DARIO BAZEC
BREVE STORIA
DELLE
LINGUE SEMITICHE
Corso di lezioni tenuto
presso
l’Università della terza
età
trieste
25 novembre 2002 – 27
gennaio 2003
Copyright ©
by Dario Bazec
PREMESSA
Il presente corso è una
breve introduzione alla storia delle lingue semitiche, in special modo
dell’aramaico e dell’ebraico. La materia è stata adattata a una serie di sei
conferenze e perciò il contenuto è abbastanza limitato.
Tuttavia, per chi non
conosce tali argomenti, queste semplici pagine possono costituire una fonte
d’informazione a carattere introduttivo. Il campo è vasto e abbastanza
sconosciuto, tranne che a livello accademico.
L’ebraico trova molti
cultori. In questo periodo che è iniziato il dialogo interreligioso, molte
persone si interessano allo studio di questa lingua e alla civiltà che
contrassegna quanto meno 3000 anni. Invece la lingua siriaca-aramaica è molto
trascurata. Ufficialmente è morta nel XIII secolo, ma tuttavia ancora oggi ci
sono delle comunità, anche se non molto numerose che parlano in questo idioma.
Questa lingua è molto importante sia perché è un collegamento tre il mondo
occidentale e il mondo arabo, sia perché è la lingua parlata da Gesù Cristo e
dagli apostoli, oltre che dalle prime comunità cristiane.
Ci auguriamo che la lettura
di queste pagine possa incuriosire e interessare i lettori. Per ulteriori
informazioni scrivere a: dariobazec@libero.it
. Nei limiti del possibile si cercherà di dare altre notizie.
DARIO BAZEC
INTRODUZIONE
Nel corso di lezioni di quest’Anno Accademico si
tratterà un argomento di un certo interesse: la storia delle lingue semitiche.
L’importanza delle lingue
semitiche per noi occidentali deriva da due motivi fondamentali: il primo è di
carattere culturale e il secondo è di carattere religioso.
Il carattere religioso del
mondo occidentale chiaramente deriva dall’armonica fusione della civiltà
greco-romana con il mondo ebraico. Che ciò sia evidente lo dimostra il nostro
modo di vivere e la lunga tradizione che si è espressa non solo nel mondo della
fede, ma anche nella letteratura e nell’arte. Di questo argomento non si
tratterà in queste lezioni, sia per la vastità della materia, sia perché non è
il titolo del corso. Si darà invece rilievo all’influsso culturale delle lingue
del Medio Oriente.
Il carattere culturale delle
lingue semitiche è determinato da un evento che ha cambiato radicalmente la
storia della civiltà: l’invenzione dell’alfabeto. Come risulta dall’archeologia
l’uomo, sin dalla sua comparsa sulla terra, ha sempre lasciato dei segni per
esprimere il suo pensiero, i suoi sentimenti e ogni sua esperienza. Agli inizi
l’uomo faceva uso di raffigurazioni simili all’oggetto da rappresentare. In una
fase più evoluta si passò all’espressione in forma stilizzata. Si formarono
così gli ideogrammi, tuttora in uso presso i popoli dell’Estremo Oriente, e ai
pittogrammi. In una fase ulteriore si arrivò alla scrittura ideografica, formata
in parte da segni pittografici, in parte da segni simbolici e infine con segni
grafici con valore fonetico.
I primi segni con valore
fonetico sono costituiti da diverse scritture con valore sillabico. Fra queste
è importante ricordare la Lineare A in uso a Creta nella prima metà del
II millennio a. C. Finora nessuno è riuscito a decifrare tale scrittura. La Lineare
B, detta anche scrittura micenea risale invece alla seconda metà
del II millennio a. C. Era diffusa in
varie città della Grecia antica. Proprio cinquanta anni fa l’architetto inglese
Michel Ventris, con l’aiuto di John Chadwick, riuscì a decifrare tale scrittura
e accertò che si trattava di una forma di greco antico. In Egitto si sviluppò
la scrittura con geroglifici, mentre in Medio Oriente, in Assiria e
Babilonia si formò la scrittura sillabica detta cuneiforme. La
complessità di queste scritture rendeva difficile la comunicazione tra gli
uomini. Soltanto poche persone, chiamate scribi, sapevano leggere e
scrivere con questi sistemi grafici.
Nella II metà del II
millennio a. C. cominciò a svilupparsi il commercio fra i popoli del
Mediterraneo. Il sistema di scrittura finora in uso complicava di molto le
relazioni interne e internazionali. I grafici più o meno elaborati erano una
copia di ciò che si vedeva: la casa, il palazzo, la città, l’uomo la campagna,
gli animali, ecc. Ma esistevano numerosi termini che era difficile trascrivere,
se non impossibile, fra cui le parole astratte, i sentimenti e altri tipi di
esperienze. La elaborazione e la decifrazione degli scritti era limitata a
poche persone. Si sentì allora la necessità di creare un sistema più semplice
di comunicazione. Ciò avvenne a Ugarit, un centro commerciale, dove si smistava
una grande quantità di merci che arrivavano e partivano da e per tutti i luoghi
dell’entroterra e del Mediterraneo. Lì si udivano parlare tutte le lingue e si
scriveva secondo le modalità usate nei paesi d’origine.
E avvenne il colpo di genio:
la drastica riduzione della scrittura cuneiforme a trenta segni, e ogni segno
corrispondeva a un suono ben preciso, che ogni uomo riusciva ad articolare con
la sua bocca. L’uomo così cominciava a liberarsi dalla dipendenza delle cose
visibili e poteva cominciare a esprimere qualsiasi parola: poteva scrivere, con
più facilità, contratti, leggi, testi religiosi e preghiere, poesie, qualsiasi
altra cosa che l’animo o il sentimento gli ispirava e anche fatti vissuti.
Questo fu l’inizio. In breve
tempo la scrittura alfabetica si perfezionò e fu adattata a ogni lingua,
diffondendosi in tutto il Mediterraneo. Si può dire che questa fu una delle più
grandi invenzioni attuate dallo spirito umano: da questo momento la possibilità
di ogni uomo di comunicare con gli altri uomini divenne illimitata nello spazio
e nel tempo. Senza la scrittura sarebbe stato impossibile ogni progresso. Con
essa invece cominciò a svilupparsi la civiltà, perché l’uomo poteva comunicare
anche a grandi distanze ogni sua esperienza e poteva altresì beneficiare di ciò
che avevano scoperto gli altri. La religione, la scienza e la tecnica, la
filosofia, il diritto, il commercio e ogni forma di conoscenza e attività umana
erano ora a portata di ognuno, anche se l’effetto non fu immediato e ci vollero
molti secoli affinché di ciò potessero beneficiare tutte le persone, di
qualsiasi ceto e indipendentemente dalla ricchezza posseduta. Così l’uomo aveva
imboccato una strada irreversibile verso la conoscenza e verso un nuovo modo di
costruire la realtà. Nel Medioevo, fu formulato un detto che era usato in campo
giuridico: Quod non est in actis non est in mundo, ciò che non è agli
atti non esiste. Potremmo senz’altro estendere la parola actus, inteso
come atto processuale, a qualsiasi forma di scritto e parafrasare l’espressione
in questi termini: Quod non est in scriptis non est in mundo, ciò che
non è scritto non esiste.
Cenni di storia delle lingue
semitiche
La scrittura e l’alfabeto
Nella scrittura ebraica, da un’osservazione a prima vista
, si può notare una certa uniformità. Si provi ad immaginare un quadrato che
idealmente circoscriva ogni carattere: si vedrà che soltanto una supera il
limite superiore (“lamed”, gr. “lambda”) e solo una quello inferiore (“qof”,
it. “qu”) mentre ci sono quattro che eccedono ancora il limite inferiore ma
soltanto in fine di parola. Inoltre ci sono alcune lettere che occupano
soltanto uno o due lati del quadrato ideale. Per questo motivo tale grafia si
chiama scrittura ebraica quadrata.
Questa grafia che veniva utilizzata nei manoscritti, è stata adottata
anche nei primi libri a stampa.
Ciò che accomuna la nostra scrittura con quella
ebraica è un’origine comune. Basti pensare che la parola alfabeto oltre
che a derivare dalle prime due lettere della lingua greca (“alfa” e “beta”).
proviene anche dalle prime due di quella ebraica (“aleph” e “beth”).
La scrittura
prima dell’alfabeto
Una cosa ben nota è che si può assegnare un’origine
e quindi datare la civiltà umana da quando le persone, oltre che comunicare le
proprie idee a voce, hanno potuto scriverle per trasmetterle ad altri contemporanei
e per i posteri. Di ciò l’uomo è stato sempre cosciente e sin dall’antichità ci
sono pervenuti due miti. Gli Ebrei che avevano ricevuto la rivelazione
ritenevano che fosse stato Dio ad insegnare ad Adamo ed Eva a parlare, leggere
e scrivere. I Greci e i Romani che non avevano ricevuto la rivelazione, pur
ammettendo che furono i Fenici ad insegnare loro la scrittura, pensavano che
questi ultimi l’avessero appresa dagli Egiziani. Tali tradizioni, facilmente
conciliabili, rimasero un convincimento comune fino al XIX secolo. La
spedizione di Napoleone in Egitto (1798-1799) e il successivo sviluppo di studi
archeologici in quel paese e nel Medio Oriente, portarono alla luce una vasta
documentazione originale, conservata meglio di qualsiasi manoscritto: erano le
tavolette di argilla. Con un lavoro di paziente decifrazione sir Henry
Rawlinson (1810-1885)(7) riuscì a scoprire il significato di quegli scritti. Si
trattava di documenti in parte scritti in caratteri logografici e in parte con
segni cuneiformi. I simboli logografici derivano dalla lingua sumerica, mentre
i caratteri cuneiformi erano la scrittura sillabica della lingua accadica o
assiro-babilonese. Si scoprì allora che tale lingua aveva singolari somiglianze
con l’ebraico anzi tramite quest’ultimo si poteva pervenire alla decifrazione e
comprensione di altri scritti.
Uno dei due miti cominciava
a vacillare; l’altro tuttavia poteva essere ancora sostenuto. Mancava infatti
l’anello di congiunzione tra il cuneiforme e l’alfabeto anche se si sapeva ormai
che l’accadico e l’ebraico erano strettamente imparentati in quanto facevano
parte del ceppo di lingue di cultura semitica.
Le ricerche continuarono; se la struttura delle due
lingue era simile, doveva pur esistere un collegamento anche dal punto di vista
grafico.
La scoperta decisiva avvenne in questo secolo a
partire dal 1930 a Ras-Shamra, vicino a Lattakie in Siria, nel luogo dove
sorgeva l’antica capitale Ugarit, sono state scoperte migliaia di tavolette in
terracotta incise con una scrittura formata solo da una trentina di caratteri
cuneiformi. Ugarit era una città-stato; pur essendo vassallo dell’Impero
Ittita, in tale luogo si formò un ambiente culturale in cui erano presenti
cinque sistemi di scrittura: cuneiformi assiro-babilonesi, geroglifici ittiti,
scrittura lineare minoica, scrittura cipriota sillabica e geroglifici
egiziani. Tutti questi sistemi di
scrittura erano molto complessi: la presenza dell’ideogramma o del logogramma
rendeva ancora impossibile l’astrazione concettuale; il mescolamento e
l’adattamento di sillabari di una lingua semitica (accadico) ed una lingua
indo-europea (ittita) complicava ancora di più il problema. La lingua scritta
in tal modo non poteva essere appresa da tutti in modo sufficientemente rapido
e ciò rendeva difficoltoso il comunicare, la stipulazione di contratti, ecc. Il
colpo di genio fu la semplificazione del cuneiforme assegnando al suono di ogni
consonante un segno convenzionale e aggiungendo tre segni vocalici
corrispondenti alle tre vocali dell’antico semitico (a, i, u). Ciò avveniva tra
il XIV e il XIII sec. a. C. Il sistema risolvente era stato trovato:
l’adeguamento del segno al suono, anche se con approssimazione, rimarrà
nei secoli successivi l’unico modo adottato per l’alfabetizzazione dei popoli.
La parola era giunta alla sua massima astrazione: non contava più l’immagine
dell’oggetto da esprimere, ma il nome attribuito allo stesso oggetto; tale nome
poteva essere scritto e compreso da chiunque tramite i segni convenzionali
assunti per rappresentare la lingua parlata. Nella seconda metà del 1400 a. C.
Ugarit fu colpita da un terremoto; riuscì a risollevarsi, ma per poco. Nel 1195
a. C. i “popoli del mare” la distrussero definitivamente. Scomparve così del
tutto dalla storia questa città di fine cultura e rimase nell’oblio per più di
3000 anni, fino a quando nel 1929, in seguito a degli scavi fatti a Ras Shamra,
ne furono scoperte le rovine. Ma intanto ciò che di più originale aveva
prodotto, la semplificazione della scrittura, si era già diffuso nelle località
circostanti. Tuttavia la questione dell’origine dell’alfabeto è più complessa,
in quanto da scavi fatti nel 1905 nella penisola del Sinai ed aree circostanti
si è rilevata l’esistenza di un tipo di scrittura chiamato “proto-cananeo” .
Degli operai (o schiavi) semiti occidentali erano allora stati mandati a
lavorare in quella penisola e a contatto con i geroglifici egiziani inventarono
il primo sistema di scrittura alfabetico. Come si vede il mito tramandato dai
Greci non era del tutto infondato. Ma probabilmente si tratta di uno dei
molteplici tentativi fatti per semplificare la scrittura. Resta il fatto che
l’alfabeto ugaritico dal punto di vista formale è migliore. Afferma in
proposito M. F. Fales: “Particolarmente sorprendente per la sua unicità è poi
il sistema di scrittura con il quale troviamo trasmessa la lingua ugaritica: si
tratta infatti del primo compiuto sistema alfabetico, comprendente solo
30 segni di valore consonantico, modellato tuttavia dal punto di vista formale
sul cuneiforme”.
Nella tavola seguente è
riportato l’alfabeto ugaritico.
La scrittura ugaritica è
fondamentalmente costituita da un alfabeto consonantico, scritto in caratteri
cuneiformi semplificati. Gli inventori combinarono l’idea dell’alfabeto con lo
stile della Mesopotamia di incidere cunei sull’argilla con uno stilo.
Però a differenza dell’alfabeto
accadico, che era cuneiforme, ma sillabico, a Ugarit l’alfabeto ugaritico era
soltanto consonantico. La scrittura ugaritica, come l’accadica, è scritta da
sinistra a destra. Ciò è simile alle lingue indo-europee, ma l’opposto del
fenicio, dell’ebraico, dell’aramaico e dell’arabo che si scrivono da destra a
sinistra. Soltanto quattro testi ugaritici sono scritti da destra a sinistra.
Una peculiarità tipica dell’ugaritico è che ci sono tre lettere Alef
(diversamente dalle altre lingue semitiche sopra citate). La vocalizzazione
delle tre lettere Alef avviene in a,
i, e u.
TAV. I
1 2 3 4 5 6
Inserendo a margine della tabella, in verticale, le
lettere a, b, c, d, e si può osservare quali suoni non sono stati presi
in considerazione per la formazione dell’alfabeto fenicio e, di conseguenza,
quello ebraico e aramaico:
a4, c4, c6, e1, e2, e4, e5, e6.
Considerando che la tabella è costituita da 30
segni, sottraendone 8, rimangono i 22 segni dell’alfabeto fenicio, scritto
ovviamente in altra maniera.
Per l’alfabeto arabo, di 28 lettere, invece sono
state eliminate soltanto e4 ed e5 e la lettera p è diventata f.
E’ singolare come si siano mantenuti quasi inalterati i suoni per circa 1800
anni prima che l’alfabeto arabo fosse messo in forma scritta. Infatti, Ugarit
fu definitivamente distrutta nel 1195 a. C. e l’alfabeto arabo fu ideato almeno
pochi anni prima della morte di Maometto (632 d. C.).
TAV. II
La nascita dell’alfabeto
Era scomparsa dunque Ugarit, ma il sistema ideato si
era già diffuso. I Fenici avevano già adottato un alfabeto cuneiforme di 22
segni; da questi all’invenzione dell’alfabeto, in senso stretto, il passo fu
breve. In prima analisi si può osservare la adattabilità dei segni a qualsiasi
lingua parlata, apportando delle riduzioni o degli aumenti di lettere o ancora
trasformando il valore dei segni stessi. Così il passaggio dall’alfabeto
fenicio al proto-ebraico all’aramaico o all’ebraico. non comportava alcuna
difficoltà in quanto ciascuno di questi alfabeti è composto da 22 segni dello
stesso valore (cfr. in allegato 1: Tavola genealogica degli alfabeti). Il
problema dell’adattamento dell’alfabeto originatosi in un ambiente di cultura
semitico si presenta quando venne adottato dai Greci che l’appresero dai
Fenici. Il problema dell’adattamento dell’alfabeto originatosi in un ambiente
di cultura semitico si presentò quando venne adottato dai Greci che l’appresero
dai Fenici, alla fine del cosiddetto “medioevo ellenico”. I Greci
ormai si erano dimenticati, né più sapevano che fosse esistita una
scrittura complessa come la “lineare minoica A e B”.
Come si potrà vedere più avanti con la spiegazione
della “Masorah” l’alfabeto nacque soltanto consonantico. Le vocali esistevano,
ma soltanto parlate e non scritte. Osservando le tavole allegate si potrà
osservare che la radice PQD può essere letta almeno con tre vocalizzazioni
diverse. Chi parla correntemente l’ebraico o lo conosce bene sa con certezza la
vocalizzazione adeguata dal contesto della frase. Per le lingue di origine
indoeuropea la questione si pone altrimenti. Come spiega il Carrez dalle tre
lettere MRT si possono formare molteplici parole di significati completamente
diversi fra di loro. Per non incorrere in equivoci ed incomprensioni è
necessaria perciò la vocalizzazione espressa, scritta e non soltanto parlata.
Ecco dunque che i Greci, pur lasciando sostanzialmente immutata la struttura
dell’alfabeto, sostituirono le gutturali e due semiconsonanti con le vocali;
con l’aggiunta di altro quattro caratteri, di cui due al posto di altri due
eliminati, si forma la prima grafia di una lingua indoeuropea occidentale, per
un totale di 24 segni.
STORIA DELL’ARAMAICO
I Siriaci
Il popolo
aramaico è vissuto da più di tremila anni nella sua area tradizionale “Aramea”,
situata nel Medio Oriente. I contributi culturali degli Aramei nella storia
sono stati di grande rilevanza. Nell’antichità gli Aramei erano prevalentemente
commercianti; attraverso la loro attività diffusero la cultura e l’alfabeto. Il
loro commercio si svolgeva prevalentemente lungo l’antica “Via della seta”. La
loro lingua, d’apprendimento relativamente semplice, e il loro alfabeto di 22
lettere, si diffusero presto in un vasto territorio dell’Asia. Molte lingue
trascrivevano le loro parole con l’alfabeto aramaico. Anche oggigiorno, molte
lingue usano un alfabeto che ha chiare origini aramaiche, salvo ovviamente
alcuni adattamenti fonetici.
Sin dal IV
secolo d. C. gli Aramei persero la loro
indipendenza e non la riacquistarono mai più. Il loro territorio fu conquistato
dall’Impero Bizantino e nel 1453 furono sottomessi all’Impero Ottomano.
Tuttavia sotto il dominio dei Turchi conservarono la loro unità geografica. Nel
1918 l’Impero Ottomano fu sconfitto e suddiviso in zone d’influenza francese e
inglese, che divennero altrettanti stati: Siria, Turchia, Iraq, Libano,
Giordania. I nuovi confini non tennero in alcuna considerazione gli stati
nazionali preesistenti, come l’Armenia,
l’Aramea e il Kurdistan, e queste popolazioni di etnie omogenee furono
divise sotto il dominio di stati diversi.
Nel 1920 una delegazione siro-aramaica si recò a Sévres con la speranza
di ricuperare la loro indipendenza nei territori che storicamente erano sempre
stati aramei. Ma l’Inghilterra e la Francia non riconobbero il loro diritto e
così la popolazione aramaica fu suddivisa tra la Turchia, l’Iran, l’Iraq e la
Siria. La Turchia e i paesi arabi iniziarono un’azione persecutoria nei loro
confronti e i nomi di territori, paesi, villaggi e fiumi furono cambiati in
nomi turchi e arabi.
Attualmente
vivono in tutto il mondo 3.432.000 Aramei. Di questi la stragrande maggioranza
vive nei loro territori nativi, ma sono, come già detto, suddivisi in diversi
stati: Iraq (2.000.000), Siria (700.000), Iran (50.000), Libano (40.000),
Russia (35.000), Turchia (20.000), Armenia (15.000) e Georgia (14.000). Gli
altri sono emigrati negli altri continenti e i gruppi più numerosi si trovano
negli Stati Uniti (300.000), nel Brasile (80.000), in Svezia (35.000), in
Australia (30.000), in Germania (30.000), in Canadà (20.000), ecc.
Gli Aramei
Gli antichi Siriaci, gli
Aramei, avevano un sistema istituzionale di città-stato, comune del resto a
quasi tutti i popoli antichi (Greci, Romani, ecc.). Dal XIII secolo a. C. c’era
circa una decina di città-stato diffuse in una grande area che attualmente è
costituita dagli stati di Siria, Libano, nord d’Israele e nord del Giordano,
Iraq e il sud della Turchia. La maggior parte degli stati aramei avevano il
nome prefisso dalla parola Aram-: Aram-Soba, Aram-Damasco, Aram-Maaka,
ecc.; oppure veniva premessa la parola Beth- (casa): Beth Adini, Beth
Zamani, Beth Bakhiani, ecc.
Dopo il 612 a. C. lo stato
dell’Assiria fu conquistato dagli Aramei Babilonesi e dai loro alleati, i medi. Gli Aramei di Babilonia formarono
un grande impero, noto anche come il secondo stato di Babilonia o anche il
Nuovo Impero babilonese. Questo stato si chiamava anche stato dei Caldei, in
quanto prese il nome della tribù Kaldu che, muovendosi dalle terre circostanti
il Golfo Persico, aveva occupato Babilonia, introducendo colà la lingua e le
consuetudini aramaiche. Un re noto di questo stato è Nabucodonosor, che deportò
gli Ebrei a Babilonia nel 597 e nel 586 a. C. Bisogna osservare tuttavia che si
era ancora conservato l’uso della lingua accadica. Nel 539 a. C. i Persiani
posero fine all’Impero Babilonese e liberarono gli Ebrei, che in parte
tornarono in Israele, mentre altri rimasero a Babilonia.
Nell’Antico Testamento si
narra di una lunga relazione tra gli Ebrei e gli Aramei. Anzi gli stessi Ebrei
originariamente erano Aramei. I patriarchi Abramo, isacco e Giacobbe erano Aramei, originari di Ur dei Caldei
(cfr. Dt 26, 5: “Mio padre era un Arameo errante”). Dopo l’esodo dall’Egitto il
popolo d’Israele si stabilì nella terra
di Canaan (Fenicia) e ne assorbì il linguaggio, abbandonando così l’aramaico.
Soltanto dopo il ritorno da Babilonia gli israeliti
ricominciarono a parlare in aramaico e l’ebraico era usato per la liturgia e a
livello colto.
Durante il 200-100 a. C. gli
Aramei ricostituirono diversi stati nazionali, che durarono fino al III secolo
d. C. Fra i più importanti stati aramei è importante ricordare: i Nabatei con
capitale Petra (Giordania), Damasco, Emesa, Palmira (Siria), hatra, Zingara (Iraq), Edessa, Malata e
Amed (Turchia). Dopo di che gli Aramei persero per sempre la loro indipendenza
e furono prima governati dai Romani, Bizantini, Persiani, Arabi, Turchi, ecc.
Secondo antiche
tradizioni cristiane il re arameo Abgar V Ukomo (Il Nero) di Emessa (Urhoy) si
convertì al cristianesimo già ai tempi di Gesù Cristo. Il re Abgar soffriva di
lebbra e il suo dottore non riusciva a curarlo. Egli udì parlare di un uomo
saggio di nome Gesù che viveva in Palestina e che questa persona aveva
effettivamente un rimedio per la sua malattia. Egli inviò una delegazione a
Gesù con l’incarico di recapitargli una lettera, con la quale lo invitava a
Edessa per curare il re. Gesù inviò la sua risposta scrivendo che poteva
recarsi a Edessa perché la sua missione era un’altra. Tuttavia Gesù ordinò a
Taddeo di recarsi colà dopo la sua Ascensione per curare e guarire il re dalla
sua malattia. Così Abgar V e tutto il popolo di Edessa divennero cristiani. Lo
stato di Edessa più tardi divenne famoso per questo evento e per il possesso
delle menzionate lettere scambiate tra Abgar e Gesù. I visitatori di gran parte
dei paesi cristiani andarono a Edessa per vedere questa corrispondenza e così
poterla copiare. Dello scambio delle lettere tra Abgar e Gesù scrisse, nella
prima metà del IV secolo, Eusebio di Cesarea nella sua “Storia della Chiesa”.
Edessa più tardi divenne un importante centro della cultura cristiana siriaca,
così come Antiochia divenne un grande cento della cultura greca.
La variante
dialettale dell’aramaico di Edessa divenne la lingua ufficiale della giovane
Chiesa cristiana aramea. In questa lingua furono scritti migliaia di libri e
questa è la lingua aramaico-siriaca, che oggi si usa nell’insegnamento e nelle
Chiese che usano il siriaco. I cristiani Aramei andarono in missione in molti
paesi: India, Tibet, Mongolia e Cina. Molti gruppi etnici dell’Asia centrale si
convertirono al cristianesimo, come parte dei Mongoli e dei Turchi e usavano la
liturgia araico-siriaca. Ma dopo pochi secoli essi si convertirono all’Islam.
Il nome di Siriaco divenne perciò totalmente collegato agli Aramei cristiani.
Nello stato del Kerala (India meridionale), ci sono ancora chiese siriane con 10-12
milioni di fedeli che usano ancora il siriaco come lingua ecclesiastica. A
proposito dei cristiani del Kerala è interessante far osservare che essi
ritengono di essere stati evangelizzati direttamente dall’apostolo Tommaso,
sebbene non ci siano prove sicure. Alcuni studiosi affermano invece che ciò
avvenne nel corso del IV secolo d. C.
nel corso dell’apostolato missionario della Chiesa siriaca del Medio Oriente.
Nel V secolo la
Chiesa orientale era divisa nelle seguenti Chiese siro-aramaiche:
Chiesa siriaca
dell’est, parte nestoriana. Essa fu fondata nel V secolo con l’adesione di quasi tutte le Chiese aramaiche
orientali (specialmente in Iraq e Iran). Dal 1960 è stata divisa in due parti,
ciascuna con il suo patriarca, uno negli USA
e l’altro in Iraq.
Chiesa siriaca
occidentale. Tutti gli Aramei cristiani ad ovest dell’Eufrate aderiscono a
questa Chiesa. Nel 451 d. C. la Chiesa occidentale è stata divisa in due parti:
Chiesa siriaca
ortodossa che esiste soprattutto in Siria, Libano e Iraq, con il suo patriarca
a Damasco.
Chiesa siriaca
ortodossa “Melkita”, detta anche “Rum”, detta anche Greco-ortodossa: si trova
in Siria e libano e al sede del
patriarca è Damasco.
Chiesa siriaca
Maronita, fondata nel VII e VIII
secolo. Si trova in Libano con il suo patriarca ed è una delle più grandi
Chiese aramee.
Chiesa siriaca
orientale, cattolica e di rito caldaico, del XVI secolo. Si trova soprattutto
in Iraq e Baghdad è la sede del patriarca.
Chiesa siriaca
cattolica del XVII-XVIII secolo. Si trova in Libano, Siria e Iraq e la sede
patriarcale è Beirut.
Chiesa greca
cattolica , “Rum” o “Melkita” del XVIII secolo. Si trova soprattutto in Siria e
Libano, con sede patriarcale a Damasco.
Chiese
protestanti, del XVIII secolo. Si trovano soprattutto in Siria e Libano con
sedi distinte.
Altri piccoli
gruppi cristiani e altri gruppi religiosi etnici di lingua aramaica, come i
Mandei in Iraq e Iran.
Gli
Aramei durante il Medioevo
Durante il VII
secolo ci fu l’espansione islamica anche nei territori dell’Aramea. In conformità
alla legge islamica la società era divisa in quattro gruppi. Gli Aramei
cristiani facevano parte del terzo gruppo di cittadini ed erano obbligati a
pagare una doppia tassa allo stato, mentre i musulmani erano esentati dalle
tasse. Molti Aramei furono costretti a convertirsi all’Islam, quando non
potevano pagare le tasse. Essi erano oppressi e discriminati economicamente,
socialmente, etnicamente e culturalmente ed erano costretti a convertirsi alla
nuova religione se volevano vivere da cittadini liberi. Col passare del tempo
ci fu una recrudescenza nella persecuzione e molti Siriaci cristiani si
convertirono all’Islam. Secondo le parole di maometto
l’arabo era la lingua divina e perciò tutti i cittadini dovevano apprenderla.
Con l’adozione della lingua araba molti Siriaci cominciarono gradualmente a
dimenticare il siriaco. Attualmente una gran parte di Aramei parla soltanto
arabo, mentre è rimasto un piccolo gruppo che conserva ancora l’aramaico, con
le varianti moderne, assimilate in parte dagli Arabi e in parte dai Turchi.
Fino agli ultimi anni del XIII secolo gli Aramei erano la maggioranza della
popolazione nell’Aramea (Medio Oriente), ma alla fine di quel secolo il
territorio arameo fu conquistato dai Mongoli al comando di Tamerlano. Gran
parte della popolazione fu massacrata e quelli che sopravvissero, divennero una
minoranza. Durante gli ultimi 700 anni i Siro-aramei furono tormentati da
massacri per diversità di religione, eseguiti dai fondamentalisti Curdi e
Turchi. La più grande carneficina avvenne nel 1915, quando da 300.000 a 500.000
Aramei cristiani furono brutalmente uccisi nel sud-est della Turchia.
Le
lingue aramaiche
L’aramaico è
una delle lingue più antiche ancora in uso. E’ la sola lingua semitica nel
mondo che sia stata usata verbalmente e in iscritto, senza interruzioni, per
più di 3000 anni. Le più antiche iscrizioni in aramaico, che sono note,
risalgono al X secolo a. C.
Nella sua lunga
storia si può suddividere l’aramaico in cinque fasi evolutive:
Aramaico
antico, 925 – 700 a. C. A questo periodo risalgono le
prime iscrizioni ritrovate. Si tratta della forma di un aramaico arcaico.
Aramaico
ufficiale, detto anche aramaico imperiale, 700 – 200 a. C. Durante questo
periodo la lingua ebbe un grande sviluppo geografico nei territori dell’Egitto,
Arabia, Israele, Siria, Babilonia, Assiria, Armenia, la valle dell’Indo e
Pakistan.
Aramaico
medio, 200 a. C. - 200 d. C.
Aramaico
tardo, 200 d. C. – 1300 d. C. In questo periodo si
accentuano sempre di più le differenze di due dialetti, l’occidentale e
l’orientale, che assurgono a dignità di lingua. Sebbene la grammatica rimanga
sostanzialmente uguale, esistono delle differenze fonetiche, in molte parole,
nella pronuncia delle vocali a ed e. A partire dal VII secolo il
popolo aramaico entra sotto l’influenza dell’Islam e avvengono i fatti storici già narrati precedentemente.
Aramaico
moderno, dal 1300 ai nostri giorni. Esso riguarda tutte
le forme di aramaico attualmente parlate, con l’assimilazione di neologismi
derivati, a seconda della zona d’influenza, dall’arabo, turco e persiano.
Il dialetto aramaico che era
parlato all’interno dei confini dell’Assiria e di Babilonia, nel VII secolo a.
C. ebbe la prevalenza su tutti gli altri dialetti. Alla fine di detto secolo
l’aramaico divenne la lingua internazionale della diplomazia,
dell’amministrazione pubblica della cultura e del commercio e continuò questa
sua funzione nel Medio oriente,
nella sua variante del siriaco, fino al VII secolo d. C. quando, con l’avvento
dell’Islam, fu sostituito dall’arabo.
Quando i Persiani Achemenidi, guidati da Ciro nell’anno 539 a. C., conquistarono Babilonia e misero fine all’Impero Babilonese aramaico, fondarono un grande Impero che andava dal nord della valle dell’Indo fino al Nilo meridionale. I persiani continuarono ad usare l’aramaico come lingua scritta per l’amministrazione. Da ciò si deve il nome dato a questa forma di lingua detta “aramaico imperiale”. Siccome l’aramaico era diffuso nel decaduto impero babilonese, i Persiani, accanto a questa lingua che rimase ufficiale, dovettero prendere in considerazione anche le lingue parlate nei nuovi territori. Perciò alcuni documenti emessi dalla cancelleria imperiale più volte erano bilingui e trilingue. In ogni caso l’aramaico era la lingua dominante.
Nel 334 a. C. Alessandro
Magno, figlio di Filippo il Macedone, dopo aver occupato tutta la Grecia,
comincia ad espandere il suo Impero nell’Asia sino ad affrontare il re Dario
III: il re persiano fu sconfitto la prima volta a Isso, in Cilicia, nel 333 a.
C. e la seconda e definitiva nel 331 a. C., nella battaglia di Gaugamela
(attuale Iraq). Alessandro conquistò tutto l’impero
persiano fino all’Indo e all’Egitto. Impose la lingua greca in tutti i
territori occupati e l’espansione di tale lingua continuò con i suoi successori,
i Diadochi. Tuttavia a oriente quando i Parti presero il potere in Iran,
iniziando una nuova era nel 247 a. C., si creò una situazione linguistica
singolare: era conosciuto il greco, si continuò a parlare in aramaico e il
partico fu trascritto secondo l’alfabeto aramaico. L’ellenismo, diffuso dai
Greci e dai Macedoni, penetrò a diversi livelli. Parte della popolazione
conquistata, oltre ad adottare la lingua greca, come lingua d’uso, cominciò
anche ad imitare gli usi e costumi greci, in parte mescolandoli con i propri.
Altri, pur introducendo per necessità nel loro linguaggio il greco, rimasero
attaccati alle loro tradizioni e alla propria lingua originale. Altri, infine,
come i Farisei furono decisamente anti-ellenici e tramandarono questa loro
avversione alle scuole rabbiniche, tanto che nel Talmud si cita l’episodio
dell’ebreo che chiedeva al suo rabbino se fosse opportuno studiare il greco.
Gli fu risposto che senz’altro era lodevole farlo, però doveva ricordarsi che
ogni ebreo deve meditare la Toràh giorno e notte. Quindi poteva studiare il
greco in un periodo del giorno che non fosse né giorno, né notte.
Nel 146 a. C. avvengono nel
Mediterraneo due eventi collegati fra loro: i Romani, dopo aver ingaggiato una
guerra decisiva in Occidente e in Oriente, radono al suolo nello stesso anno
Cartagine e Corinto. Entrambe le città verranno ricostruite, ma come colonie
romane. Si sviluppa così, nelle due direttrici indicate, un processo che Roma
aveva già iniziato nella Magna Grecia: la romanizzazione. In Occidente e in
Oriente vengono fondati municipi e colonie. Viene concessa agli abitanti
liberi, con modalità diverse, la cittadinanza romana. Le nuove città fondate
dai Romani vengono popolate dai veterani, che avevano concluso il loro servizio
militare. Ai tempi di Augusto, nel 15 a. C. l’antica città di Berythus,
l’attuale Beyruth, verrà ingrandita e dedotta come colonia romana con il nome Colonia
Iulia Augusta Felix Berytus, che nei decenni successivi diverrà, in tutto
l’Impero, uno dei più grandi centri del diritto romano.
La popolazione residente
così diventa bilingue o anche trilingue. Questa nuova situazione sociale
provocò una frammentazione del mondo aramaico, una volta unito. Già nel I
secolo d. C. si formano numerosi dialetti indipendenti fra di loro, che però
assurgono a dignità di lingue in quanto formano una loro letteratura e sono
parlate da una popolazione.
L’aramaico si
divide così in due rami principali: l’aramaico occidentale, scritto e parlato
nei territori costieri del Mediterraneo e l’aramaico orientale, diffuso nella
zona continentale a oriente di Edessa (l’attuale Urfa, ai confini tra la
Turchia e la Siria).
l’aramaico occidentale, a sua
volta, ha delle varianti diverse: l’aramaico giudaico-palestinese, l’aramaico
samaritano, l’aramaico siro-palestinese cristiano, come pure delle
sottovarianti, come ad esempio, l’aramaico galilaico, parlato da Gesù Cristo e
gli Apostoli (cfr. Lc 22, 59 e At 2, 7). I Galilei erano conosciuti in tutto il
mondo aramaico in quanto pronunciavano nella stessa maniera le lettere
laringali o gutturali (’alef, he, heth, ‘ayn), come
se si trattasse sempre dello stesso suono ’alef; per esempio Gesù,
quando si reca nella Decapoli, oltre il fiume Giordano, e guarisce un sordomuto
dice: “Effatà, apriti” (Mc 7, 34). La pronuncia corretta invece avrebbe
dovuto essere: “Effatahà”, in quanto aprire
si dice in aramaico petàh, in ebraico patàh e in arabo fàtaha.
L’aramaico orientale era
invece così suddiviso: aramaico babilonese, che diede origine all’aramaico
talmudico, aramaico palmireno, aramaico mandaico, e aramaico-siriaco in
Mesopotamia. L’aramaico-siriaco, inoltre, si era suddiviso siriaco occidentale
e siriaco orientale: la differenza era puramente fonetica e riguardava la
diversa pronuncia, in determinati casi, delle vocali a, e e u.
Ad esempio per dire: “Padre
nostro, che sei nei cieli”, in siriaco occidentale si dice: “ ’Avun
dvashmayo, nethkadash shmokh”, in siriaco orientale invece: “ ’Avon
dvashmaya, nithkadash shmakh”.
Anche l’alfabeto subì delle
varianti stilistiche. Rimasero sempre le 22 lettere, ma si formarono diverse
grafie. Rimase immutato l’aramaico originale, la cosiddetta scrittura
quadrata, usata soprattutto nell’aramaico babilonese e nell’ebraico. Le due
forme di siriaco ebbero in comune la grafia detta estranghela, a
caratteri quadrati, ma più stilizzati. Il siriaco orientale usa pure caratteri
quadrati, molto simili alla scrittura estranghela. Il siriaco
occidentale invece cominciò a usare caratteri corsivi, simili a quelli che
sarebbero diventati propri dell’arabo.
Ai nostri giorni la
denominazione di siriaco è riservata solo all’aramaico-siriaco
occidentale, soprattutto dai maroniti e melkiti.
L’aramaico-siriaco orientale si chiama semplicemente aramaico e il neo-aramaico,
viene chiamato da molti assiro, considerano la loro patria d’origine
l’Assiria e lel oro città più importanti Ashur e Nineveh. In Internet è
pubblicato il giornale Nineveh on line (in lingua inglese).
E la lettera è stata letta
davanti a lui (Gesù). Nella stessa erano scritte le seguenti parole: “Abgar Ukomo (Il Nero) a Gesù, il buon
medico, che è apparso nella città di Gerusalemme.
Salve, o Signore! Ho sentito
parlare di te e delle tue guarigioni, che tu non guarisci con medicine e medicamenti,
ma con la tua parola fai vedere ai ciechi, fai camminare gli zoppi, fai
purificare i lebbrosi, fai sentire i sordi, hai cacciato gli spiriti malvagi e
i demoni, guarisci il misero con la tua parola e fai anche risorgere i morti.
Quando ho udito queste grandi meraviglie che fai, sono giunto alla conclusione
o che sei Dio che è sceso dal cielo per fare queste cose, o sei il figlio di
Dio, che fai tutto ciò. Perciò ti
scrivo per chiederti di venire da me, così che io possa prostrarmi dinnanzi a
te, e tu mi possa guarire dalla mia malattia, poiché credo in te. Ho sentito ancora, che gli ebrei parlano
male di te e ti perseguitano, e vogliono anche crocifiggerti, perché intendono
toglierti di mezzo. Ma io ho una
piccola provincia, ma è bello e per due (noi e i Romani) sufficiente abitare in
pace”.
Quando Gesù ricevette la
lettera nella casa del sommo sacerdote degli Ebrei, disse al corriere Hannan:
“Va' e di' al tuo signore, che ti ha mandato a me: «Sii benedetto tu, perché non mi hai visto e hai creduto in me!»
Perciò è scritto così, riguardo a me, per quelli che mi vedono e non vogliono
credere in me. E per quanto mi hai scritto che dovrei venire da te, sappi che
ciò per cui sono stato inviato qui, si
è ora compiuto e sto per ascendere al Padre mio che mi ha inviato; e quando
sarò asceso a lui, ti spedirò uno di miei discepoli, che ti guarirà e ti curerà
per la tua malattia, e ogni persona che è con te sarà condotta alla vita
eterna. E la tua città sarà benedetta, e nessun nemico nel futuro prevarrà su
di essa”.
Scrittura
e grammatica nella lingua ebraica
L’alfabeto ebraico
L’alfabeto fenicio che fu adattato al greco,
conservò tuttavia la sua struttura rigida nelle lingue di cultura semitica. La
riduzione dei caratteri da 30 a 22 si adattava bene alla lingua fenicia, come
pure all’aramaico e all’ebraico. Benché il sistema fonetico di queste lingue
fosse più ricco di suoni, mancavano almeno sei consonanti; si trattava di
varianti di altre sei consonanti. Sono le sei consonanti raggruppate
mnemonicamente con due parole Be Ga D
Ke Pa T (=scommise sulla buona fortuna), che secondo determinate regole
possono assumere il suono esplosivo o quello aspirato o fricativo (Ve Gha dh Khe Fa Th). Tuttavia l’alfabeto non fu soggetto ad altre
variazioni e fu rapidamente adottato in tutta l’area del Medio Oriente dove si
parlavano numerose lingue del ceppo di cultura semitica. Salvo qualche variante stilistica dovuta più
che altro al mezzo di scrittura, tutte le lingue adottarono l’alfabeto fenicio.
Con l’affermarsi dell’impero assiro (VIII sec. a C.)
la lingua aramaica divenne la “lingua franca” e fu usata a livello commerciale
e diplomatico. La fortuna di questa lingua continuò con i Babilonesi e i
Persiani. Anche se oggi è parlata soltanto in qualche località della Siria in
forma di neo-aramaico, questa lingua è ancora pronunciata in alcune preghiere
della liturgia ebraica. Quello che interessa in ciò che si sta trattando è che,
con il ritorno di parte degli ebrei da Babilonia, nella loro cultura ci fu una
trasformazione radicale. Innanzi tutto si andava progressivamente estendendo
fra la popolazione ebraica, l’aramaico come lingua parlata. Esdra stabilì che
la Torah (Pentateuco) fosse letta al popolo. Successivamente fu suddivisa in
brani e ogni sabato veniva letta nelle sinagoghe di nuova formazione; inoltre
fu necessario procedere alla traduzione (“targum”) della Bibbia in aramaico.
Per uniformità di scrittura si adottò gradualmente la scrittura aramaica
quadrata. Il primo documento scritto secondo la nuova grafia risale al 516 a.C.
e fu trovato in Egitto. Ma fu soltanto a partire dalla metà del II sec. a.C.
fino al I sec. d.C. che la scrittura
quadrata si perfezionò ulteriormente.
Prima di trattare più diffusamente l’argomento che riguarda la grafia
con cui si scrivevano i testi biblici, si ritiene utile, per completezza, dare
uno sguardo sintetico alla scrittura ebraica corsiva.
La scrittura ebraica corsiva
Il primo tipo di scrittura ebraica corsiva ebbe un
periodo di vita relativamente breve. Mentre l’adozione della grafia aramaica
formalmente prendeva piede, alla fine del regno degli Asmonei e all’inizio del
regno di Erode (I sec. a.C.) si sviluppò la scrittura corsiva. In opposizione
all’aramaico quadrato, la grafia era rotonda con la tendenza a congiungere le
lettere e formare dei legami fra di esse. Questo nuovo sistema non ebbe modo di
svilupparsi adeguatamente. Con la Seconda Rivolta contro i Romani (132-135
d.C.) esso finì, almeno presso gli Ebrei. Si affermò invece presso i Siriaci e
poi gli Arabi.
Il 135 d.C. segnò l’inizio della Diaspora forzata.
Gli Ebrei si insediarono in varie parti del Mediterraneo, forse accanto a
comunità che esistevano già da tempo. La vita continuava, bisognava
commerciare, fare contratti, sposarsi ecc. Quindi era necessario scrivere. In
confronto alla grafia formale dell’aramaico questo nuovo tipo di corsivo
lasciava più libertà all’estro dello scriba. Si formò un nuovo tipo di
scrittura che, pur partendo all’inizio da una semplificazione dell’aramaico
quadrato, alla fine se ne diversificò tanto che soltanto con un grande sforzo
di fantasia si può credere che fra di loro esista un nesso. Si differenziò
ancora all’interno delle diverse comunità e durò circa fino al XVI-XVII secolo.
Dal X al XVIII secolo si formò, in parallelo
all’altra scrittura, un altro tipo di corsivo detto “mashait”, erroneamente
chiamato “rabbinico”. Questo nuovo stile si formò quando fu necessario scrivere
testi molto importanti, come i libri, per cui s’impose una scrittura più
accurata. Ciò non significava però
un’approssimazione della scrittura quadrata anche se la grafia fu elegante ed
elaborata. Anche il “mashait” si differenziò a seconda delle comunità che lo
usavano.
La scrittura ebraica quadrata
Si è già accennato più sopra come la grafia aramaica
s’impose anche nell’ambito della trascrizione dell’ebraico. Il massimo sviluppo prima dell’era cristiana
si ebbe nei “Manoscritti di Qumram”. Successivamente ci fu un’ulteriore
evoluzione. Si trattava però di formalizzazione stilistica, piuttosto che di
variazione di segni, anche se nel corso di circa 1000 anni per alcune lettere i
mutamenti furono notevoli. Fu soltanto nel 895 d.C. che i caratteri si
stabilizzarono con il manoscritto del “Profeti”. il più antico manoscritto
biblico, scritto da Mosè ben Asher a Tiberiade; fu trovato nella sinagoga
caraita del Cairo.
E’ opportuno far qui un breve inciso. Anche se è una
dizione accettata, parlare di “scrittura quadrata” è in realtà una
definizione non appropriata. L’invisibile intelaiatura in cui si iscrive la
lettera è invece un rettangolo. Siccome stilisticamente a prima vista, sono più
visibili i segni orizzontali brevi e grossi, che quelli verticali più lunghi e
sottili e i segni orizzontali sono quasi equidistanti l’uno dall’altro, sembra
di vedere una regolare sequenza di lettere iscritte in altrettanti quadrati. E
come di solito avviene quando si affibbia una etichetta a prima vista, quella
rimane, così questo tipo di scrittura continuò a chiamarsi “quadrata”.
L’importanza di questo tipo di grafia deriva dal
fatto che si è definitivamente imposta su tutte le altre varianti. Si ritiene
che ciò sia dovuto al fatto che serviva soprattutto per la trascrizione dei
testi biblici e, di conseguenza, fu usata anche per i caratteri a stampa.
Benché semplificato, rimane il sistema di scrittura dell’ebraico moderno. anche
se accanto ad esso esistono due tipi di grafia in corsivo.
E’ interessante seguire brevemente la probabile
storia dell’evoluzione di questa scrittura. Probabile e non certa, perché è
molto difficile stabilire il nesso di causalità tra una scrittura di una
comunità e quella di un’altra. Il materiale rimasto è di gran lunga inferiore a
quello che è stato scritto in circa 2000 anni (dal V sec. a.C. al XV sec. d.C.): il deperimento naturale di papiri e
pergamene, gli spostamenti per motivi di commercio degli Ebrei nel bacino del
Mediterraneo, le persecuzioni ricorrenti con roghi di libri, l’espulsione dalla
Spagna nel 1492 di circa 100/200.000 persone nell’arco di tre mesi, sono le
principali cause di perdita irrecuperabili gran parte dei manoscritti. Si cercherà tuttavia di fare una breve
storia.
Si suppone, e non senza fondamento, che l’influsso
di uno stile di una comunità su quella di un’altra derivi dallo spostamento
degli Ebrei a piccoli gruppi o collettivamente. Si hanno così diversi tipi quali la scrittura babilonese,
l’egiziana, la persiana, la yemenita, la maaravita del Marocco, la
siro-palestinese, la yevanita della Grecia, l’italiana, la zarfatita della
Francia e la sefardita della Spagna e del Portogallo; un gruppo a sé è
costituito dalle comunità caraite. Teoricamente la grafia originaria parte da
Babilonia per diffondersi ad oriente con la scrittura persiana e ad occidente
con la siro-palestinese e l’egiziana, e a sud con la yemenita. La scrittura
sefardita rispecchia quella maaravita, di probabile derivazione egiziana. Con
la scrittura sefardita il nuovo modo di scrivere in ebraico entrò in Europa e
probabilmente influenzò la scrittura yevanita della Magna Grecia. Di
quest’ultima in senso stretto poco è rimasto per le difficoltà d’insediamento
che avevano le comunità ebraiche nel periodo ellenistico. La grafia italiana fu
influenzata a sud da quella yevanita e a nord da quella askenazita. Infine quest’ultima
à certamente collegata con la scrittura zafartita della Francia. Fra tutti i
dati ipotetici l’unico elemento certo è quello dell’influsso tra la scrittura
zafartita e quella askenazita.
Come il visitatore può osservare le pergamene
esposte sono state individuate e classificate in due gruppi diversi. Il primo
(I-IV) riguarda brani della Torah (Pentateuco) scritti in grafia askenazita o
nord-italica; il secondo (V-VII) secondo la grafia sefardita. Il periodo di
attribuzione va dal XIII al XIV secolo; più precisi non si può essere in quanto
si tratta di pochi frammenti. Tuttavia si possono inferire delle conclusioni
molto probabili:
Le pergamene scritte in scrittura sefardita sono
senz’altro più antiche delle altre; lo si evince dallo stato deteriorato in cui
si presentano.
Quelle scritte in scrittura askenazita sono da
annoverarsi forse fra gli ultimi manoscritti che precedono la scoperta della
stampa e la diffusione del libro.
Si può infatti osservare come i caratteri mobili
dell’alfabeto ebraico furono modellati sulla scrittura askenazita.
La “Masorah”
Dopo aver affrontato il problema dell’alfabeto, tra cui si è cercato di dare
più ragguagli possibile, pur cercando di essere sintetici, si affronterà un
nuovo tema, di cui qualcosa si è già accennato nel paragrafo precedente. Si
tratta della vocalizzazione scritta e non solo letta del testo ebraico. E’
peraltro noto, anche perché se ne è già parlato, che anticamente i testi
venivano scritti soltanto con le lettere consonantiche ed altrettanto avviene in
Israele ai nostri giorni. Essendo la lingua parlata, la vocalizzazione
esplicita non è necessaria. E’ dunque opinione comune che nel Medioevo a
cominciare dal IX sec. si introdusse la vocalizzazione in quanto la lingua
ebraica non era più parlata. Ciò corrisponde al vero, ma solo in parte. Infatti la vocalizzazione fu effetto di
molteplici cause, in parte esterne all’ebraismo e in parte interne. Inoltre nel
termine “masorah” che letteralmente significa “tradizione” sono racchiusi
diversi fenomeni linguistici inerenti alla Bibbia fra i quali l’esatta
trasmissione del testo scritto e della sua lettura, la successiva invenzione di
simboli grafici per indicare le vocali, il raddoppiamento delle consonanti, la
punteggiatura, la tonalità ecc.; inoltre, per non incorrere in svarioni, era
necessario conoscere la grammatica come analisi morfologica del testo.
Le cause esterne: la formazione della grammatica
Da quando la scrittura cominciò a semplificarsi
presso ogni popolo gli scribi persero il potere di essere gli unici redattori
ed interpreti degli affari più notevoli che potevano avvenire in ogni paese. Da
tutto il materiale che ci è stato trasmesso dall’antichità, dai reperti
rinvenuti in molteplici scavi archeologici, dalle cronache diverse degli
storici di allora, oggi sappiamo che nell’arco di qualche secolo fu prodotto un
numero ingente di documenti. Dal semplice contratto di compra-vendita alle
formulazioni delle leggi, dai testi religiosi a quelli letterari, ci fu un
fiorire continuo di scritti di ogni genere. Col passare dei secoli ci si rese
conto che il linguaggio di ogni popolo stava cambiando rispetto alle proprie
origini. Così in Grecia nel IV-III sec. a.C. Omero era già diventato antico, e
doveva essere spiegato. Altrettanto avveniva in Israele, dove il testo mosaico
della Torah parlava un linguaggio arcaico.
C’era dunque il pericolo di rompere la tradizione con l’antichità. Era
dunque necessario sottoporre ad analisi il linguaggio per preservare la
corretta lettura ed interpretazione delle leggi religiose e civili. E per far
ciò bisognava fare riferimento al testo più antico della letteratura di ogni
popolo.
Oggi noi sappiamo che tale analisi consiste nella
formulazione di una grammatica della lingua parlata da un popolo. Dal punto di
vista del metodo descrittivo la grammatica è “il complesso delle norme che
costituiscono il particolare modo di essere di una lingua (o di un dialetto),
cioè il suo sistema fonetico, morfologico, sintattico considerato nella sua
totalità come si riflette di volta in volta sulle singole espressioni”. Come scienza è la “rappresentazione
sistematica di una lingua e dei suoi elementi costitutivi, articolati
tradizionalmente in fonologia, morfologia, sintassi, lessicologia ed etimologia”.
In questa analisi, come già osservato, contano i
precedenti: nascono prima gli scritti, poi la grammatica. Questa a sua volta diventa la norma
essenziale per la correttezza, comprensione e formulazione di ogni discorso o
scritto. Sebbene non abbia alcun influsso diretto sul tema trattato, il primo
teorico di grammatica fu Pānini che visse nel IV sec. a. C. Per preservare
le sacre scritture indiane, formulate nei Veda, compose la grammatica del
sanscrito. Questo riferimento è
interessante perché è quasi sincronico con ciò che stava avvenendo in Grecia.
Ad esempio Aristotele nella “Retorica” asseriva: “Il primo principio
dell’elocuzione è lo scrivere un buon greco”.
E’ noto peraltro che sia Platone, sia Aristotele si rifacevano a testi
già allora ritenuti classici e soprattutto ad Omero. Fu Dionisio Trace (seconda
metà del II sec. a.C.) a formulare la prima grammatica greca scientifica. Il
punto di partenza della sua “Arte grammatica” (Grammatiké téchne) inizia
proprio dalla esegesi ad Omero. In
questo testo Dionisio espose sistematicamente l’organizzazione del linguaggio.
Esso è rimasto il fondamento di ogni costruzione di grammatica posteriore. E’
noto che anche la cultura latina si rifece ai modelli greci. Ma ciò che
interessa di più in questo itinerario è vedere come la grammatica entrò nel
mondo della cultura semitica.
A cominciare dal primo secolo dell’era cristiana si
sviluppò soprattutto ad Edessa (oggi Urfa, Turchia) una variante dell’aramaico,
la lingua siriaca. Esistevano già alcuni testi scritti in tale idioma. ma
soprattutto con la traduzione dalla Bibbia il siriaco cominciò a
svilupparsi. Tale traduzione, detta la
“Peshitta”, divenne il testo normativo per i cristiani che parlavano tale
lingua. Ciò che interessa qui della loro storia letteraria è l’impegno che essi
profusero nel tradurre in siriaco tutti i testi greci di cui poterono disporre.
E successivamente tradussero dal siriaco all’arabo con l’avvento dell’Islam. Fu
nel V sec. d. C. che un discepolo di Narsai, Giuseppe Huzaya, tradusse dal
greco la citata opera di Dionisio Trace. Inoltre fu creatore di un sistema
siriaco di puntazione. La grammatica greca entrò così nel mondo della cultura
semitica e gli scrittori siriaci cominciarono a confrontarsi con essa. Inoltre il sistema di puntazione fu un
inizio della vocalizzazione, necessaria per dare stabilità alla lettura della
“Peshitta”. Infatti se molti furono nel Medio Oriente prima dell’avvento
dell’Islam gli scrittori siriaci, non tutti però erano veri e propri Siri. Fu
Giacomo o Giacobbe di Edessa (640-708 d. C.), vescovo monofisita di quella
città, il primo teorico della grammatica siriaca. E proprio sulla base di tale
grammatica effettuò una revisione alla traduzione della Bibbia. Sebbene ci
fossero stati altri grammatici, l’importanza è aver stabilito in quale periodo nell’area
di cultura semitica, si prese coscienza della necessità di formulare delle
regole precise per una lingua diversa da quelle indoeuropee. E ciò non fu senza
conseguenze. Per capire quali furono, basta considerare cosa avvenne durante
la vita di Giacomo di Edessa: è sufficiente l’inizio e la fine. Nell’anno della
sua nascita le truppe arabe entravano in Egitto, in quello della sua morte i
musulmani avevano già raggiunto ad occidente lo stretto di Gibilterra e ad
oriente, dopo aver occupato l’Iran, erano prossimi a Bukhara e Kabul. Ma intanto nel 661 d.C. gli Ommayyadi si
erano insediati a Damasco e, fra le altre cose, fecero di quella città un
grande centro culturale. In fatto di religione gli Arabi erano molto più
tolleranti di quel che si creda. Chi non era musulmano doveva però versare una
tassa annua che alimentava un fondo caritativo a favore delle vedove e degli
orfani dei caduti in guerra. L’opera letteraria dei Siri fu presto apprezzata;
si scoprì inoltre la somiglianza fra le due lingue; inoltre i testi già
tradotti dal greco o ancora da tradurre, ebbero dal siriaco la loro espressione
in lingua araba.
L’arabo è una lingua che possiede strutture
grammaticali analoghe a quelle degli idiomi dei popoli di cultura semitica e
quindi può esser scritto senza vocalizzazioni. A ciò c’erano però due
eccezioni: il Corano e la poesia dovevano essere letti correttamente e perciò
furono aggiunti dei segni che indicavano le vocali che seguivano le consonanti
o, se del caso, ne segnavano la loro assenza. Il motivo di tale perfezionismo
era dovuto a dei principi fondamentali per ogni musulmano: il Corano è stato
direttamente rivelato da Dio a Maometto in “lingua chiara” (arabo), deve esser
recitato dal credente senza errori di lettura ed infine ne è vietata la traduzione.
Siccome l’espansione dell’Islam dal punto di vista militare e religioso fu
molto rapida, era necessaria l’acculturazione di molti popoli di stirpi e di
lingue diverse, in modo che fossero inizialmente almeno in grado di leggere
correttamente il Corano e successivamente di capirlo. Sin dagli inizi del Califfato ommayyade si formarono due scuole,
una a Bassora e l’altra a Kufa, dove si curò a fondo l’analisi e la
formulazione della grammatica araba. Questo studio e ricerca fu considerata
la vera scienza in quanto aveva
per scopo la conoscenza del Corano. Prima di chiudere questo paragrafo è
necessario fare una breve osservazione.
Tutta questa attività culturale del mondo arabo non passò inosservata ai
cristiani siriaci, al punto che gradualmente diventarono bilingui. Anch’essi si
adeguarono al concetto che la lettura del testo sacro doveva essere immune da
errori e perciò introdussero la vocalizzazione scritta con l’ausilio delle
lettere greche corrispondenti che andavano sovrapposte o sottoposte alla
consonante che accompagnavano. E vediamo ora cos’era successo nel mondo
ebraico.
Le cause interne della “Masorah”
Si è analizzata fin qui
l’evoluzione culturale del mondo non-ebraico. Più avanti si vedrà come ciò avrà
influssi non indifferenti sull’ebraismo. Ma intanto anch’esso aveva avuto un
suo sviluppo interno, che convergeva tutto sulla trasmissione del testo sacro.
A proposito di ciò era sorta all’interno delle comunità una controversia
dottrinale; peraltro il contatto con l’islamismo e il cristianesimo aveva
portato all’approfondimento di molti problemi con l’acquisizione di nuove
certezze.
La trasmissione della “Toràh”
La trasmissione della Toràh, o in senso generale
della Bibbia, è antico quanto il testo stesso. Il primo libro post-biblico “Pirqè Avot” o “Detti dei Padri” così inizia:
“Mosè ricevette la Toràh sul Sinai e la consegnò a Giosuè e Giosuè agli Anziani
e gli Anziani ai Profeti e i Profeti la trasmisero ai membri della Grande
Assemblea”. Esisteva dunque una tradizione molto antica della trasmissione del
testo della Toràh. Ma la caduta del regno di Giuda (586 a.C.) e la deportazione
degli Ebrei in Babilonia per opera di Nabuccodonosor produsse una crisi
profonda in tutte le strutture della religione d’Israele. Questo stato di cose
perdurò quasi 50 anni finché Ciro, nel 538 a.C., un anno dopo aver vinto i
Babilonesi, concesse agli Ebrei di ritornare nella terra d’Israele, di
edificare il Tempio e di ricevere un’indennità dai Babilonesi stessi. Molti
ritornarono ma parecchi rimasero in quella città, dove si erano ricostruita
un’esistenza senza rompere la tradizione dei Padri.
La situazione era devastante, perché bisognava
ricostruire tutta la vita religiosa degli Ebrei. per far ciò si misero
all’opera Esdra e Neemia che, oltre ad altre riforme di carattere generale,
stabilirono la sistematica lettura della Toràh, suddivisa in brani, ogni sabato
e nei giorni di mercato (lunedì e giovedì). Successivamente nel corso della
settimana si riunivano i capi famiglia, che inizialmente sotto la guida di
Esdra, approfondivano il significato del brano della Toràh letto il sabato
precedente. Scopo di tutto ciò era dunque l’esatta lettura del testo sacro, la
sua trasmissione integra, la sua comprensione ed infine un dato non
trascurabile, l’utilizzo di essa come fonte e norma per la soluzione di casi
pratici di tutti i giorni. Si trattava quindi di un vero e proprio processo di
acculturazione, fatto senza fretta, ma in modo sistematico e continuo. Perché
ciò avvenisse erano necessarie tre cose: a) l’esistenza di una scuola
dove poter con assiduità studiare la Toràh; b) la presenza di un maestro
ben preparato che garantisse in ogni
scuola l’esatta lettura e comprensione del testo; c) la formazione e il
consolidamento di una tradizione, atta a risolvere e dirimere le
possibili divergenze interpretative.
Come siano andate le cose all’inizio, cioè dopo la riforma di Esdra, non
è molto noto. Ciò che invece si sa con certezza è che nel I sec. d.C., quando
Gesù Cristo predicava in Israele, erano diffuse in ogni paese le Sinagoghe e
c’erano numerosi scribi e farisei. La sinagoga (termine di origine greca
che significa “adunanza”, “assemblea”) era l’edificio in cui si radunava il
sabato la comunità di ogni paese per ascoltare la lettura della Toràh e
pregare. Inoltre era luogo di studio: preghiera e studio sono due cose
inscindibili per ogni ebreo; tutti devono pregare e ognuno deve studiare (la
Torah) secondo le sue possibilità. Perciò in ebraico si chiama “Bet ha-knesset”
(“Casa dell’Assemblea”) o “Bet ha-sèfer” (Casa del Libro) o “Bet ha-midrash”
(“Casa dello Studio”). Gli Scribi erano coloro che trasmettevano il
testo sacro e ne controllavano l’integrità. I Farisei (“separati”) erano
persone particolarmente dotte e preparate nella lettura e interpretazione della
Toràh e nella conoscenza della Tradizione antica; inoltre era notoria la
santità della loro vita. Furono accomunati sotto un’unica denominazione in
quanto solo essi ammettevano la Tradizione orale accanto a quella scritta,
a differenza dei Sadducei che accettavano solo la seconda.
I Farisei che vissero alcuni anni prima della
predicazione di Gesù Cristo furono raggruppati, parte nella “Scuola di
Shammai”, parte nella “Scuola di Hillel”.
Tra le due scuole c’erano più di 300 punti controversi. Pur essendo rinomata
la fama dei Farisei, senz’altro vi furono dei negligenti, degli estremisti e
dei vanagloriosi. Ma ciò era l’eccezione e non la regola.
L’importanza dei Farisei è fondamentale per
l’Ebraismo e non solo per esso. In sintesi vale la pena di ricordare che:
I Farisei, essendo presenti in tutte le sinagoghe che
erano sorte in ogni paese e città di Israele e della Diaspora, furono attivi
nel tramandare la “Toràh scritta” (Pentateuco) e la “Toràh orale” (Tradizione).
Formularono principi legislativi e giurisprudenziali
(“Halachot”) fondati sulla “Toràh scritta”.
Furono gli unici a salvarsi e a preservare l’Ebraismo da
ogni assimilazione, dopo la distruzione del Tempio (70 d.C.).
Raccolsero tutta la “Tradizione orale” nella “Mishnah”
(“ripetizione”) (II sec.) e nel “Talmud” (“dottrina”) (V sec.).
Nei primi secoli della diffusione dell’Islam sorse
una Controversia dottrinale tra i “rabbaniti” i successori dei Farisei e
i “caraiti”. I rabbaniti, continuando con la metodologia tradizionale,
interpretavano la “Toràh” su un testo consonantico, l’unico che allora
esisteva. Come già si disse, alcune parole potevano andar interpretate in
diversi modi, anche differenti dal contesto letterale e dal significato
grammaticale. Così, ad esempio, dalla radice trilettera KTB si poteva leggere:
“scrisse” (KaTaV); “scrivi!” (KeTov);
“scrivente” (KoTeV); “decretò” (KiTTeV); “decreta!” (KaTTeV). Ciò poteva dare
origine a forzature non indifferenti del testo, specialmente quando si trattava
di formulare norme legali (“Halachòt”). Contro tale stato di cose insorsero i
caraiti (da “qarà’ “ - “leggere”) i quali formularono il principio che ogni
parola della “Toràh” doveva esser letta in conformità all’esatta vocalizzazione
e secondo il senso grammaticale espresso dal contesto della frase. Tale
principio altro non era che una ricomparsa della teoria dei sadducei, che
rifiutavano la “Tradizione orale”, perché la “Toràh” doveva essere interpretata
secondo l’unico senso letterale di ogni parola e non era né possibile, né
legittimo ricavarne altri sensi. Questa disputa di fatto non ha mai avuto fine
e sussiste anche ai nostri giorni, anche se i caraiti sono una minuscola setta
fra gli Ebrei.
E’ singolare tuttavia osservare un particolare non
indifferente: la controversia dottrinale era apparsa nell’ambiente islamico,
dove vivevano numerose comunità ebraiche. La singolarità deriva dal fatto che
l’interpretazione della “Toràh” secondo il metodo iniziato dai Farisei durava
quanto meno da 7 od 8 secoli, senza che si fosse trovato nulla da ridire. Ma
intanto era successo un fatto nuovo che, se anche non fu la causa principale
della controversia, è molto probabile che fosse concomitante ad essa.
E qui bisogna agganciarsi alle cause esterne della
“Masoràh”. Con l’avvento dell’Islam, gli Ebrei cominciarono a vivere con una
certa tranquillità fino ad essere rispettati ed onorati. Una volta adempiuto
l’obbligo annuale del versamento della tassa all’erario islamico, le comunità
ebraiche diventarono una categoria protetta dall’autorità dei califfi. Furono concesse
vaste autonomie amministrative, giurisdizionali e religiose. Per ogni lite
all’interno delle varie comunità ebraiche giudicava autonomamente il tribunale
religioso di ognuna di esse, senza alcuna ingerenza dell’Islam. Nel contempo
tutte le persone acculturate delle comunità erano di fatto bilingui o
trilingui: conoscevano l’ebraico per le funzioni sinagogali, l’aramaico per la
lettura di parte della “Mishnàh” e del “Talmùd” e l’arabo per tutto ciò che
riguardava la vita di ogni giorno e i rapporti con i musulmani e i cristiani
siriaci. Infatti questi ultimi, oltre alla loro lingua nativa, il siriaco,
appresero l’arabo, al punto di diventare col tempo soltanto arabofoni. Il territorio del Medio Oriente era quindi
diventato abbastanza omogeneo dal punto di vista culturale: ebraico,
siriaco ed arabo erano lingue strutturalmente molto simili e quindi facilmente
comparabili. E come per osmosi avvennero alcuni scambi: i Siri
conoscevano già il valore della grammatica, gli Arabi applicarono tali principi
alla loro lingua ampliando il campo visivo fino alla vocalizzazione esplicita,
trascritta mediante segni convenzionali. E ciò per salvaguardare la integrità
del Corano. I Siri, per converso, cominciarono anch’essi a vocalizzare il testo
sacro, cioè tutta la Bibbia. Gli Ebrei assunsero anch’essi entrambi i principi
e cominciarono ad analizzare la Toràh secondo questo punto di vista che per essi era del
tutto nuovo. Si formò così un vasto movimento in tutte le comunità ebraiche
sparse nel bacino del Mediterraneo e il Medio Oriente, ma i due centri più
notevoli furono Babilonia e il territorio d’Israele.
La vocalizzazione della Bibbia ebraica
Con questo titolo sintetico si riassumono, per
brevità, tutte le aggiunte fatte al testo consonantico trasmesso fino ad allora
dall’antichità. Stabilire con precisione quando si formò il processo di
revisione testuale è un argomento di estrema difficoltà. C’è chi lo fa risalire
ad un periodo tra il V e il VII sec. d.C.
Sta di fatto che ciò che si sa di sicuro è il periodo in cui vi fu la
definitiva fissazione di tutto ciò che poteva facilitare la lettura. E ciò
avvenne per la prima volta con la trascrizione del Codice di Aleppo (895 d.C.).
Le varie fasi su cui si svolse questa lunga procedura di studio e di ricerca
cominciò già nel periodo precristiano. Sicuramente già da allora c’era la
suddivisione della Toràh secondo il rito palestinese e quello babilonese.
Il primo prevedeva la suddivisione della Toràh in 154 o 157 “sedarìm”
(“ordini”); in tal caso la lettura completa del Pentateuco durava dai 3 ai 3
anni e mezzo: Secondo il rito babilonese il testo andava suddiviso in 54
“parashiyyòt” (“capitoli”) e quindi la lettura durava un anno. Dei due cicli è
rimasto nell’uso liturgico il più breve e in ogni calendario ebraico per ogni
sabato è indicata la “parashàh” da leggere con la prima parola o da quella più
importante del primo versetto. Così la prima “parashàh” che cominciava con Gen.
1,1 si chiamava “Bereshìt” (“In principio”), la seconda “Nòah” che è la parola
più importante dell’inizio del versetto Gen.
6,9 “’Elleh toledòt Nòah” (“Questa è la storia di Noè”). Nei testi a
stampa queste suddivisioni sono indicate per la lettura più lunga con la
lettera “samech”, quella più breve con la lettere “pe” scritte in caratteri più
grandi. Nei manoscritti le suddivisioni sono indicate soltanto con spazi in
bianco, pari ad un intervallo di 8-10 lettere.
Proprio parlando delle note marginali o glosse si
può spiegare in cosa consiste la “masoràh parva”. Si tratta di un lavoro
minuzioso su tutti i manoscritti esistenti all’epoca in modo da fissare in modo
univoco il testo tramandato dalla tradizione scritta e orale. Nella collazione
dei testi quando appariva una lezione scorretta o comunque errata, alla parola
in questione veniva sovrapposto un cerchietto e a margine i masoreti segnavano
la lezione corretta. Fra le innumerevoli glosse che formano la “masoràh parva”
le più importanti e frequenti sono “ketìv” e “qerè” (31). Sono due participi
passivi della lingua aramaica: “ketìv” significa “scritto” e “qerè” significa
“letto”. I casi possibili sono quattro: a) “qerè” semplice: si tratta di una
modificazione di una parola scritta in modo inesatto nel testo. A margine sono
scritte le consonanti seguite dalla lettera “qof” che è l’iniziale di “qerè”. b) “ketiv we-la’ qere” (“scritto e non
letto”): si tratta della soppressione di una parola superflua. c) “qere we-la’
ketiv” (“letto e non scritto”): si tratta dell’inserzione di una parola
mancante. d) “qere perpetuo”: il caso più notevole è l’ineffabile Nome di Dio
scritto con le lettere “YHWH” e vocalizzato con le vocali di “’Adonày”,
“Signore”. Si deve sempre leggere “’Adonày”, tranne il caso quando c’è “’Adonày
YHWH”, che si legge “’Adonày ‘Elohim”, per non ripetere due volte lo stesso
termine “’Adonay”.
Accanto alla “masoràh parva” si formò la “masoràh
magna” che della prima è un’integrazione ed un ampliamento. Essa veniva
trascritta, con gli stessi caratteri della “masoràh parva” in alto e in basso
di ogni pagine.
Tutto questo ingente lavoro era ovviamente
contemporaneo alla fissazione per iscritto della corretta lettura. Si formarono
due scuole: quella di Babilonia e quella di Tiberiade. La Scuola di
Babilonia escogitò un sistema molto semplice, simile a quello della
trascrizione alfabetica del siriaco orientale. Sopra o sotto ogni consonante
vocalizzata si poneva un punto o il rimpicciolimento di qualche lettera
ebraica. Però questo sistema aveva un limite insuperabile: le vocali erano solo
sei a, a, e, i, o, u. Secondo altri maestri ebrei ciò non era sufficiente per
segnare le vocali lunghe, quelle brevi e quelle brevissime. Per ovviare questa
difficoltà lavorò la Scuola di Tiberiade i cui maestri ampliarono e
perfezionarono il meticoloso operare dei “naqdanìm” o puntatori. Ne risultò una
vocalizzazione abbastanza complessa composta di 19 segni: 5 vocali lunghe, 5
medie, 5 brevi e 4 semivocali. Questo sistema prevalse su quello babilonese e
si diffuse in tutto il mondo ebraico.
Tuttavia il sistema di Tiberiade, detto “tiberiense”, provocò un effetto
indotto: la comparsa della “scriptio defectiva” al posto della “scriptio
plena”. Si era detto sopra che quando l’alfabetizzazione si diffuse fra i Greci
per opera dei Fenici alcuni segni consonantici furono trasformati direttamente
in vocali. In realtà ciò non avvenne senza un fondato motivo:
alcune consonanti, soprattutto la “waw” e la “yod”, sono sempre state delle
semiconsonanti, in quanto era già insito nel nuovo sistema alfabetico un
supporto di vocalizzazione. Finché il sistema di scrittura era semplicemente
consonantico era necessario scriverle, purché fosse chiara la vocalizzazione;
ciò avvenne prima della “masoràh” e succede nuovamente oggi, perché in Israele
è stato ripreso il modo di scrivere antico. Questo modo di scrittura ai chiama
“scriptio plena”. Ai tempi dei “massoreti” le cose andarono diversamente e nel
senso opposto. Siccome la differenza
tra le vocali lunghe, medie e brevi è quasi impercettibile, dove c’era una
“waw” che indicava una “ô” (“hôlem magnum”) o una “û” (“shûreq”), si sostituì
la vocalizzazione in “holem” (“o”) e in “qubbutz” (“u”) eliminando la “waw” di
supporto. La stessa cosa avvenne dove c’era la “yod” che indicava una “î”
(“hîreq magnum”) che si trasformò in “hireq” (i), eliminando la “yod”. Tale
scrittura si chiama “scriptio defectiva”. Tale fenomeno non fu uniforme e ci
furono spostamenti in un senso e in un altro; a margine della copia dello
stesso erano riportate alcune varianti in cui c’è la “scriptio defectiva” al
posto della “scriptio plena” e viceversa, anche con correzioni dell’amanuense.
Prima di passare all’argomento successivo, vale la
pena di ricordare che assieme a questo paziente e dettagliato lavoro ci fu
anche la fissazione degli accenti e delle pause o segni di interpunzione
(diversi dai nostri). Benché fosse già noto che la maggior parte delle parole
sono tronche (es. “morè” - maestro) ed alcune sono piane (es. “mèlek” - re),
gli accenti servivano oltre che segnare la funzione tonica, anche per indicare
quella musicale e quella pausale. Inoltre il sistema variava per i tre libri
poetici: Salmi, Giobbe, Proverbi.
Tutta questa attività confluì nel Codice di Aleppo e
nel Codice di Leningrado (B 19 A) del 1008. Quest’ultimo, che è copia del
primo, è custodito a S. Pietroburgo e costituisce il testo massoretico
“receptus”, che oggi viene edito nella “Biblia Hebraica Stuttgartensia” (BHS)
(32). Però il Codice di Aleppo che è opera della famiglia Ben Ashèr trovò
presto autorevoli fautori tra cui Moshè ben Maimòn (Maimonide) (1135-1204),
famoso ebreo sefardita, che fu medico, giudice ed eminente filosofo. Detto per
inciso è molto probabile che i frammenti della Toràh della Biblioteca Civica
siano parte di una copia o del Codice di Aleppo o di quello di Leningrado.
Benché gli elementi in possesso siano pochi, almeno per questi ci sono
sufficienti indizi che tali pergamene siano copia di un Codice o dell’altro;
ciò deporrebbe a favore dell’autorevolezza degli stessi.
La grammatica ebraica
Si è già parlato sulle cause esterne della
“masoràh”. Fra queste si è osservato quale parte rilevante abbia la grammatica
e come essa sia penetrata fra le popolazioni di cultura semitica. Queste cause
esterne furono di stimolo al mondo ebraico per valorizzare la propria fede,
affinché, preservando la dignità antica, non si lasciasse sommergere dal mondo
islamico. E ciò non a caso: si stava infatti progressivamente estendendo una
fortissima influenza dell’arabo, soprattutto sui cristiani siriaci, che
dapprima diventarono bilingui e poi in parte abbandonarono assieme alla loro lingua
natia anche la fede cristiana diventando musulmani. Questa progressiva
assimilazione non investì completamente tutto il Medio Oriente, ma certamente
una gran parte della popolazione abbracciò l’Islam, riducendo i cristiani a
piccoli nuclei. Una delle cause fu lo spostamento del centro culturale di
quell’area da Edessa a Damasco e da qui a Baghdad. Per evitare analoghe
conseguenze e per dimostrare ai propri fedeli la superiorità della Torah al
Corano, i dotti di tutte le comunità ebraiche si cimentavano nell’approfondimento
della loro lingua. Ma per fare ciò era necessaria una grammatica. Per inciso
vale la pena di rilevare che tale argomento viene trattato per ultimo per
comodità espositiva, ma tale fenomeno fu coevo a tutta l’opera dei massoreti e
la accompagnò attraverso tutto lo sviluppo del loro lavoro. Sebbene sia il caso
di ricordare che già nel “Talmùd” ci sono alcune osservazioni di tipo
grammaticale, bisogna peraltro tener conto che trattasi di indicazioni utili
all’esegesi biblica. Uguale discorso si può fare per l’opera del massoreta
Aharòn ben Ashèr che scrisse “Diqduqè ha-te‘amìm” (“Grammatiche degli
accenti”). Ma siamo appena all’inizio del X secolo. Qualche anno dopo fu Saadia
Gaon (882-942), capo del giudaismo babilonese, a dare alla grammatica ebraica
un ruolo astratto che servisse da regola per la lingua in sé. Scrisse in arabo
un libro attinente a ciò, “Kitab al-lugat” (“Il libro del linguaggio”). Era
diviso in dodici punti; notevoli, fra le altre cose, i paradigmi delle
coniugazioni e la distinzione tra le consonanti sempre radicali e quelle che
sono soprattutto ausiliarie.
Il maggior contributo alla formazione della
grammatica ebraica, intesa come disciplina autonoma, venne dalla Spagna
(Sefaràd) e maturò in quel periodo che è chiamato “età dell’oro” per le
favorevoli condizioni in cui visse il popolo ebraico che lì risiedeva, ma non
solo per esso. Vale la pena di spendere qualche parola per accennare brevemente
a questo periodo. Con la presa del potere degli Abbassidi, che nel 750 soppressero
il califfato degli Omayyadi, uno degli ultimi discendenti di questi, fuggì ad
occidente finché non raggiunse la Spagna. A Cordoba fu così fondato nel 756
d.C. l’emirato omayyade, che nel 929 si
sarebbe trasformato in califfato. L’indole pacifica di questa dinastia trasferì
in Spagna quello che era stato fino a pochi anni prima il secolo d’oro del
Medio Oriente (661-750). Fu favorita ogni attività economica ed altresì ogni
attività intellettuale, senza discriminazioni per la religione professata, Cessarono
le persecuzioni dei Visigoti che costringevano gli ebrei alla conversione, pena
la confisca dei beni ed ogni altro tipo di vessazioni. Sotto gli Omayyadi ci fu
una crescita intellettuale e un’intensa collaborazione tra tutte le comunità
religiose che convivevano in Spagna: ebrei, musulmani e cristiani. Questo clima
fraterno continuò in parte anche dopo che i Berberi musulmani abbatterono il
califfato. E anche se ricominciarono le persecuzioni contro gli ebrei, sotto
gli Almoravidi (dal 1036) e sotto gli Almohadi(dal 1146), la collaborazione non
cessò, anzi molti ebrei si trasferirono in territori riconquistati dai
cristiani. E nonostante fossero nuovamente anche da questi ultimi perseguitati,
continuarono la loro opera di cooperazione coi cristiani e musulmani. Gli Ebrei
conservarono a tal punto la fedeltà alla Spagna, come loro patria, che si
consideravano sempre sudditi della corona spagnola anche quando furono cacciati
nel 1492. Per parlare dei benefici che questa “età dell’oro” procurò a tutta la
cultura europea, bisognerebbe come minimo scrivere un’opera a parte. Solo per
cenni basta ricordare il filosofo ebreo Mosè Maimonide, quello musulmano
Averroè (Ibn Rushd) e tutta l’immensa opera di traduzione dall’arabo in latino
fatta tramite la collaborazione d’ebrei arabofoni e cristiani che sapevano il
latino. Senza timore di contestazioni si può dire che quel periodo fu la culla
in cui si alimentò e crebbe tutta la cultura europea medievale e moderna; e
ancora quegli ebrei ed arabi che si trasferirono in Sicilia nella corte di
Federico II, furono quelli che videro nascere la nostra lingua.
In questo periodo trovò pure ulteriore sviluppo la
grammatica ebraica. In effetti fu Rabbì Yehuda Hayuj, chiamato in arabo Abu
Zakaria Yahia ben Daud (940-1010), che individuò le principali regole della
grammatica ebraica: la conoscenza dall’arabo, comparato con la lingua ebraica,
lo mise in grado di trovare in quest’ultima l’esistenza fondamentale del
triletterismo da cui, mediante costanti norme, si potevano formare tutte le
altre parole derivate. Ibn Ezra, che
tradusse dall’arabo la grammatica di Rabbì Yehudà lo chiamò “il primo
grammatico” o il “capo dei grammatici”. Un altro ebreo arabofono scrisse un
altro testo, “Kitab al-Luma‘ ”, “il libro delle aiuole smaltate”. Trattasi di
Rabbì Yom di Cordova, chiamato in arabo Abdul Walid Merwan ibn Janah
(995-1050); egli trattò in modo sistematico e completo tutta la grammatica
ebraica in quarantasei capitoli. Lo
studio di questo nuovo genere di argomento continuò necessariamente anche
perché si era già sviluppata in Spagna la poesia ebraica. Come si disse più
sopra, con l’avvento degli Almoravidi prima e degli Almohadi poi,
ricominciarono le persecuzioni e parecchi ebrei lasciarono la Spagna. Fra
questi bisogna ricordare i membri della famiglia Qimchì, soprattutto i fratelli
Mosè e Davìd (1160-1235). Vissero a Narbona e, continuando l’opera di Ibn
Janah, approfondirono e completarono gli studi sulla grammatica ebraica. Essi
scoprirono una costante della loro lingua: il verbo trilittero semplice,
mediante precise variazioni, può assumere sette forme diverse (compresa quella
semplice). Ad ogni forma corrisponde un significato diverso, che però è una
variante o una sfumatura di quello originario. Fra i due fratelli il teorico fu
Davìd Qimchì che con il “Mikhlòl” (“Perfezione”) completò tutto il lavoro dei
grammatici precedenti. Siamo così arrivati al XIV secolo, quando in tutte le
Università europee si sviluppò un’intensa attività di ricerca e di pensiero,
nel campo filosofico, teologico ed anche scientifico. La lingua di insegnamento
era il latino e tutti i testi erano scritti nella medesima lingua. Dall’Antico Testamento in ebraico al Nuovo
in greco, dai testi filosofici di Aristotele a quelli fu Avicenna e Averroè
tutto era stato tradotto in latino. Le uniche opere che si potevano leggere
nella lingua originale erano quelle degli scrittori e filosofi che avevano
scritto nella lingua di Roma che era la loro lingua madre. Ciò che è
impensabile ai nostri giorni, avveniva normalmente in quel secolo, come nei
precedenti, senza possibilità di verificare se le traduzioni da cui si traeva
l’insegnamento riflettessero il vero pensiero dell’autore o fossero più o meno
approssimative. Dai tempi di San Girolamo (347-420) in pratica nessun cristiano
dotto sapeva l’ebraico. Dall’anno 1000 rarissimi sapevano il greco, fra questi
Roberto Grossatesta (1175-1253) cancelliere dell’Università di Oxford e poi
vescovo di Lincoln, filosofo e teologo, che tradusse l’ “Etica nicomachea” di Aristotele ed altri testi di vari Padri
della Chiesa. Tutte le comunità alloglotte che vivevano il Europa e nel bacino
del Mediterraneo comunicavano fra di loro, quando era necessario, tramite
qualche interprete; per il resto si ignoravano reciprocamente. Gli unici che erano
bilingui erano gli Ebrei, che parlavano con gli Arabi nella loro lingua e con i
cristiani nei vari dialetti vernacoli che non erano ancora assunti a dignità di
lingua, ma erano peraltro in uso da tutti coloro che vivevano nei territori
dov’erano conosciuti.
Contro questa deplorevole lacuna si levò unicamente
la voce solitaria di Ruggero Bacone (1204-1292). Nello “Opus tertium” e nella
“Lettera a Clemente IV” lamenta che “il sapere dei Latini è desunto in gran
parte da opere composte in altre lingue, ad esempio tutto il testo sacro e
tutta la filosofia provengono da altre lingue”. Avuto riguardo del tempo di
diffusione delle idee, che vigevano in quell’epoca, la Chiesa fu abbastanza
solerte nel prendere nota delle osservazioni di Bacone. Infatti circa vent’anni
dopo la sua morte, al Concilio di Vienne (1311) fu promulgato il “Decreto sullo
studio delle lingue”. In esso si stabiliva che nelle maggiori Università
europee ci dovevano essere almeno due insegnanti per ognuna delle seguenti
lingue: greco, ebraico, arabo, caldaico (aramaico o siriaco). Tuttavia, è il
caso di ricordarlo, l’ebraico, l’arabo e l’aramaico furono introdotti a scopi
apologetici per poter meglio confutare gli ebrei e i musulmani, sebbene
il testo conciliare imponesse la conoscenza delle lingue degli infedeli per
meglio predicare la fede ed interpretare le Scritture.
Questo saggio potrebbe finire qui. Si è cercato di
abbreviarlo nei limiti del possibile, pur cercando di offrire al lettore utili
notizie che poi potrà approfondire a suo piacimento e secondo i suoi interessi.
C’è tuttavia un particolare curioso che vale la pena di rilevare. Non si sa
come una copia di una grammatica ebraica del Cinquecento fu consegnata
nell’Ottocento al conte Domenico Rossetti che poi la fece pervenire alla
Biblioteca Civica. Trattasi del libro “Melè’khet ha-Diqdùq”, “Institutiones
grammaticae in Hebream linguam” di Fra’ Sebastiano Münster minorita, stampato a
Basilea nel 1524. S’è ricordato questo particolare notevole perché Fra’
Sebastiano fu un fine studioso della lingua ebraica e la sua opera circolò fra
i dotti cristiani; è importante ancora perché l’autore si avvalse soprattutto
dei testi di Mosè e Davìd Qimchì e tradusse in latino la grammatica di Mosè
Qimchì “Mahalak shebile ha-da‘at” (“Il cammino sulle vie della conoscenza”).
Dallo sviluppo e approfondimento di questi lavori
hanno avuto origine tutte le grammatiche attuali della lingua ebraica.
Si è cercato di illustrare in questa relazione
alcuni dei molteplici fenomeni linguistici avvenuti nelle lingue aramaica ed
ebraica. Se anche questo scritto sembra a prima vista un po’ corposo, si tenga
presente che si è cercato di restringere al massimo gli argomenti trattati.
Questa tematica è interessante e meriterebbe di essere approfondita. Ed è
proprio questo l’augurio che formulo: che ci siano tanti concittadini, animati
da buona volontà, che si avvicinino allo studio delle lingue aramaica ed
ebraica.
ESEMPIO DI TRILITTERISMO NELLA LINGUA EBRAICA.
Radice triconsonantica P Q D = F Q D
III Pi QQe
D radunare* “ intensiva della I
IV Pu QQa
D essere radunato “ passiva della III
V Hi FQIi
D assegnare, collocare “ causativa della I
VI Ho FQa
D essere assegnato,
collocato “ passiva della V
*NB! Le
consonanti doppie si trascrivono così in caratteri latini, ma in ebraico la
consonante va scritta una sola volta. (L’accento generalmente va sull’ultima
sillaba).
Nomi derivati dalla radice P Q D
Pe Qu DDa H provvidenza, previdenza
Pa QIi D capo – ufficio, impiegato
Pe Qi DU T ufficio
Pi QQU DIi M comandi, precetti
Pi QQa DO N deposito
Mi FQa D appuntamento, censo
II esempio di trilitterismo.
Radice: B R Kh
I
forma: Ba Ra Kh inginocchiarsi, adorare,
benedire
(part.
pass.) Ba RU Kh
benedetto, Benedetto (n. pr.)
II
forma: Ni Vra Kh essere benedetto
III
forma: Be Re Kh benedire, lodare
IV forma:
Bo Ra Kh essere
benedetto, essere lodato
V
forma: Hi VRIi Kh fare inginocchiare
VI
forma: Ho Vra Kh essere fatto inginocchiare
VII
forma: Hi TBa Re Kh augurarsi del bene
Nomi derivati dalla radice B R Kh
Be Ra Kha H benedizione
Be Re Kha H pozzo, cisterna
Be Re KhIia H nome proprio (1 Cr 3, 20)
Ba R Kh ‘e L
nome proprio (Gb
32, 2.6)
Be Re Khia V nome proprio (Zac 1, 7)
I Ve Re KhIa HU nome proprio (Is 8, 2)
DARIO BAZEC