DARIO BAZEC

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

BREVE STORIA

 

DELLE

 

LINGUE SEMITICHE

 

 

 

 

 

 

 

 

Corso di lezioni tenuto presso

 

 l’Università della terza e 

 

“Danilo Dobrina”

 

 trieste

 

25 novembre 2002 – 27 gennaio 2003

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AD INSTAR MANUSCRIPTI

 

 

 

Copyright © by Dario Bazec


PREMESSA

 

Il presente corso è una breve introduzione alla storia delle lingue semitiche, in special modo dell’aramaico e dell’ebraico. La materia è stata adattata a una serie di sei conferenze e perciò il contenuto è abbastanza limitato.

Tuttavia, per chi non conosce tali argomenti, queste semplici pagine possono costituire una fonte d’informazione a carattere introduttivo. Il campo è vasto e abbastanza sconosciuto, tranne che a livello accademico.

L’ebraico trova molti cultori. In questo periodo che è iniziato il dialogo interreligioso, molte persone si interessano allo studio di questa lingua e alla civiltà che contrassegna quanto meno 3000 anni. Invece la lingua siriaca-aramaica è molto trascurata. Ufficialmente è morta nel XIII secolo, ma tuttavia ancora oggi ci sono delle comunità, anche se non molto numerose che parlano in questo idioma. Questa lingua è molto importante sia perché è un collegamento tre il mondo occidentale e il mondo arabo, sia perché è la lingua parlata da Gesù Cristo e dagli apostoli, oltre che dalle prime comunità cristiane.

Ci auguriamo che la lettura di queste pagine possa incuriosire e interessare i lettori. Per ulteriori informazioni scrivere a: dariobazec@libero.it . Nei limiti del possibile si cercherà di dare altre notizie.

 

DARIO BAZEC


 

INTRODUZIONE

 

Nel corso di lezioni di quest’Anno Accademico si tratterà un argomento di un certo interesse: la storia delle lingue semitiche.

L’importanza delle lingue semitiche per noi occidentali deriva da due motivi fondamentali: il primo è di carattere culturale e il secondo è di carattere religioso.

Il carattere religioso del mondo occidentale chiaramente deriva dall’armonica fusione della civiltà greco-romana con il mondo ebraico. Che ciò sia evidente lo dimostra il nostro modo di vivere e la lunga tradizione che si è espressa non solo nel mondo della fede, ma anche nella letteratura e nell’arte. Di questo argomento non si tratterà in queste lezioni, sia per la vastità della materia, sia perché non è il titolo del corso. Si darà invece rilievo all’influsso culturale delle lingue del Medio Oriente.

Il carattere culturale delle lingue semitiche è determinato da un evento che ha cambiato radicalmente la storia della civiltà: l’invenzione dell’alfabeto. Come risulta dall’archeologia l’uomo, sin dalla sua comparsa sulla terra, ha sempre lasciato dei segni per esprimere il suo pensiero, i suoi sentimenti e ogni sua esperienza. Agli inizi l’uomo faceva uso di raffigurazioni simili all’oggetto da rappresentare. In una fase più evoluta si passò all’espressione in forma stilizzata. Si formarono così gli ideogrammi, tuttora in uso presso i popoli dell’Estremo Oriente, e ai pittogrammi. In una fase ulteriore si arrivò alla scrittura ideografica, formata in parte da segni pittografici, in parte da segni simbolici e infine con segni grafici con valore fonetico.

I primi segni con valore fonetico sono costituiti da diverse scritture con valore sillabico. Fra queste è importante ricordare la Lineare A in uso a Creta nella prima metà del II millennio a. C. Finora nessuno è riuscito a decifrare tale scrittura. La Lineare B, detta anche scrittura micenea risale invece alla seconda metà del  II millennio a. C. Era diffusa in varie città della Grecia antica. Proprio cinquanta anni fa l’architetto inglese Michel Ventris, con l’aiuto di John Chadwick, riuscì a decifrare tale scrittura e accertò che si trattava di una forma di greco antico. In Egitto si sviluppò la scrittura con geroglifici, mentre in Medio Oriente, in Assiria e Babilonia si formò la scrittura sillabica detta cuneiforme. La complessità di queste scritture rendeva difficile la comunicazione tra gli uomini. Soltanto poche persone, chiamate scribi, sapevano leggere e scrivere con questi sistemi grafici.

Nella II metà del II millennio a. C. cominciò a svilupparsi il commercio fra i popoli del Mediterraneo. Il sistema di scrittura finora in uso complicava di molto le relazioni interne e internazionali. I grafici più o meno elaborati erano una copia di ciò che si vedeva: la casa, il palazzo, la città, l’uomo la campagna, gli animali, ecc. Ma esistevano numerosi termini che era difficile trascrivere, se non impossibile, fra cui le parole astratte, i sentimenti e altri tipi di esperienze. La elaborazione e la decifrazione degli scritti era limitata a poche persone. Si sentì allora la necessità di creare un sistema più semplice di comunicazione. Ciò avvenne a Ugarit, un centro commerciale, dove si smistava una grande quantità di merci che arrivavano e partivano da e per tutti i luoghi dell’entroterra e del Mediterraneo. Lì si udivano parlare tutte le lingue e si scriveva secondo le modalità usate nei paesi d’origine.

E avvenne il colpo di genio: la drastica riduzione della scrittura cuneiforme a trenta segni, e ogni segno corrispondeva a un suono ben preciso, che ogni uomo riusciva ad articolare con la sua bocca. L’uomo così cominciava a liberarsi dalla dipendenza delle cose visibili e poteva cominciare a esprimere qualsiasi parola: poteva scrivere, con più facilità, contratti, leggi, testi religiosi e preghiere, poesie, qualsiasi altra cosa che l’animo o il sentimento gli ispirava e anche fatti vissuti.

Questo fu l’inizio. In breve tempo la scrittura alfabetica si perfezionò e fu adattata a ogni lingua, diffondendosi in tutto il Mediterraneo. Si può dire che questa fu una delle più grandi invenzioni attuate dallo spirito umano: da questo momento la possibilità di ogni uomo di comunicare con gli altri uomini divenne illimitata nello spazio e nel tempo. Senza la scrittura sarebbe stato impossibile ogni progresso. Con essa invece cominciò a svilupparsi la civiltà, perché l’uomo poteva comunicare anche a grandi distanze ogni sua esperienza e poteva altresì beneficiare di ciò che avevano scoperto gli altri. La religione, la scienza e la tecnica, la filosofia, il diritto, il commercio e ogni forma di conoscenza e attività umana erano ora a portata di ognuno, anche se l’effetto non fu immediato e ci vollero molti secoli affinché di ciò potessero beneficiare tutte le persone, di qualsiasi ceto e indipendentemente dalla ricchezza posseduta. Così l’uomo aveva imboccato una strada irreversibile verso la conoscenza e verso un nuovo modo di costruire la realtà. Nel Medioevo, fu formulato un detto che era usato in campo giuridico: Quod non est in actis non est in mundo, ciò che non è agli atti non esiste. Potremmo senz’altro estendere la parola actus, inteso come atto processuale, a qualsiasi forma di scritto e parafrasare l’espressione in questi termini: Quod non est in scriptis non est in mundo, ciò che non è scritto non esiste.

 

 

Cenni di storia delle lingue semitiche

 

La scrittura e l’alfabeto

 

Nella scrittura ebraica, da un’osservazione a prima vista , si può notare una certa uniformità. Si provi ad immaginare un quadrato che idealmente circoscriva ogni carattere: si vedrà che soltanto una supera il limite superiore (“lamed”, gr. “lambda”) e solo una quello inferiore (“qof”, it. “qu”) mentre ci sono quattro che eccedono ancora il limite inferiore ma soltanto in fine di parola. Inoltre ci sono alcune lettere che occupano soltanto uno o due lati del quadrato ideale. Per questo motivo tale grafia si chiama scrittura ebraica quadrata.  Questa grafia che veniva utilizzata nei manoscritti, è stata adottata anche nei primi libri a stampa.

Ciò che accomuna la nostra scrittura con quella ebraica è un’origine comune. Basti pensare che la parola alfabeto oltre che a derivare dalle prime due lettere della lingua greca (“alfa” e “beta”). proviene anche dalle prime due di quella ebraica (“aleph” e “beth”).

 

 

 La scrittura prima dell’alfabeto

 

Una cosa ben nota è che si può assegnare un’origine e quindi datare la civiltà umana da quando le persone, oltre che comunicare le proprie idee a voce, hanno potuto scriverle per trasmetterle ad altri contemporanei e per i posteri. Di ciò l’uomo è stato sempre cosciente e sin dall’antichità ci sono pervenuti due miti. Gli Ebrei che avevano ricevuto la rivelazione ritenevano che fosse stato Dio ad insegnare ad Adamo ed Eva a parlare, leggere e scrivere. I Greci e i Romani che non avevano ricevuto la rivelazione, pur ammettendo che furono i Fenici ad insegnare loro la scrittura, pensavano che questi ultimi l’avessero appresa dagli Egiziani. Tali tradizioni, facilmente conciliabili, rimasero un convincimento comune fino al XIX secolo. La spedizione di Napoleone in Egitto (1798-1799) e il successivo sviluppo di studi archeologici in quel paese e nel Medio Oriente, portarono alla luce una vasta documentazione originale, conservata meglio di qualsiasi manoscritto: erano le tavolette di argilla. Con un lavoro di paziente decifrazione sir Henry Rawlinson (1810-1885)(7) riuscì a scoprire il significato di quegli scritti. Si trattava di documenti in parte scritti in caratteri logografici e in parte con segni cuneiformi. I simboli logografici derivano dalla lingua sumerica, mentre i caratteri cuneiformi erano la scrittura sillabica della lingua accadica o assiro-babilonese. Si scoprì allora che tale lingua aveva singolari somiglianze con l’ebraico anzi tramite quest’ultimo si poteva pervenire alla decifrazione e comprensione di altri scritti.

Uno dei due miti cominciava a vacillare; l’altro tuttavia poteva essere ancora sostenuto. Mancava infatti l’anello di congiunzione tra il cuneiforme e l’alfabeto anche se si sapeva ormai che l’accadico e l’ebraico erano strettamente imparentati in quanto facevano parte del ceppo di lingue di cultura semitica.

Le ricerche continuarono; se la struttura delle due lingue era simile, doveva pur esistere un collegamento anche dal punto di vista grafico.

La scoperta decisiva avvenne in questo secolo a partire dal 1930 a Ras-Shamra, vicino a Lattakie in Siria, nel luogo dove sorgeva l’antica capitale Ugarit, sono state scoperte migliaia di tavolette in terracotta incise con una scrittura formata solo da una trentina di caratteri cuneiformi. Ugarit era una città-stato; pur essendo vassallo dell’Impero Ittita, in tale luogo si formò un ambiente culturale in cui erano presenti cinque sistemi di scrittura: cuneiformi assiro-babilonesi, geroglifici ittiti, scrittura lineare minoica, scrittura cipriota sillabica e geroglifici egiziani.  Tutti questi sistemi di scrittura erano molto complessi: la presenza dell’ideogramma o del logogramma rendeva ancora impossibile l’astrazione concettuale; il mescolamento e l’adattamento di sillabari di una lingua semitica (accadico) ed una lingua indo-europea (ittita) complicava ancora di più il problema. La lingua scritta in tal modo non poteva essere appresa da tutti in modo sufficientemente rapido e ciò rendeva difficoltoso il comunicare, la stipulazione di contratti, ecc. Il colpo di genio fu la semplificazione del cuneiforme assegnando al suono di ogni consonante un segno convenzionale e aggiungendo tre segni vocalici corrispondenti alle tre vocali dell’antico semitico (a, i, u). Ciò avveniva tra il XIV e il XIII sec. a. C. Il sistema risolvente era stato trovato: l’adeguamento del segno al suono, anche se con approssimazione, rimarrà nei secoli successivi l’unico modo adottato per l’alfabetizzazione dei popoli. La parola era giunta alla sua massima astrazione: non contava più l’immagine dell’oggetto da esprimere, ma il nome attribuito allo stesso oggetto; tale nome poteva essere scritto e compreso da chiunque tramite i segni convenzionali assunti per rappresentare la lingua parlata. Nella seconda metà del 1400 a. C. Ugarit fu colpita da un terremoto; riuscì a risollevarsi, ma per poco. Nel 1195 a. C. i “popoli del mare” la distrussero definitivamente. Scomparve così del tutto dalla storia questa città di fine cultura e rimase nell’oblio per più di 3000 anni, fino a quando nel 1929, in seguito a degli scavi fatti a Ras Shamra, ne furono scoperte le rovine. Ma intanto ciò che di più originale aveva prodotto, la semplificazione della scrittura, si era già diffuso nelle località circostanti. Tuttavia la questione dell’origine dell’alfabeto è più complessa, in quanto da scavi fatti nel 1905 nella penisola del Sinai ed aree circostanti si è rilevata l’esistenza di un tipo di scrittura chiamato “proto-cananeo” . Degli operai (o schiavi) semiti occidentali erano allora stati mandati a lavorare in quella penisola e a contatto con i geroglifici egiziani inventarono il primo sistema di scrittura alfabetico. Come si vede il mito tramandato dai Greci non era del tutto infondato. Ma probabilmente si tratta di uno dei molteplici tentativi fatti per semplificare la scrittura. Resta il fatto che l’alfabeto ugaritico dal punto di vista formale è migliore. Afferma in proposito M. F. Fales: “Particolarmente sorprendente per la sua unicità è poi il sistema di scrittura con il quale troviamo trasmessa la lingua ugaritica: si tratta infatti del primo compiuto sistema alfabetico, comprendente solo 30 segni di valore consonantico, modellato tuttavia dal punto di vista formale sul cuneiforme”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alfabeto Ugaritico

Nella tavola seguente è riportato l’alfabeto ugaritico.

 

 

La scrittura ugaritica è fondamentalmente costituita da un alfabeto consonantico, scritto in caratteri cuneiformi semplificati. Gli inventori combinarono l’idea dell’alfabeto con lo stile della Mesopotamia di incidere cunei sull’argilla con uno stilo.

Però a differenza dell’alfabeto accadico, che era cuneiforme, ma sillabico, a Ugarit l’alfabeto ugaritico era soltanto consonantico. La scrittura ugaritica, come l’accadica, è scritta da sinistra a destra. Ciò è simile alle lingue indo-europee, ma l’opposto del fenicio, dell’ebraico, dell’aramaico e dell’arabo che si scrivono da destra a sinistra. Soltanto quattro testi ugaritici sono scritti da destra a sinistra. Una peculiarità tipica dell’ugaritico è che ci sono tre lettere Alef (diversamente dalle altre lingue semitiche sopra citate). La vocalizzazione delle tre lettere Alef  avviene in a, i,  e u.

 

 

 

 

TAV. I

 


 

 

1                    2                   3                    4                   5                   6

 

 

 

Inserendo a margine della tabella, in verticale, le lettere a, b, c, d, e si può osservare quali suoni non sono stati presi in considerazione per la formazione dell’alfabeto fenicio e, di conseguenza, quello ebraico e aramaico:

a4, c4, c6, e1, e2, e4, e5, e6.

Considerando che la tabella è costituita da 30 segni, sottraendone 8, rimangono i 22 segni dell’alfabeto fenicio, scritto ovviamente in altra maniera.

Per l’alfabeto arabo, di 28 lettere, invece sono state eliminate soltanto e4 ed e5 e la lettera p è diventata f. E’ singolare come si siano mantenuti quasi inalterati i suoni per circa 1800 anni prima che l’alfabeto arabo fosse messo in forma scritta. Infatti, Ugarit fu definitivamente distrutta nel 1195 a. C. e l’alfabeto arabo fu ideato almeno pochi anni prima della morte di Maometto (632 d. C.).

 

 

 

 

 

 

TAV. II

 

La nascita dell’alfabeto

 

Era scomparsa dunque Ugarit, ma il sistema ideato si era già diffuso. I Fenici avevano già adottato un alfabeto cuneiforme di 22 segni; da questi all’invenzione dell’alfabeto, in senso stretto, il passo fu breve. In prima analisi si può osservare la adattabilità dei segni a qualsiasi lingua parlata, apportando delle riduzioni o degli aumenti di lettere o ancora trasformando il valore dei segni stessi. Così il passaggio dall’alfabeto fenicio al proto-ebraico all’aramaico o all’ebraico. non comportava alcuna difficoltà in quanto ciascuno di questi alfabeti è composto da 22 segni dello stesso valore (cfr. in allegato 1: Tavola genealogica degli alfabeti). Il problema dell’adattamento dell’alfabeto originatosi in un ambiente di cultura semitico si presenta quando venne adottato dai Greci che l’appresero dai Fenici. Il problema dell’adattamento dell’alfabeto originatosi in un ambiente di cultura semitico si presentò quando venne adottato dai Greci che l’appresero dai Fenici, alla fine del cosiddetto “medioevo ellenico”.  I Greci  ormai si erano dimenticati, né più sapevano che fosse esistita una scrittura complessa come la “lineare minoica A e B”.

Come si potrà vedere più avanti con la spiegazione della “Masorah” l’alfabeto nacque soltanto consonantico. Le vocali esistevano, ma soltanto parlate e non scritte. Osservando le tavole allegate si potrà osservare che la radice PQD può essere letta almeno con tre vocalizzazioni diverse. Chi parla correntemente l’ebraico o lo conosce bene sa con certezza la vocalizzazione adeguata dal contesto della frase. Per le lingue di origine indoeuropea la questione si pone altrimenti. Come spiega il Carrez dalle tre lettere MRT si possono formare molteplici parole di significati completamente diversi fra di loro. Per non incorrere in equivoci ed incomprensioni è necessaria perciò la vocalizzazione espressa, scritta e non soltanto parlata. Ecco dunque che i Greci, pur lasciando sostanzialmente immutata la struttura dell’alfabeto, sostituirono le gutturali e due semiconsonanti con le vocali; con l’aggiunta di altro quattro caratteri, di cui due al posto di altri due eliminati, si forma la prima grafia di una lingua indoeuropea occidentale, per un totale di 24 segni.

 


 

 

STORIA DELL’ARAMAICO

 

I Siriaci

 

Il popolo aramaico è vissuto da più di tremila anni nella sua area tradizionale “Aramea”, situata nel Medio Oriente. I contributi culturali degli Aramei nella storia sono stati di grande rilevanza. Nell’antichità gli Aramei erano prevalentemente commercianti; attraverso la loro attività diffusero la cultura e l’alfabeto. Il loro commercio si svolgeva prevalentemente lungo l’antica “Via della seta”. La loro lingua, d’apprendimento relativamente semplice, e il loro alfabeto di 22 lettere, si diffusero presto in un vasto territorio dell’Asia. Molte lingue trascrivevano le loro parole con l’alfabeto aramaico. Anche oggigiorno, molte lingue usano un alfabeto che ha chiare origini aramaiche, salvo ovviamente alcuni adattamenti fonetici.

Sin dal IV secolo d. C. gli Aramei  persero la loro indipendenza e non la riacquistarono mai più. Il loro territorio fu conquistato dall’Impero Bizantino e nel 1453 furono sottomessi all’Impero Ottomano. Tuttavia sotto il dominio dei Turchi conservarono la loro unità geografica. Nel 1918 l’Impero Ottomano fu sconfitto e suddiviso in zone d’influenza francese e inglese, che divennero altrettanti stati: Siria, Turchia, Iraq, Libano, Giordania. I nuovi confini non tennero in alcuna considerazione gli stati nazionali preesistenti, come l’Armenia,  l’Aramea e il Kurdistan, e queste popolazioni di etnie omogenee furono divise sotto il dominio di stati diversi.  Nel 1920 una delegazione siro-aramaica si recò a Sévres con la speranza di ricuperare la loro indipendenza nei territori che storicamente erano sempre stati aramei. Ma l’Inghilterra e la Francia non riconobbero il loro diritto e così la popolazione aramaica fu suddivisa tra la Turchia, l’Iran, l’Iraq e la Siria. La Turchia e i paesi arabi iniziarono un’azione persecutoria nei loro confronti e i nomi di territori, paesi, villaggi e fiumi furono cambiati in nomi turchi e arabi.

Attualmente vivono in tutto il mondo 3.432.000 Aramei. Di questi la stragrande maggioranza vive nei loro territori nativi, ma sono, come già detto, suddivisi in diversi stati: Iraq (2.000.000), Siria (700.000), Iran (50.000), Libano (40.000), Russia (35.000), Turchia (20.000), Armenia (15.000) e Georgia (14.000). Gli altri sono emigrati negli altri continenti e i gruppi più numerosi si trovano negli Stati Uniti (300.000), nel Brasile (80.000), in Svezia (35.000), in Australia (30.000), in Germania (30.000), in Canadà (20.000), ecc.

 

I Siro-aramei e il loro antico nome

 

I Siriaci erano anticamente chiamati Aramei e la loro lingua l’Aramaico. Il più antico documento conservato in cui si trova il nome Aram risale al 2300 a. C. circa. Probabilmente furono i Greci a chiamare per primi gli Aramei con il nome di Siriani o Siriaci nel V secolo a. C. Il famoso geografo e storico greco Strabone (morto nel 23 d. C.) scrive: “Quelli che si chiamano Aramei, noi li chiamiamo Siriani”. Anche in Septuaginta, l’antica traduzione dell’Antico Testamento in greco effettuata nel III secolo a. C., il nome Aram è tradotto con Siria, Arameo con Siriano e aramaico con siriano. Gli Aramei hanno sempre continuato a chiamare se stessi come Aramei. Ma gradualmente cominciò ad introdursi l’uso greco di chiamare Siriano/Siriano, come sinonimo al nome Arameo e siriaco come sinonimo di aramaico. Durante il I secolo d. C. gli Aramei si convertirono al Cristianesimo. In quel periodo essi si chiamarono Siro-Aramei. Inoltre il termine Siriano/Siriaco ebbe il sopravvento sul termine Aramaico, che cominciò a decadere. Forse ciò avvenne per differenziarsi dalla lingua aramaica usata nell’Antico Testamento (Esd 4,8- 6,18; 7,12-26; Dn 2,4 – 7, 28). Gli autori, tuttavia, continuarono ad usare i termini Siriano/Siriaco e Aramaico come sinonimi. Infatti, è storicamente accertato che la popolazione che assunse il nuovo nome di Siriaci, è sempre il popolo degli Aramei. Inoltre la lingua denominata siriaco, altro non è se non un’evoluzione della lingua aramaica più antica.

 

 

Gli Aramei

 

Gli antichi Siriaci, gli Aramei, avevano un sistema istituzionale di città-stato, comune del resto a quasi tutti i popoli antichi (Greci, Romani, ecc.). Dal XIII secolo a. C. c’era circa una decina di città-stato diffuse in una grande area che attualmente è costituita dagli stati di Siria, Libano, nord d’Israele e nord del Giordano, Iraq e il sud della Turchia. La maggior parte degli stati aramei avevano il nome prefisso dalla parola Aram-: Aram-Soba, Aram-Damasco, Aram-Maaka, ecc.; oppure veniva premessa la parola Beth- (casa): Beth Adini, Beth Zamani, Beth Bakhiani, ecc.

Dopo il 612 a. C. lo stato dell’Assiria fu conquistato dagli Aramei Babilonesi e dai loro alleati, i medi. Gli Aramei di Babilonia formarono un grande impero, noto anche come il secondo stato di Babilonia o anche il Nuovo Impero babilonese. Questo stato si chiamava anche stato dei Caldei, in quanto prese il nome della tribù Kaldu che, muovendosi dalle terre circostanti il Golfo Persico, aveva occupato Babilonia, introducendo colà la lingua e le consuetudini aramaiche. Un re noto di questo stato è Nabucodonosor, che deportò gli Ebrei a Babilonia nel 597 e nel 586 a. C. Bisogna osservare tuttavia che si era ancora conservato l’uso della lingua accadica. Nel 539 a. C. i Persiani posero fine all’Impero Babilonese e liberarono gli Ebrei, che in parte tornarono in Israele, mentre altri rimasero a Babilonia.

Nell’Antico Testamento si narra di una lunga relazione tra gli Ebrei e gli Aramei. Anzi gli stessi Ebrei originariamente erano Aramei. I patriarchi Abramo, isacco e Giacobbe erano Aramei, originari di Ur dei Caldei (cfr. Dt 26, 5: “Mio padre era un Arameo errante”). Dopo l’esodo dall’Egitto il popolo d’Israele si stabilì  nella terra di Canaan (Fenicia) e ne assorbì il linguaggio, abbandonando così l’aramaico. Soltanto dopo il ritorno da Babilonia gli israeliti ricominciarono a parlare in aramaico e l’ebraico era usato per la liturgia e a livello colto.

Durante il 200-100 a. C. gli Aramei ricostituirono diversi stati nazionali, che durarono fino al III secolo d. C. Fra i più importanti stati aramei è importante ricordare: i Nabatei con capitale Petra (Giordania), Damasco, Emesa, Palmira (Siria), hatra, Zingara (Iraq), Edessa, Malata e Amed (Turchia). Dopo di che gli Aramei persero per sempre la loro indipendenza e furono prima governati dai Romani, Bizantini, Persiani, Arabi, Turchi, ecc.

 

Gli Aramei e il Cristianesimo

 

Secondo antiche tradizioni cristiane il re arameo Abgar V Ukomo (Il Nero) di Emessa (Urhoy) si convertì al cristianesimo già ai tempi di Gesù Cristo. Il re Abgar soffriva di lebbra e il suo dottore non riusciva a curarlo. Egli udì parlare di un uomo saggio di nome Gesù che viveva in Palestina e che questa persona aveva effettivamente un rimedio per la sua malattia. Egli inviò una delegazione a Gesù con l’incarico di recapitargli una lettera, con la quale lo invitava a Edessa per curare il re. Gesù inviò la sua risposta scrivendo che poteva recarsi a Edessa perché la sua missione era un’altra. Tuttavia Gesù ordinò a Taddeo di recarsi colà dopo la sua Ascensione per curare e guarire il re dalla sua malattia. Così Abgar V e tutto il popolo di Edessa divennero cristiani. Lo stato di Edessa più tardi divenne famoso per questo evento e per il possesso delle menzionate lettere scambiate tra Abgar e Gesù. I visitatori di gran parte dei paesi cristiani andarono a Edessa per vedere questa corrispondenza e così poterla copiare. Dello scambio delle lettere tra Abgar e Gesù scrisse, nella prima metà del IV secolo, Eusebio di Cesarea nella sua “Storia della Chiesa”. Edessa più tardi divenne un importante centro della cultura cristiana siriaca, così come Antiochia divenne un grande cento della cultura greca.

La variante dialettale dell’aramaico di Edessa divenne la lingua ufficiale della giovane Chiesa cristiana aramea. In questa lingua furono scritti migliaia di libri e questa è la lingua aramaico-siriaca, che oggi si usa nell’insegnamento e nelle Chiese che usano il siriaco. I cristiani Aramei andarono in missione in molti paesi: India, Tibet, Mongolia e Cina. Molti gruppi etnici dell’Asia centrale si convertirono al cristianesimo, come parte dei Mongoli e dei Turchi e usavano la liturgia araico-siriaca. Ma dopo pochi secoli essi si convertirono all’Islam. Il nome di Siriaco divenne perciò totalmente collegato agli Aramei cristiani. Nello stato del Kerala (India meridionale), ci sono ancora chiese siriane con 10-12 milioni di fedeli che usano ancora il siriaco come lingua ecclesiastica. A proposito dei cristiani del Kerala è interessante far osservare che essi ritengono di essere stati evangelizzati direttamente dall’apostolo Tommaso, sebbene non ci siano prove sicure. Alcuni studiosi affermano invece che ciò avvenne nel corso del IV secolo  d. C. nel corso dell’apostolato missionario della Chiesa siriaca del Medio Oriente.

Nel V secolo la Chiesa orientale era divisa nelle seguenti Chiese siro-aramaiche:

Chiesa siriaca dell’est, parte nestoriana. Essa fu fondata nel  V secolo con l’adesione di quasi tutte le Chiese aramaiche orientali (specialmente in Iraq e Iran). Dal 1960 è stata divisa in due parti, ciascuna con il suo patriarca, uno negli USA  e l’altro in Iraq.

Chiesa siriaca occidentale. Tutti gli Aramei cristiani ad ovest dell’Eufrate aderiscono a questa Chiesa. Nel 451 d. C. la Chiesa occidentale è stata divisa in due parti:

Chiesa siriaca ortodossa che esiste soprattutto in Siria, Libano e Iraq, con il suo patriarca a Damasco.

Chiesa siriaca ortodossa “Melkita”, detta anche “Rum”, detta anche Greco-ortodossa: si trova in Siria e libano e al sede del patriarca è Damasco.

Chiesa siriaca Maronita, fondata nel VII  e VIII secolo. Si trova in Libano con il suo patriarca ed è una delle più grandi Chiese aramee.

Chiesa siriaca orientale, cattolica e di rito caldaico, del XVI secolo. Si trova soprattutto in Iraq e Baghdad è la sede del patriarca.

Chiesa siriaca cattolica del XVII-XVIII secolo. Si trova in Libano, Siria e Iraq e la sede patriarcale è Beirut.

Chiesa greca cattolica , “Rum” o “Melkita” del XVIII secolo. Si trova soprattutto in Siria e Libano, con sede patriarcale a Damasco.

Chiese protestanti, del XVIII secolo. Si trovano soprattutto in Siria e Libano con sedi distinte.

Altri piccoli gruppi cristiani e altri gruppi religiosi etnici di lingua aramaica, come i Mandei in Iraq e Iran.

 

 

Gli Aramei durante il Medioevo

 

Durante il VII secolo ci fu l’espansione islamica anche nei territori dell’Aramea. In conformità alla legge islamica la società era divisa in quattro gruppi. Gli Aramei cristiani facevano parte del terzo gruppo di cittadini ed erano obbligati a pagare una doppia tassa allo stato, mentre i musulmani erano esentati dalle tasse. Molti Aramei furono costretti a convertirsi all’Islam, quando non potevano pagare le tasse. Essi erano oppressi e discriminati economicamente, socialmente, etnicamente e culturalmente ed erano costretti a convertirsi alla nuova religione se volevano vivere da cittadini liberi. Col passare del tempo ci fu una recrudescenza nella persecuzione e molti Siriaci cristiani si convertirono all’Islam. Secondo le parole di maometto l’arabo era la lingua divina e perciò tutti i cittadini dovevano apprenderla. Con l’adozione della lingua araba molti Siriaci cominciarono gradualmente a dimenticare il siriaco. Attualmente una gran parte di Aramei parla soltanto arabo, mentre è rimasto un piccolo gruppo che conserva ancora l’aramaico, con le varianti moderne, assimilate in parte dagli Arabi e in parte dai Turchi. Fino agli ultimi anni del XIII secolo gli Aramei erano la maggioranza della popolazione nell’Aramea (Medio Oriente), ma alla fine di quel secolo il territorio arameo fu conquistato dai Mongoli al comando di Tamerlano. Gran parte della popolazione fu massacrata e quelli che sopravvissero, divennero una minoranza. Durante gli ultimi 700 anni i Siro-aramei furono tormentati da massacri per diversità di religione, eseguiti dai fondamentalisti Curdi e Turchi. La più grande carneficina avvenne nel 1915, quando da 300.000 a 500.000 Aramei cristiani furono brutalmente uccisi nel sud-est della Turchia.

 

 

Le lingue aramaiche

 

L’aramaico è una delle lingue più antiche ancora in uso. E’ la sola lingua semitica nel mondo che sia stata usata verbalmente e in iscritto, senza interruzioni, per più di 3000 anni. Le più antiche iscrizioni in aramaico, che sono note, risalgono al X secolo a. C.

Nella sua lunga storia si può suddividere l’aramaico in cinque fasi evolutive:

Aramaico antico, 925 – 700 a. C. A questo periodo risalgono le prime iscrizioni ritrovate. Si tratta della forma di un aramaico arcaico.

Aramaico ufficiale, detto anche aramaico imperiale, 700 – 200 a. C. Durante questo periodo la lingua ebbe un grande sviluppo geografico nei territori dell’Egitto, Arabia, Israele, Siria, Babilonia, Assiria, Armenia, la valle dell’Indo e Pakistan.

Aramaico medio, 200 a. C. - 200 d. C.

Aramaico tardo, 200 d. C. – 1300 d. C. In questo periodo si accentuano sempre di più le differenze di due dialetti, l’occidentale e l’orientale, che assurgono a dignità di lingua. Sebbene la grammatica rimanga sostanzialmente uguale, esistono delle differenze fonetiche, in molte parole, nella pronuncia delle vocali a ed e. A partire dal VII secolo il popolo aramaico entra sotto l’influenza dell’Islam e avvengono  i fatti storici già narrati precedentemente.

Aramaico moderno, dal 1300 ai nostri giorni. Esso riguarda tutte le forme di aramaico attualmente parlate, con l’assimilazione di neologismi derivati, a seconda della zona d’influenza, dall’arabo, turco e persiano.

Il dialetto aramaico che era parlato all’interno dei confini dell’Assiria e di Babilonia, nel VII secolo a. C. ebbe la prevalenza su tutti gli altri dialetti. Alla fine di detto secolo l’aramaico divenne la lingua internazionale della diplomazia, dell’amministrazione pubblica della cultura e del commercio e continuò questa sua funzione nel Medio oriente, nella sua variante del siriaco, fino al VII secolo d. C. quando, con l’avvento dell’Islam, fu sostituito dall’arabo.

Quando i Persiani Achemenidi, guidati da Ciro nell’anno 539 a. C., conquistarono Babilonia e misero fine all’Impero Babilonese aramaico, fondarono un grande Impero che andava dal nord della valle dell’Indo fino al Nilo meridionale. I persiani continuarono ad usare l’aramaico come lingua scritta per l’amministrazione. Da ciò si deve il nome dato a questa forma di lingua detta “aramaico imperiale”. Siccome l’aramaico era diffuso nel decaduto impero babilonese, i Persiani, accanto a questa lingua che rimase ufficiale, dovettero prendere in considerazione anche le lingue parlate nei nuovi territori. Perciò alcuni documenti emessi dalla cancelleria imperiale più volte erano bilingui e trilingue. In ogni caso l’aramaico era la lingua dominante.

Nel 334 a. C. Alessandro Magno, figlio di Filippo il Macedone, dopo aver occupato tutta la Grecia, comincia ad espandere il suo Impero nell’Asia sino ad affrontare il re Dario III: il re persiano fu sconfitto la prima volta a Isso, in Cilicia, nel 333 a. C. e la seconda e definitiva nel 331 a. C., nella battaglia di Gaugamela (attuale Iraq). Alessandro conquistò tutto l’impero persiano fino all’Indo e all’Egitto. Impose la lingua greca in tutti i territori occupati e l’espansione di tale lingua continuò con i suoi successori, i Diadochi. Tuttavia a oriente quando i Parti presero il potere in Iran, iniziando una nuova era nel 247 a. C., si creò una situazione linguistica singolare: era conosciuto il greco, si continuò a parlare in aramaico e il partico fu trascritto secondo l’alfabeto aramaico. L’ellenismo, diffuso dai Greci e dai Macedoni, penetrò a diversi livelli. Parte della popolazione conquistata, oltre ad adottare la lingua greca, come lingua d’uso, cominciò anche ad imitare gli usi e costumi greci, in parte mescolandoli con i propri. Altri, pur introducendo per necessità nel loro linguaggio il greco, rimasero attaccati alle loro tradizioni e alla propria lingua originale. Altri, infine, come i Farisei furono decisamente anti-ellenici e tramandarono questa loro avversione alle scuole rabbiniche, tanto che nel Talmud si cita l’episodio dell’ebreo che chiedeva al suo rabbino se fosse opportuno studiare il greco. Gli fu risposto che senz’altro era lodevole farlo, però doveva ricordarsi che ogni ebreo deve meditare la Toràh giorno e notte. Quindi poteva studiare il greco in un periodo del giorno che non fosse né giorno, né notte.

Nel 146 a. C. avvengono nel Mediterraneo due eventi collegati fra loro: i Romani, dopo aver ingaggiato una guerra decisiva in Occidente e in Oriente, radono al suolo nello stesso anno Cartagine e Corinto. Entrambe le città verranno ricostruite, ma come colonie romane. Si sviluppa così, nelle due direttrici indicate, un processo che Roma aveva già iniziato nella Magna Grecia: la romanizzazione. In Occidente e in Oriente vengono fondati municipi e colonie. Viene concessa agli abitanti liberi, con modalità diverse, la cittadinanza romana. Le nuove città fondate dai Romani vengono popolate dai veterani, che avevano concluso il loro servizio militare. Ai tempi di Augusto, nel 15 a. C. l’antica città di Berythus, l’attuale Beyruth, verrà ingrandita e dedotta come colonia romana con il nome Colonia Iulia Augusta Felix Berytus, che nei decenni successivi diverrà, in tutto l’Impero, uno dei più grandi centri del diritto romano.

La popolazione residente così diventa bilingue o anche trilingue. Questa nuova situazione sociale provocò una frammentazione del mondo aramaico, una volta unito. Già nel I secolo d. C. si formano numerosi dialetti indipendenti fra di loro, che però assurgono a dignità di lingue in quanto formano una loro letteratura e sono parlate da una popolazione.

L’aramaico si divide così in due rami principali: l’aramaico occidentale, scritto e parlato nei territori costieri del Mediterraneo e l’aramaico orientale, diffuso nella zona continentale a oriente di Edessa (l’attuale Urfa, ai confini tra la Turchia e la Siria).

l’aramaico occidentale, a sua volta, ha delle varianti diverse: l’aramaico giudaico-palestinese, l’aramaico samaritano, l’aramaico siro-palestinese cristiano, come pure delle sottovarianti, come ad esempio, l’aramaico galilaico, parlato da Gesù Cristo e gli Apostoli (cfr. Lc 22, 59 e At 2, 7). I Galilei erano conosciuti in tutto il mondo aramaico in quanto pronunciavano nella stessa maniera le lettere laringali o gutturali (’alef, he, heth, ‘ayn), come se si trattasse sempre dello stesso suono ’alef; per esempio Gesù, quando si reca nella Decapoli, oltre il fiume Giordano, e guarisce un sordomuto dice: “Effatà, apriti” (Mc 7, 34). La pronuncia corretta invece avrebbe dovuto essere: “Effatahà”, in quanto aprire si dice in aramaico petàh, in ebraico patàh e in arabo fàtaha.

L’aramaico orientale era invece così suddiviso: aramaico babilonese, che diede origine all’aramaico talmudico, aramaico palmireno, aramaico mandaico, e aramaico-siriaco in Mesopotamia. L’aramaico-siriaco, inoltre, si era suddiviso siriaco occidentale e siriaco orientale: la differenza era puramente fonetica e riguardava la diversa pronuncia, in determinati casi, delle vocali a, e e u.

Ad esempio per dire: “Padre nostro, che sei nei cieli”, in siriaco occidentale si dice: “ ’Avun dvashmayo, nethkadash shmokh”, in siriaco orientale invece: “ ’Avon dvashmaya, nithkadash shmakh”.

Anche l’alfabeto subì delle varianti stilistiche. Rimasero sempre le 22 lettere, ma si formarono diverse grafie. Rimase immutato l’aramaico originale, la cosiddetta scrittura quadrata, usata soprattutto nell’aramaico babilonese e nell’ebraico. Le due forme di siriaco ebbero in comune la grafia detta estranghela, a caratteri quadrati, ma più stilizzati. Il siriaco orientale usa pure caratteri quadrati, molto simili alla scrittura estranghela. Il siriaco occidentale invece cominciò a usare caratteri corsivi, simili a quelli che sarebbero diventati propri dell’arabo.

Ai nostri giorni la denominazione di siriaco è riservata solo all’aramaico-siriaco occidentale, soprattutto dai maroniti e melkiti. L’aramaico-siriaco orientale si chiama semplicemente aramaico e il neo-aramaico, viene chiamato da molti assiro, considerano la loro patria d’origine l’Assiria e lel oro città più importanti Ashur e Nineveh. In Internet è pubblicato il giornale Nineveh on line (in lingua inglese).

 

 

APPENDICE

 

Lettera del re Abgar a Gesù Cristo

E la lettera è stata letta davanti a lui (Gesù). Nella stessa erano scritte le seguenti parole:  “Abgar Ukomo (Il Nero) a Gesù, il buon medico, che è apparso nella città di Gerusalemme.

Salve, o Signore! Ho sentito parlare di te e delle tue guarigioni, che tu non guarisci con medicine e medicamenti, ma con la tua parola fai vedere ai ciechi, fai camminare gli zoppi, fai purificare i lebbrosi, fai sentire i sordi, hai cacciato gli spiriti malvagi e i demoni, guarisci il misero con la tua parola e fai anche risorgere i morti. Quando ho udito queste grandi meraviglie che fai, sono giunto alla conclusione o che sei Dio che è sceso dal cielo per fare queste cose, o sei il figlio di Dio, che fai tutto ciò.  Perciò ti scrivo per chiederti di venire da me, così che io possa prostrarmi dinnanzi a te, e tu mi possa guarire dalla mia malattia, poiché credo in te.  Ho sentito ancora, che gli ebrei parlano male di te e ti perseguitano, e vogliono anche crocifiggerti, perché intendono toglierti di mezzo.  Ma io ho una piccola provincia, ma è bello e per due (noi e i Romani) sufficiente abitare in pace”.

 

Risposta di Gesù Cristo al re Abgar

 

Quando Gesù ricevette la lettera nella casa del sommo sacerdote degli Ebrei, disse al corriere Hannan: “Va' e di' al tuo signore, che ti ha mandato a me:  «Sii benedetto tu, perché non mi hai visto e hai creduto in me!» Perciò è scritto così, riguardo a me, per quelli che mi vedono e non vogliono credere in me. E per quanto mi hai scritto che dovrei venire da te, sappi che ciò per cui  sono stato inviato qui, si è ora compiuto e sto per ascendere al Padre mio che mi ha inviato; e quando sarò asceso a lui, ti spedirò uno di miei discepoli, che ti guarirà e ti curerà per la tua malattia, e ogni persona che è con te sarà condotta alla vita eterna. E la tua città sarà benedetta, e nessun nemico nel futuro prevarrà su di essa”.


 

 

Scrittura e grammatica nella lingua ebraica

 

 

L’alfabeto ebraico

 

L’alfabeto fenicio che fu adattato al greco, conservò tuttavia la sua struttura rigida nelle lingue di cultura semitica. La riduzione dei caratteri da 30 a 22 si adattava bene alla lingua fenicia, come pure all’aramaico e all’ebraico. Benché il sistema fonetico di queste lingue fosse più ricco di suoni, mancavano almeno sei consonanti; si trattava di varianti di altre sei consonanti. Sono le sei consonanti raggruppate mnemonicamente con due parole Be Ga D  Ke Pa T (=scommise sulla buona fortuna), che secondo determinate regole possono assumere il suono esplosivo o quello aspirato o fricativo (Ve Gha dh Khe Fa Th).  Tuttavia l’alfabeto non fu soggetto ad altre variazioni e fu rapidamente adottato in tutta l’area del Medio Oriente dove si parlavano numerose lingue del ceppo di cultura semitica.  Salvo qualche variante stilistica dovuta più che altro al mezzo di scrittura, tutte le lingue adottarono l’alfabeto fenicio.

Con l’affermarsi dell’impero assiro (VIII sec. a C.) la lingua aramaica divenne la “lingua franca” e fu usata a livello commerciale e diplomatico. La fortuna di questa lingua continuò con i Babilonesi e i Persiani. Anche se oggi è parlata soltanto in qualche località della Siria in forma di neo-aramaico, questa lingua è ancora pronunciata in alcune preghiere della liturgia ebraica. Quello che interessa in ciò che si sta trattando è che, con il ritorno di parte degli ebrei da Babilonia, nella loro cultura ci fu una trasformazione radicale. Innanzi tutto si andava progressivamente estendendo fra la popolazione ebraica, l’aramaico come lingua parlata. Esdra stabilì che la Torah (Pentateuco) fosse letta al popolo. Successivamente fu suddivisa in brani e ogni sabato veniva letta nelle sinagoghe di nuova formazione; inoltre fu necessario procedere alla traduzione (“targum”) della Bibbia in aramaico. Per uniformità di scrittura si adottò gradualmente la scrittura aramaica quadrata. Il primo documento scritto secondo la nuova grafia risale al 516 a.C. e fu trovato in Egitto. Ma fu soltanto a partire dalla metà del II sec. a.C. fino al I sec.  d.C. che la scrittura quadrata si perfezionò ulteriormente.  Prima di trattare più diffusamente l’argomento che riguarda la grafia con cui si scrivevano i testi biblici, si ritiene utile, per completezza, dare uno sguardo sintetico alla scrittura ebraica corsiva.

 

La scrittura ebraica corsiva

 

Il primo tipo di scrittura ebraica corsiva ebbe un periodo di vita relativamente breve. Mentre l’adozione della grafia aramaica formalmente prendeva piede, alla fine del regno degli Asmonei e all’inizio del regno di Erode (I sec. a.C.) si sviluppò la scrittura corsiva. In opposizione all’aramaico quadrato, la grafia era rotonda con la tendenza a congiungere le lettere e formare dei legami fra di esse. Questo nuovo sistema non ebbe modo di svilupparsi adeguatamente. Con la Seconda Rivolta contro i Romani (132-135 d.C.) esso finì, almeno presso gli Ebrei. Si affermò invece presso i Siriaci e poi gli Arabi.

Il 135 d.C. segnò l’inizio della Diaspora forzata. Gli Ebrei si insediarono in varie parti del Mediterraneo, forse accanto a comunità che esistevano già da tempo. La vita continuava, bisognava commerciare, fare contratti, sposarsi ecc. Quindi era necessario scrivere. In confronto alla grafia formale dell’aramaico questo nuovo tipo di corsivo lasciava più libertà all’estro dello scriba. Si formò un nuovo tipo di scrittura che, pur partendo all’inizio da una semplificazione dell’aramaico quadrato, alla fine se ne diversificò tanto che soltanto con un grande sforzo di fantasia si può credere che fra di loro esista un nesso. Si differenziò ancora all’interno delle diverse comunità e durò circa fino al XVI-XVII secolo.

Dal X al XVIII secolo si formò, in parallelo all’altra scrittura, un altro tipo di corsivo detto “mashait”, erroneamente chiamato “rabbinico”. Questo nuovo stile si formò quando fu necessario scrivere testi molto importanti, come i libri, per cui s’impose una scrittura più accurata.  Ciò non significava però un’approssimazione della scrittura quadrata anche se la grafia fu elegante ed elaborata. Anche il “mashait” si differenziò a seconda delle comunità che lo usavano.

 

La scrittura ebraica quadrata

 

Si è già accennato più sopra come la grafia aramaica s’impose anche nell’ambito della trascrizione dell’ebraico.  Il massimo sviluppo prima dell’era cristiana si ebbe nei “Manoscritti di Qumram”. Successivamente ci fu un’ulteriore evoluzione. Si trattava però di formalizzazione stilistica, piuttosto che di variazione di segni, anche se nel corso di circa 1000 anni per alcune lettere i mutamenti furono notevoli. Fu soltanto nel 895 d.C. che i caratteri si stabilizzarono con il manoscritto del “Profeti”. il più antico manoscritto biblico, scritto da Mosè ben Asher a Tiberiade; fu trovato nella sinagoga caraita  del Cairo.

E’ opportuno far qui un breve inciso. Anche se è una dizione accettata, parlare di “scrittura quadrata” è in realtà una definizione non appropriata. L’invisibile intelaiatura in cui si iscrive la lettera è invece un rettangolo. Siccome stilisticamente a prima vista, sono più visibili i segni orizzontali brevi e grossi, che quelli verticali più lunghi e sottili e i segni orizzontali sono quasi equidistanti l’uno dall’altro, sembra di vedere una regolare sequenza di lettere iscritte in altrettanti quadrati. E come di solito avviene quando si affibbia una etichetta a prima vista, quella rimane, così questo tipo di scrittura continuò a chiamarsi “quadrata”.

L’importanza di questo tipo di grafia deriva dal fatto che si è definitivamente imposta su tutte le altre varianti. Si ritiene che ciò sia dovuto al fatto che serviva soprattutto per la trascrizione dei testi biblici e, di conseguenza, fu usata anche per i caratteri a stampa. Benché semplificato, rimane il sistema di scrittura dell’ebraico moderno. anche se accanto ad esso esistono due tipi di grafia in corsivo.

E’ interessante seguire brevemente la probabile storia dell’evoluzione di questa scrittura. Probabile e non certa, perché è molto difficile stabilire il nesso di causalità tra una scrittura di una comunità e quella di un’altra. Il materiale rimasto è di gran lunga inferiore a quello che è stato scritto in circa 2000 anni (dal V sec. a.C. al XV sec.  d.C.): il deperimento naturale di papiri e pergamene, gli spostamenti per motivi di commercio degli Ebrei nel bacino del Mediterraneo, le persecuzioni ricorrenti con roghi di libri, l’espulsione dalla Spagna nel 1492 di circa 100/200.000 persone nell’arco di tre mesi, sono le principali cause di perdita irrecuperabili gran parte dei manoscritti.  Si cercherà tuttavia di fare una breve storia.

Si suppone, e non senza fondamento, che l’influsso di uno stile di una comunità su quella di un’altra derivi dallo spostamento degli Ebrei a piccoli gruppi o collettivamente.  Si hanno così diversi tipi quali la scrittura babilonese, l’egiziana, la persiana, la yemenita, la maaravita del Marocco, la siro-palestinese, la yevanita della Grecia, l’italiana, la zarfatita della Francia e la sefardita della Spagna e del Portogallo; un gruppo a sé è costituito dalle comunità caraite. Teoricamente la grafia originaria parte da Babilonia per diffondersi ad oriente con la scrittura persiana e ad occidente con la siro-palestinese e l’egiziana, e a sud con la yemenita. La scrittura sefardita rispecchia quella maaravita, di probabile derivazione egiziana. Con la scrittura sefardita il nuovo modo di scrivere in ebraico entrò in Europa e probabilmente influenzò la scrittura yevanita della Magna Grecia. Di quest’ultima in senso stretto poco è rimasto per le difficoltà d’insediamento che avevano le comunità ebraiche nel periodo ellenistico. La grafia italiana fu influenzata a sud da quella yevanita e a nord da quella askenazita. Infine quest’ultima à certamente collegata con la scrittura zafartita della Francia. Fra tutti i dati ipotetici l’unico elemento certo è quello dell’influsso tra la scrittura zafartita e quella askenazita.

Come il visitatore può osservare le pergamene esposte sono state individuate e classificate in due gruppi diversi. Il primo (I-IV) riguarda brani della Torah (Pentateuco) scritti in grafia askenazita o nord-italica; il secondo (V-VII) secondo la grafia sefardita. Il periodo di attribuzione va dal XIII al XIV secolo; più precisi non si può essere in quanto si tratta di pochi frammenti. Tuttavia si possono inferire delle conclusioni molto probabili:

Le pergamene scritte in scrittura sefardita sono senz’altro più antiche delle altre; lo si evince dallo stato deteriorato in cui si presentano.

Quelle scritte in scrittura askenazita sono da annoverarsi forse fra gli ultimi manoscritti che precedono la scoperta della stampa e la diffusione del libro.

Si può infatti osservare come i caratteri mobili dell’alfabeto ebraico furono modellati sulla scrittura askenazita.

 

La “Masorah”

 

Dopo aver affrontato il problema  dell’alfabeto, tra cui si è cercato di dare più ragguagli possibile, pur cercando di essere sintetici, si affronterà un nuovo tema, di cui qualcosa si è già accennato nel paragrafo precedente. Si tratta della vocalizzazione scritta e non solo letta del testo ebraico. E’ peraltro noto, anche perché se ne è già parlato, che anticamente i testi venivano scritti soltanto con le lettere consonantiche ed altrettanto avviene in Israele ai nostri giorni. Essendo la lingua parlata, la vocalizzazione esplicita non è necessaria. E’ dunque opinione comune che nel Medioevo a cominciare dal IX sec. si introdusse la vocalizzazione in quanto la lingua ebraica non era più parlata. Ciò corrisponde al vero, ma solo in parte.  Infatti la vocalizzazione fu effetto di molteplici cause, in parte esterne all’ebraismo e in parte interne. Inoltre nel termine “masorah” che letteralmente significa “tradizione” sono racchiusi diversi fenomeni linguistici inerenti alla Bibbia fra i quali l’esatta trasmissione del testo scritto e della sua lettura, la successiva invenzione di simboli grafici per indicare le vocali, il raddoppiamento delle consonanti, la punteggiatura, la tonalità ecc.; inoltre, per non incorrere in svarioni, era necessario conoscere la grammatica come analisi morfologica del testo.

 

Le cause esterne: la formazione della grammatica

 

Da quando la scrittura cominciò a semplificarsi presso ogni popolo gli scribi persero il potere di essere gli unici redattori ed interpreti degli affari più notevoli che potevano avvenire in ogni paese. Da tutto il materiale che ci è stato trasmesso dall’antichità, dai reperti rinvenuti in molteplici scavi archeologici, dalle cronache diverse degli storici di allora, oggi sappiamo che nell’arco di qualche secolo fu prodotto un numero ingente di documenti. Dal semplice contratto di compra-vendita alle formulazioni delle leggi, dai testi religiosi a quelli letterari, ci fu un fiorire continuo di scritti di ogni genere. Col passare dei secoli ci si rese conto che il linguaggio di ogni popolo stava cambiando rispetto alle proprie origini. Così in Grecia nel IV-III sec. a.C. Omero era già diventato antico, e doveva essere spiegato. Altrettanto avveniva in Israele, dove il testo mosaico della Torah parlava un linguaggio arcaico.  C’era dunque il pericolo di rompere la tradizione con l’antichità. Era dunque necessario sottoporre ad analisi il linguaggio per preservare la corretta lettura ed interpretazione delle leggi religiose e civili. E per far ciò bisognava fare riferimento al testo più antico della letteratura di ogni popolo.

Oggi noi sappiamo che tale analisi consiste nella formulazione di una grammatica della lingua parlata da un popolo. Dal punto di vista del metodo descrittivo la grammatica è “il complesso delle norme che costituiscono il particolare modo di essere di una lingua (o di un dialetto), cioè il suo sistema fonetico, morfologico, sintattico considerato nella sua totalità come si riflette di volta in volta sulle singole espressioni”.  Come scienza è la “rappresentazione sistematica di una lingua e dei suoi elementi costitutivi, articolati tradizionalmente in fonologia, morfologia, sintassi, lessicologia ed etimologia”.

In questa analisi, come già osservato, contano i precedenti: nascono prima gli scritti, poi la grammatica.  Questa a sua volta diventa la norma essenziale per la correttezza, comprensione e formulazione di ogni discorso o scritto. Sebbene non abbia alcun influsso diretto sul tema trattato, il primo teorico di grammatica fu Pānini che visse nel IV sec. a. C. Per preservare le sacre scritture indiane, formulate nei Veda, compose la grammatica del sanscrito.  Questo riferimento è interessante perché è quasi sincronico con ciò che stava avvenendo in Grecia. Ad esempio Aristotele nella “Retorica” asseriva: “Il primo principio dell’elocuzione è lo scrivere un buon greco”.  E’ noto peraltro che sia Platone, sia Aristotele si rifacevano a testi già allora ritenuti classici e soprattutto ad Omero. Fu Dionisio Trace (seconda metà del II sec. a.C.) a formulare la prima grammatica greca scientifica. Il punto di partenza della sua “Arte grammatica” (Grammatiké téchne) inizia proprio dalla esegesi ad Omero.  In questo testo Dionisio espose sistematicamente l’organizzazione del linguaggio. Esso è rimasto il fondamento di ogni costruzione di grammatica posteriore. E’ noto che anche la cultura latina si rifece ai modelli greci. Ma ciò che interessa di più in questo itinerario è vedere come la grammatica entrò nel mondo della cultura semitica.

A cominciare dal primo secolo dell’era cristiana si sviluppò soprattutto ad Edessa (oggi Urfa, Turchia) una variante dell’aramaico, la lingua siriaca. Esistevano già alcuni testi scritti in tale idioma. ma soprattutto con la traduzione dalla Bibbia il siriaco cominciò a svilupparsi.  Tale traduzione, detta la “Peshitta”, divenne il testo normativo per i cristiani che parlavano tale lingua. Ciò che interessa qui della loro storia letteraria è l’impegno che essi profusero nel tradurre in siriaco tutti i testi greci di cui poterono disporre. E successivamente tradussero dal siriaco all’arabo con l’avvento dell’Islam. Fu nel V sec. d. C. che un discepolo di Narsai, Giuseppe Huzaya, tradusse dal greco la citata opera di Dionisio Trace. Inoltre fu creatore di un sistema siriaco di puntazione. La grammatica greca entrò così nel mondo della cultura semitica e gli scrittori siriaci cominciarono a confrontarsi con essa.  Inoltre il sistema di puntazione fu un inizio della vocalizzazione, necessaria per dare stabilità alla lettura della “Peshitta”. Infatti se molti furono nel Medio Oriente prima dell’avvento dell’Islam gli scrittori siriaci, non tutti però erano veri e propri Siri. Fu Giacomo o Giacobbe di Edessa (640-708 d. C.), vescovo monofisita di quella città, il primo teorico della grammatica siriaca. E proprio sulla base di tale grammatica effettuò una revisione alla traduzione della Bibbia. Sebbene ci fossero stati altri grammatici, l’importanza è aver stabilito in quale periodo nell’area di cultura semitica, si prese coscienza della necessità di formulare delle regole precise per una lingua diversa da quelle indoeuropee. E ciò non fu senza conseguenze. Per capire quali furono, basta considerare cosa avvenne durante la vita di Giacomo di Edessa: è sufficiente l’inizio e la fine. Nell’anno della sua nascita le truppe arabe entravano in Egitto, in quello della sua morte i musulmani avevano già raggiunto ad occidente lo stretto di Gibilterra e ad oriente, dopo aver occupato l’Iran, erano prossimi a Bukhara e Kabul.  Ma intanto nel 661 d.C. gli Ommayyadi si erano insediati a Damasco e, fra le altre cose, fecero di quella città un grande centro culturale. In fatto di religione gli Arabi erano molto più tolleranti di quel che si creda. Chi non era musulmano doveva però versare una tassa annua che alimentava un fondo caritativo a favore delle vedove e degli orfani dei caduti in guerra. L’opera letteraria dei Siri fu presto apprezzata; si scoprì inoltre la somiglianza fra le due lingue; inoltre i testi già tradotti dal greco o ancora da tradurre, ebbero dal siriaco la loro espressione in lingua araba.

L’arabo è una lingua che possiede strutture grammaticali analoghe a quelle degli idiomi dei popoli di cultura semitica e quindi può esser scritto senza vocalizzazioni. A ciò c’erano però due eccezioni: il Corano e la poesia dovevano essere letti correttamente e perciò furono aggiunti dei segni che indicavano le vocali che seguivano le consonanti o, se del caso, ne segnavano la loro assenza. Il motivo di tale perfezionismo era dovuto a dei principi fondamentali per ogni musulmano: il Corano è stato direttamente rivelato da Dio a Maometto in “lingua chiara” (arabo), deve esser recitato dal credente senza errori di lettura ed infine ne è vietata la traduzione. Siccome l’espansione dell’Islam dal punto di vista militare e religioso fu molto rapida, era necessaria l’acculturazione di molti popoli di stirpi e di lingue diverse, in modo che fossero inizialmente almeno in grado di leggere correttamente il Corano e successivamente di capirlo.  Sin dagli inizi del Califfato ommayyade si formarono due scuole, una a Bassora e l’altra a Kufa, dove si curò a fondo l’analisi e la formulazione della grammatica araba. Questo studio e ricerca fu considerata la  vera scienza in quanto aveva per scopo la conoscenza del Corano. Prima di chiudere questo paragrafo è necessario fare una breve osservazione.  Tutta questa attività culturale del mondo arabo non passò inosservata ai cristiani siriaci, al punto che gradualmente diventarono bilingui. Anch’essi si adeguarono al concetto che la lettura del testo sacro doveva essere immune da errori e perciò introdussero la vocalizzazione scritta con l’ausilio delle lettere greche corrispondenti che andavano sovrapposte o sottoposte alla consonante che accompagnavano. E vediamo ora cos’era successo nel mondo ebraico.

 

 

 Le cause interne della “Masorah”

 

Si è analizzata fin qui l’evoluzione culturale del mondo non-ebraico. Più avanti si vedrà come ciò avrà influssi non indifferenti sull’ebraismo. Ma intanto anch’esso aveva avuto un suo sviluppo interno, che convergeva tutto sulla trasmissione del testo sacro. A proposito di ciò era sorta all’interno delle comunità una controversia dottrinale; peraltro il contatto con l’islamismo e il cristianesimo aveva portato all’approfondimento di molti problemi con l’acquisizione di nuove certezze.

 

La trasmissione della “Toràh

 

La trasmissione della Toràh, o in senso generale della Bibbia, è antico quanto il testo stesso. Il primo libro post-biblico  “Pirqè Avot” o “Detti dei Padri” così inizia: “Mosè ricevette la Toràh sul Sinai e la consegnò a Giosuè e Giosuè agli Anziani e gli Anziani ai Profeti e i Profeti la trasmisero ai membri della Grande Assemblea”. Esisteva dunque una tradizione molto antica della trasmissione del testo della Toràh. Ma la caduta del regno di Giuda (586 a.C.) e la deportazione degli Ebrei in Babilonia per opera di Nabuccodonosor produsse una crisi profonda in tutte le strutture della religione d’Israele. Questo stato di cose perdurò quasi 50 anni finché Ciro, nel 538 a.C., un anno dopo aver vinto i Babilonesi, concesse agli Ebrei di ritornare nella terra d’Israele, di edificare il Tempio e di ricevere un’indennità dai Babilonesi stessi. Molti ritornarono ma parecchi rimasero in quella città, dove si erano ricostruita un’esistenza senza rompere la tradizione dei Padri.

La situazione era devastante, perché bisognava ricostruire tutta la vita religiosa degli Ebrei. per far ciò si misero all’opera Esdra e Neemia che, oltre ad altre riforme di carattere generale, stabilirono la sistematica lettura della Toràh, suddivisa in brani, ogni sabato e nei giorni di mercato (lunedì e giovedì). Successivamente nel corso della settimana si riunivano i capi famiglia, che inizialmente sotto la guida di Esdra, approfondivano il significato del brano della Toràh letto il sabato precedente. Scopo di tutto ciò era dunque l’esatta lettura del testo sacro, la sua trasmissione integra, la sua comprensione ed infine un dato non trascurabile, l’utilizzo di essa come fonte e norma per la soluzione di casi pratici di tutti i giorni. Si trattava quindi di un vero e proprio processo di acculturazione, fatto senza fretta, ma in modo sistematico e continuo. Perché ciò avvenisse erano necessarie tre cose: a) l’esistenza di una scuola dove poter con assiduità studiare la Toràh; b) la presenza di un maestro ben preparato  che garantisse in ogni scuola l’esatta lettura e comprensione del testo; c) la formazione e il consolidamento di una tradizione, atta a risolvere e dirimere le possibili divergenze interpretative.  Come siano andate le cose all’inizio, cioè dopo la riforma di Esdra, non è molto noto. Ciò che invece si sa con certezza è che nel I sec. d.C., quando Gesù Cristo predicava in Israele, erano diffuse in ogni paese le Sinagoghe e c’erano numerosi scribi e farisei. La sinagoga (termine di origine greca che significa “adunanza”, “assemblea”) era l’edificio in cui si radunava il sabato la comunità di ogni paese per ascoltare la lettura della Toràh e pregare. Inoltre era luogo di studio: preghiera e studio sono due cose inscindibili per ogni ebreo; tutti devono pregare e ognuno deve studiare (la Torah) secondo le sue possibilità. Perciò in ebraico si chiama “Bet ha-knesset” (“Casa dell’Assemblea”) o “Bet ha-sèfer” (Casa del Libro) o “Bet ha-midrash” (“Casa dello Studio”). Gli Scribi erano coloro che trasmettevano il testo sacro e ne controllavano l’integrità. I Farisei (“separati”) erano persone particolarmente dotte e preparate nella lettura e interpretazione della Toràh e nella conoscenza della Tradizione antica; inoltre era notoria la santità della loro vita. Furono accomunati sotto un’unica denominazione in quanto solo essi ammettevano la Tradizione orale accanto a quella scritta, a differenza dei Sadducei che accettavano solo la seconda.

I Farisei che vissero alcuni anni prima della predicazione di Gesù Cristo furono raggruppati, parte nella “Scuola di Shammai”, parte nella “Scuola di Hillel”.  Tra le due scuole c’erano più di 300 punti controversi. Pur essendo rinomata la fama dei Farisei, senz’altro vi furono dei negligenti, degli estremisti e dei vanagloriosi. Ma ciò era l’eccezione e non la regola.

L’importanza dei Farisei è fondamentale per l’Ebraismo e non solo per esso. In sintesi vale la pena di ricordare che:

I Farisei, essendo presenti in tutte le sinagoghe che erano sorte in ogni paese e città di Israele e della Diaspora, furono attivi nel tramandare la “Toràh scritta” (Pentateuco) e la “Toràh orale” (Tradizione).

Formularono principi legislativi e giurisprudenziali (“Halachot”) fondati sulla “Toràh scritta”.

Furono gli unici a salvarsi e a preservare l’Ebraismo da ogni assimilazione, dopo la distruzione del Tempio (70 d.C.).

Raccolsero tutta la “Tradizione orale” nella “Mishnah” (“ripetizione”) (II sec.) e nel “Talmud” (“dottrina”) (V sec.).

Nei primi secoli della diffusione dell’Islam sorse una Controversia dottrinale tra i “rabbaniti” i successori dei Farisei e i “caraiti”. I rabbaniti, continuando con la metodologia tradizionale, interpretavano la “Toràh” su un testo consonantico, l’unico che allora esisteva. Come già si disse, alcune parole potevano andar interpretate in diversi modi, anche differenti dal contesto letterale e dal significato grammaticale. Così, ad esempio, dalla radice trilettera KTB si poteva leggere: “scrisse” (KaTaV);  “scrivi!” (KeTov); “scrivente” (KoTeV); “decretò” (KiTTeV); “decreta!” (KaTTeV). Ciò poteva dare origine a forzature non indifferenti del testo, specialmente quando si trattava di formulare norme legali (“Halachòt”). Contro tale stato di cose insorsero i caraiti (da “qarà’ “ - “leggere”) i quali formularono il principio che ogni parola della “Toràh” doveva esser letta in conformità all’esatta vocalizzazione e secondo il senso grammaticale espresso dal contesto della frase. Tale principio altro non era che una ricomparsa della teoria dei sadducei, che rifiutavano la “Tradizione orale”, perché la “Toràh” doveva essere interpretata secondo l’unico senso letterale di ogni parola e non era né possibile, né legittimo ricavarne altri sensi. Questa disputa di fatto non ha mai avuto fine e sussiste anche ai nostri giorni, anche se i caraiti sono una minuscola setta fra gli Ebrei.

E’ singolare tuttavia osservare un particolare non indifferente: la controversia dottrinale era apparsa nell’ambiente islamico, dove vivevano numerose comunità ebraiche. La singolarità deriva dal fatto che l’interpretazione della “Toràh” secondo il metodo iniziato dai Farisei durava quanto meno da 7 od 8 secoli, senza che si fosse trovato nulla da ridire. Ma intanto era successo un fatto nuovo che, se anche non fu la causa principale della controversia, è molto probabile che fosse concomitante ad essa.

E qui bisogna agganciarsi alle cause esterne della “Masoràh”. Con l’avvento dell’Islam, gli Ebrei cominciarono a vivere con una certa tranquillità fino ad essere rispettati ed onorati. Una volta adempiuto l’obbligo annuale del versamento della tassa all’erario islamico, le comunità ebraiche diventarono una categoria protetta dall’autorità dei califfi. Furono concesse vaste autonomie amministrative, giurisdizionali e religiose. Per ogni lite all’interno delle varie comunità ebraiche giudicava autonomamente il tribunale religioso di ognuna di esse, senza alcuna ingerenza dell’Islam. Nel contempo tutte le persone acculturate delle comunità erano di fatto bilingui o trilingui: conoscevano l’ebraico per le funzioni sinagogali, l’aramaico per la lettura di parte della “Mishnàh” e del “Talmùd” e l’arabo per tutto ciò che riguardava la vita di ogni giorno e i rapporti con i musulmani e i cristiani siriaci. Infatti questi ultimi, oltre alla loro lingua nativa, il siriaco, appresero l’arabo, al punto di diventare col tempo soltanto arabofoni.  Il territorio del Medio Oriente era quindi diventato abbastanza omogeneo dal punto di vista culturale: ebraico, siriaco ed arabo erano lingue strutturalmente molto simili e quindi facilmente comparabili. E come per osmosi avvennero alcuni scambi: i Siri conoscevano già il valore della grammatica, gli Arabi applicarono tali principi alla loro lingua ampliando il campo visivo fino alla vocalizzazione esplicita, trascritta mediante segni convenzionali. E ciò per salvaguardare la integrità del Corano. I Siri, per converso, cominciarono anch’essi a vocalizzare il testo sacro, cioè tutta la Bibbia. Gli Ebrei assunsero anch’essi entrambi i principi e cominciarono ad analizzare la Toràh secondo questo punto di vista che per essi era del tutto nuovo. Si formò così un vasto movimento in tutte le comunità ebraiche sparse nel bacino del Mediterraneo e il Medio Oriente, ma i due centri più notevoli furono Babilonia e il territorio d’Israele.

 

La vocalizzazione della Bibbia ebraica

 

Con questo titolo sintetico si riassumono, per brevità, tutte le aggiunte fatte al testo consonantico trasmesso fino ad allora dall’antichità. Stabilire con precisione quando si formò il processo di revisione testuale è un argomento di estrema difficoltà. C’è chi lo fa risalire ad un periodo tra il V e il VII sec. d.C.  Sta di fatto che ciò che si sa di sicuro è il periodo in cui vi fu la definitiva fissazione di tutto ciò che poteva facilitare la lettura. E ciò avvenne per la prima volta con la trascrizione del Codice di Aleppo (895 d.C.). Le varie fasi su cui si svolse questa lunga procedura di studio e di ricerca cominciò già nel periodo precristiano. Sicuramente già da allora c’era la suddivisione della Toràh secondo il rito palestinese e quello babilonese. Il primo prevedeva la suddivisione della Toràh in 154 o 157 “sedarìm” (“ordini”); in tal caso la lettura completa del Pentateuco durava dai 3 ai 3 anni e mezzo: Secondo il rito babilonese il testo andava suddiviso in 54 “parashiyyòt” (“capitoli”) e quindi la lettura durava un anno. Dei due cicli è rimasto nell’uso liturgico il più breve e in ogni calendario ebraico per ogni sabato è indicata la “parashàh” da leggere con la prima parola o da quella più importante del primo versetto. Così la prima “parashàh” che cominciava con Gen. 1,1 si chiamava “Bereshìt” (“In principio”), la seconda “Nòah” che è la parola più importante dell’inizio del versetto Gen.  6,9 “’Elleh toledòt Nòah” (“Questa è la storia di Noè”). Nei testi a stampa queste suddivisioni sono indicate per la lettura più lunga con la lettera “samech”, quella più breve con la lettere “pe” scritte in caratteri più grandi. Nei manoscritti le suddivisioni sono indicate soltanto con spazi in bianco, pari ad un intervallo di 8-10 lettere.

Proprio parlando delle note marginali o glosse si può spiegare in cosa consiste la “masoràh parva”. Si tratta di un lavoro minuzioso su tutti i manoscritti esistenti all’epoca in modo da fissare in modo univoco il testo tramandato dalla tradizione scritta e orale. Nella collazione dei testi quando appariva una lezione scorretta o comunque errata, alla parola in questione veniva sovrapposto un cerchietto e a margine i masoreti segnavano la lezione corretta. Fra le innumerevoli glosse che formano la “masoràh parva” le più importanti e frequenti sono “ketìv” e “qerè” (31). Sono due participi passivi della lingua aramaica: “ketìv” significa “scritto” e “qerè” significa “letto”. I casi possibili sono quattro: a) “qerè” semplice: si tratta di una modificazione di una parola scritta in modo inesatto nel testo. A margine sono scritte le consonanti seguite dalla lettera “qof” che è l’iniziale di “qerè”.  b) “ketiv we-la’ qere” (“scritto e non letto”): si tratta della soppressione di una parola superflua. c) “qere we-la’ ketiv” (“letto e non scritto”): si tratta dell’inserzione di una parola mancante. d) “qere perpetuo”: il caso più notevole è l’ineffabile Nome di Dio scritto con le lettere “YHWH” e vocalizzato con le vocali di “’Adonày”, “Signore”. Si deve sempre leggere “’Adonày”, tranne il caso quando c’è “’Adonày YHWH”, che si legge “’Adonày ‘Elohim”, per non ripetere due volte lo stesso termine “’Adonay”.

Accanto alla “masoràh parva” si formò la “masoràh magna” che della prima è un’integrazione ed un ampliamento. Essa veniva trascritta, con gli stessi caratteri della “masoràh parva” in alto e in basso di ogni pagine.

Tutto questo ingente lavoro era ovviamente contemporaneo alla fissazione per iscritto della corretta lettura. Si formarono due scuole: quella di Babilonia e quella di Tiberiade. La Scuola di Babilonia escogitò un sistema molto semplice, simile a quello della trascrizione alfabetica del siriaco orientale. Sopra o sotto ogni consonante vocalizzata si poneva un punto o il rimpicciolimento di qualche lettera ebraica. Però questo sistema aveva un limite insuperabile: le vocali erano solo sei a, a, e, i, o, u. Secondo altri maestri ebrei ciò non era sufficiente per segnare le vocali lunghe, quelle brevi e quelle brevissime. Per ovviare questa difficoltà lavorò la Scuola di Tiberiade i cui maestri ampliarono e perfezionarono il meticoloso operare dei “naqdanìm” o puntatori. Ne risultò una vocalizzazione abbastanza complessa composta di 19 segni: 5 vocali lunghe, 5 medie, 5 brevi e 4 semivocali. Questo sistema prevalse su quello babilonese e si diffuse in tutto il mondo ebraico.  Tuttavia il sistema di Tiberiade, detto “tiberiense”, provocò un effetto indotto: la comparsa della “scriptio defectiva” al posto della “scriptio plena”. Si era detto sopra che quando l’alfabetizzazione si diffuse fra i Greci per opera dei Fenici alcuni segni consonantici furono trasformati direttamente in vocali. In realtà ciò non avvenne senza un fondato motivo: alcune consonanti, soprattutto la “waw” e la “yod”, sono sempre state delle semiconsonanti, in quanto era già insito nel nuovo sistema alfabetico un supporto di vocalizzazione. Finché il sistema di scrittura era semplicemente consonantico era necessario scriverle, purché fosse chiara la vocalizzazione; ciò avvenne prima della “masoràh” e succede nuovamente oggi, perché in Israele è stato ripreso il modo di scrivere antico. Questo modo di scrittura ai chiama “scriptio plena”. Ai tempi dei “massoreti” le cose andarono diversamente e nel senso opposto.  Siccome la differenza tra le vocali lunghe, medie e brevi è quasi impercettibile, dove c’era una “waw” che indicava una “ô” (“hôlem magnum”) o una “û” (“shûreq”), si sostituì la vocalizzazione in “holem” (“o”) e in “qubbutz” (“u”) eliminando la “waw” di supporto. La stessa cosa avvenne dove c’era la “yod” che indicava una “î” (“hîreq magnum”) che si trasformò in “hireq” (i), eliminando la “yod”. Tale scrittura si chiama “scriptio defectiva”. Tale fenomeno non fu uniforme e ci furono spostamenti in un senso e in un altro; a margine della copia dello stesso erano riportate alcune varianti in cui c’è la “scriptio defectiva” al posto della “scriptio plena” e viceversa, anche con correzioni dell’amanuense.

Prima di passare all’argomento successivo, vale la pena di ricordare che assieme a questo paziente e dettagliato lavoro ci fu anche la fissazione degli accenti e delle pause o segni di interpunzione (diversi dai nostri). Benché fosse già noto che la maggior parte delle parole sono tronche (es. “morè” - maestro) ed alcune sono piane (es. “mèlek” - re), gli accenti servivano oltre che segnare la funzione tonica, anche per indicare quella musicale e quella pausale. Inoltre il sistema variava per i tre libri poetici: Salmi, Giobbe, Proverbi.

Tutta questa attività confluì nel Codice di Aleppo e nel Codice di Leningrado (B 19 A) del 1008. Quest’ultimo, che è copia del primo, è custodito a S. Pietroburgo e costituisce il testo massoretico “receptus”, che oggi viene edito nella “Biblia Hebraica Stuttgartensia” (BHS) (32). Però il Codice di Aleppo che è opera della famiglia Ben Ashèr trovò presto autorevoli fautori tra cui Moshè ben Maimòn (Maimonide) (1135-1204), famoso ebreo sefardita, che fu medico, giudice ed eminente filosofo. Detto per inciso è molto probabile che i frammenti della Toràh della Biblioteca Civica siano parte di una copia o del Codice di Aleppo o di quello di Leningrado. Benché gli elementi in possesso siano pochi, almeno per questi ci sono sufficienti indizi che tali pergamene siano copia di un Codice o dell’altro; ciò deporrebbe a favore dell’autorevolezza degli stessi.

 

La grammatica ebraica

 

Si è già parlato sulle cause esterne della “masoràh”. Fra queste si è osservato quale parte rilevante abbia la grammatica e come essa sia penetrata fra le popolazioni di cultura semitica. Queste cause esterne furono di stimolo al mondo ebraico per valorizzare la propria fede, affinché, preservando la dignità antica, non si lasciasse sommergere dal mondo islamico. E ciò non a caso: si stava infatti progressivamente estendendo una fortissima influenza dell’arabo, soprattutto sui cristiani siriaci, che dapprima diventarono bilingui e poi in parte abbandonarono assieme alla loro lingua natia anche la fede cristiana diventando musulmani. Questa progressiva assimilazione non investì completamente tutto il Medio Oriente, ma certamente una gran parte della popolazione abbracciò l’Islam, riducendo i cristiani a piccoli nuclei. Una delle cause fu lo spostamento del centro culturale di quell’area da Edessa a Damasco e da qui a Baghdad. Per evitare analoghe conseguenze e per dimostrare ai propri fedeli la superiorità della Torah al Corano, i dotti di tutte le comunità ebraiche si cimentavano nell’approfondimento della loro lingua. Ma per fare ciò era necessaria una grammatica. Per inciso vale la pena di rilevare che tale argomento viene trattato per ultimo per comodità espositiva, ma tale fenomeno fu coevo a tutta l’opera dei massoreti e la accompagnò attraverso tutto lo sviluppo del loro lavoro. Sebbene sia il caso di ricordare che già nel “Talmùd” ci sono alcune osservazioni di tipo grammaticale, bisogna peraltro tener conto che trattasi di indicazioni utili all’esegesi biblica. Uguale discorso si può fare per l’opera del massoreta Aharòn ben Ashèr che scrisse “Diqduqè ha-te‘amìm” (“Grammatiche degli accenti”). Ma siamo appena all’inizio del X secolo. Qualche anno dopo fu Saadia Gaon (882-942), capo del giudaismo babilonese, a dare alla grammatica ebraica un ruolo astratto che servisse da regola per la lingua in sé. Scrisse in arabo un libro attinente a ciò, “Kitab al-lugat” (“Il libro del linguaggio”). Era diviso in dodici punti; notevoli, fra le altre cose, i paradigmi delle coniugazioni e la distinzione tra le consonanti sempre radicali e quelle che sono soprattutto ausiliarie.

Il maggior contributo alla formazione della grammatica ebraica, intesa come disciplina autonoma, venne dalla Spagna (Sefaràd) e maturò in quel periodo che è chiamato “età dell’oro” per le favorevoli condizioni in cui visse il popolo ebraico che lì risiedeva, ma non solo per esso. Vale la pena di spendere qualche parola per accennare brevemente a questo periodo. Con la presa del potere degli Abbassidi, che nel 750 soppressero il califfato degli Omayyadi, uno degli ultimi discendenti di questi, fuggì ad occidente finché non raggiunse la Spagna. A Cordoba fu così fondato nel 756 d.C.  l’emirato omayyade, che nel 929 si sarebbe trasformato in califfato. L’indole pacifica di questa dinastia trasferì in Spagna quello che era stato fino a pochi anni prima il secolo d’oro del Medio Oriente (661-750). Fu favorita ogni attività economica ed altresì ogni attività intellettuale, senza discriminazioni per la religione professata, Cessarono le persecuzioni dei Visigoti che costringevano gli ebrei alla conversione, pena la confisca dei beni ed ogni altro tipo di vessazioni. Sotto gli Omayyadi ci fu una crescita intellettuale e un’intensa collaborazione tra tutte le comunità religiose che convivevano in Spagna: ebrei, musulmani e cristiani. Questo clima fraterno continuò in parte anche dopo che i Berberi musulmani abbatterono il califfato. E anche se ricominciarono le persecuzioni contro gli ebrei, sotto gli Almoravidi (dal 1036) e sotto gli Almohadi(dal 1146), la collaborazione non cessò, anzi molti ebrei si trasferirono in territori riconquistati dai cristiani. E nonostante fossero nuovamente anche da questi ultimi perseguitati, continuarono la loro opera di cooperazione coi cristiani e musulmani. Gli Ebrei conservarono a tal punto la fedeltà alla Spagna, come loro patria, che si consideravano sempre sudditi della corona spagnola anche quando furono cacciati nel 1492. Per parlare dei benefici che questa “età dell’oro” procurò a tutta la cultura europea, bisognerebbe come minimo scrivere un’opera a parte. Solo per cenni basta ricordare il filosofo ebreo Mosè Maimonide, quello musulmano Averroè (Ibn Rushd) e tutta l’immensa opera di traduzione dall’arabo in latino fatta tramite la collaborazione d’ebrei arabofoni e cristiani che sapevano il latino. Senza timore di contestazioni si può dire che quel periodo fu la culla in cui si alimentò e crebbe tutta la cultura europea medievale e moderna; e ancora quegli ebrei ed arabi che si trasferirono in Sicilia nella corte di Federico II, furono quelli che videro nascere la nostra lingua.

In questo periodo trovò pure ulteriore sviluppo la grammatica ebraica. In effetti fu Rabbì Yehuda Hayuj, chiamato in arabo Abu Zakaria Yahia ben Daud (940-1010), che individuò le principali regole della grammatica ebraica: la conoscenza dall’arabo, comparato con la lingua ebraica, lo mise in grado di trovare in quest’ultima l’esistenza fondamentale del triletterismo da cui, mediante costanti norme, si potevano formare tutte le altre parole derivate.  Ibn Ezra, che tradusse dall’arabo la grammatica di Rabbì Yehudà lo chiamò “il primo grammatico” o il “capo dei grammatici”. Un altro ebreo arabofono scrisse un altro testo, “Kitab al-Luma‘ ”, “il libro delle aiuole smaltate”. Trattasi di Rabbì Yom di Cordova, chiamato in arabo Abdul Walid Merwan ibn Janah (995-1050); egli trattò in modo sistematico e completo tutta la grammatica ebraica in quarantasei capitoli.  Lo studio di questo nuovo genere di argomento continuò necessariamente anche perché si era già sviluppata in Spagna la poesia ebraica. Come si disse più sopra, con l’avvento degli Almoravidi prima e degli Almohadi poi, ricominciarono le persecuzioni e parecchi ebrei lasciarono la Spagna. Fra questi bisogna ricordare i membri della famiglia Qimchì, soprattutto i fratelli Mosè e Davìd (1160-1235). Vissero a Narbona e, continuando l’opera di Ibn Janah, approfondirono e completarono gli studi sulla grammatica ebraica. Essi scoprirono una costante della loro lingua: il verbo trilittero semplice, mediante precise variazioni, può assumere sette forme diverse (compresa quella semplice). Ad ogni forma corrisponde un significato diverso, che però è una variante o una sfumatura di quello originario. Fra i due fratelli il teorico fu Davìd Qimchì che con il “Mikhlòl” (“Perfezione”) completò tutto il lavoro dei grammatici precedenti. Siamo così arrivati al XIV secolo, quando in tutte le Università europee si sviluppò un’intensa attività di ricerca e di pensiero, nel campo filosofico, teologico ed anche scientifico. La lingua di insegnamento era il latino e tutti i testi erano scritti nella medesima lingua.  Dall’Antico Testamento in ebraico al Nuovo in greco, dai testi filosofici di Aristotele a quelli fu Avicenna e Averroè tutto era stato tradotto in latino. Le uniche opere che si potevano leggere nella lingua originale erano quelle degli scrittori e filosofi che avevano scritto nella lingua di Roma che era la loro lingua madre. Ciò che è impensabile ai nostri giorni, avveniva normalmente in quel secolo, come nei precedenti, senza possibilità di verificare se le traduzioni da cui si traeva l’insegnamento riflettessero il vero pensiero dell’autore o fossero più o meno approssimative. Dai tempi di San Girolamo (347-420) in pratica nessun cristiano dotto sapeva l’ebraico. Dall’anno 1000 rarissimi sapevano il greco, fra questi Roberto Grossatesta (1175-1253) cancelliere dell’Università di Oxford e poi vescovo di Lincoln, filosofo e teologo, che tradusse  l’ “Etica nicomachea” di Aristotele ed altri testi di vari Padri della Chiesa. Tutte le comunità alloglotte che vivevano il Europa e nel bacino del Mediterraneo comunicavano fra di loro, quando era necessario, tramite qualche interprete; per il resto si ignoravano reciprocamente. Gli unici che erano bilingui erano gli Ebrei, che parlavano con gli Arabi nella loro lingua e con i cristiani nei vari dialetti vernacoli che non erano ancora assunti a dignità di lingua, ma erano peraltro in uso da tutti coloro che vivevano nei territori dov’erano conosciuti.

Contro questa deplorevole lacuna si levò unicamente la voce solitaria di Ruggero Bacone (1204-1292). Nello “Opus tertium” e nella “Lettera a Clemente IV” lamenta che “il sapere dei Latini è desunto in gran parte da opere composte in altre lingue, ad esempio tutto il testo sacro e tutta la filosofia provengono da altre lingue”. Avuto riguardo del tempo di diffusione delle idee, che vigevano in quell’epoca, la Chiesa fu abbastanza solerte nel prendere nota delle osservazioni di Bacone. Infatti circa vent’anni dopo la sua morte, al Concilio di Vienne (1311) fu promulgato il “Decreto sullo studio delle lingue”. In esso si stabiliva che nelle maggiori Università europee ci dovevano essere almeno due insegnanti per ognuna delle seguenti lingue: greco, ebraico, arabo, caldaico (aramaico o siriaco). Tuttavia, è il caso di ricordarlo, l’ebraico, l’arabo e l’aramaico furono introdotti a scopi apologetici per poter meglio confutare gli ebrei e i musulmani, sebbene il testo conciliare imponesse la conoscenza delle lingue degli infedeli per meglio predicare la fede ed interpretare le Scritture.

Questo saggio potrebbe finire qui. Si è cercato di abbreviarlo nei limiti del possibile, pur cercando di offrire al lettore utili notizie che poi potrà approfondire a suo piacimento e secondo i suoi interessi. C’è tuttavia un particolare curioso che vale la pena di rilevare. Non si sa come una copia di una grammatica ebraica del Cinquecento fu consegnata nell’Ottocento al conte Domenico Rossetti che poi la fece pervenire alla Biblioteca Civica. Trattasi del libro “Melè’khet ha-Diqdùq”, “Institutiones grammaticae in Hebream linguam” di Fra’ Sebastiano Münster minorita, stampato a Basilea nel 1524. S’è ricordato questo particolare notevole perché Fra’ Sebastiano fu un fine studioso della lingua ebraica e la sua opera circolò fra i dotti cristiani; è importante ancora perché l’autore si avvalse soprattutto dei testi di Mosè e Davìd Qimchì e tradusse in latino la grammatica di Mosè Qimchì “Mahalak shebile ha-da‘at” (“Il cammino sulle vie della conoscenza”).

Dallo sviluppo e approfondimento di questi lavori hanno avuto origine tutte le grammatiche attuali della lingua ebraica.

 

Conclusione

 

Si è cercato di illustrare in questa relazione alcuni dei molteplici fenomeni linguistici avvenuti nelle lingue aramaica ed ebraica. Se anche questo scritto sembra a prima vista un po’ corposo, si tenga presente che si è cercato di restringere al massimo gli argomenti trattati. Questa tematica è interessante e meriterebbe di essere approfondita. Ed è proprio questo l’augurio che formulo: che ci siano tanti concittadini, animati da buona volontà, che si avvicinino allo studio delle lingue aramaica ed ebraica.

 

 


 

 

ESEMPIO DI TRILITTERISMO NELLA LINGUA EBRAICA.

 

Radice triconsonantica  P Q D   =   F Q D

 

 

I     Pa Qa D                 visitare                                     forma attiva

 

II    Ni Fqa D                essere visitato                                  passiva della I

 

III   Pi QQe D               radunare*                                         intensiva della I

 

IV   Pu QQa D              essere radunato                                passiva della III

 

V    Hi FQIi D              assegnare, collocare                          causativa della I

 

VI   Ho FQa D             essere assegnato, collocato                passiva della V

 

VII  Hi TPa QQe D        radunarsi                                          riflessiva

 

 

*NB! Le consonanti doppie si trascrivono così in caratteri latini, ma in ebraico la consonante va scritta una sola volta. (L’accento generalmente va sull’ultima sillaba).

 

 

Nomi derivati dalla radice P Q D

 

 

Pe QO D                        visita ufficiale

 

Pe Qu DDa H                 provvidenza, previdenza

 

Pa QIi D                         capo – ufficio, impiegato

 

Pe Qi DU T                    ufficio

 

Pi QQU DIi M                comandi, precetti

 

Pi QQa DO N                 deposito

 

Mi FQa D                      appuntamento, censo

 

 

 

 

 

II esempio di trilitterismo.

 

 

Radice: B R Kh

 

I     forma:        Ba Ra Kh                  inginocchiarsi, adorare, benedire

 

(part. pass.) Ba RU Kh                 benedetto, Benedetto (n. pr.)

 

II    forma:        Ni Vra Kh                 essere benedetto

 

III   forma:        Be Re Kh                  benedire, lodare

 

IV   forma:        Bo Ra Kh                  essere benedetto, essere lodato

 

V    forma:        Hi VRIi Kh                fare inginocchiare

 

VI   forma:        Ho Vra Kh                essere fatto inginocchiare

 

VII  forma:        Hi TBa Re Kh           augurarsi del bene

 

 

Nomi derivati dalla radice B R Kh

 

 

Be Re Kh                       ginocchio

 

Be Ra Kha H                  benedizione

 

Be Re Kha H                  pozzo, cisterna

 

Be Re KhIia H                nome proprio (1 Cr 3, 20)

 

Ba R Kh ‘e L                   nome proprio (Gb 32, 2.6)

 

Be Re Khia V                  nome proprio (Zac 1, 7)

 

I Ve Re KhIa HU              nome proprio (Is 8, 2)

 

 

DARIO BAZEC