Franco Santamaria e

LA PAROLA MUSICALE DI:

"STORIE DI ECHI"

Scritto da Reno Bromuro

 

                           

 

       Fra i vari libri che si affollano sullo scrittoio e le poesie che ogni giorno riempiono la casella del PC il cervello a sera comincia a fumare come un vulcano; allora cerco di ritrovarmi facendo una passeggiata o a giocare con i ragazzi che, beati loro, sanno metterti dentro una tale allegria che dimentichi il caos sullo scrittoio e le parole tirate a sorte che scaturiscono dalla casella postale del PC.

       Ritrovata la serenità ti rilassi e guardi con prepotenza in cielo nella speranza di avere un aiuto che ti permetta di pensare e di giustificare quelle parole sconclusionate con a capo tirato a sorte e che «pomposamente» chiamano poesie.

       Ma non volevo intrattenervi parlando di queste «sciocchezzuole» ma della storia di un libro di poesie, che più degli altri ha una sua autonomia.

       Ho l’abitudine, quando devo leggere una raccolta di poesie, di scorrere i primi versi (non leggo mai la prefazione perché sempre di parte e confonde il pensiero del lettore), se questi mi rapiscono subito l’anima comincio a centellinare le liriche come un elisir di evasione; allora lo celo sotto l’alta pila, di solito all’ultimo posto; ma il libro in questione, che si chiama «Storie di echi» di Franco Santamaria ha la facoltà di trovarsi, tutte le sere sul comodino. Accendo la luce accanto alla spalliera del letto per non disturbare il sonno ad altri, e il libro eccolo là! Come ci arriva non lo so spiegare, so soltanto che lo copro con decine di altri volumi, ma lui cammina e si mette al solito posto con la pagina aperta (l’ultima letta il giorno prima). Ieri mattina vi ho messo sopra oltre i soliti libri di ogni giorno un grosso volume dell’enciclopedia, quando sono ritornato dalle prove in teatro e, pensando alle correzioni da apportare, mi stavo infilando nel letto quand’ecco… «Storie di echi» al solito posto, aperto all’ultima pagina.

       Sembra uno dei paradossi alla Oscar Wilde, eppure è la verità.

       Questa mattina (dormo poco), ho riletto le poesie a una a una sgranandole come un rosario e in ognuna ho trovato versi indimenticabili, inaspettati; e nessuno inutile, nessuno che faccia da riempitivo o da ingrediente pizzicante.

       Questa situazione, queste poesie ormai celebri nella mia memoria; lette e rilette e ogni volta rigustate come cibo nuovo e di cui si ha sempre più gola.

Non mi soffermo ancora su nessuna di esse, ma vi annuncio che fanno veramente gola, specialmente a chi ha il palato fine. E, pensando al palato fine mi sovviene un paradosso, tra i tanti di quelli dedicati all’estetica da Oscar Wilde, ed è uno dei più audaci: «non è l'arte che imita la natura come ha ripetuto per secoli la poetica neo-classicheggiante, aristotelica, italiana-cinquecentesca, francese-secento-settecentesca. Ma la natura che imita l'arte: la vita si foggia sulle creazioni degli artisti».

Ho citato questo paradosso perché è il mio stesso pensiero. Molto spesso l’ho enunciato e tantissime volte me lo hanno contestato: è il Poeta che anticipa i tempi e con la sua arte forma la vita, quindi la conferma di Oscar Wilde mi incoraggia ad insistere su questa tesi poiché la sento veritiera, sia sotto l’aspetto artistico, sia sotto l’aspetto storico.

A quel paradosso ripenso anche adesso, con insistenza, mentre dinanzi agli occhi mi si parano: 

«spighe metalliche e olio di nafta in conversione

inquietante».

la Natura ormai meccanicizzata ha perduto interamente l’odore acre della paglia sotto il sole rovente di luglio quando con la fronte colante sudore si percorrevano solchi interminabili per raccogliere la spiga lasciata dalla falce. Oggi ci sono le macchine che sostituiscono la fatica dell’uomo: mietono e contemporaneamente trebbiano; ed ecco il motivo del perché delle «spighe metalliche e olio di nafta…»

Altrove la natura è più magnanima come in «Su ala di roccia» . Il Poeta avverte:

«…il profumo di nascite

non legate alla pietra o all’umido potere della pioggia».

non è per sentito dire che le nascite non sono più legate alla pietra, ma perché il Vate le ha sperimentate, le ha vissute, forse col sorriso nell’anima, un’anima anelante e sperduta in mezzo ai colli fra gli ulivi, le querce e i cipressi, ascoltando come una Messa cantata in cui i preti celebranti rimangono imbacuccati nei loro piviali ricamati d'oro, mentre lui voce di cantore, guarda rombando come uno zanzarone irrequieto, e ripensa ancora suggestionato dalla mirabile arte della natura che ritorna a punzecchiargli l’anima, riportandogli alla memoria i trascorsi della natura di ieri e quel «profumo di nascite/ non legate alla pietra».

Mi pare come se l'archetipo di quelle nascite sia proprio il Proposto degli echi che annunciano la storia o se preferite le storie che si avvicenderanno, come «Uccelli designati».

A occhi chiusi, il Poeta, vede gote livide che cercano la natura sull'ultimo volto umano, sull’ultimo appezzamento di terreno pietroso, rimasto incolto, della sua Basilicata, e quei volti umani che sollevano la testa per trovare note di voci più poderose, ma rimangono pallidissime come coperte da un velo, per non essere notate mentre gridano a squarciagola, per coprire il fragore di un’onda crescente che converge il sogno di un fanciullo, «che sorrideva a spighe future…»

Non sono espressioni letterarie, così per dare maggior vigore alla parola, ma v'è  poesia diffusa che non apparisce alla prima lettura: è come la luce che si diffonde in tutte le altre parti e dà loro vita e le illumina. E anche la forma ne dipende, « la disposizione e il rapporto delle diverse parti, l'ordine e il progresso dei fatti»; cioè una poesia che fonde l'applicazione delle norme della ragione che costituisce l'arte.

L'artista, a mio avviso, per mettere ogni cosa al suo posto, deve sapere qual è il posto per ogni cosa; per rappresentare un fatto umano particolare, bisogna che abbia una ferma idea dell'ordine dei fatti al quale esso appartiene, per rappresentare ciò ch’è già chiaro nella sua mente. Qualsiasi avvenimento in cui la volontà dell'uomo s'incontra con l'imprevisto, e a volte proprio con quello che non voleva, bisogna che sia elevato a vedere un ordine superiore all'umano, nel quale anche i fatti si spiegano e si giustificano.

Ora l'andamento generale della vita umana sarebbe come il vento che quando è in tempesta conosce resistenza alcuna e non si cura:

«delle foglie a cui manchi

la solidità dell’idea…»

né del ruscello che scaturito limpido dalla roccia va a gettarsi nel fiume, ferendo l’anima e lasciando le ferite senza alcuna cura, in modo che rimanga in essa la ruga profonda che ricordi in eterno, finché anche lui vivrà, il marchio del dolore.

            Franco Santamaria ha imparato tante cose perché nei guai che sono venuti addosso alla natura, piccoli o grandi, li ha veduti insieme al danno che segue l'errore e la pena che segue la colpa. Perché:

«In ogni campana batte un martello di fuoco

per il ritorno delle anime all’origine».

Questa del dolore è stata una scuola per lui, ed ecco il motivo per cui:

«la nostra catarsi avviene nelle scalpellature

di ogni giorno»

Quello che ha imparato, o piuttosto che s'è rifatto vivo nel suo cuore, è la legge della ragione, e ha cercato poi d'obbedirle coi modi che costituiscono l'arte di quest’obbedienza, che sono le virtù e la prudenza senza le quali anche la buon’intenzione non riesce bene.

E, se «l’acqua del fiume lo avvolge con fremito d’ali, lo vince sorriso di zagara vergine,/ di grido secolare» questo gli riempie il cuore di bontà, già diventato buono; anche se gli è stata negata fin dalla fanciullezza la speranza senza seguito di pene, di disinganni, di delusioni e il terribile vero: il quale vero è il dolore e la morte, sopraggiunta con l’avvento del meccanicismo.

Tutto ciò non è narrato dal poeta, ma è rappresentato con incredibile vivezza ed efficacia d'immagini. La natura irrompe nella poesia con una pienezza di luce, di colori e d'armonia e veramente pare impossibile si siano potuti creare con mezzi così semplici e quasi, direi, elementari.

Il poeta, protagonista vero di questa dolorosa storia perché convinto di essere rimasto solo a ricordare e soffrire, essendo creatura viva, vive in quel suo rimpianto dei begli anni in cui la natura non aveva da lamentarsi perché tutto era sottomesso alla volontà della creazione: anni ormai tramontati senza speranza. Colpa del progresso? Ma senza progresso l’uomo diventerebbe una pianta sterile. Perciò:

«In nascosta conchiglia custodirò

il mistero del seme per il nuovo albero della vita,

palpiti di donna lieviteranno le sue radici».

A questi mirabili risultati il poeta è arrivato attraverso un'arte fondata tutta sulla musicalità della parola.

In conclusione la poesia di «Storie di echi» di Franco Santamaria è veramente lirica pura, musica dolcissima della quale non si può fare analisi alcuna, ma che si deve godere, in stato di grazia, come in stato di grazia era il poeta quando la concepì e condusse a termine. E' l'anima che è raccolta tutta nella parola, anzi è diventata parola e ha acquistato la forza creativa, costruendo un edificio di una grazia inimitabile congiunta a una possente solidità.

La storia ha echi di una potenza, che va facendosi sempre più forte a mano a mano che si sgranano i versi, e si ha davanti l’intera opera staccata in episodi, più belli dei dialoghi di una commedia.

«Storie di echi» possiede la vitalità di un momento di grazia che è un dono speciale di Dio. La musica che Santamaria ha sprigionato in questi versi creando momenti indimenticabili, vivrà finché palpiterà nell'animo umano la passione per il bello e quella commozione che esercita sempre sugli animi aperti alla bontà e all'amore.

Reno Bromuro

 

 

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