e gonne a destra,magliette al centro,vestiti eleganti come promesse mancate da cullare,consolare, reggiseni e mutandine più sopra,costumi più in basso... prende un reggiseno da biancheria intima e quello di un costume. Ancora una volta,qual è la differenza? E cerca nel primo le garanzie della salvezza dalla banalità, dell'eccitazione che non si spegne,di mani che tremano nel sfiorarlo. Reggiseni. Un nome nato da un uso, nato da un corpo, organismo coperto da pelle (e distrattamente si siede sui grandi materassi), femminile come maschile in fondo, dov'è il confine, dove nasce l'emozione,cosa fa di un corpo un mistico altro da sé, cosa fa di un contatto una carezza, cosa fa dell'epidermide la superficie di una bellezza lontana a cui attingere a occhi bassi?

Domande che erano state di ogni sera, ora pensate in una casa estranea. No, non era un vero ritorno dalle vacanze questo, eppure erano lontanissime dopo un centinaio di kilometri di viaggio. Forse lo spazio non ha il potere di generare fratture, lei si dice, forse la continuità è possibile. Inutile... la sensazione è del presente come un'eterna anticamera delle nostalgia, cumuli con cime invivibili, dispersione di pensieri come figli di prostitute in pezzi di mondo distanti. E oggi i tratti del viso non si abbandonano un attimo ad occhi fidati, a spazi consueti. I suoi piedi però stanno nudi e indifesi su quel pavimento ignoto... eppure. Eppure non l'aveva già bagnata a tradimento quella stanza, non aveva minato quell'estraneità la sua ora passata lì dentro, i suoi pensieri?
Sul materasso il fosso della sua valigia. Nell'immagine futura, nel ricordo che avrà di quelle mura c'è il proprio corpo che vi si muove. S'imprimerà anche questo gesto,la tinge d'assurdo... quattro passi sulle punte, un balzo nella stanza,il pavimento trema, sottile, spaventata dal rumore della propria presenza si appoggia al comò. Due manate sul letto per riprendere confidenza, polvere a sbuffi netti che si alza, resta sospesa, quattro passi sulle punte anche lei.
La borsa del mare, svapora ancora odore di alghe secche e pelle bruciata, pigrizia salmastra. Ai piedi del grande letto, il proprio telo disteso, e come in rassegna le sue notti. Voglia di coprirsi, di riavvolgersi, di evocare immagini a suo comando e da sola, in una solitudine libera dalla competizione di quell'enorme letto, di quello specchio giallo, di quell'immaginetta bianca, sola, riuscendosi a guardare di nuovo con gli occhi di lui.
Adesso tutto nei cassetti, in fretta. Dietro l'armadio c'è una sdraio gialla ,di legno e tela,che cigola aprendosi. Un braccio abbandonato nel sonno dondola e sfiora il pavimento.

 


 I limoni occhieggiano tra le foglie scure e luminose, come gocce di sole raggrumato, pendono come oro povero di una terra che si sfa nella luce. Ma i limoni, dalle crepe nella buccia spessa, spruzzano sul viso lo stupore dell'aspro, un colare nascosto che perfora chi li assaggia, brucia di gelo e resta. Raccogliendo le gocce aspre celebri del passato, vogliamo seguirne i solchi tracciati, stillando anche noi un succo quasi sempre scomodo e inatteso

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