A PROPOSITO DEL PATER NOSTER

 

Premessa

 

E’ noto che da qualche tempo si sta discutendo sulla possibilità effettiva di rifare la traduzione del Padre nostro. All’argomento non si dà molta pubblicità, però ogni tanto trapela qualche notizia che desta stupore e perplessità tra i fedeli. In effetti, il Padre Nostro è una preghiera che ha attraversato i secoli senza sostanziali variazioni. Da tutti i cristiani e soprattutto dalla liturgia è sempre stata ritenuta autentica trascrizione delle parole di Gesù, come lui le ha effettivamente pronunciate. Anche se con la riforma liturgica la preghiera non si recita più in latino, ma in italiano, essa ha conservato la sua forza indiscutibile e qualsiasi modifica al testo è considerata dai fedeli, e non a torto, come un’azione indebita, che desta non poche preoccupazioni.

La risposta del teologo

Nel numero 18 (4 maggio ’03) di “Famiglia Cristiana”, a pag. 156, nella rubrica “Il teologo”, Silvano Sirboni dà delle spiegazioni a un lettore preoccupato nell’articolo dal titolo “Il Padre Nostro di Gesù”. Sebbene Sirboni sia suadente, non è sempre convincente, e cercherò di spiegare il perché.

Innanzi tutto è opportuno riassumere per sommi capi ciò che il teologo dice.

Dopo una premessa in cui afferma che si tratta dell’unica preghiera che ha insegnato Gesù e che è giunta a noi attraverso due versioni, quella di Matteo (Mt 6, 9-13) e quella di Luca (Lc 11, 2-4) il teologo Sirboni così prosegue:

1)        “Quasi certamente Gesù pronunciò il Padre nostro (o un testo simile) in aramaico. Questa preghiera…fu messa per iscritto ed è giunta fino a noi in greco. In occidente dal greco passò in latino”.

2)        “Si notano sfumature diverse, inevitabili in ogni traduzione. Un esempio: l’aggettivo quotidiano riferito al pane traduce un’espressione avverbiale greca (epioúsion) che san Girolamo (+420) traduce con supersubstantialem… Altri testi antichi traducono con necessario o permanente. Nella liturgia, e di conseguenza nella preghiera del popolo, si è imposto l’aggettivo quotidianum, proposto dalla traduzione della Bibbia detta Vetus Latina.

3)        “Per secoli la preghiera del Padre nostro è stata recitata in latino anche dal popolo. Solo con l’imporsi della lingua italiana si è data maggiore attenzione alla traduzione della Bibbia e di conseguenza anche del Padre nostro (1967 e 1971) ”.

4)        “Dal 1988 è stata avviata una traduzione più fedele ai testi originali e più aderente alle attuali esigenze della lingua italiana… Qualcuno proponeva di rendere più chiara l’espressione fortemente semitica: «sia santificato il tuo nome». La traduzione interconfessionale (1985), per esempio, ha: «fa’ che tutti ti riconoscano come Dio», poiché questo è il senso della frase”.

5)        “Altra proposta riguardava la domanda che nell’originale greco suona così: «rimetti a noi i nostri debiti come noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori». Il verbo al passato è assai più impegnativo!”… Nella richiesta di perdono si è lasciato il presente e si è aggiunto solo l’anche.

6)        “Si è cercato soprattutto di esprimere più correttamente il senso originario dell’espressione: «non c’indurre in tentazione», troppo dipendente dal latino e soggetta a malintesi. La nuova formulazione suona: «e non abbandonarci alla tentazione».

7)        “Infine il Male dal quale preghiamo di essere liberati è proposto con la maiuscola per indicarne la natura personale”.

8)        “Come si vede, nessuno manipola la preghiera del Signore: si tratta, invece, di esprimere fedelmente il pensiero di Gesù. Le parole devono cambiare per dire le stesse cose in tempi e in luoghi diversi”.

 

 

 

Osservazioni

A questo punto si ritiene di chiarire e spiegare meglio la problematica inerente agli otto punti sopra elencati. Ciò senza alcun intento polemico, ma soltanto per evidenziare alcuni particolari in genere trascurati dagli studiosi.

1)        e 4) Non si può dire che “quasi certamente Gesù pronunciò il Padre nostro (o un testo simile) in aramaico”, come affermato al punto n.1. Sin dall’antichità era noto che Gesù aveva predicato in aramaico, come peraltro è evidente dagli ipsissima verba, tramandati nei testi evangelici. Senza entrare nei dettagli, che peraltro esulano da questo argomento, era stata tramandata la notizia che Matteo compose il proprio Vangelo in lingua aramaica. Indirettamente, infatti, si sa da Papia (ca. 130 d.C.) che l’Evangelista compose il suo Vangelo in aramaico e ci fu poi una versione in greco.

La questione della relazione tra testo aramaico e testo greco, non solo di Matteo, ma di tutto il Nuovo Testamento, è un argomento molto complesso. Alcuni studiosi comparano il testo greco con un testo aramaico ipotetico. Ma le cose non stanno in questi termini. Il testo aramaico del Nuovo Testamento esiste ed è quello che è stato tramandato dalla Peshitta, la Vulgata aramaico-siriaca. Dal momento che i manoscritti originali scritti direttamente dagli autori non esistono, ma si tratta di copie di copie, per fare una ricerca scientifica, bisogna tenere nel dovuto conto tutte le ipotesi al riguardo. Così non si può ignorare quanto affermano gli studiosi cristiani di rito siriaco in relazione all’origine aramaica dei Vangeli.

Inoltre se Gesù predicò in aramaico e i testi originali dei Vangeli sono in greco, per predicare la buona novella agli Aramei, si dovette forse ritradurre dal greco all’aramaico? Ciò va contro ogni logica. Afferma Ockham: “Frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora – Si fa vanamente con più cause ciò che si può fare con poche”. Applicando il rasoio di Ockham, si può quindi osservare che è più logico ritenere che il Vangelo fu scritto direttamente in aramaico per gli Aramei e in greco per i Greci.

Per spiegare meglio quest’ultimo punto è necessaria una breve digressione. Paul Viereck tenne nel 1887 una dissertazione a proposito di studi fatti su dei Senatusconsulta rinvenuti soltanto in lingua greca. Poiché lo studioso rilevò che alcune espressioni aborrivano da una corretta formulazione del greco, bisognava ipotizzare che il magistrato che aveva trascritto il testo del Senatusconsultum direttamente in latino, lo avesse poi immediatamente tradotto in lingua greca. Per convalidare il suo discorso Viereck citava alcuni autori, fra cui Livio che confermavano quanto ipotizzato.[1]  

Non si può dunque escludere che il testo scritto in aramaico, fosse stato immediatamente tradotto in greco. Infatti sin dalle origini la Chiesa era mistilingue e c’era la necessità che ognuno apprendesse il Vangelo e gli insegnamenti degli Apostoli nella propria lingua materna, per meglio comprenderne il significato.

Per quanto riguarda il Padre Nostro, è opportuno notare la parte di rilievo che questa preghiera occupa nella liturgia siriaca. Interessante osservare è come inizia l’Ordo Missae, in siriaco Takhso deQudosho, alla lettera Rito della Santificazione:

Il sacerdote inizia: Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo per sempre. Gloria a Dio nell’alto dei cieli (si ripete tre volte) e pace in terra e una buona speranza agli uomini sempre e per sempre, amen.

E poi Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome (nethqadash shmokh). Venga il tuo regno. Santo (qadish), Santo, tu sei Santo, Padre nostro che sei nei cieli, perché il cielo e la terra sono pieni della grandezza della tua gloria. Gli angeli e gli uomini cantano a te: Santo, Santo, tu sei Santo. Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome. Venga il tuo regno. Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra. Dacci il nostro pane necessario oggi, e rimetti a noi i nostri come noi li abbiamo anche rimessi ai nostri debitori. E non c’indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Perché tuo è il regno, e la potenza e la gloria sempre e per sempre, amen. Sia gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo, per tutta l’eternità, amen e amen. Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome. Venga il tuo regno. Santo, Santo, tu sei Santo, Padre nostro che sei nei cieli, perché il cielo e la terra sono pieni della grandezza della tua gloria. Gli angeli e gli uomini cantano a te: Santo, Santo, tu sei Santo”.[2]

Si può veder quale parte di rilievo si dà qui al Padre Nostro. Notevole è poi vedere come siano ripetute le parole che derivano dalla radice Q.D.Sh., che contiene il concetto di santo, santità, santificazione. Le parole Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome (nethqadash shmokh). Venga il tuo regno, introducono e concludono la preghiera d’inizio. Inoltre l’inno Santo (qadish), Santo, tu sei Santo è ripetuto tre volte. Ciò potrebbe far pensare veramente a un rito molto antico in uso nella Chiesa ebreo-cristiana delle origini.

A questo punto si ritiene opportuno analizzare il punto n. 4. Come fa osservare il teologo Silvano Sirboni, qualcuno proponeva di rendere più chiara l’espressione fortemente semitica: «sia santificato il tuo nome», con le parole della traduzione interconfessionale (1985): «fa’ che tutti ti riconoscano come Dio», poiché questo sarebbe il senso della frase. Certo, riconoscere il Padre come Dio, è un atto di fede molto importante, ma non esaurisce completamente il concetto espresso dalle parole «sia santificato il tuo nome». Non si capisce poi perché si debba rifuggire da espressioni fortemente semitiche, dal momento che dall’inizio dell’era cristiana, sia la lingua greca, sia la lingua latina hanno assimilato, senza traumi, una moltitudine di concetti tratti dalla lingua dell’Antico Testamento. Bisogna stare bene attenti: rifuggire da espressioni semitiche, significa ritornare a espressioni pagane; a questo non c’è alcuna alternativa.

Per comprendere meglio il significato della Santificazione del Nome (Qiddush ha-Shem) è opportuno leggere in sintesi quanto si può leggere nell’Encyclopaedia Judaica:

“Nella Bibbia. Due modelli di pensiero sono discernibili nella concezione biblica del Qiddush ha-Shem e del Hillul ha-Shem. Il primo considera Dio come l’attore principale, mentre Israele rimane passivo; l’altro riguarda gli Israeliti come gl’iniziatori sia della santificazione sia della profanazione del Nome di Dio. Il primo è cristallizzato pienamente in Ezechiele (capp. 20, 36, 39), per il quale la santificazione del Nome è essenzialmente un atto del Signore concesso a Israele davanti alle nazioni del mondo, che ancora non partecipano alla redenzione. Il Nome è santificato quando il Signore in modo meraviglioso riscatta Israele e i Gentili vedono la rivendicazione della promessa divina e sono mossi ad adorarlo. Inversamente, se il Signore colpisce Israele con la privazione o l’esilio, o il popolo soffre perché rimane in prigionia, le nazioni dubitano della forza o della fedeltà di Dio, e allora il Nome è diffamato. Questa spiegazione generale è valida per Ezechiele (con l’eccezione di 20, 39) e per la maggior parte degli esempi di Qiddush ha-Shem nel Pentateuco.

Per il secondo punto di vista l’uomo è responsabile dell’onore di Dio agli occhi del mondo. Mosè e Aronne sono stati puniti a causa del loro fallimento nella santificazione del Nome di Dio (Nm 20, 12; Dt 32, 51). Il Nome di Dio deve essere santificato non solo davanti ai Gentili ma anche agli occhi di Israele (ibid., e Lv 22, 32). Geremia accusa i suoi concittadini di profanare il Nome di Dio quando aggirano la legge emancipando i loro schiavi soltanto per catturarli asservirli di nuovo (34, 16). Amos condanna l’estorsione del povero e l’immoralità come profanazione del Nome (Hillul ha-Shem) (Am 2, 7)…

La tradizione rabbinica ha dato più enfasi sul significato etico-personale del concetto piuttosto che su quello di redenzione nazionale. Ha sviluppato specialmente il secondo punto di vista del tema biblico: l’iniziativa umana, e una designazione più larga così da includere ebrei come anche non-ebrei. Il Qiddush ha-Shem può essere compiuto anche in privato senza la presenza di nessuna persona, come nel caso di Giuseppe che, nel trattenersi di fronte alla tentazione, ha adempiuto la santificazione del Nome di Dio (Sot. 36b). Questo non vuole dire che i rabbini abbiano del tutto ignorato il Qiddush ha-Shem e il Hillul ha-Shem come atti divini…

La santificazione del Nome di Dio davanti ai Gentili era sempre un elemento potente nella comprensione popolare del concetto. I rabbini, comunque, in gran parte, erano interessati del ruolo attivo dell’uomo nel dramma di dare gloria all’onore di Dio o di diffamarlo. Questa umana iniziativa nel Qiddush ha-Shem può essere compiuto in tre modi diversi: martirio, esemplare condotta etica e preghiera…

La prontezza di santificare il Nome di Dio ha la sua espressione più drammatica nella propensione a morire come martire, e dai tempi dei Tannaim il Qiddush ha-Shem denota anche martirio…

Un martire era chiamato, in modo appropriato, qadosh, uno che è santo”.[3]

Si può ancora leggere:

“Mentre nell’interpretazione cristiana e musulmana il Qiddush ha-Shem ebraico è divenuto principalmente un atto di martirio individuale, di un numero di santi eletti da Dio per il loro percorso individuale di sofferenza -e (nel Cristianesimo) per la loro partecipazione al mistero della Crocifissione, i santi martirizzati che hanno seguito Cristo sulla croce - il Qiddush ha-Shem del Giudaismo è rimasto un compito assegnato a ciascuno e ogni ebreo, di adempiere se il momento adatto sarebbe venuto. Questo ha trovato l’espressione logica nella prontezza morire come un figlio del Popolo Eletto”.[4]

E’ chiaro il significato che ha nell’ebraismo il principio della Santificazione del Nome (Qiddush ha-Shem). Innanzi tutto è l’azione salvifica di Dio che redime il suo popolo, in virtù della Santità del Suo Nome. Il popolo è redento non per i suoi meriti, ma perché il nome di Dio è Santo; egli è fedele alla promessa e elargisce la sua misericordia senza limiti. A questa azione divina il Popolo eletto deve dare una risposta adeguata fino all’accettazione del martirio, pur di non violare la Torah.  Ma a questo atto supremo deve prepararsi in modo adeguato, anche perché non sempre capitano scelte così estreme, anche se il popolo ebraico, durante la storia, è sempre stato perseguitato. Perciò gli Ebrei devono dimostrare di essere il Popolo eletto da Dio con la condotta morale irreprensibile e con una vita dedita alla preghiera. Cose essi si devono presentare di fronte alle nazioni che non credono in Dio.

Interessante peraltro è quanto ha scritto Ben-Sasson relativamente all’interpretazione cristiana della Santificazione del Nome (Qiddush ha-Shem), sebbene, diversamente da quanto ritiene l’autore, per i cristiani la santità non è principalmente un atto di martirio individuale, ma come per gli Ebrei,  un compito assegnato a ciascuno e ogni cristiano. Infatti i cristiani sono disposti a seguire Gesù Cristo fino alla morte, fino al martirio, identificandosi così con il Maestro. I cristiani dunque devono vedere nella Santificazione del Nome (Qiddush ha-Shem) l’azione di Gesù stesso. Come Figlio di Dio, seconda Persona della Santissima Trinità, egli ci redime in virtù della Santità del suo Nome. Come Verbo Incarnato, nella sua umanità, egli dà la completa ed esaustiva risposta di tutta l’umanità: preghiera, condotta ineccepibile e martirio supremo sulla Croce. Quindi, per i cristiani, soltanto in Gesù Cristo, nella sua realtà teandrica, avviene la piena e perfetta Santificazione del Nome (Qiddush ha-Shem).

Riguardo agli altri punti si può dire:

2)        Come si è visto sopra la traduzione letterale dall’aramaico-siriaco del versetto Panem nostrum quotidianum da nobis hodie è: “Dacci il nostro pane necessario oggi”. Qui non si tratta di “sfumature diverse, inevitabili in ogni traduzione”, come afferma Sirboni, ma della difficoltà di tradurre in lingue indoeuropee, come il greco e il latino, espressioni semitiche, che pronunciate nella lingua nativa, non presentano alcuna difficoltà. Così, san Girolamo si è sbagliato, perché non si può tradurre da un testo che è già una traduzione. E ciò perché il Padre nostro fu pronunciato da Gesù in aramaico e il testo greco è comunque una traduzione, come si è visto sopra. Come si vede però, già nell’antichità si erano notate delle difficoltà. Si può però dire che l’espressione della Vetus Latina, quotidianum, è quella che più si approssima all’espressione di Gesù: né di più, né di meno del pane che basta ogni giorno. Quindi il pane necessario, come risulta dal testo aramaico. Del resto san Girolamo non si era accorto che epioúsion è un neologismo, che compare con il Nuovo Testamento e significa ancora oggi, nel neo-greco, quotidiano o pane quotidiano.

3)        Anche se è vero che per secoli il Padre nostro si recitava in latino, è anche vero che il popolo ne comprendeva il significato, anche quando si era persa la cognizione generale della lingua latina. Quindi ritradurre di nuovo questa preghiera non solo è inutile, ma potrebbe essere anche dannoso.

5)  Questo punto coincide esattamente con il testo aramaico. Non soltanto “il verbo al passato è assai più impegnativo!”, ma è anche conforme a tutta la rivelazione e all’insegnamento di Gesù: Dio è misericordioso con chi è già stato misericordioso con il proprio fratello.

6) Non è vero che “l’espressione: «non c’indurre in tentazione»”, sia “troppo dipendente dal latino e soggetta a malintesi”. La nuova formulazione: “e non abbandonarci alla tentazione”, non è affatto più corretta e non esprime il senso originario. Purtroppo queste sono le conseguenze della completa svalutazione del latino che è cominciata negli anni ’60 e ha trovato piena concordanza tra l’autorità civile e quella religiosa. Oggi si vedono gli effetti, fino al punto di voler intaccare la traduzione del Padre nostro. E si accusa il testo latino Et ne nos inducas in tentationem di dare adito a malintesi. Capirei se quest’affermazione venisse da gente che di latino sa poco o nulla, ma non da persone dotte, come si è verificato nei mesi passati, sempre sullo stesso argomento della traduzione del Padre Nostro. Consiglierei, a scanso di equivoci, di andare a rinfrescarsi la memoria, sempre che il latino lo si sia studiato bene, su cosa significa il congiuntivo ottativo. Vittorio Tantucci così scrive: “il congiuntivo ottativo o desiderativo esprime un desiderio o un augurio. In italiano, è spesso accompagnato dalle espressioni «oh se!…; voglia il cielo che…; volesse il cielo che…», alle quali, in latino, corrisponde la particella utĭnam (raramente o si), che può anche mancare. La negazione è ne”.[5] Il testo latino esprime chiaramente il senso voluto da Gesù: è un desiderio, un augurio, che il Padre non autorizzi Satana a tentarci, come avvenne con Giobbe (cfr. Gb 1, 12; 2, 6). Quindi non chiediamo a Dio di “non abbandonarci alla tentazione”, già in atto, ma addirittura di non permettere che inizi. Peraltro bisogna tener conto che la frase Et ne nos inducas in tentationem, altro non è che la traduzione alla lettera dell’espressione aramaica Wlo Tacalan leNesiuno. In aramaico l’imperativo negativo si esprime con la particella negativa Lo seguita dall’imperfetto del verbo. In questo caso Tacalan è la seconda persona singolare maschile dell’imperfetto del verbo Acel, forma Afeel di cAl. Il verbo coniugato è seguito dalla particella indicante la prima persona plurale –an. La forma Afeel, fra gli altri significati, esprime un desiderio.

7) L’uso della lettera maiuscola, o la sua assenza, è una convenzione che vale all’interno di ciascuna lingua. In ebraico, aramaico e arabo non esistono le maiuscole, in tedesco invece tutti i nomi, propri e comuni, si scrivono con la maiuscola. In italiano l’uso della maiuscola è riservato ai nomi propri di persona, popolo, territorio, ecc. e a quei nomi comuni a cui si riconosce una certa dignità. Si usa pure la maiuscola per i nomi indicanti persone sacre (Dio, la Vergine). La parola male può essere usata per indicare il male fisico o il male morale. Soltanto in senso filosofico il male può indicare la fonte del male, in quanto contrapposta alla fonte del bene. Ma questo non è cristianesimo, ma zoroastrismo o manicheismo. Se si vuole indicare il male come persona lo si deve chiamare Satana. Altrimenti si indicherebbe una realtà che possiede una sua dignità; ma il male non ha sua dignità propria. È un defectus boni, un difetto in relazione al bene. Queste sono le regole della lingua italiana, che devono essere ripassate assieme a quelle della lingua latina. Ma ciò che conta è che Gesù nel Padre nostro, come ce l’ha insegnato non ha voluto personificare il male, ci ha soltanto insegnato a chiedere al Padre: Ma liberaci dal male.

8)        Il teologo Sirboni cerca di giustificare l’operato di revisione del Padre nostro, asserendo che nessuno intende manipolare questa preghiera, ecc. Quest’ansia di rinnovamento, che dal Concilio Vaticano II ha pervaso tutta la Chiesa fino ad assumere anche forme parossistiche e non conformi alla disciplina ecclesiastica[6], ora ha preso di mira il Padre nostro; il teologo ripete ciò che altri affermano. Certamente c’erano molte cose da rivedere e ci sono stati ottimi risultati. Però, quando si toccano i testi di preghiera che derivano da una tradizione millenaria, si possono ottenere effetti non poco dannosi. Alcuni non  si rendono conto che,  manipolando la santa preghiera del Signore, possono travisarne il significato ed esprimere infedelmente il pensiero di Gesù. Cambiando le parole al Padre nostro si possono far dire cose diverse in tempi e luoghi diversi. In effetti la memorizzazione del Padre nostro è diventata come una seconda natura; mutarne le parole può causare sconcerto. Perciò bisogna agire con la massima cautela. Soprattutto bisogna avvalersi sì dei testi greco e latino, ma anche di quello siriaco. Inoltre bisogna consultare con molta attenzione ciò che tutta la tradizione cristiana afferma su questa preghiera. Del resto si è visto al punto n. 5, che ciò che sembrava una grande scoperta, in realtà era già contenuto esplicitamente nel Padre nostro in lingua aramaico-siriaca. A questo punto sarebbe necessario approfondire l’analisi del testo, partendo proprio dalle parole aramaiche.

 

Nuova analisi del Padre nostro

Un’analisi del Padre nostro richiederebbe un lavoro immenso. Qui mi limiterò soltanto a evidenziare soltanto due argomenti.

La prima cosa da esaminare è se esiste una relazione tra i singoli versetti della preghiera. Innanzi tutto bisogna osservare le tre invocazioni iniziali: sia santificato il tuo nome (nethqadash shmokh), venga il tuo regno (tithe malkutokh), sia fatta la tua volontà (nehwe sebyonokh). Il testo greco esprime i tre verbi all’aoristo imperativo di 3° persona singolare. Il testo latino invece mette i verbi al congiuntivo presente, e ugualmente avviene nel testo italiano. Trattasi, in buona sostanza, di tre invocazioni. Se si osserva il testo aramaico, però, i verbi sono all’imperfetto. Tale tempo può essere tradotto con l’indicativo presente abituale o con l’indicativo futuro o con il congiuntivo ottativo. Chiaramente la tradizione occidentale ha tramandato le parole di Gesù nella forma di un congiuntivo ottativo, con la variante dell’aoristo imperativo greco. Ma qual era l’intenzione di Gesù? E’ chiara la differenza: se Gesù voleva limitarsi a una semplice invocazione, allora andava bene la traduzione come è stata tramandata nei secoli. Ma se Gesù invece voleva esprimere una certezza, ancorché futura, allora i tre verbi vanno tradotti con un indicativo futuro. Con esso infatti si indica una realtà, e non semplicemente una possibilità, anche se il suo compimento avverrà nel futuro. Che questo potesse essere il senso esatto delle parole di Gesù lo si evince dalla seconda parte della preghiera in cui si chiede il pane necessario, oggi. Quindi le parole precedenti si riferiscono a un futuro certo, che Gesù garantisce che avverrà. Nella sua realtà teandrica Gesù realizza in prima persona la santificazione del nome, la venuta del regno, l’esecuzione della volontà di Dio. Questa azione redentrice viene partecipata, mediante la grazia, a tutti i credenti in Gesù Cristo. Però l’umanità redenta, per poter attuare anch’essa la Santificazione del Nome, necessita di un continuo aiuto da parte di Dio. Perciò Gesù insegna questa preghiera, che oltre a essere un’invocazione al Padre, è anche la promessa di un futuro messianico.

Per meglio comprendere il significato del Padre nostro, si ritiene opportuno suddividerlo come segue:

1. Padre nostro che sei nei cieli,

              2. Sarà santificato il tuo nome                               5. Dacci il nostro pane necessario oggi

              3. Verrà il tuo regno                                             6. Rimetti a noi i nostri come noi li  abbiamo anche rimessi ai nostri debitori

              4. Sarà fatta la tua volontà                                    7. Non c’indurre in tentazione, ma

              come in cielo così in terra                                     liberaci dal male          

8. Perché tuo è il regno,

e la potenza

e la gloria

sempre e per sempre, amen.

 

Dopo l’invocazione introduttiva, si possono osservare le relazioni che intercorrono tra i versetti 2-5, 3-6 e 4-7:

vv. 2-5: In futuro avverrà la Santificazione del Nome, ma per poterla realizzare a noi necessita il sostentamento, oggi;

vv. 3-6: In futuro verrà il tuo regno, ma perché ciò sia possibile noi dobbiamo sempre essere perdonati dai nostri peccati, come noi abbiamo già perdonato a chi ci ha fatto del male;

vv. 4-7: In futuro la volontà del Padre sarà fatta in cielo e in terra, ma perché ciò avvenga, noi chiediamo al Padre stesso, non solo che non permetta che siamo tentati da Satana, come lo fu Giobbe, ma anche che ci liberi dal male.

La dossologia finale esprime non solo la possibilità, ma anche la realtà effettiva di quanto si chiede: perché è del Padre il regno, la potenza e la gloria per tutta l’eternità.

Un secondo argomento da approfondire è la questione della Santificazione del nome. A pag. 2 s. ho già spiegato perché è importante questa frase. Il suo fondamento si trova nella Torah, quando il Signore dice:

“Poiché io sono il Signore, il Dio vostro. Santificatevi dunque e siate santi, perché io sono santo; … Poiché io sono il Signore, che vi ho fatti uscire dal paese d’Egitto, per essere il vostro Dio; siate dunque santi, perché io sono santo”( Lv 11, 44-45). Questo invito alla santità si trova ancora in Lv 19, 2; Lv 20, 7-8; Nm15, 40.

Nel Nuovo Testamento Maria, nel Magnificat, proclama la Santità del Nome e la fedeltà del Signore alla Santa Alleanza:

“Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono” (Lc 1, 49-50);

“Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni” (Lc 1, 72-75).

Dopo il discorso di Gesù  a Cafarnao sul “pane della vita” e l’affermazione che lui stesso è il “pane della vita”, molti discepoli abbandonano il Maestro (cfr. Gv 6, 30-66). Rivolgendosi ai discepoli, Gesù chiede se anch’essi vogliano andarsene. Ma Pietro proclama la Santità del Nome:

“Gli rispose Simon Pietro:  «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio»” (Gv 6, 68-69). 

Gesù, nel discorso dell’Ultima Cena proclama anche lui la Santità del Nome:

“Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi” (Gv 17, 11).

L’atto più importante, che rende efficace tutta la redenzione, è l’infusione dello Spirito Santo:

“Gesù disse loro di nuovo:  «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi».  Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse:  «Ricevete lo Spirito Santo»”(Gv 20, 21-22).

E’ lo stesso Spirito che nel giorno della Pentecoste sarà effuso su Maria Santissima e gli Apostoli nel Cenacolo (cfr. At 2, 1-4).

Inizia così l’inabitazione dello Spirito Santo nell’uomo redento. Il cristiano diventa così per grazia ciò Dio è per natura: egli diviene il tempio dello Spirito Santo. L’uomo da solo non è capace di elevarsi alla dignità di Dio. Ma con l’ispirazione dello Spirito Santo che è in lui, l’uomo diventa capace di agire secondo la volontà di Dio, perché è guidato dallo stesso Spirito:

“E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4, 6).

La Santificazione del Nome è dunque sempre un’azione divina: procede dal Padre nel Figlio e nello Spirito Santo, che inabita nei nostri cuori e che ci rende capaci di elevare al Padre qualsiasi nostro atto, mossi dallo stesso Spirito. Ciò che però è molto importante, perché è il segno perpetuo a nostra garanzia, è il sacramento, come segno visibile della grazia. E il sacramento possiede questa forza intrinseca, perché è la manifestazione della presenza permanente di Gesù Cristo risorto in mezzo a noi. Questa dottrina è molto antica, come risulta dalle parole di S. Cipriano, nel suo commento al Padre Nostro:

“E il nostro agire non sia in contrasto con lo Spirito, perché, dal momento che abbiamo incominciato ad essere creature spirituali e celesti, non abbiamo a pensare e compiere se non se spirituali e celesti, giacché lo stesso Signore dice: «Chi mi onorerà, anch’io lo onorerò; chi mi disprezzerà sarà oggetto di disprezzo » (1 Sam 2, 30). … Dopo di questo diciamo: «Sia santificato il tuo nome», non perché auguriamo a Dio che sia santificato dalle nostre preghiere, ma perché chiediamo al Signore che in noi sia santificato il suo nome. D’altronde da chi può essere santificato Dio, quando è lui stesso che santifica? Egli disse: « Siate santi, perché anch’io sono santo » (Lv 11, 45). Perciò noi chiediamo e imploriamo che, santificati dal battesimo, perseveriamo in ciò che abbiamo incominciato ad essere. E questo lo chiediamo ogni giorno. Infatti, abbiamo bisogno di una quotidiana santificazione. Siccome pecchiamo ogni giorno, dobbiamo purificarci dai nostri delitti con una ininterrotta santificazione. Quale sia poi la santificazione che è operata in noi dalla misericordia di Dio lo annunzia l’Apostolo dicendo: « Né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi; ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spi­rito del nostro Dio! » (1 Cor 6, 9-11). Ci dice santificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio. Noi preghiamo perché rimanga in noi questa santificazione E poiché il Signore e giudice nostro impone a chi è stato da lui guarito o risuscitato di mai più peccare, perché non abbia ad accadergli qualcosa di peggio, chiediamogli giorno e flotte di custodire in noi quella santità e quella vita, che viene dalla sua grazia”.[7]

A queste parole si può aggiungere quanto ha scritto recentemente il Santo Padre nella sua ultima enciclica dedicata all’Eucaristia:

“Essa unisce il cielo e la terra. Comprende e pervade tutto il creato. Il Figlio di Dio si è fatto uomo, per restituire tutto il creato, in un supremo atto di lode, a Colui che lo ha fatto dal nulla. E così Lui, il sommo ed eterno Sacerdote, entrando mediante il sangue della sua Croce nel santuario eterno, restituisce al Creatore e Padre tutta la creazione redenta. Lo fa mediante il ministero sacerdotale della Chiesa, a gloria della Trinità Santissima. Davvero è questo il mysterium fidei che si realizza nell’Eucaristia: il mondo uscito dalle mani di Dio creatore torna a Lui redento da Cristo”.[8]

Conclusione

In questa analisi, che in origine doveva limitarsi soltanto a un paio di pagine, si è cercato di approfondire il significato del Padre Nostro. Il punto di partenza è stato il testo aramaico della preghiera, come è stato trasmesso dalla Peshitta. L’elemento più importante è l’espressione sia santificato il tuo Nome, pronunciata immediatamente dopo l’invocazione al Padre nostro che è nei cieli. La Santificazione del Nome è uno degli elementi principali della spiritualità ebraica e ha radici antichissime. La liturgia siriaca propone come preghiera introduttiva al rito della Santa Messa, oggi detta Eucaristia, il Padre Nostro, facendo risaltare in modo particolare la Santificazione del Nome. In questo particolare si differenzia del tutto dalla liturgia latina, che premette il Padre Nostro alla comunione eucaristica. Senza timore di sbagliare si può asserire che la liturgia siriaca risalga ai tempi apostolici, perché soltanto chi aveva sentito enunciare tale preghiera nella lingua originale, poteva immediatamente e intuitivamente cogliere l’esatto significato di essa. Quindi il Padre Nostro è il pilastro che regge qualsiasi ulteriore preghiera e azione cristiana.

Si comprende benissimo, quindi, la perplessità del lettore che si è rivolto alla rivista Famiglia Cristiana. E’ la perplessità di un numero incommensurabile di cristiani. Sapere che si sta apprestando una nuova traduzione del Padre Nostro è come sconvolgere una tradizione millenaria, che si tramanda di generazione in generazione in tutte le famiglie. E qui non c’è differenza tra il fatto che tale preghiera una volta si recitava in latino e oggi in italiano, perché il popolo ne comprendeva comunque il significato. Certo, si è già visto che la traduzione italiana, ma anche quella latina, non corrispondono in ogni parola all’esatto significato del testo aramaico. E’ noto, peraltro, che tradurre è tradire. Ciò vale per qualsiasi testo letterario che dalla lingua originale in cui è stato scritto, viene trasferito in un’altra lingua. Pertanto la traduzione del Padre Nostro dovrebbe essere continuamente rifatta, perché una lingua viva, come lo è l’italiano, cambia in continuazione, mentre il testo aramaico o quello latino rimangono fissi per sempre.

Ciononostante il testo latino riproduce fedelmente il senso delle parole dette da Gesù in aramaico. Lo stesso si può dire per il testo italiano, che tutti hanno memorizzato e ricordano con spontaneità, come facesse parte della propria natura. Perciò, fuor di metafora, cambiare il testo del Padre Nostro è come ferire il credente nella sua profonda convinzione.

Oltre a ciò c’è anche una questione giuridica. Sia dal punto di vista del diritto civile, sia da quello del diritto canonico c’è il problema della consuetudine. Essa non solo dopo un certo periodo diventa legge, ma è anche interprete della legge stessa. Può darsi che qualche esperto di diritto canonico sappia esattamente quando il Padre Nostro è stato tradotto in lingua italiana, con le parole con cui è recitato oggi. Potrebbe anche darsi che, a rigor di termini, non si sia formata una vera consuetudine, almeno per il testo italiano attuale; e che perciò possa effettuarsi una nuova traduzione. Ma il problema non sta esattamente così. Sopra si è detto, almeno per quanto riguarda il popolo italiano, che il Padre Nostro, sia che fosse recitato in latino, sia che fosse recitato in italiano, era sempre colto dalla gente nel suo esatto significato. E ciò perché veniva spiegato in parrocchia e nelle famiglie sin dalla più tenera infanzia. E la conoscenza del Padre Nostro era come se fosse la carta d’identità del cristiano. Perciò ha perfettamente ragione il lettore Pasquale C. – Gaeta di scrivere al teologo del settimanale citato queste parole: “Da duemila anni recitiamo il Padre Nostro e nessuno si è sognato di cambiare la preghiera insegnataci da Gesù. Perché ora si parla di modifiche?”

Perciò ogni modificazione del Padre Nostro potrebbe essere per il popolo di Dio in Italia, non soltanto un vulnus giuridico, ma anche un vulnus spirituale.

 

DARIO BAZEC

dariobazec@libero.it

 



[1] Cfr. Paul Viereck, Sermo Graecus quo Senatus Populusque Romanus magistratusque populi Romani usque ad Tiberii Caesaris aetatem in scriptis publicis usi sunt examinatur, Gottingae, 1888, Introductio, pag. XI.

[2] Cfr. Holy Apostolic Catholic Assyrian Church of the East, Hallowing of Addai and Mari Disciplers of the East in Syriac (The Anaphora of the Blessed Apostles), Priestly Liturgical Manual, Internet Edition, Chicago (USA), 2000, pagg. 1 – 2.

[3] Norman Lamm, Kiddush ha-Shem and Hillul ha-Shem,  sta in EJ,   Vol. X, coll. 977-978.

[4] Haim Hillel Ben-Sasson, Kiddush ha-Shem and Hillul ha-Shem,  Kiddush Hashem: Historical Aspects,  sta in EJ, Vol. X, col. 982.

 

[5] Vittorio Tantucci, Urbis et Orbis lingua, Poseidonia, Bologna, 1980 (ristampa),  § 146, Congiuntivo ottativo, pag. 340. NB: la sottolineatura è mia.

[6] NB. Veramente, anche quando è stata conforme alla Chiesa, ha prodotto dei risultati non molto convincenti. Un esempio per tutti: in una intervista recente il Card. Ratzinger, parlando del Catechismo in pillole, ha ammesso che ci sono ancora non pochi fedeli, che sono fervidi estimatori del Catechismo di S. Pio X. Evidentemente gli innovatori non hanno tenuto nella debita considerazione quanto sia lacerante cambiare dei principi che sono stati appresi succhiando il latte materno. Peraltro cambiare una tradizione religiosa molto radicata è una questione che deve coinvolgere tutto il Popolo di Dio e non soltanto un gruppo ristretto di persone, anche se preparate. Del resto nell’Ebraismo e rispettivamente nell’Islam i riti liturgici e le preghiere si tramandano da secoli nella  stessa maniera. Cambiarli equivale a fondare una setta.

[7] San Cipriano, vescovo e martire, Dal trattato Sul Padre nostro, Nn. 11-12; CSEL 3,274-275.

[8] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Ecclesia de Eucaristia, Città del Vaticano, 2003, § 8.