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AMRICORDI
1943
MANTOVA
La mia famiglia era così composta:
-
papà Angelo, artigiano, ebreo
- mamma Norma, casalinga, cattolica
- mio
fratello Walter, studente, ebreo
- io, studente, ebreo. Luciano nei
documenti, ma William per tutti. Nel periodo fascista erano vietati i nomi
stranieri ai nuovi nati, perciò fu l'impiegato del Comune a scegliere quel
nome. Fatto del tutto insignificante poiché, in famiglia e per gli amici,
sono e sarò sempre William
- infine la mia sorellina Giuditta, ebrea.
Papà era titolare di un laboratorio di falegnameria, con sette dipendenti.
Io e Walter, fin da bambini, si circolava, oltre che tra i banchi di scuola,
anche e soprattutto tra i banchi del laboratorio di mio padre.
Una famiglia tranquilla, che non si occupava di politica e con il massimo
rispetto per tutti. Mamma era molto religiosa, e tutte le domeniche papà l'accompagnava in Chiesa, aspettandola pazientemente fuori. Mentre per le
feste ebraiche mamma ci seguiva al Tempio.
Lavorando in proprio, papà, vecchio socialista, aveva potuto evitare
l'iscrizione al Partito Fascista, tessera a quei tempi obbligatoria per
ottenere qualsiasi lavoro. Anzi, avendo servito la Patria per più di sette
anni come soldato prima e sottuficiale poi, partecipando alla guerra di
tripolitania, si sentiva con la coscienza a posto; come ex combattente aveva
tutte le carte in regola.

Quando nel luglio del 1938 il Governo Fascista emanò diversi provvedimenti
che investirono direttamente e senza pietà la persona umana dell'ebreo, mio
padre non vi prestò alcuna attenzione. Soleva dire "siamo lavoratori, non
diamo fastidio a nessuno, tutti ci vogliono bene, cosa potrà mai capitarci?"
Povero papà, com'era lontano dalla realtà.
Nessuna esitazione quindi nel
dichiarare la nostra religione quando fu chiamato all'ufficio anagrafe del
Comune di Mantova per chiarimenti sullo stato di famiglia.
- Non è vero - disse l'impiegato addetto al servizio - vedo qua il
certificato di battesimo di Luciano.
- Luciano??????
- Certo, Luciano, figlio di Angelo e Norma, nato all'ospedale civile di
Mantova e battezzato nella stessa chiesetta dell'ospedale....guardi qua!
"Non è possibile" pensò papà sbalordito con il certificato in mano "sicuramente
c'è stato un errore!" Poi, rivolgendosi all'impiegato, sbraitò:- Scriva pure
a chiare lettere e ben visibile "BATTEZZATO CONTRO IL VOLERE DEL PADRE".
- E' sicuro? - incalzò l'impiegato
- SICURISSIMO! - rispose senza ombra di dubbio mio padre.
- Va bene, contento lei... - Prese il timbro e nel bel mezzo del certificato
impresse "DI RAZZA EBRAICA"
Tornati a casa mamma confessò che, essendo venuto al mondo prematuro, alla
nascita pesavo otto etti e le possibilità di sopravvivenza erano
praticamente nulle, così decise di farmi battezzare in quanto per la sua
religione sarebbe stato un peccato mortale perire senza battesimo.
Certo che papà non fu lungimirante, ma non poteva immaginare quante lacrime,
dolore e rimorsi gli sarebbe costata quella dichiarazione.
Fra il 1938 e il '39, il Governo Fascista aveva varato
diversi provvedimenti razziali; gli ebrei non potevano avere più di un certo
importo in moneta, né una casa, possedimento terriero limitato, non potevano
esercitare qualsiasi attività professionale. All'ebreo non era consentito di servire la
Patria con o senza armi. Egli era messo completamente ai margini della
società, non poteva frequentare locali pubblici come cinema, bar, teatri,
salire sull'autobus, sedersi in un giardino pubblico; non poteva avere alle
proprie dipendenze personale di "razza ariana" come operai, collaboratrici
domestiche, contadini, impiegati ecc., né dipendere dall'Amministrazione
Pubblica....ricordo con rammarico la mia maestra Signora Marianni,
insegnante alle scuole elementari da ben 39 anni, che attendeva con
impazienza il compimento del 40° anno di servizio per arrivare alla meritata
pensione. Fu licenziata in tronco, perdendo così tutti i diritti civili ed
assistenziali. Questi le furono riconosciuti dopo la guerra, ma la poveretta
non fece in tempo a beneficiarne.
Soltanto alcuni giornali di sinistra contestarono le iniziative e i
provvedimenti di legge, ma fu una protesta blanda, in definitiva gli ebrei
italiani erano soltanto 60.000 e, nei confronti dei 45 milioni di abitanti,
questi rappresentavano una quantità del tutto trascurabile.
Io e mio fratello frequentavamo le scuole tecniche: Walter al quinto anno,
pochi mesi ancora e sarebbe arrivato al sospirato diploma, io il secondo,
quando il Preside ci chiamò nel suo ufficio e, molto dispiaciuto, ci informò
che era purtroppo obbligato ad allontanare dall'istituto tutti i ragazzi non
"ariani".
Questo fu il primo provvedimento che ci toccò da vicino.
La mia
sorellina frequentava la terza elementare e fu più fortunata, la isolarono
nell'ultimo banco per evitare ogni contaminazione! In seguito terminò le
elementari grazie all'iniziativa dell'insegnante Sig. Finzi, anche lui di
religione ebraica, il quale ottenne il permesso di organizzare un'aula solo
per bambini ebrei.
Sui muri delle case, nei centri cittadini, cominciarono ad apparire le prime
scritte contro gli ebrei, e io con il mio amico Dario trascorrevamo le notti
cancellando con vernice nera il più possibile, col rischio di essere
scoperti e puniti.
In seguito anche io e mio fratello, come tanti miei correligionari, fummo
chiamati per il lavoro coatto. Ci portarono in una impresa edile e il Sig.
Scaglioni, l'impresario che era stato obbligato ad assumerci contro la sua
volontà, accogliendoci, borbottò sottovoce per non farsi sentire dai fascisti:- Ma guarda 'stì
rompiscatole, proprio a me dovevano venire a rompere i co.....!
Ci invitò a sederci e non ci chiamò mai. Si stava tutto il giorno senza far
niente.
Non ricordo quanto tempo durò questo stato, sicuramente poche settimane. Via
via la situazione per noi andava peggiorando, i provvedimenti s'infittivano,
finché si giunse al mattino del 5 ottobre 1943.
"Ore otto, giornale radio. Altri
provvedimenti sono previsti per tutti gli appartenenti alla razza
ebraica......bla bla bla.....che dovranno mettersi a completa disposizione
delle autorità...bla bla bla...."
- BASTA COSI' - disse mio padre che stava uscendo per recarsi al lavoro, e
rivolgendosi a mamma aggiunse:- Prepara le valigie con il minimo
indispensabile e filiamocela, non è più il caso di rimanere in questa città
dove troppi ci conoscono, qualcuno potrebbe farci un brutto scherzo. Intanto
vado a chiudere il laboratorio. Tornerò immediatamente con la cassetta degli
arnesi più utili, da ora in poi dovremo contare solo sulle nostre braccia
per vivere.
Mamma preparò quattro o cinque valigie con una piccola scorta di viveri e
pochi indumenti e quando rientrò papà eravamo già tutti pronti per partire,
o per meglio dire "fuggire", ma..dove?
Salutai mentalmente la nostra bella casa di dieci stanze, mormorando
"aspettaci, torneremo" e ci avviammo verso la stazione ferroviaria.
Destinazione: Porretta Terme, ove tutti gli anni, in agosto, mio padre si
recava per le cure termali. Ricordo però che papà disse a mamma:- Tu, se
vuoi, puoi rimanere, non corri alcun pericolo, sei di religione cattolica e...
-Rimanere? - lo bloccò mamma indignata - Dove vanno i miei figli e mio
marito, vado anch'io, e non una parola di più!
Mentre il treno sbuffando continuava la sua corsa, osservavo i miei genitori
preoccupati e pensierosi, mentre noi figlioli, un po' elettrizzati dalla
novità, ci sentivamo nel bel mezzo di un'avventura. Ero giovane e non mi
sembrava un momento particolarmente drammatico. Non sapevo che esattamente
11 giorni dopo, una retata nazista nel Ghetto di Roma avrebbe deportato
verso i campi di sterminio 1063 ebrei romani; ne tornarono solo 15.....e non
fu che l'inizio....
Stavamo entrando alla stazione di Bologna, quando suonò l'allarme aereo. Il
personale ferroviario e gli altoparlanti sollecitarono i viaggiatori ad
abbandonare in fretta la stazione, e di correre verso i rifugi antiaerei.
Raccogliemmo velocemente i nostri bagagli e ci avviammo verso il rifugio nel
piazzale antistante la stazione, chiamato "la Montagnola". Ma correndo tra
la folla impazzita, tra spinte e urti, l'enorme valigia di Walter si ruppe
spargendo nel bel mezzo della strada la nostra scorta di viveri. Si recuperò
alla meglio ciò che si poteva, e via di corsa verso il rifugio, appena in
tempo che già le prime bombe cadevano.
Il bombardamento durò due ore, e fu
terribile. Nel rifugio si ammassavano persone piene di terrore, paura e
sgomento. C'era chi pregava sgranando il rosario, chi imprecava, chi cercava
di nascondere l'angoscia chiacchierando continuamente, bambini che
piangevano, adulti ammutoliti dal terrore. Io non ricordo cosa provai in
quei 120 minuti, era la prima volta che subivo un tale evento; Mantova
ancora non era stata colpita. Vagamente ricordo che continuavo a dire "Ohhhh,
ma qui fanno sul serio!!"
Dopo il cessato allarme uscimmo all'aperto e lo spettacolo che si presentò
era a dir poco apocalittico: la stazione e tutti i palazzi attorno erano
completamente distrutti, si udivano lamenti di persone ferite. Ci bruciavano
gli occhi per la polvere e i calcinacci, macerie detriti e incendi facevano
da cornice al nostro sbigottimento.
Qualcuno ci informò che potevamo proseguire il viaggio da una stazioncina
secondaria, alla periferia di Bologna (forse Panicale), e faticosamente
riprendemmo la nostra fuga.
Si arrivò a Porretta Terme verso sera e mio padre, senza alcuna esitazione,
bussò alla porta del Convento dei Frati Francescani, proprio di fronte alla
stazione, chiedendo asilo e protezione. Nonostante la presenza di una donna
e una bambina, ci ospitarono per qualche giorno in attesa di una
sistemazione più consona.
.....e la sistemazione arrivò
presto, anche se dolorosa perché per la prima volta la famiglia si divise.
Walter rimase nel Convento, mamma, papà e mia sorella furono accolti dalle
suore Francescane di Sanbuca Pistoiese, a pochi chilometri da Porretta, in
una collina sopra Taviano. Io fui spedito (ormai non ero che un pacco) da
Don Gimmy, in un borgo abbarbicato a un colle, chiamato "Le Capanne", sopra
Venturina.
Don Gimmy, soprannominato così perché era nato in America da emigranti
italiani, era un vero sacerdote, un raro esempio di carità umana. Accoglieva
tutti, indistintamente. Aveva la sagrestia piena di partigiani, ebrei,
soldati dell'esercito inglese e tedesco, tutte persone in sosta, alla
ricerca di un covo ove rifugiarsi. Dio solo sa come Don Gimmy facesse a
procurare il cibo per tutti. Non respingeva nessuno, chi bussava alla sua
porta trovava un asilo sicuro.
Purtroppo non durò a lungo; una spiata
costrinse tutti noi a squagliarcela. Tornai in convento a Porretta, con mio
fratello, in attesa di una nuova destinazione. Non ho mai saputo la sorte
degli altri.
Una mattina mi chiamò un frate e mi ordinò di indossare il saio. Dovevamo
andare nel Convento dei Frati Francescani di Cento, in provincia di Ferrara.
Tutto era già stato organizzato in precedenza e, quando arrivammo a
destinazione, il Padre Superiore mi accolse benevolmente.
Là diventai un vero sagrestano. Vestito da frate servivo Messa, suonavo le
campane, tenevo pulita la chiesa, aiutavo nell'orto, insomma collaboravo con
tutti e sembrava che le cose andassero nel verso giusto. Il cibo
assolutamente non mancava ed era ottimo, anche perché c'era un frate cuoco
che avrebbe dato dei punti ai migliori chef dei ristoranti italiani.
Ancora oggi mi viene da ridere quando ricordo il piccolo incidente che si
verificò mentre stavo riordinando alcune cose in chiesa.
-Padre, mi confessa?
La voce femminile mi colpì come un fulmine. Mi girai di scatto e una
vecchietta mi ripetè "Padre, mi confessa?"
Ce l'aveva proprio con me! Rimasi impietrito, poi, riprendendomi
prontamente, risposi "Mi dispiace figliola (ero talmente imbarazzato che mi
venne di dire figliola), io non posso confessarla, non sono un sacerdote, ma
un frate della cerca".
- Oh, che peccato! La vedo tutti i giorni qua in chiesa e avrei voluto
confessarmi da lei - mi disse candidamente l'anziana signora.
Fu una nota di allegria tra i tanti pensieri tristi che mi assillavano, ma
non fu l'unica. Mi divertii molto anche quando nel convento vennero uccisi
due maiali. Il primo era di 290 chili, il secondo di 304! Ricordo che li
trascinarono di peso fuori dal porcile perché non riuscivano più a camminare
da quanto erano grassi. Da perfetto cittadino non avevo mai assistito a
"fare", come dicono gli esperti, un maiale. Ancora oggi ricordo quell'esperienza.
In quei momenti di vera carestia, fu una cuccagna tutta la grazia di Dio
ricavata dalle due bestie.
Ma anche questo periodo di apparente tranquillità finì presto.
Dopo poco più di un mese il Padre Superiore mi ordinò di andare in Comune
per richiedere la carta annonaria.
La carta annonaria era una tessera personale che dava diritto ad una razione
giornaliera di viveri.
Ancora oggi non mi spiego la mia ingenuità, per non dire idiozia, e mi
chiedo ancora se l'ordine del Padre Superiore fu solo una innocente
sventatezza......
Ero braccato, come tutti gli ebrei europei; mi nascondevo perché c'era la
caccia all'ebreo, eppure....
....dietro ordine del Padre Superiore, andai in Comune per richiedere la
carta annonaria e, candido come un giglio, dichiarai all'impiegato addetto
le mie generalità, senza pensare minimamente al pericolo che stavo correndo.
Difatti, dopo nemmeno un paio d'ore, due carabinieri si presentarono alla
porta del convento e mi ingiunsero di seguirli per "accertamenti".
Il maresciallo, dopo un lungo interrogatorio, soprattutto per sapere dove
viveva il resto della mia famiglia, vista la mia reticenza, mi disse:- Mi
dispiace figliolo, sono costretto a metterti in carcere.
- Dispiace più a me - risposi.
Così come stavo, in maniche di camicia in pieno inverno (non ebbi nemmeno il
permesso di tornare in convento per prendere qualcosa) mi trasferirono in
carcere.
Quasi tre mesi durò la mia detenzione in attesa di "accertamenti", e fu
un'esperienza davvero amara in quel salone di metri 10 per 15; quante volte
l'ho misurato a passi piangendo! Mi teneva compagnia una decina di
persone: veri avanzi di galera. Rinchiusi per reati diversi, chi per furto, chi per borsa nera......era
proprio una bella congrega! C'era
un giovane che era stato condannato perché si era vestito da tenente dell'esercito per fare il bullo con
le ragazze, ma era stato smascherato quando, incontrando un maresciallo,
senza pensarci due volte lo
salutò per primo. Forse poteva passare tutto in burla se il ragazzo non
fosse stato armato; lo stolto andava in giro con una Beretta calibro nove in
dotazione agli ufficiali. Grossi guai in tempo di guerra!
Appena entrato in carcere mi chiesero subito se avevo "sgancito".
- Che vuol dire sgancito? - chiesi sorpreso
- E' la prima volta che ti mettono in carcere?
- Certo che è la prima volta!
- Ecco perché non capisci il gergo! Sgancito vuol dire rubato.
- No, no, non ho rubato niente, mi hanno messo in galera soltanto perché
sono ebreo.
- Solo per questo? Accidenti a loro e a tutti i fascisti!
E quella frase diventò un ritornello.
In quanto ai frati, non solo non mi consegnarono le mie poche cose lasciate
da loro ma, nonostante l'abbondanza di cibo di cui disponevano, non
pensarono mai una sola volta a portarmi una minestra calda o un pezzo di
pane, anche se il convento si trovava a pochi passi dall'edificio. Mi
avevano completamente dimenticato.
Dovevo accontentarmi di ciò che passava il penitenziario: poco e cattivo.
Non intendo sottolineare oltre le mie sofferenze, perché nello stesso
periodo molta gente stava sicuramente anche peggio di me, tuttavia non posso
fare a meno di ricordare che ho patito tanto, soprattutto il freddo, più che
la fame. Di notte non riuscivo a dormire; una sola coperta rosicchiata dai
topi posta su un tavolaccio di legno, poco cibo e morale a terra. In quasi
tre mesi di carcere il mio peso scese al di sotto dei 50 chili (all'epoca
pesavo intorno ai 61 chili). Per fortuna che quando arrivava il pacco viveri
da parte dei familiari dei miei nuovi "amici", questi mi passavano quasi
sempre qualcosa da mangiare.
Il tempo, anche se lentamente, passava, ma la consapevolezza che il mio
futuro non sarebbe stato certamente migliore, era il pensiero più assillante
.
Un mattino un secondino venne a prelevarmi.
- Prendi la tua roba e seguimi.
Quale roba, se mi avevano arrestato in maniche di camicia?
Mi condusse alla presenza di un brigadiere dell'arma che, senza mezzi
termini, mi ammanettò come un comune avanzo di galera. Questo mi colpì
profondamente. Pensai subito a mio padre che non si stancava mai di ripetere
"Ricordatevi figlioli, sempre e soprattutto ONESTA' E LAVORO". Un sano
principio, ma in quell'occasione mi parve assolutamente inutile. Un nodo
alla gola non mi permise di chiedere al sottufficiale se le manette erano
proprio necessarie. Ero preoccupato di cosa avrebbe detto la gente; ero in
maniche di camicia e tutti avrebbero visto quei due maledetti anelli ai
polsi. Come mi vergognavo!
Poco dopo chiesi timidamente dove mi stava conducendo, la risposta fu che
aveva l'ordine di consegnarmi alla questura di Mantova, per poi essere
internato in un campo di concentramento.
Mi passò la paura di essere consegnato al comando tedesco, non capivo cosa
c'entrasse Mantova, ma quell'informazione mi riempì di felicità, finalmente
a casa!
Durante il viaggio, da Cento a Mantova, preso un po' di coraggio, chiesi al
brigadiere se mi poteva togliere le manette. Questi mi guardò fisso negli
occhi e mi disse:- Se mi giuri sul tuo onore che non tenterai di scappare,
posso anche levartele, ricorda però che ho moglie e due figli, e mi
metteresti seriamente nei guai.
Non avevo altra scelta e giurai solennemente che mai e poi mai avrei tentato
la fuga. Mi vergognavo troppo con quegli anelli, la gente che mi fissava,
non conoscendo il mio dramma, mi giudicava con gli occhi.
Arrivammo a Mantova verso le 20.00, con una nebbia che non si vedeva a due
passi e un freddo paralizzante.
Scesi dal treno, il sottufficiale mi disse:-
Poiché non sono pratico della tua città, tu mi accompagnerai in questura, ma
ricorda il tuo giuramento, altrimenti ti rimetto le manette, tanto con
questa nebbia nessuno potrà riconoscerti.
Rinnovai la promessa a malincuore, perché ero consapevole che stavo
rinunciando a un'occasione più unica che rara. Conoscevo, e conosco tuttora,
la città passo per passo e sapevo benissimo che avremmo dovuto attraversare
un rione dove c'erano dei palazzi che, entrando dal portone principale,
attraverso due lunghi androni separati da un cortile, si usciva in una
strada secondaria, sul retro dello stesso palazzo. Con l'aiuto della nebbia
sarebbe stato facile piantarlo in asso senza troppi rischi.
Qualcosa però mi tratteneva, non so, forse il giuramento, o per sua moglie e
i suoi figli che nemmeno conoscevo, o forse, più superficialmente, il
fascino del rischio; cosa aveva riservato per me il destino? Comunque non
rinunciai certo per paura; potevo benissimo farcela anche se sapevo che il
brigadiere era armato.
Finì che lo accompagnai dritto dritto in questura.....
Il brigadiere si mise subito a rapporto con l'agente di servizio il quale lo
informò che l'avrebbe messo subito in contatto col commissario Ferrigno.
Nell'udire quel nome, il mio cuore si riempì di gioia; conoscevo bene questo
commissario poiché i mobili della sua cucina era stato uno degli ultimi
lavori fatti nel laboratorio di papà: mobili fatti su misura, con la
personale supervisione di mio padre il quale era stato molto corteggiato
dallo stesso commissario per ottenere il suo tocco finale. Tutte le mie
speranze di libertà cominciarono a farsi strada. Pensavo che il signor
Ferrigno mi avrebbe in qualche modo agevolato.
Introdotti nell'ufficio del commissario, il sottufficiale consegnò i
documenti che mi riguardavano. Il suo compito era terminato, fu congedato e
prima di uscire mi salutò con un "ciao". Non lo rividi mai più.
Il signor Ferrigno cominciò a leggere la mia pratica, senza mai alzare la
testa dalla scrivania poi, rivolgendosi all'agente in attesa di ordini,
disse:- Bene, trasferitelo al campo di concentramento!
Pensai che forse, così dimagrito, non mi avesse riconosciuto, così avanzai
una timida reazione di sorpresa.
- Non mi riconosce signor Commissario? Sono il figlio di chi ha avuto tanta
cura della sua cucina. Si ricorda?
Finalmente mi guardò e con tono freddo e incolore mi rispose "Non ti
conosco" poi, rivolgendosi all'agente con aria infastidita, aggiunse "Lo
porti via!"
Ero pietrificato, tutte le mie speranze crollarono di colpo. Credevo di
sognare, ma dovetti convincermi che, purtroppo, era tutto vero!
Dunque questa era la mia sorte? Campo di concentramento, reticolato,
baracche, maltrattamenti sotto la stretta sorveglianza della ghestapo
tedesca.
-Dio benedetto- pregai in silenzio -Sono nelle Tue mani, abbi pietà di me.
Avevo sentito parlare del campo di Fossoli, in provincia di Modena,
probabilmente sarebbe stata quella la mia destinazione.
Due agenti di pubblica sicurezza mi fecero salire a bordo di un'auto di
servizio.
Poco dopo la macchina si fermò davanti a un fabbricato che conoscevo come le
mie tasche: il palazzo della Comunità Israelitica! Proprio nell'edificio
dov'ero praticamente cresciuto, tra la Sinagoga, l'asilo infantile, il
Talmud Torah (le sale per lo studio della Torah), la biblioteca, gli uffici
della Comunità, la casa di riposo per gli anziani, l'appartamento del
segretario e del Rabbino.
In quel luogo non esisteva angolo che non avessi esplorato. Ricordo ancora
la ricerca dei posti più impensabili per non farmi trovare quando, bambino,
giocavo a nascondino.
Ironia della sorte, la Prefettura di Mantova aveva provvisoriamente
istituito il campo di concentramento per gli ebrei, nella Comunità
Israelitica.
Mi sentii sollevato; prima cosa mi pareva di essere a casa mia, poi, altro
fatto importante, non c'erano soldati tedeschi.
Quella che una volta era la portineria, ora veniva adibita a posto di
guardia, con un solo agente di pubblica sicurezza: servizio di sorveglianza
24 ore su 24, ma sempre e soltanto un'unica guardia, peraltro in borghese.
I due poliziotti mi consegnarono al collega e questo chiamò col citofono il
direttore del campo che doveva prendermi in consegna. Ma le sorprese non
erano ancora finite; il direttore era....una direttrice! Una bella e
prosperosa figliola di nome Vera, di 18 anni. Era proprio "Vera", in carne
ed ossa, bianca e rossa in viso, probabilmente una raccomandata o figlia di
qualche gerarca fascista.
La signorina Vera mi portò al piano superiore, nel grande salone che una
volta era il refettorio della casa di riposo, dove ritrovai vecchie
amicizie: l'intera famiglia Parigi (papà, mamma, due figli, zio e zia), la
famiglia Vitali, la famiglia Norsa, i Mieli (Piemontesi), i Gallico, i
Mariani, i Castelfranchi, i Finzi e altri, compresi gli stessi anziani già
ospiti della casa di riposo.
Passammo le prime ore a raccontarci le nostre peripezie fino al momento
dell'arresto, poi mi aggiornarono sul vitto e sul trattamento nel campo. Il
vitto era buono, il trattamento....meno. Si doveva lavorare sodo per
mantenere una rigorosa pulizia in tutti i locali e per altre mansioni.
Niente di eccezionale se non fosse stato che eravamo solo in quattro (me
compreso) idonei al lavoro pesante. Gli altri erano donne (che si occupavano
della cucina) e persone anziane o inabili.
Non mi preoccupai più di tanto, bastava un minimo di buona volontà e avremmo
potuto andare avanti.
Purtroppo però il vero responsabile del campo era il commissario
prefettizio, un certo Rag. Martiradonna (nome rimasto indelebile nella mia
memoria anche a distanza di anni), allora trentacinquenne, il quale, ogni
mattina alle 9 esatte veniva ad ispezionare il campo, dando ordini a destra
e a manca e trattandoci con intransigenza, indisponenza e bieca malvagità,
rendendoci l'esistenza insopportabile.
Ricordo che, in pieno gennaio (e a Mantova in quel mese il freddo non è uno
scherzo), ogni mattina ci voleva tutti allineati in cortile, abili e non,
sull'attenti, immobili e in perfetto silenzio. La speranza era sempre che
non arrivasse in ritardo, per non morire ibernati!
Un mattino, dopo circa mezz'ora che si aspettava fermi e muti, un certo sig.
Finzi, ultraottantenne, stanco di rimanere in quella posizione, si mise a
sedere. Sfortunatamente il Martiradonna arrivò proprio in quel momento e,
trovando il povero vecchio seduto, mi ordinò di rinchiuderlo in cella.
Questa era una stanza che normalmente serviva da deposito per la legna e
carbone per l'inverno. Dava sullo stesso cortile, ed era arredata con una
rete metallica, priva di materasso e coperte. Non c'erano servizi igienici,
in compenso era ben areata; difatti c'era una finestrella con l'inferriata e
senza vetri. Era talmente umida che le pareti trasudavano acqua.
Tre giorni e tre notti lo lasciò in punizione, e quando mi ordinò di
liberarlo, lo trovai immobile, rannicchiato sulla rete. Pensavo fosse morto,
ma era "soltanto" semiassiderato dal freddo. Prima di muoverlo, lo
massaggiai con delicatezza per tutto il corpo, per facilitare la
circolazione del sangue, successivamente lo portai, con molta cautela, nella
sua camera a tre letti. Avevo paura che si spezzasse. Ci vollero un paio di
settimane prima che si rimettesse, ciononostante tutte le mattine, alle
nove, doveva essere presente all'appello.
Una volta, invece, l'amato ragioniere, entrando nel salone sentì odore di
fumo di sigarette. Immediatamente mi ordinò di smontare tutte le porte, le
finestre e le persiane, in modo che l'aria potesse circolare liberamente.
Ricordo ancora quei poveri vecchietti abbarbicati sull'unica stufa di
ceramica esistente nel salone; tremanti dal freddo imploravano inutilmente
di sospendere la punizione, che invece durò fino alle nove del mattino
seguente, quando finalmente tornò e mi ordinò di risistemare tutto. Nel
frattempo fui punito perché mi riteneva responsabile di tutto ciò che
accadeva durante la sua assenza perché, secondo lui, tradivo la sua fiducia.
Ma quale fiducia? e perché proprio io, che tra gli "adulti" ero il più
giovane? Quella volta la mia punizione fu di segare e spezzare cinque
quintali di legna per riscaldamento.
E ancora quel giorno che trovò il pavimento non perfettamente lucido. Al
solito mi mandò a chiamare e, con cipiglio, disse "domani mattina voglio
degli specchi al posto delle mattonelle, voglio vedere la mia immagine
riflessa, ti ritengo responsabile".
Il mattino dopo, appena entrato nel corridoio che conduceva al salone,
scivolò cadendo rovinosamente a terra. Fra mille imprecazioni, mi chiese chi
aveva lucidato i pavimenti "io signor commissario, come da suo ordine"
risposi candidamente, trattenendo un sorriso. " Ma io non ti avevo mica
ordinato di attentare la mia vita!" mi rispose, poi, dopo una breve pausa, aggiunse "Ho
capito, per questa volta un giorno di cella".
Questo era il signor Martiradonna; un turpe individuo, mai un sorriso,
sempre pronto a inveire contro tutto e tutti, senza alcun rispetto per
nessuno, aggrediva anche quando non c'era alcun motivo. Sarebbe bastato un
minimo di umanità per rendere il campo di concentramento accettabile, anche
senza la LIBERTA'.
Potrei raccontare ancora centinaia di altri soprusi e angherie subite a
causa di questo personaggio, ma penso di aver descritto abbastanza
sull'indole contorta di questo uomo, che approfittava della sua posizione
per umiliarci con sempre maggiore cattiveria.
Non ne potevo più, decisi che dovevo evadere......
Non potevo continuare a subire inerte, dovevo agire, a qualsiasi costo.
Ne parlai con gli amici più cari: Ugo Parigi, 25 anni; Alessandro Vitali, 20
anni e l'avvocato Guido Colorni, 35 anni.
Insieme studiammo il piano d'azione nei minimi particolari e si arrivò alla
conclusione che la fuga era possibile.
Sapevamo con certezza che dal
sottosuolo dello stabile si poteva arrivare all'abitazione del Rabbino al
piano-terra e, da questa, uscire tranquillamente dalla porta che dava sulla
Via Govi, eludendo così il posto di guardia.
L'abitazione era vuota, quindi nessuna difficoltà si opponeva al nostro
piano. Una volta liberi, ognuno sarebbe andato per la propria strada; troppo
pericoloso rimanere uniti!
Eravamo nella nostra città, quindi non solo eravamo padroni del luogo, ma
tutti e tre potevamo contare su diverse amicizie fidate, per trovare l'aiuto
necessario al buon successo della nostra fuga, prevista a fine marzo.
Ci procurammo fiammiferi, candele e arnesi per scassinare eventualmente le
porte. Non rimaneva che prepararci con cura e senza trascurare nessun
dettaglio.
Ovviamente non ne parlammo con nessuno.....
.....e arrivò la sera del grande
passo.
Aspettammo che tutti dormissero, una rapida occhiata al posto di guardia
dove l'agente di servizio stava tranquillamente leggendo e....VIA!
Fu più facile del previsto; in men che non si dica ci trovammo in Via Govi,
finalmente LIBERI.
Era giunto il momento di salutarci; grandi pacche e calorosi abbracci di
gioia e commozione, non ci pareva vero....ma proprio in quel momento l'amico
Colorni si accasciò improvvisamente a terra in preda ad un terribile attacco
di epilessia; evidentemente la tensione aveva avuto il sopravvento. Fu come
il colpo di grazia per il Vitali, sofferente da tempo di cuore, sbiancò
all'istante e anche lui crollò con un attacco in corso. A quel punto il
Parigi venne sopraffatto dal terrore che i fascisti avrebbero potuto
uccidere, per rappresaglia, i familiari rimasti nel campo. Era il panico
generale.
Non potevo abbandonarli, sarebbe stata una vergognosa vigliaccheria...non
potevo.....
Aspettai che si riprendessero un poco poi, aiutando i due sofferenti,
ritornammo sui nostri passi, rinunciando alla salvezza.
Nessuno si accorse mai di niente, ed io stavo già rielaborando un nuovo
piano di fuga, questa volta da solo, quando gli avvenimenti precipitaro.......
Un giorno Mario, uno degli agenti di polizia con il quale avevo stretto
amicizia, mi sussurrò all'orecchio, con circospezione, che doveva dirmi una
cosa molto importante "ricorda però che se si venisse a scoprire quello che
sto per dirti, io non ti conosco, non so niente e negherò qualsiasi rapporto
tra noi". Promisi che dalla mia bocca non sarebbe uscita una parola.
Rassicurato, Mario mi confidò sottovoce che il 5 aprile avrebbero fatto
suonare le sirene dell'allarme e un camion della ghestapo ci avrebbero
prelevato per condurci tutti in Germania.
- Lo sai vero che, rivelandomi questo, stai rischiando grosso? Perché lo
fai? - gli chiesi commosso.
- Perché siamo amici e gli amici non si tradiscono, perché non ritengo
giustificato questo comportamento contro gli ebrei e perché penso che in
Germania faresti una brutta fine.
Senza aggiungere altro ci guardammo a lungo negli occhi, ci abbracciammo
affettuosamente, infine gli strinsi forte la mano esprimendogli tutta la mia
riconoscenza.
Dovevo assolutamente scappare, e al più presto. Bastava attuare il piano di
evasione già collaudato. Questa volta sarebbe stato ancora più facile,
poiché nessuno si era ancora accorto delle porte scassinate la volta
precedente; in pochi minuti mi sarei trovato per strada e avrei potuto
raggiungere i miei che, sicuramente, non sapevano nemmeno dove ero finito.
Però ero in conflitto con la mia coscienza; mi chiedevo se era giusto non
dire niente agli altri, nemmeno ai miei amici più intimi. Non riuscivo
proprio a prendere una decisione, mi sentivo tra l'incudine e il martello:
dovevo scegliere tra la riuscita certa, rimanendo con il rimorso per tutta
la vita o, nel tentativo di salvare altre vite, il rischio di
rimetterci pure la mia, gettando al vento la mia ultima chance.
Rimasi tutto il giorno pensieroso, mentre dentro di me era in corso una dura
battaglia tra il cuore e il cervello.
Qualcuno però mi sollevò da questa atroce scelta, decidendo per me.....
Il giorno dopo.....
- Il commissario prefettizio ti vuole nel suo ufficio.
"Vai", pensai "nuova gatta da pelare!"
Non ho mai capito perché mi reputasse il suo braccio destro, dicendo di
fidarsi soltanto di me, quando mi trattava senza alcun riguardo come, se
non peggio degli altri, e mai mostrò una qualsiasi considerazione nei miei
confronti.
Con queste riflessioni bussai alla porta e, dopo il permesso concesso,
entrai.
IN UFFICIO C'ERA MIA MADRE!!!!!!
Rimasi senza fiato. Dopo un lungo abbraccio (sempre previo permesso del
commissario) mamma mi disse con un sorriso che era venuta a prendermi "ho i
documenti necessari per il rilascio, autorizzati dalla questura; tutto in
regola!"
- Cosa, cosa?????? - ruppe il Martiradonna con calma apparente - Lei da qui
non porta via nessuno! IO SOLO sono il responsabile di suo figlio e ho
deciso di trattenerlo.
Mia madre, con altrettanta apparente calma e brandendo alcuni fogli nella
mano, rispose che il signor commissario non poteva trattenere nessuno,
"questi sono i documenti firmati dal questore stesso, non ha nessuno
autorità per trattenerlo. Io non mi muoverò di qua se non con mio figlio. Lo
DEVE rilasciare."
(Ti prego, ti prego mamma, stai calma, tu non conosci questa carogna, è
capace di tutto) le comunicai disperatamente con gli occhi, in silenzio e
sempre sull'attenti.
La risposta del commissario non si fece attendere e, con parole ben
scandite, sillabò:- Signora, lei mi ha rotto i coglioni. Se ne vada! Vuol
vedere cosa ne faccio di suo figlio?
Chiamò l'agente di servizio e gli ordinò:- Mettilo in cella!
Stavo per intervenire, ma capii che avrei peggiorato la situazione, ragione
per cui cercai di trattenermi giurando in cuor mio che, se me la fossi
cavata, alla fine della guerra, l'avrei ucciso.
Passai in cella il resto della giornata e tutta la notte camminando avanti e
indietro con le lacrime agli occhi, pensando a quel maledetto.
Il mattino successivo, l'agente di servizio mi portò dal commissario.
- VAI, SEI LIBERO - mi disse quasi con disinteresse
Non me lo feci ripetere due volte e, non avendo il permesso di comunicare
con i miei amici, girai sui tacchi e......VIA!!!!!
Mamma mi aspettava impaziente all'uscita. Ero entrato nel campo con la sola
camicia e con lo stesso indumento ne uscivo, ma stavolta ero in vantaggio.
Chiesi a mia madre come fosse riuscita in quella disperata impresa, ed essa
mi raccontò che, dopo l'odiato scontro, era tornata immediatamente dal
questore, informandolo che i suoi documenti e la sua firma non avevano alcun
valore per il Martiradonna, e riferendogli con calma il colloquio appena
avuto.
Il questore, pizzicato nell'orgoglio, le assicurò che poteva tornare a
riprendersi il figlio, il mattino seguente.
Immagino che tra i due sia intercorsa la classica telefonata tra superiore e
subalterno.....
Forse l'aguzzino non ricordava la legge di Norimberga, che prevedeva
chiaramente la non applicabilità delle leggi razziali per i figli di
matrimonio misto (una legge che ben presto, purtroppo, dimenticarono tutti),
alla sola condizione che gli stessi dovevano firmare, due volte la settimana
in questura, un documento di presenza.
Tutto questo era scritto nei documenti presentati da mia madre, ma il
commissario non l'aveva accettato, ancora una volta aveva abusato della sua
autorità.
Bene, per il momento ero libero, consapevole che comunque non mi sarei certo
salvato da una retata tedesca semplicemente dichiarandomi figlio di
matrimonio misto. E papà? lui era un ebreo puro, figlio di genitori ebrei.
Nessuna speranza di salvezza, e sarebbe stato
tragico veder deportare il padre.
Dopo un viaggio disastroso, raggiungemmo il resto della famiglia nel
convento delle suore di Sanbuca Pistoiese. Trovai anche mio fratello,
costretto a trasferirsi per ragioni di sicurezza. Dopo circa sei mesi di
continue angosce, eravamo nuovamente riuniti e ancora tutti vivi.
Una fortuna che purtroppo altri non hanno avuto.
L'agente Mario aveva detto la verità: a Mantova, la mattina del 5 aprile
1944, suonò l'allarme aereo ed un camion della SS tedesca prelevò tutti i prigionieri del campo di concentramento, persino gli
anziani "ospiti" della casa di riposo. Trasportati alla stazione
ferroviaria, e caricati sui vagoni bestiame in partenza per la Germania,
quella povera gente intraprese il viaggio senza ritorno.
L'amico Alessandro Vitali non giunse mai a destinazione, perché mentre stava
salendo sul vagone, ebbe un'altra crisi di cuore che lo fulminò all'istante.
Cinquantaquattro furono i deportati del campo, solo uno si è salvato. Lo
testimonia l'epigrafe all'entrata dello stabile in Via Govi, ove si leggono
i nomi delle vittime. Nel campo di concentramento, ex casa di riposo
ebraica, lasciarono solo tre o quattro vecchietti, ormai in fin di vita.
Addio miei cari amici: Ugo Parigi, Alessandro Vitali, Guido Colorni e tutti
gli altri che conoscevo fin da bambino; addio! la vostra immagine rimarrà
indelebile nella mia memoria.
Emilio Foa di Casale Monferrato, fu l'unico superstite e lo incontrai per
caso a Roma quasi dieci anni dopo.
Ci abbracciammo con grande commozione e, in quell'occasione, mi raccontò
come era riuscito a resistere all'inferno di Auschwitz, dove avevano portato
il gruppo di Mantova. Proprio quel famigerato campo ove era stato
programmato scientificamente e a tavolino lo sterminio di un popolo intero.
Emilio mi riferì che all'arrivo nel lager furono divisi gli uomini dalle
donne e i bambini. Per un certo periodo, occasionalmente, aveva incontrato
gli altri amici, in seguito non li vide più; per loro era finita.....come
per suo padre e suo zio e tanti altri.
Mi mostrò anche il tatuaggio sull'avambraccio sinistro: la lettera "A" di
AUSCHWITZ, seguita da un numero.
Non riporto qua gli orrori di Auschwitz e del suo mondo rovesciato
raccontati dall'amico, perché non è la mia storia.
Durante la mia assenza anche Walter fu arrestato dalla milizia fascista e
trasferito nelle carceri di Montesperoli. Ancora una volta l'intervento di
mamma fu determinante; ella, in quanto cattolica, poteva circolare
liberamente, ma i mezzi di trasporto erano sempre più rari e ad alto rischio
per i bombardamenti. Povera mamma, quanta strada a piedi ha percorso per
salvare i suoi figli. Ci ha donato la vita per ben due volte, come un doppio
parto.
Dopo poco anche le condizioni in convento peggiorarono. La Madre Superiora
era diventata intrattabile, nervosa e irascibile; non si riusciva a capirne
la causa. Era chiaro che non eravamo più bene accetti, dovevamo andarcene al
più presto. Eppure ci rendevamo utili in ogni occasione, lavorando sodo
tutto il giorno e mangiando poco e male. C'era un appezzamento di terreno di
loro proprietà al quale dedicavamo tutte le nostre energie, pur non sapendo
niente di coltura, poi la chiesa ed il convento da tenere in ordine e ben
puliti, si provvedeva inoltre a qualsiasi riparazione. Insomma, non avevamo
un attimo di respiro. Anche mamma e Giuditta, la mia sorellina che ancora
era una
bambina e aveva tutto il diritto di passare il suo tempo giocando, lavoravano di lena curando l'orto e il giardino. Le suore pensavano
soltanto a pregare.
L'unico vantaggio per noi era la sicurezza di stare lontani, almeno per il
momento, da ogni pericolo.....e non era poco!
....poi avvenne il patatrac....
Ci trovammo improvvisamente e senza alcun preavviso tutti e cinque in mezzo
alla strada.
Come mai? Cosa era successo di così grave?
La spiegazione di mio padre fu sconvolgente: ci confessò che si era
rifiutato di continuare a......andare a tetto con la Madre Superiora!
Conoscendo mio padre, ritengo fosse la pura verità. Esso si giustificò
informandoci che non poteva più cedere ai ricatti della suora: soddisfare i
suoi desideri sessuali, solo perché minacciato continuamente di essere
cacciati tutti dal convento.
"Queste cose non si fanno per coercizione, mi sono sentito violentato!"....e
noi eravamo, ancora una volta, in pericolo....
In
paese trovammo, per fortuna, un'abitazione ammobiliata.
I proprietari erano emigrati all'estero, lasciando le chiavi ai parenti, che
non ebbero alcuna difficoltà per affittarcela.
Avevamo risolto una prima necessità, ma scarseggiavano i soldi per i viveri,
senza tessera era un grosso problema.
Come sempre mamma non si scoraggiò, era solita dire "Dio vede e provvede",
difatti dopo qualche giorno ci chiamò un uomo di mezza età di nome Pippo.
Pippo era un gran lavoratore, sempre disponibile per tutti, vedovo e senza
figli. Viveva solo, ma questo non lo spaventava, non soffriva certo di
solitudine con tutto il lavoro che riusciva a svolgere. Veniva chiamato
continuamente dalla gente del paese per lavori di facchinaggio e spesso lo
si vedeva con pesantissimi carichi sulle spalle che scendeva e saliva dalla
mulattiera che portava giù al paese di Taviano.
Era proprietario di tre vastissimi castagneti, per questo ci aveva chiamati;
aveva bisogno di aiutanti. Ci chiese se eravamo disposti a lavorare con lui
per la stagione delle castagne. Si trattava di raccogliere le castagne,
trasferirle all'essiccatoio e, una volta essiccate, portarle giù al molino
di Taviano per essere macinate. Il compenso consisteva in un pasto a secco
e, alla fine della stagione, un quintale di farina a testa.
Accettammo
immediatamente, cominciando già dal mattino successivo. Pippo ci accompagnò
nella sua proprietà e, dal confine esterno, iniziammo la raccolta delle
castagne.
Un
lavoro davvero faticoso.
Nei castagneti di Sanbuca Pistoiese, si riempivano i sacchi di castagne
raccolte tutto il giorno e la sera, si trasportavano all'essiccatoio,
naturalmente a spalle.
L'essiccatoio è una grande stanza divisa a metà, orizzontalmente, da una
rete metallica, con un braciere sempre acceso nella parte inferiore. Si
scaricano le castagne sopra la rete che, ricevendo il calore dal braciere
sottostante, piano piano si seccano. Terminata questa operazione si tolgono
dalla rete con pale adeguate, in quantità limitata, e si versano nei tini
con fondo tondo. Successivamente, con la "zanca" (una specie di trampolo
simile a quelli che usano i pagliacci con le loro spettacolari passeggiate
nel vuoto), fornita di una sorta di corona metallica ad un'estremità, si
separa la buccia dalla castagna. Con l'aiuto di un soffietto si fanno infine
"volare" le bucce come tante farfalle.
Il pranzo consisteva in necci, ricotta e pecorino a volontà.
I necci, così
vengono chiamati dalla gente del luogo, sono come focacce. Per prepararle si
utilizzano degli appositi testi di arenaria, rotondi di circa 15 cm di
diametro, spessi circa un centimetro, e poste precedentemente sul fuoco.
Quando sono roventi si mette su di un testo una larga foglia di castagno, ci
si cola sopra una cucchiaiata di un impasto fluido di farina (sempre di
castagna) e acqua, poi un’altra foglia, altro testo rovente e così via fino
a formare una pila di necci. Una decina di minuti per la cottura e...se ne
possono mangiare a sazietà. In sostanza sostituiscono il pane.
Una volta finita la raccolta, essiccate le castagne ed insaccate in sacchi
da un quintale l'uno, rimaneva l'immane fatica di caricarsi sulle spalle le
balle e portarle a macinare al molino, situato giù a Taviano. Per far
questo, si usava il basto: un cuscino imbottito di cenci in cui veniva
cucito da un lato un cappuccio che, una volta infilato in testa, consentiva
al cuscino di cadere sulle spalle. Questo per un duplice scopo: sostenere il
peso e non farlo scivolare.
Finita la stagione, il nostro compenso fu di ben tre quintali di farina di
castagna. Me lo ricordo come un incubo; la mamma ce la proponeva in tutte le
salse, cucinandola in tutti i modi possibili: pane, polenta, pasta, necci,
frittelle e via discorrendo. Non ho mai più mangiato castagne.
Intanto era passato un altro mese tranquillo, ma la gente del paese
cominciava a chiedersi come mai io e Walter non eravamo a prestare il
servizio militare. Ci facevano domande insidiose, che cercavamo di eludere
con risposte evasive e poco convincenti.
Il nostro comportamento era disperatamente "normale", adeguandoci agli usi e
costumi del paese. La domenica, per non suscitare sospetto, partecipavamo
tutti alla Santa Messa. Entrando in chiesa si tuffava la mano
nell'acquasantiera e, ligi al dovere, ci facevamo il segno della croce
(chissà quante volte eseguito a rovescio), e ci raccoglievamo come se
pregassimo con sincera convinzione. Ma certa gente ha un fiuto particolare
per queste cose, non si convince facilmente. I fatti erano evidenti; eravamo
gli unici due giovani che circolavano nel paese, tutti gli altri erano
militari.
La nostra paura era che qualcuno, anche involontariamente, parlasse troppo,
creandoci dei seri grattacapi.
Anche se non avevamo scritto in fronte "ebreo", noi sapevamo di esserlo e,
come se ciò non bastasse, c'era anche il pericolo di venire arrestati come
renitenti alla leva se non addirittura disertori. Per questa ragione non ci
si muoveva mai dal paese.
Ma un giorno......
....eravamo nella piazzetta del paese, due chiacchiere tra "compaesani",
quando una voce concitata urlò "ATTENTI ALLE PEGGORE" (attenti alle pecore).
Era il segnale: una pattuglia tedesca stava risalendo la mulattiera che
portava al paese, per rastrellare gli uomini abili al lavoro. Dalla nostra
postazione potevamo vederli perfettamente.
In un attimo ci fu un fuggi-fuggi
generale verso la macchia, anche i ragazzini e le persone di mezza età;
meglio non fidarsi!
Rimanemmo ben nascosti finché non arrivò la solita voce "LE PEGGORE SONO
ANDATE", era il cessato allarme.
Ci ritrovammo in piazza, tutti felici per lo scampato pericolo,
ma......mancava all'appello Pippo. Il poveretto stava scendendo a Taviano
col solito carico sulle spalle e, probabilmente, non aveva sentito l'avviso
di pericolo. Non è mai più tornato.
Questo fatto, anche se tragico, ci tranquillizzò sull'affidabilità degli
abitanti del luogo; avevano avuto l'occasione di denunciarci, ma non
l'avevano fatto, dimostrandoci la loro solidarietà. Certo la curiosità non
si attenuò e le nostre risposte continuavano ad essere evasive e palesemente
bugiarde, eravamo sempre prudenti e sospettosi, pronti a captare qualsiasi
segnale dubbio, tuttavia ora ci sentivamo leggermente più tranquilli, anche
se ancora non avevamo risolto il problema economico; il pensiero della
sopravvivenza giornaliera non ci dava tregua.
Papà, preoccupato, ci mise al corrente che il denaro stava finendo, non
sapeva come mantenere una famiglia di cinque persone, dovevamo provvedere al
più presto.
Dice un vecchio adagio "impara l'arte e mettila da parte".
Con i pochi
arnesi che papà aveva saggiamente sempre portato con sé durante la fuga,
iniziammo a costruire dei rudimentali zoccoli, partendo da un semplice
tronco d'albero. Fu un'idea luminosa: ce li ordinavano tutti! Riuscimmo a
"inzoccolare" non soltanto tutti gli abitanti del paese, ma anche delle zone
limitrofe. Si vendevano a 25 lire al paio, e questo ci permetteva
di...MANGIARE!
Poi ben presto anche quel filone si esaurì, ma ormai tutti ci conoscevano
come abili falegnami, e ci chiamavano per qualsiasi riparazione. Con
l'occasione si stringevano nuove amicizie e questo ci permise di abbattere
quel muro di diffidenza che ci circondava.
Un giorno ci chiamò il sindaco del paese, il signor Leone, per alcuni
lavoretti. Finite le riparazioni, ci informò che tutto il paese sapeva di
noi, ma che potevamo stare tranquilli perché gli abitanti erano dalla nostra
parte. "Dalla nostra parte? Che significa?" chiese papà con aria ingenua. Il
signor Leone rispose che, in quanto sindaco e quindi responsabile del luogo,
aveva preso informazioni e sapeva tutto di noi, ma non c'era niente da
temere, là eravamo al sicuro. Dovevamo solo essere molto prudenti con
Mariano e il pievano Don Bruni. Il primo perché fascista convinto e il
secondo perché simpatizzava con i maledetti "...a buon intenditor...."
concluse.
Conoscevamo bene questo Mariano: aveva un figlio disperso al fronte russo e
ci teneva a dirlo, poiché ne andava fiero. Ripeteva che era giusto
sacrificarsi per la Patria, anche con la vita. "A morte i comunisti, evviva
Mussolini!" era solito dire. Era meglio evitare un fanatico simile.
Il pievano invece era più tranquillo e tollerante, anche se la domenica, in
chiesa durante la predica, rivolgendosi ai parrocchiani non si dimenticava
mai di inneggiare al Duce che sicuramente ci avrebbe condotti alla vittoria
finale, occorreva avere fiducia e servire la Patria con tutto l'impegno e le
nostre forze. Naturalmente tutto il paese diffidava di queste due persone e
se ne stavano alla larga.
La sera, per passare il tempo, io e mio fratello ci aggregavamo a un gruppo
di anziani, sfidandoci in numerose partite a carte. Erano loro che ci
chiamavano, ormai la diffidenza nei nostri confronti poteva considerarsi
cosa vecchia; ci avevano accettato e ci rispettavano esattamente come gli
altri.
Faceva parte del gruppo anche Walter Bartolini, di circa trent'anni, che
viveva a "La Capanna", un agglomerato di poche case, vicino a Sanbuca. Non
era assiduo, ogni tanto spariva per un periodo più o meno lungo, ma quando
tornava era accolto festosamente da tutti, per la sua simpatia e
disponibilità.
Una sera invitò me e mio fratello a casa sua; doveva
parlarci.
La serata fu simpatica, parlammo del più e del meno fino a quando arrivammo
all'argomento tabù: la politica. Non fu difficile capire le sue idee in
merito, non era fascista e nemmeno popolare (oggi diremmo democristiano);
era un convinto comunista.
Cominciò toccando la materia con molta prudenza,
alla fine ci confidò che era partigiano, spiegando così le sue innumerevole
assenze.
Stava cercando nuovi elementi per rinforzare le loro fila, quindi ci chiese
a bruciapelo di unirci a loro.
"Vi assicuro che non è pericoloso" aggiunse
"si tratta solo di azioni di disturbo alle truppe tedesche e fasciste, blitz
notturni e rientro, organizzati da un ex ufficiale dell'esercito che,
disertando, si è dato alla macchia"
Ci invitò poi a seguirlo nel retro della casa. In un rustico, dietro una
catasta di legna, c'era un vero arsenale: fucili, mitragliatrici pesanti, un
paio di mitraglie leggere, bombe a mano, pistole, mine, candelotti
esplosivi, casse di munizioni, ecc. Tutto materiale in dotazione
all'esercito italiano e tedesco. Ci rivelò che quelle armi le avevano
prelevate dai depositi nemici e le aveva in consegna in attesa di
distribuirle ai nuovi volontari. "Mi raccomando, acqua in bocca. Vi lascio
due o tre giorni per riflettere sulla mia proposta".
Cogitabondi, sulla strada del ritorno, io e mio fratello non ci scambiammo
una sola parola. Sinceramente non sono mai stato un eroe e il pensiero di
imbracciare un fucile per uccidere, ancora mi raggela. D'altra parte già da
un anno e mezzo si viveva da braccati, sempre con la paura di essere
catturati e senza possibilità di difesa. Sono per natura un fatalista e
credo che ognuno di noi abbia un destino già scritto; se dovevo morire,
pensai, tanto valeva che avvenisse difendendomi. Prima di arrivare a casa,
io e mio fratello decidemmo di parlarne con papà, ma avevo già preso la mia
decisione......e anche mio fratello!
Con mio padre discutemmo a lungo, alla fine fu categorico: O TUTTI E TRE O
NESSUNO DEI TRE, stabilendo per il momento di non informare mamma.
MAGGIO 1944
L'esercito alleato era fermo sulla linea gotica, in attesa del momento
propizio per scatenare l'attacco decisivo che avrebbe liberato la Toscana e
parte dell'Emilia Romagna. A conti fatti si trattava di pochi mesi e,
finalmente, anche la nostra zona sarebbe stata liberata. L'esercito tedesco
ormai opponeva una debole resistenza, ritirandosi sempre più verso nord, ma
durante la ritirata i soldati compievano rappresaglie, retate, saccheggi e
distruzioni. Si diceva che interi paesi venivano annientati con massacri di
popolazione inerme. Le retate erano all'ordine del giorno, gli uomini abili
venivano trasferiti verso il nord e nessuno sapeva più niente di loro.
Finimmo con l'accettare l'offerta dell'amico. Contattammo Walter Bartolini
detto "il francese" (nome di battaglia, forse perché nato in Francia da
emigranti italiani) il quale fu molto lieto della nostra decisione ma,
vedendo mio padre, rimase perplesso, ritenendolo forse troppo anziano. Poi,
ripensandoci, disse che anche lui sarebbe stato utile, magari per fare la
staffetta tra i punti di congiungimento; certamente avrebbe destato minori
sospetti di un giovane.
Ci informò che l'indomani ci avrebbe portato dal
tenente Ferrari, il nostro comandante, l'unico diretto responsabile. Intanto, la sera stessa, dovevamo fare il battesimo "del fuoco".
Intendeva
dare una lezione a Don Bruni, affinché imparasse a non parlare di politica
in chiesa.
A tarda sera ci portò quindi nei pressi della chiesa dove
lanciammo tre bombe a mano sul porticato. Il pievano capì l'avvertimento e
da quel giorno si limitò a confessare i suoi parrocchiani senza più toccare
argomenti non inerenti.
Il mattino dopo il francese ci diede una lezione di addestramento con le
armi e, nel pomeriggio, ci presentò finalmente al tenente Ferrari.
Dopo un
colloquio di oltre un'ora per assicurarsi che le nostre condizioni e
motivazioni fossero credibili e giustificassero la nostra decisione,
ascoltando molto attentamente la nostra storia, non ebbe più alcun dubbio e,
da quel momento, fummo parte integrante del gruppo dei "ribelli", composto da
una trentina di partigiani.
La nostra zona d'azione partiva da nord, iniziando da Porretta Terme fino al
passo della Collina.
Fu un susseguirsi di azioni più o meno importanti, con
lo scopo di ostacolare i tedeschi. Il nostro comandante ci ripeteva che era
bene far notare la nostra presenza, affinché nei loro piani facessero i
conti anche con noi.
Con l'avanzare degli alleati, il nostro gruppo si alimentò di nuove unità,
fino a raggiungere una sessantina di elementi.
Agosto/Settembre 1944
Gli alleati avanzavano e già avevano liberato Firenze, Pistoia e altre città
della Toscana, ma la Nazione era ancora in guerra, anche se le truppe
tedesche stavano per ritirarsi.
Un mattino presto, papà il "Mantovano", fu mandato a controllare quanto
distanziavano gli americani. Quando, verso sera, tornò ci informò che le
prime avanguardie alleate erano a una dozzina di chilometri da noi. Il
tenente Ferrari, immaginando l'imminente ripiegamento nemico, decise
immediatamente una ulteriore azione di disturbo: i tedeschi dovevano capire
bene che ora non potevano più permettersi la loro politica del massacro, con
le loro azioni militari contro popolazioni civili inermi, con i loro
saccheggi e i loro orrori, perché ora c'eravamo noi a sorvegliare.
Ci trasferimmo in un punto strategico sopra Taviano. Dalla nostra postazione
si dominava tutto il paese, posto più in basso, ed eravamo in grado di
controllare ogni mossa. Notammo subito un gran movimento di automezzi
germanici; era chiaro che stavano preparandosi per una ritirata. Ci
auguravamo tutti che lo facessero senza vittime e distruzioni.
Anche il nostro comandante osservava col canocchiale, pronto ad un eventuale
intervento. A un tratto sibilò:- State pronti ragazzi, i tedeschi stanno
minando il paese.
Difatti stavano collocando casse di esplosivo davanti ad ogni casa, con lo
scopo di farle esplodere, lasciando il caos dietro di loro. Non c'era
alternativa, dovevamo intervenire.
- ATTENTI, VIA!"
Aprimmo il fuoco e........fu il finimondo.
Dopo il primo attimo di sorpresa, i tedeschi reagirono, ma senza
determinazione. Più che ritirata, la loro, era una fuga, consapevoli di
avere gli americani alle calcagna. Da parte nostra, ci bastava che se ne
andassero prima possibile, senza danni.
Dopo circa mezz'ora di fuoco continuo, i tedeschi rinunciarono al loro
proposito, salirono di corsa sui loro automezzi e se ne andarono verso
Porretta.
Dopo il cessate il fuoco, con molta cautela, scendemmo in paese e subito ci
disponemmo per una minuziosa perlustrazione, controllando che non ci fossero
cariche esplosive a tempo. Infine tornò la calma.
Un morto ed un ferito leggero tra i nostri, cinque morti e quattro feriti
tra i nemici. Il nostro caduto era un giovane di ventisei anni, "Schangai",
così chiamato perché aveva gli occhi a mandorla, come gli orientali. Era
stato colpito da una raffica di mitra in pieno petto, forse si era esposto
troppo. Il ferito, lo "Smilzo", magro come un chiodo, era stato beccato di
striscio ad una gamba da una pallottola. Sarebbe guarito in pochi giorni.
Infine controllammo il materiale abbandonato: due camionette incendiate,
un'autoblinda bloccata, cassette di munizioni e armi. Il tenente Ferrari ci
comandò di seppellire i cadaveri e le armi, e di trasportare i feriti per
consegnarli agli alleati. Improvvisammo quattro barelle, ma quando il
comandante ci ordinò di caricare i feriti, intervenni decisamente.
- Mi dispiace, ma io mi rifiuto! Per quello che mi riguarda, possono morire
anche subito, non me ne importa niente, non piangerò per loro.
Non avevo nessuna intenzione di soccorrere un tedesco, tantomeno di
trasportarlo in alcun luogo.
- Stai calmo "Biondo" - (era il mio nome di battaglia), mi rispose
gravemente Ferrari - Ti capisco, ma abbiamo il dovere di difendere il nostro
onore, altrimenti saremmo come loro.
A malincuore mi caricai, insieme ad altri tre compagni, la barella sulle
spalle e mossi i primi passi. Dovevamo percorrere circa dodici chilometri.
Mio padre con la bandiera bianca, in testa al gruppo, faceva da guida.
Durante il percorso, il ferito continuava a lamentarsi "Ohi ohi, buono
partisan, ohi ohi, buono partisan". Sopportai i lamenti il più possibile,
non volevo sentire, non volevo cedere all'ira, ma alla fine reagii e,
chiesto ai compagni di posare la barella a terra, mi avvicinai al suo viso e
gli urlai all'orecchio:- Senti, se ti lamenti ancora, io ti lascio qua.
Guardami bene, guardami fisso, sai chi ti sta salvando? Un EBREO. Hai
capito? IO SONO JUDEN! e ora piantala!
Non si lamentò più.
Fu papà che per primo avvistò la staffetta americana. Non riesco a
descrivere il nostro entusiasmo. Sembrava impossibile che tutto, come
d'incanto, fosse finito. Fino a pochi istanti prima avevamo avuto la spada
di Damocle sulla testa, con le persecuzioni, rastrellamenti, paure, angosce,
minacce e ora....LA LIBERTA'. Che sensazione indescrivibile poter gridare a
tutti "SONO LIBERO, capisci? libero di dire a tutti e senza paura SONO
EBREO! Sissignori, SONO EBREO, eccomi qua!"
Nell'arco della vita si possono attraversare momenti di gioia, periodi di
dolore che mettono a dura prova la nostra esistenza, ma quell'attimo di
felicità non si potrà mai ripetere, non è possibile. Rivolsi il mio pensiero
a D-o e, raccogliendomi, dissi sottovoce "Dio Benedetto, Ti ringrazio per
aver salvato la nostra vita"
Devo confessare che, allora come adesso, non sono mai stato religioso
osservante, ma quel ringraziamento al Padre Eterno mi sgorgò dal cuore con
sincerità e vera devozione.
Gli americani ci accolsero con simpatia e, dopo i primi scambi di notizie
(assicurammo subito che fino a Porretta Terme potevano avanzare
tranquillamente; ormai era terra di nessuno), ci rifocillarono
abbondantemente, mentre alcuni soldati presero in consegna i quattro feriti,
avviandoli all'ospedale da campo.
Ciò che mi colpì, e che ancora oggi ricordo con grande impressione, fu
l'idea di come i tedeschi potessero sperare di vincere la guerra contro gli
americani, con tutti quei mezzi moderni e armi così sofisticate e
inimmaginabili. Per non parlare poi della prevalenza numerica. Tanto per
rendere l'idea, ricordo che mentre ai tedeschi occorrevano tre giorni, con
grande dispiego di uomini della Todt e mezzi, per ricostruire il ponte della
Venturina che ogni tanto veniva abbattuto dall'aviazione americana, a
quest'ultimi bastarono due ore per rimetterlo in piedi e continuare
l'avanzata.
Con gli americani vicino, ci sembrava di vivere in un altro mondo.
Tornati alla nostra sede, decidemmo di sciogliere il gruppo; riconsegnammo
le armi e ognuno tornò alla propria casa; la nostra zona era stata liberata.
Taviano era piena di soldati americani e un giorno, mentre io papà e mio
fratello stavamo passeggiando per il paese, notammo un ufficiale americano,
seduto su un muretto, concentrato nella lettura di un libro. Era un testo
con caratteri ebraici.
- SHALOM (pace)- lo salutammo tutti e tre in coro
- SHALOM - rispose immediatamente - Siete ebrei?
Alla nostra risposta affermativa, si mostrò interessatissimo, ci rivolse
mille domande, volle subito sapere tutto sulla persecuzione da noi subìta.
Isacco, questo era il suo nome, ascoltava incredulo, era emozionatissimo.
Alla fine ci abbracciò con calore, poi ci disse che fino a quando sarebbe
rimasto nei paraggi, non ci sarebbe mancato più niente.
E così fu. Da quel giorno, fino al suo trasferimento, quasi tutti i giorni
si poteva avvistare un gruppo formato da cinque/sei uomini, lui in testa,
che saliva la mulattiera verso Sanbuca, con grossi scatoloni pieni di viveri
in scatola e di ogni ben di Dio. Scatole, scatolette, cioccolato, sigarette,
dentifrici, spazzolini, lamette per barba, maglie, mutande, cappelli,
camicie e calzoni militari da lavoro. Tutto e di tutto in abbondanza.
Ma la permanenza dei soldati americani fu breve, dovevano continuare
l'avanzata. Il giorno prima della partenza, il nostro Isacco ci rifornì
abbondantemente di materiale e cibo per
l'ultima volta, ci lasciò il suo indirizzo di Chicago poi, con un forte ed
affettuoso abbraccio, ci salutò commosso augurandoci ogni bene.
Finita la guerra gli abbiamo scritto più volte, senza ricevere alcuna
risposta.......
Autunno 1944
Passarono alcune settimane e noi eravamo agli sgoccioli di tutte le nostre
risorse. Dovevamo assolutamente procurarci un lavoro, inoltre eravamo
assetati di notizie: quanti ebrei si erano salvati occultandosi come noi?
Quanti erano già tornati nelle loro case?
Mio padre decise quindi di raggiungere la Comunità ebraica più vicina,
Firenze, dove, secondo lui, ci sarebbero state più opportunità di trovare un
lavoro per sopravvivere.
Con mezzi di fortuna (e sempre pagando) nell'ottobre del '44 arrivammo a
Firenze e dalla Comunità ebraica, appena riorganizzata, ci arrivarono i
primi aiuti; dall'America il Joint (organizzazione ebraica americana)
spediva a tutte le comunità ebraiche italiane aiuti in cibo e vestiario.

Ci sistemammo in una pensioncina, due camere da letto con uso di cucina, e
subito trovammo lavoro in una falegnameria in Borgo Stella. Per il momento
eravamo sistemati, non ci rimaneva che attendere la fine della guerra per
tornare a Mantova.
.....poi arrivò la primavera.....
Aprile 1945
Già da parecchi giorni la radio annuncia che si prepara una grande offensiva
in Italia.
Continua l'avanzata dei Russi e degli alleati e, con orrore, fanno le prime
scoperte sulle atrocità dei tedeschi. I russi hanno occupato tutti i
quartieri di Vienna e continua l'avanzata dalla parte occidentale della
Germania.
Il 21 Aprile viene liberata Bologna, mentre in Germania le armate russe sono
a 40 chilometri da quelle americane.
24 Aprile - Berlino ormai circondata, tutti i sobborghi sono in mano dei
Russi.
25 Aprile - Gli Alleati hanno occupato La Spezia, Modena, Ferrara ed hanno
oltrepassato il Po in diversi punti.
27 Aprile - Hanno arrestato Mussolini e Farinacci, mentre tentavano di
fuggire in Svizzera. Sono stati pure arrestati il generale Graziani,
Pavolini, Starace ed altri. La Germania ha offerto la pace incondizionata
agli Stati Uniti ed alla Gran Bretagna, ma Londra e Washington hanno
risposto che non si può parlare di armistizio finché la stessa proposta non
sia fatta anche alla Russia.
30 Aprile - Mussolini, Farinacci e Pavolini sono stati giustiziati. Il
maresciallo Tito è entrato a Trieste.
3 Maggio - Anche Hitler è morto, non si sa bene se di emorragia cerebrale o
se si è suicidato, certamente non era al suo posto di combattimento, come
voleva far credere la Germania. Finalmente i due più feroci antisemiti sono
morti!
4 Maggio - In Italia la guerra è finita. I tedeschi si sono arresi
incondizionatamente e sono cessate le ostilità fino dal mezzogiorno del 2
maggio. Ma in Germania si combatte ancora, anche se ormai Berlino è già
caduta.
In Comunità
venimmo a sapere che erano stati organizzati dei campi di raccolta per i
superstiti ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio (campi di sterminio? ma
non erano campi dove venivano riuniti gli ebrei di tutta Europa per
lavorare?).
Questi campi di raccolta, tre in tutta Italia e organizzati dalla brigata
ebraica che aveva combattuto a fianco dell'esercito inglese, in realtà erano
campi clandestini per accogliere gli ebrei che volevano andare in Palestina
(allora protettorato inglese).
Subito riemerse in noi il grande sogno: Israele, la Terra Promessa, uno
Stato Israeliano, dove nessuno avrebbe in seguito osato mettere in
discussione la purezza della razza, sia che fosse ariana o non, e dove
"sporco ebreo" non poteva che avere un unico significato: “Lavati,
sudicio!”.
Io e mio fratello Walter decidemmo così di iniziare una nuova vita:
lasciammo i nostri genitori a Firenze e ci recammo a Roma....
A
Roma c'era il primo raggruppamento.
Naturalmente i reduci dai campi di sterminio avevano la priorità assoluta.
Non ho parole per descrivere lo stato fisico e psicologico di quella gente
nonostante i primi soccorsi da parte degli americani e russi, e i primi
aiuti della Joint.
Tutti avevano un numero tatuato al braccio. Cominciammo ad avere
testimonianze terrificanti.
In Palestina c'era bisogno di manovalanza e braccia forti e robuste, ma lì
c'era ben poca forza, dire che erano derelitti umani non rende lontanamente
l'idea. Per prima cosa era necessario nutrirli e curarli; dovevano
rimettersi in forze, almeno quanto bastava per affrontare il viaggio
successivo. Non sapevamo nemmeno se gli inglesi ci avrebbero permesso di
sbarcare. Intanto noi dovevamo imparare la lingua ebraica e
impratichirsi
a lavorare la terra.
Uno di questi campi era situato a Bitetto, in provincia di Bari; e proprio
là io e Walter fummo trasferiti, con un camion militare con tanto di stella
ebraica che ci portò a destinazione. Fu in quel campo che conobbi la donna
della mia vita: Sara.
Mediamente eravamo meno di 100 anime, dei quali una trentina italiani, il
resto... di tutto un po': francesi, belgi, rumeni ecc., ma la maggioranza
erano polacchi. Tutti con una storia da raccontare, tutti meravigliati di
essere ancora vivi; ci sentivamo come dei graziati dal destino.
ll mantenimento del campo dipendeva da noi, dal nostro lavoro. In un momento
di crisi economica, ci mandarono persino a scaricare bombe inglesi di 120
kg. l'una.
Periodicamente poi gruppi di giovani venivano mandati in Palestina, sempre
in forma clandestina.
I reduci dei campi di sterminio avevano, come già detto, la precedenza
assoluta e, siccome ne arrivavano regolarmente, il turno del nostro gruppo
italiano non arrivava mai. Stanchi di aspettare e impazienti di agire,
parlammo col comandante del campo, ma questi ci rispose seccamente che i
suoi ordini erano perentori: precedenza assoluta ai reduci dei campi di
sterminio: “Ha più diritto uno di loro che tutti voi messi insieme!" -
aggiunse.
Decidemmo così di tornare alle nostre case usufruendo del servizio di uno
dei camion che aveva portato i nuovi al campo e che tornava vuoto a Roma.
Mentre Walter proseguì per Firenze, dove si era stabilito temporaneamente il
resto della famiglia, io mi fermai a Roma per conoscere la famiglia di Sara.
ll mio
futuro suocero mi propose subito di rimanere da loro con molte possibilità
di lavoro, ma io ero impaziente di rivedere i miei perciò insieme alla mia futura moglie, li raggiunsi.
Era finalmente arrivata l'ora di tornare a casa!
Con mezzi di fortuna e dopo due giorni di viaggio, raggiungemmo Mantova.
La nostra abitazione non esisteva più. Anche il laboratorio era stato
saccheggiato, il portone d'ingresso sfondato e dentro non era rimasto più
niente.
La Comunità Israelitica, che aveva già ripreso la sua attività, ci venne in
aiuto offrendoci, provvisoriamente, una soffitta per abitarci ed una stanza
a piano terra per la bottega, in Via Gilberto Govi 11. Si! proprio nell'ex
campo di concentramento, tornato ora nella sua giusta funzione. Il laboratorio
non era altro che la "cella" dei momenti più tristi.
Rimessa in ordine, l'attrezzammo al nostro scopo. Il lavoro non mancava e la
via della ricostruzione era ormai iniziata. Mi era rimasto nel cuore ancora
un desiderio di vendetta per chi aveva cagionato tanto dolore e,
contemporaneamente, gratitudine per Mario, l'amico che in un momento così
tragico e pericoloso, ebbe il coraggio di mettere a repentaglio la propria
vita nel confidarmi ciò che, purtroppo, avvenne a pochi giorni di distanza.
Lo cercai più volte presso la questura centrale di Mantova, dove allora
prestava servizio, ma non riuscii a rintracciarlo. Era stato trasferito più
volte in posti diversi, ma non ho mai avuto notizie precise. La mia
impressione fu che non vollero intenzionalmente dirmi dove fosse finito per
paura di una eventuale ritorsione. I momenti erano brutti, e tutto era
possibile, dopo la guerra ci furono molti regolamenti di conti, non sarebbe
stato il primo nè l'ultimo di questi casi.
Era tale la voglia di riabbracciarlo e ringraziarlo ancora una volta che,
anni dopo, scrissi pure a Enzo Tortora, quando alla televisione conduceva
"Portobello", nella rubrica "Dov'è", ma non ebbi alcuna risposta. In effetti
se sono ancora vivo lo devo alla mia mamma, ma l'intenzione c'era, ed è
questo che conta.
Rimaneva ancora un capitolo da chiudere definitivamente: dovevo rintracciare
il Martiradonna. Era un desiderio che mi rodeva dentro. Mamma si era accorta
della mia smania e mi esortava a desistere "Ringraziamo Dio che siamo
tornati tutti sani e salvi, la miglior vendetta è il perdono!" Ma non riuscì
a convinvermi.
Dopo una piccola indagine, riuscii a trovarlo.
Con me volle venire anche mio fratello.
Suonai alla porta......
La porta si aprì e apparve una
signora in evidente stato di gravidanza.
- C'è il signor Martiradonna?
- Non c'è, ma dovrebbe rientrare presto. Chi lo desidera?
- Non importa, torneremo più tardi.
Deluso, riprendemmo la strada del ritorno ma, proprio all'angolo di Via
Orefici....LUI! faccia a faccia, il caro ragioniere!
- Ma guarda chi si vede, sembra proprio un segno del destino!
Mi fissò a lungo, cercando di mettere a fuoco la mia immagine, poi esplose
fragorosamente:- William! sei tu William vero? Come stai?
- Io sto bene, ma chiedilo anche a quelle 53 persone che non sono più
tornate. Non le hai sulla coscienza?
Il Martiradonna cominciò a piagnucolare che non aveva colpa, che quelli
erano i comandi, che doveva eseguire gli ordini....
Che codardo! lo interruppi urlando
- La malvagità non si ordina, bisogna nascere cattivi, era scritto nel tuo
animo pusillanime. Approfittando della tua autorità, sei stato perfido con
quelle povere persone anziane, con tutte le tue angherie, i soprusi, i
maltrattamenti.....
- No, no, ti prego - intervenne cercando di placarmi - Non farmi del male,
mia moglie aspetta un bambino, ti prego non farmi del male.
Col cervello in fiamme, mi passò davanti agli occhi l'immagine delle
cinquantatre vittime che mi sussurravano "non farlo, chi sei tu per decidere
la vita o la morte? Il suo Giudice è D-o"
Mi calmai. Con fredda determinazione stimolai le ghiandole salivari
accogliendo in bocca tutta la saliva possibile e gli sputai in faccia
dicendo "Vali meno di questo!"
In seguito fui criticato dai parenti delle vittime; si aspettavano qualcosa
di più concreto. Ma credo di aver agito giustamente, non è stata
vigliaccheria.
OTTOBRE
Il lavoro non mancava, un tetto c'era, perciò con la mia fidanzata
stabilimmo la data del matrimonio. Non avevamo nessun mezzo per comprarci un
vestito decente, tanto meno per organizzare i festeggiamenti, ma ancora una
volta la Comunità ci venne in aiuto. Essendo il nostro il primo matrimonio
ebraico, dopo la fine della guerra, celebrato nel piccolo Tempio di Mantova
(il grande era stato distrutto nel '36 per ragioni di rifacimento del piano
regolatore), ci organizzarono tutto: dalla coperta di un soldato americano
ricavarono la stoffa per l'abito da sposa confezionato da ben quattro abili
mani, e un amico mi donò un completo "fumo di Londra". Provvidero pure per
un magnifico rinfresco, invitando i pochi sopravvissuti della nostra
Comunità.
Ormai ansioso di arrivare alla data stabilita, il 28 ottobre, non pensavo
certo alla sorpresa che mi arrivò prima del fatidico giorno. Ventiquattro
ore prima del matrimonio, un giovane emaciato e con gli occhi alterati si
presentò alla portineria della Comunità chiedendo di Sara. Era Mario,
"promesso" a Sara sin da quando erano bambini e del quale nessuno aveva più
avuto notizie da quando era stato deportato in un campo di sterminio. Aveva
affrontato il viaggio Roma-Mantova per riprendersi la sua ragazza. Sara
arrivò di corsa sperando di avere notizie del fratello, anche lui deportato.
Purtroppo Mario non ne sapeva niente, aveva un solo pensiero: portare via
colei che riteneva ancora la sua ragazza!
Mi chiamarono immediatamente, ed io raggiunsi i due che stavano discutendo
animatamente.
Il terribile passato ad Auschwitz era evidente nel volto e nell' agire del
giovane; mostrava spesso la pistola che portava sempre con sé; sembrava che
solo toccandola ogni tanto, riuscisse a sentirsi più sicuro. Con molta calma
e tenendo sempre d'occhio il dito che in quel momento stava fisso sul
grilletto dell'arma, cercai di farlo riflettere sul fatto che, pur
rendendomi conto del suo dolore, ormai le cose erano cambiate, e che Sara,
credendolo morto, si era ritenuta libera di farsi una famiglia. Come D-o
volle, riuscii a convincerlo a tornarsene a casa.
1946
Dopo il matrimonio, però, mia moglie non riusciva proprio ad adattarsi al
clima di Mantova, decidemmo così di trasferirci a Roma, dove trovai subito
lavoro.
Finalmente le cose sembravano mettersi per il meglio, a 22 anni mi ero unito
con la donna che amavo, avevo un lavoro stabile e già pensavo di allargare
la famiglia con qualche...elemento.
Ma la mia esistenza doveva subire un
ulteriore cambiamento. Una bella mattina infatti mi arrivò la cartolina
rosa: dovevo presentarmi al distretto militare.
Fu un colpo inaspettato;
ieri ero un cittadino di seconda classe, neppure degno di prestare il
servizio militare, oggi invece, in un momento di ricostruzione della mia
vita e della mia dignità, nonostante il certificato di matrimonio, mi
obbligavano a servire la Patria, che proprio non mi sembrava meritevole di
tanto sacrificio, dopo tutte le sofferenze passate.
Il 5 agosto 1946 fui dunque, mio malgrado, arruolato all'ottavo C.A.R. di
Orvieto.
Durante il CAR, l'ufficiale tenente di artiglieria Arduino, selezionò una
trentina di ragazzi per trasferirli presso la direzione d'artiglieria di
Roma; per fortuna io ero tra questi, avrei così potuto vedere mia moglie più
spesso.
Arrivati alla capitale, ci riunirono in un cortile e, sull'attenti,
ascoltammo il lungo discorso del tenente: in sintesi cercava dei volontari
artificieri. Non sapevamo nemmeno cosa significasse la parola artificiere,
né di cosa si trattasse, perciò chiedemmo spiegazioni: la risposta quasi
noncurante dell'ufficiale fu: "Dovrete andare a bonificare il terreno dalle
mine e bombe inesplose e neutralizzare il materiale pericoloso lasciato
dall'esercito in ritirata”.
Ci trovammo di fronte ad una scelta: o fare l'artificiere, o l'attendente
per un ufficiale.
Ci fu immediatamente un rifiuto generale, ma il tenente ci convinse che, con
un adeguato corso, l'operazione era meno pericolosa di quello che poteva
sembrare. Fu così che iniziai l'ottavo corso di artificiere presso la
direzione d'artiglieria di Roma, come testimonia il mio attestato di
congedo, della durata di tre mesi.
Era un corso severissimo, in cui gli ufficiali si
impegnavano a renderci responsabili dell'importante compito che dovevamo
assumere, atto a salvare tante vite. Arrivammo così al temuto giorno
dell'esame.
Avevano preparato, in mezzo alla stanza, un tavolo di circa otto metri pieno
di materiale bellico di ogni genere e di ogni provenienza. L'esame
consisteva nel riconoscere e descrivere minuziosamente ogni pezzo
selezionato, non erano ammessi errori. La selezione fu durissima, ma io
superai brillantemente la prova.
Il giorno dopo ci portarono direttamente alla località "Campo Leone" nelle
vicinanze di Roma. La nostra attrezzatura consisteva in un'asta con disco
magnetico, il sonar alle spalle come uno zaino, e le cuffie. Dovevamo
rastrellare le zone battute dalle forze armate nemiche o alleate, rimuovendo
o neutralizzando qualsiasi materiale esplosivo. Dovevamo inoltre
intervenire, in caso di segnalazione presso la direzione.
La vita di artificiere si rivelò ben presto essere una vera pacchia! Ottima
paga (duemila lire al mese), molte agevolazioni (bastava esibire la tessera
di artificiere e molte porte si spalancavano, come ad esempio le sale dei
cinema e teatri), ma soprattutto, ed era ciò che a me interessava, potevo
andare tutte le sere da mia moglie fino a mezzanotte!
Purtroppo una di quelle sere mi addormentai nel lettone e rientrai in
caserma alle sette del mattino. Sfortuna volle che all'entrata incontrai il
mio superiore, tenente Mazzola, che mi chiese spiegazioni; scusandomi
spiegai l'incidente. Il tenente mi ordinò di indossare la divisa e di
presentarmi nel suo ufficio immediatamente, cosa che feci di corsa con una
certa apprensione
Entrai nel suo ufficio, c'erano due scrivanie: in una ci lavorava il
sergente maggiore Ronconi. Io mi posi sull'attenti davanti all'altra
scrivania, ove mi attendeva il tenente Mazzola. Tutto mi aspettavo tranne
quello che sentirono le mie orecchie.
-Tu sei ebreo? - mi chiese con disprezzo e odio, alla mia risposta
affermativa aggiunse "Davvero? Allora ti dico che Hitler non ha fatto
abbastanza contro di voi, perché doveva sterminarvi tutti!".
Vi lascio immaginare come ci rimasi; per lui sei milioni di ebrei mandati
alle camere a gas, non erano dunque sufficienti... Ero fuori di me, che
vigliacco e codardo! vigliacco perché approfittava del suo grado e della sua
divisa per rivolgersi in quel modo ad un semplice soldato in condizioni di
non poter reagire e difendersi, codardo perché nemmeno la più incosciente
persona umana al mondo avrebbe pronunciato una frase del genere; le
persecuzioni erano terminate solo da un anno....e questo era un ufficiale
che rappresentava l'esercito italiano!!!!!
Il mio primo istinto fu di prenderlo per il colletto, ma mi ricordai della
divisa che portavo, così risposi: “Lei può dire ora quello che vuole, ma si
ricordi che quando avrò il congedo in mano la prima cosa che farò, sarà
quella di andare al tribunale militare per denunciarla".
-Davvero? - mi rispose con aria sprezzante - Allora, ti bastano cinque
giorni di cella di rigore?
-Lei ha l'autorità di fare quello che crede.
-Sergente maggiore Ronconi, lo porti in cella - tuonò il tenente verso
l'altra scrivania.
Mi ritrovai così in prigione, proprio come quando mi arrestarono per le
leggi razziali pochi anni prima... che strana la vita!
Seduto nella mia
cuccia, ribollivo d'ira, quando udii il rumore del catenaccio alla porta, ed
entrò il tenente Arduino.
-Ma cosa mi hai combinato Levi!- urlò fuori di sé.
Mi sfogai con lui e gli raccontai l'accaduto. Il tenente mi ascoltò
attentamente, ma quando gli confidai la mia determinazione di denunciare il
ten. Mazzola, contando sulla testimonianza del sergente maggiore, mi disse:
-Fai conto che io in questo momento non abbia la divisa, sono solo un tuo
amico; ascolta il mio consiglio, dimentica completamente l'incidente, evita
il più possibile il ten. Mazzola, tanto quando avrai il congedo in mano,
sarai talmente felice che non metterai certamente in atto la tua minaccia, e
ricorda una cosa: tra cani non si mordono.
-Ma non è possibile, nemmeno con il testimone?
-Chi è il testimone?
-Il sergente maggiore Ronconi! Era presente e ha sentito tutto!
-Va bene, allora stai ben attento, questa è la prima lezione - borbottò
paziente, poi, girandosi verso il capoposto gli ordinò di chiamare il
Ronconi, che arrivò pochi minuti dopo.
-Comandi sig. tenente - disse il sergente maggiore sull'attenti.
-Racconta cosa ha detto il tenente Mazzola a Levi.
-Io non so niente, non ho sentito niente, ero concentrato sul lavoro che
stavo svolgendo sig. tenente!
-Ho capito, vada pure - lo congedò il tenente poi, guardandomi dritto negli
occhi -Hai visto Levi? A maggior ragione succederebbe la stessa cosa in un
tribunale militare!
La mia prima lezione mi fu subito chiara.
Scontati i cinque giorni di prigione il ten. Mazzola mi chiamò di nuovo nel
suo ufficio. Lo trovai comodamente seduto, mano alla guancia, espressione
quasi perplessa.
- Sai - mi disse con un sogghigno - Stavo pensando... preferisci andare in
distaccamento a Gaeta o in Sardegna?
- Come lei comanda sig. tenente.
- Uhm, vediamo un po'... diciamo Gaeta, ti sta bene?
- Faccia lei.
E fu così che mi trasferì al distaccamento di Gaeta.
Una cuccagna! Vi trovai altri quattro commilitoni e simpatizzammo subito. Ci
avevano sistemati in una stanza di una vecchia tipografia abbandonata, i
pasti si consumavano nella caserma della marina, nessun controllo, nessun
orario, c'era persino chi si portava le donne in camera, sembrava di essere
in vacanza!
Passati quindici giorni mi ordinarono di presentarmi al Colonnello. Fu una
sorpresa, nessuno di noi sapeva dell’esistenza del Colonnello, nessuno dei
quattro commilitoni aveva mai ricevuto l'ordine di presentarsi da nessuna
parte.
Sull’attenti, davanti alla scrivania del Colonnello, potevo vedere la mia
cartella personale, aperta. Mi chiese subito la dinamica dell'accaduto, ed
io, ormai placata l'ira, raccontai tutto con molta calma. "
- Ho capito - mi rispose - domani mattina mettiti la tua divisa di libera
uscita e preparati a tornare a Roma con me.
Ancora oggi mi chiedo come mai il Colonnello si interessò al mio caso,
portandomi addirittura con lui nel tragitto di ritorno.
Arrivati al comando della direzione d'artiglieria caso volle che entrando
incontrammo proprio il ten. Mazzola; il colonnello lo chiamò invitandomi nel
contempo di allontanarmi. Li osservai attentamente, orecchio teso, ma non
afferrai nemmeno una parola, vedevo solo il Mazzola assentire sempre con la
testa, sull'attenti. Quando si salutarono il Colonnello mi avvisò che la mia
punizione era terminata e che potevo ritornare al mio posto. Lo ringraziai
riconoscente e ripresi il normale servizio.
Voglio credere che sia stata solo una sco...ata in più con mia moglie la sola causa della mancata promozione
a caporale maggiore che tutti i compagni della mia squadra avevano
automaticamente ottenuto. In quel momento non me la presi più di tanto, già
pensavo alla sorpresa che avrei fatto a mia moglie.
Molto potrei raccontare sul periodo della mia vita di artificiere,
costellata da momenti drammatici ma anche storielle divertenti.
Un giorno avvistammo una casa colonica dove un contadino teneva sulla
finestra in bella mostra una granata 105; l'ogiva aveva urtato un oggetto
duro e aprendosi aveva lasciato allo scoperto il percussore a una distanza
millesimale dalla spoletta: sarebbe bastato un colpo di vento per farla
esplodere, e il comico (o tragico?) era che lo zotico, ignorando il
pericolo, vi aveva inserito un fiorellino profumato. La speranza era che la
ruggine, formata col tempo, avesse bloccato il percussore. Dopo un minuzioso
esame uno di noi (volontario) prese con molta precauzione l'ordigno e lo
adagiò nel "fornello": una buca in terra. Lo coprì con polvere esplosiva,
brevemente chiamata "T4" e vi inserì una capsula collegata alla miccia che
finiva a vari metri di distanza dal fornello. Il volontario accese la miccia
e si allontanò di corsa. L'operazione terminò con una grande esplosione.
Per dimostrarci la sua riconoscenza il contadino offrì a tutti salumi,
pecorino, pane casalingo e buon vino.
Purtroppo però ci furono anche episodi con tragico epilogo.
Il gruppo era formato da due squadre: la nostra, una quindicina in tutto, ed
una civile, con venti elementi. Operavamo ad una distanza di alcune
centinaia di metri e, ad ogni avvistamento di qualsiasi materiale esplosivo,
ordine perentorio era che solo e soltanto uno di noi poteva avvicinarsi, ma
nel momento in cui si faceva esplodere la mina, un collega doveva assistere
chi accendeva la miccia per aiutarlo ad allontanarsi in caso di qualsiasi
difficoltà, mentre gli altri dovevano mettersi al riparo prima.
Un giorno un ragazzo della squadra civile avvistò una mina anticarro
calpestata di striscio e non esplosa. Dimenticando gli ordini, chiamò
quattro dei suoi compagni vicino a sé. Fu un'apocalisse: una esplosione
tremenda echeggiò nel silenzio della campagna facendoci sobbalzare di colpo.
Purtroppo cinque dei nostri colleghi non esistevano più; i loro corpi erano
completamente dilaniati. Fu una dura e indelebile lezione per tutti.
Ma c'erano anche momenti di allegria. Una volta incontrammo due boscaioli
che, con grande fatica, stavano abbattendo con le accette un grosso albero
secolare. Offrimmo loro il nostro aiuto, bastava solo che facessero un foro
alla base dell'albero, largo 30 centimetri circa e profondo altrettanto, al
resto avremmo pensato noi. Naturalmente i boscaioli accettarono con grande
entusiasmo. A foro ultimato, ci infilammo una capsula con quattro saponette
di tritolo precedentemente preparate per lo scopo, la collegammo a una lunga
miccia ed infine chiudemmo ermeticamente la fossa del tronco lasciando fuori
la miccia, che l'operatore di turno accese per poi allontanarsi di corsa col
collega assistente raggiungendoci al riparo. L'esplosione secca e potente
sradicò il grande albero al pari di uno stuzzicadenti. Come spesso accadeva,
anche stavolta ci ringraziarono con formaggi, salumi e vino per tutti.
Una volta invece un sacerdote informò la direzione che nel suo aranceto
c'era una bomba d'aereo di 120 chili. Fummo immediatamente chiamati per
l'intervento. La bomba era incastrata nel terreno e la nostra prima
attenzione fu tutta per l'ordigno. Dovevamo decidere se rimuoverlo o farlo
esplodere sul posto col solito fornello. Ma c'era un'altra cosa che attirò i
nostri sguardi: i rami degli alberi stracolmi di magnifici aranci. Il
sacerdote, seguendo la direzione dei nostri occhi, cercò immediatamente di
tutelare il suo tesoro avvisandoci che quegli aranci non erano buoni da
mangiare ma servivano solo per la semina.
Ci concentrammo quindi sul nostro lavoro; non era complesso e nemmeno troppo
pericoloso, bastava disinnescare l'ordigno svitando con molta cautela la
spoletta dall'ogiva e avremmo così potuto caricare tranquillamente la bomba
sul camion. Mentre si decideva la dinamica dell'operazione un nostro collega
assaggiò non visto un'arancia e, al primo morso, ci fece vistosamente cenno
con la mano che era ottima. A quel punto il sotto ufficiale comandò al
sacerdote di allontanarsi, in quanto lui era responsabile della incolumità
di tutti, civili compresi. Terminato il nostro lavoro ci silurammo sugli
aranci nascondendoli dentro i pantaloni alla zuava. Eravamo talmente
appesantiti che nessuno di noi riusciva più ad issarsi sul camion da solo...
Naturalmente quando tornò il sacerdote si accorse subito del furto, ma fece
buon viso a cattivo gioco esclamando: “Ehhh... benedetti figlioli!!!”.
Un altro giorno ci chiamò la direzione d'artiglieria: dovevamo recarci a
Nettuno perché avevano avvistato un siluro inesploso in riva al mare. Ci
recammo sul posto, e quello che si presentò ai nostri occhi ci lasciò per
qualche attimo paralizzati dal terrore. Era un ordigno di matrice americana
di circa 8/9 metri di lunghezza, con una circonferenza di circa 50/60 cm.
Mancando il bersaglio si era conficcato per alcuni metri sul bagnasciuga
senza incontrare ostacoli sufficientemente consistenti per farlo esplodere.
Ci avvicinammo con molta cautela e constatammo che sul dorso si vedevano
perfettamente due spolette elettronicamente collegate l'una all'altra e,
probabilmente, ce ne dovevano essere altre, oltre a quella dell'ogiva.
Per questo tipo di spolette, l'urto di contatto deve essere superiore a più
di un quintale, mentre per le bombe anticarro occorrevano 100 chili e per
una mina ne bastano pochi. In questo caso quindi c'era un certo margine di
sicurezza. Cominciammo, con arnesi adatti, a scavare e togliere tutta la
sabbia attorno scoprendo anche le altre spolette, sempre collegate
elettronicamente una all'altra e pronte ad entrare in azione in caso di un
forte urto. Proseguimmo, con molta cautela, con lo svitamento che, con olio
speciale adatto all'uso, effettuammo con pochissima difficoltà. Terminato
questo delicatissimo intervento, venne chiamata l'auto-gru che se lo portò
al deposito.
Il 27 agosto 1947 finiva il mio periodo di ferma, ma a quanto pare avevo
ancora una possibilità: ai congedanti veniva offerto di continuare il lavoro
come artificiere con uno stipendio mensile di quattromila lire al mese! Una
cifra da capogiro se si pensa che la decade del militare semplice era di 45
lire e il militare artificiere di 2.000 lire mensili... Naturalmente presi
tempo perché volevo parlarne con mia moglie, ma Sara non volle nemmeno
discuterne. La allettai dicendole che avrei potuto svolgere quel lavoro per
qualche anno, lo stretto necessario per comprarci una casa (a quei tempi con
5.000 lire si poteva acquistare un discreto appartamento), ma non riuscii a
convincerla, anche se era ben consapevole dei problemi economici ai quali
saremmo andati incontro. Per lei il lavoro era troppo pericoloso: meglio la
fame che la vedovanza!!
Tornammo così a Mantova e come previsto fu un periodo davvero delicato, una
lotta contro la miseria, non riuscivo a trovare un lavoro decente, e quasi
tutti i miei amici erano nelle stesse condizioni.
Un giorno mi chiamarono dalla Comunità ebraica per informarci che se avevamo
ancora l'intenzione di partire per la Palestina, esisteva un campo
clandestino (sempre sotto-forma di campo profughi) per preparare i giovani
disposti a trasferirsi. Nonostante le proteste di mia moglie, mi parve la
soluzione migliore e finalmente la realizzazione dei miei sogni. Partimmo da
Mantova in cinque: io, mio fratello Walter, Gustavo Tedeschi, figlio del
segretario della comunità, Jarel Dante e Gilberto Mantovani. Destinazione:
la Comunità di Milano. Appena arrivati ci trasferirono ad Anzano del Parco,
e ci presentarono al Comandante del campo, un palestinese Capitano della
Brigata Ebraica, il quale ci informò che ci trovavamo in un ex convento di
frati che ora risultava un campo profughi, ma in realtà lui era addetto a
reclutare giovani volonterosi pronti a dedicare tutte le loro energie per
ottenere l'indipendenza dello Stato Ebraico. Ci fece ben presto intendere
che dovevamo essere disposti a tutto, a lavorare e, se necessario, anche a
combattere. Per questo dovevamo imparare la lingua, essere addestrati
adeguatamente sia per la difesa che, all'occorrenza, all'offesa; infine ci
aggiornò sulla situazione ultima della Palestina.
La Gran Bretagna
voleva mantenere il protettorato, e non aveva alcuna intenzione di far
nascere lo stato ebraico più volte promesso. Bloccava l'immigrazione degli
ebrei (aveva impedito addirittura lo sbarco di 4.500 reduci dai campi di
sterminio nazisti, giunti davanti alla costa), mentre elementi della Rivolta
Araba (contro l'immigrazione e l'acquisto di terreni da parte di ebrei)
assassinavano centinaia di ebrei distruggendo le sinagoghe e cercando di
mettere fine alla permanenza della comunità ebraica. Per contrasto operavano
due organizzazioni ebraiche di difesa e di resistenza clandestina,
necessarie poiché il governo britannico del momento dava corda alle sommosse
arabe.
Inoltre la Palestina era una terra arida, un deserto sterile che gli ebrei
locali cercavano disperatamente di rendere fertile.
Dunque, dovevamo essere in grado di difenderci e difendere le colonie già
insediate, con le poche armi che le organizzazioni di resistenza riuscivano
a racimolare di nascosto, inoltre studiare la lingua e apprendere tutte le
nozioni necessarie per la coltura di una terra riarsa e ostile.
La giornata era così articolata: alle ore otto si cominciava con un'ora di
lezione di lingua ebraica, una di coltivazione, una di corsa intorno al
convento, poi un'ora di lotta, a seguire una di boxe, un'altra di salto in
alto e salto in lungo, un'ora di machel (un bastone lungo circa 50/60 cm di
legno duro che normalmente gli arabi portavano di nascosto sotto la manica
della tunica), infine due ore di addestramento con la corda ed il percorso
di guerra. Come se non bastasse, di notte ci svegliavano per un'ora di
istruzione sulle armi.
Passarono così alcuni giorni, continuando sempre ad allenarci.
Poi, una notte, mentre facevamo istruzione sulle armi, mi venne in mente
che, nell'ultima scaramuccia fatta contro i tedeschi con gli amici
partigiani, io e mio fratello Walter avevamo recuperato delle armi: cinque
luger e quattro mitra, che avevamo sotterrato a Sanbuca Pistoiese. Lo
riferii al comandante.
- Davvero avete delle armi? Ne abbiamo un disperato bisogno! Andate
immediatamente a recuperarle, avete due giorni di permesso.
Io e Walter partimmo immediatamente. A quei tempi i mezzi di trasporto erano
rari, e per di più quei pochi e scomodi che c'erano, collegavano soltanto i
centri più importanti. Ma grazie all'aiuto di qualche volenteroso con la
macchina (a dir la verità rari anche quelli) e, soprattutto, grazie alle
nostre giovani gambe, riuscimmo a raggiungere la meta.
Recuperammo le
armi portatili dei tedeschi. Le avevamo sotterrate in una cassetta di legno
ben oleata e avvolte nel naylon pronte all'uso. Le ritrovammo ancora
perfettamente funzionanti, e le nascondemmo all'interno di due vecchie
valigie legate con lo spago per rendere più convincente la nostra commediola
di emigranti dal sud in cerca di fortuna.
Il più era fatto, ma il ritorno alla base era la parte più faticosa (non so
dire il peso, ma era molto), e la più pericolosa; a quei tempi, chi veniva
trovato in possesso di armi, infatti, subiva l'immediata carcerazione.
Come D-o volle, tutto filò liscio e, dopo la rocambolesca avventura, fummo
ripagati con i mille complimenti e ringraziamenti del nostro capitano, che
ci accolse come due veri e propri eroi.
Dopo una settimana circa avvenne quello che segnò per sempre la mia vita.
Eravamo in esercitazione, come tutti i giorni, quando da lontano vidi
arrivare due figure di donne che si avvicinavano con passo spedito verso di
noi; una della due era mia moglie. Non mi salutò nemmeno ma si avventò
letteralmente sul primo capitato, pretendendo e ottenendo di parlare con il
comandante del campo.
Divieto assoluto di entrata per gli estranei???
Bazzecole per quelle due carabiniere! Niente e nessuno riuscì a convincerle
di tornare a casa. Con loro non funzionarono intimidazioni o persuasioni di
sorta anzi, dopo numerose e accese richieste, le mogli infuriate ottennero
dal comandante in persona di congedarci, anche perché le due minacciavano di
rivolgersi alle autorità competenti per rivelare che quel luogo non era
un campo profughi ma un campo di addestramento di giovani ebrei che venivano
preparati clandestinamente a partire per la Palestina.
Fu così che Gilberto Mantovani ed io fummo chiamati dal capitano e, seppur
dispiaciuto, ci comunicò che avremmo dovuto lasciare in fretta il campo
poiché non potevano permettersi il pericolo di una denuncia: le conseguenze
potevano essere disastrose.
Anche mio fratello decise di rinunciare all'impresa e tornò con noi a
Mantova.
Ci ritrovammo, come prevedibile, nelle stesse condizioni di prima: in grandi
difficoltà per trovare un lavoro qualsiasi. La situazione non era certo
migliorata.
Ci voleva un colpo di fortuna....che arrivò con la moglie fiorentina di mio
fratello. Essa difatti, tramite un suo parente, trovò un posto di lavoro al
marito presso una fabbrica di falegnameria e legno compensato. Walter partì
immediatamente alla volta di Firenze cogliendo l'occasione al volo e, dopo
poco, mi scrisse che potevamo raggiungerlo avendo trovato un posto di lavoro
anche per me!
E così fu: all'inizio trovammo ospitalità presso una vedova con tre figli,
il cui marito era stato deportato in un campo di concentramento;
successivamente, con tutte le agevolazioni di quel periodo, riuscimmo a
comprare un appartamento nel quale stabilirci definitivamente.
E' così che dal 29 ottobre 1949 ci stabilimmo a Firenze, e al momento,
ottobre 2004, io e mia moglie Sara siamo ancora presenti all'appello e in
attesa di festeggiare il nostro cinquantanovesimo anniversario di
matrimonio.
**********
Ho riletto attentamente la seconda parte del mio diario ed ho avuto
l'impressione di averlo scritto con esagerata ironia e leggerezza. Non
voglio assolutamente atteggiarmi da eroe, ma è evidente che ci sono stati
alcuni passaggi della mia vita che, ripensandoci, davvero mi vengono i
brividi.
Anche nel periodo del militare. Pura incoscienza dei vent'anni? dopo quello
che avevo passato, invece di essere felice per lo scampato pericolo e per la
fortuna di aver trovato l'amore, sono stato davvero incosciente a fare
l'artificiere. Devo ammettere che la decade, a quei tempi, era più che
allettante: la retribuzione di un militare semplice non era certamente
sufficiente per vivere, e dipendere dai miei suoceri, che già avevano tanti
figli a carico, era pura follia.
La paga dell'artificiere, come già detto, era di 2000 lire al mese e questo,
sicuramente, è stato il più che valido motivo che mi ha spinto ad accettare
la proposta.
E' assurdo ora ripensare a quante volte ho rischiato la pelle ben 57 anni
fa. E' andata bene e basta. Avrei potuto raccontare molte altre avventure di
quel periodo, ma non hanno più un senso. Inoltre, il mio era l'ottavo corso
del momento, dunque chissà a quanti, prima o dopo di me, saranno capitati
guai! Perdonatemi, però l'ultima la voglio raccontare, perché per me è stata
una soddisfazione immensa.
Dipendendo dal distretto militare di Mantova, quando ricevetti quindici
giorni di licenza ordinaria, la destinazione fu casa mia, dai miei genitori.
Ci andai in divisa, per diverse ragioni, ma devo ammettere che quello che mi
premeva di più era di pavoneggiarmi in famiglia e tra i miei amici. Ero
orgoglioso della fiamma color gialla e rossa che portavo alla manica della
giacca, aveva un inequivocabile significato: Artificiere.
Proprio scendendo dal treno, alla stazione ferroviaria, incontrai due amici i quali, dopo i calorosissimi saluti, mi chiesero cosa significasse
quella vistosa fiamma sulla manica. Orgoglioso, spiegai il significato e,
come mi aspettavo, si complimentarono con me.
In quel momento stavamo
camminando sotto i portici della città, quando da lontano vedemmo
avvicinarsi un colonnello con a fianco due maggiori. I miei amici colsero
subito al volo l'occasione per sfottermi bonariamente:
- Se, se, intanto ora devi metterti sull'attenti e salutare, e devi dire
Signorsì!
Io, con la spavalderia dei vent'anni, risposi:- Io non saluto proprio
nessuno!
Intanto le distanze si stavano ravvicinando e quando mi ritrovai davanti a
loro li ignorai fingendo di discutere animatamente con i miei compagni.
Fatti alcuni passi, il colonnello mi chiamò. Mi girai, sull'attenti:-
Comandi signor colonello!
- Ora dimmi che non ci hai visti, o non sai che il saluto ai superiori è
obbligatorio?
Ormai ben conscio della gravità del fatto, farfugliai la prima scusa che mi
venne in mente, cioè che forse ero ancora euforico per la mia prima licenza
e che ero appena arrivato da Roma.
- Ah sì? E allora fammi vedere la licenza!
La mostrai immediatamente e lui la lesse molto attentamente poi, guardandomi
negli occhi, disse:
- Leggo qui che tu sei artificiere e che state bonificando
tutta la zona limitrofa di Roma...
- Signorsì - risposi, sempre sull'attenti.
- Lavoro durissimo e pericoloso - proseguì lui, poi - Bravo, bravo, si vede
anche dalla fiamma sulla manica della divisa... vai, vai pure - e,
battendomi una mano sulla spalla, soggiunse con un sorriso - Però ricordati
che i superiori vanno salutati!
Mi congedai scattando sull’attenti e, ritornando dagli amici con aria
trionfante, dissi orgoglioso:-Avete capito cosa significa essere
artificieri?
Per me fu una soddisfazione impagabile.
WILLIAM LEVI
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