LA DISOCCUPAZIONE IN ITALIA:

DIARIO DI UNA SCONFITTA SOCIALE 

Di GIUSEPPE IANNOZZI

 

Il momento storico attuale è particolarmente difficile, non è un mistero per nessuno, anche se sono in molti quelli che con appelli altisonanti dichiarano invece che l’Italia sta semplicemente attraversando un periodo di transizione, di cambiamento, ma che presto l’emergenza occupazione non sarà più tale. Bene, potrebbe essere vero tutto ciò, peccato che io sia (o meglio sono) uno scettico non per vocazione, ma perché guardandomi intorno non posso fare a meno di notare che la disoccupazione continua a crescere in maniera allarmante: purtroppo questo è un dato di fatto che difficilmente può esser confutato da chicchessia.

Il problema dell’occupazione e del precariato ha radici a dir poco antiche; l’Italia è il simbolo della disoccupazione nei paesi cosiddetti industrializzati, è il simbolo dei lavori stagionali o/e del lavoro interinale e dei contratti di collaborazione. Sempre più lavoratori si sono visti in mezzo a una strada senza un perché: non è storia degli anni Ottanta, purtroppo i licenziamenti di cui parlo sono più che mai attuali. Pur ammettendo che l’Italia sta (o stia!) attraversando un periodo di cambiamento, come spiegare i tanti licenziamenti che in questi ultimi anni hanno messo in ginocchio non solo l’Italia del Nord, che si credeva essere una sorta di felice Eldorado e che anno annichilito il Mezzogiorno? Semplice: se ieri i Sindacati difendevano i lavoratori, oggi i Sindacati si sono dimenticati i diritti dei lavoratori. Così, chi prima era assunto regolarmente con i libretti, oggi non lo è più: l’offerta che viene avanzata sfacciatamente al lavoratore è quella di accettare un contratto di collaborazione a tempo determinato. E’ lapalissiano che il lavoratore non può che accettare la proposta; peccato che dall’oggi al domani al datore di lavoro, che è un uomo e in quanto tale vittima delle umane pulsioni dedicate ai suoi interessi personali, può benissimo passargli per la testa di licenziare il suo lavoratore, la sua risorsa umana, e neanche spiegargli con quattro stringate parole il motivo di questa sua decisione.

Il mercato del lavoro italiano è ormai inesorabilmente avviato ad emulare in tutto e per tutto la filosofia americana circa il trattamento professionale e umano dei lavoratori. Sempre più spesso i mass-media propongono dati statistici confortanti: la media degli occupati in Italia dal 1999 al 2001 è cresciuta del cinque per cento. E’ aumentata del cinque per cento? Ma quando? Dove? In quale paese della cuccagna? Persino Biancaneve ha licenziato i sette nani, ha divorziato dal suo Principe Azzurro chiedendogli gli alimenti e ha smesso la stola dell’innocenza per vestire i panni della manager rampante.

Il lavoro interinale è una delle tante piaghe del nostro Paese: si assumono persone per un tempo determinato che può variare da una settimana a un mese fino a sei mesi, poi scaduto il contratto le aziende licenziano senza pensarci su due volte. Intanto, però, il Sole 24ore dice a gran voce che l’occupazione in Italia è cresciuta: con il lavoro interinale? Bella forza! No, lavorare sei mesi o un mese a condizioni interinali non significa affatto creare nuovi posti di lavoro, piuttosto significa illudere il popolo che il mondo del lavoro ha preso una piega proprio buona. E come no? Una piega, punto e basta, anche se sarebbe il caso di dire che è una permanente senza shampoo da pagare a rate, perché chi ha lavorato a condizioni interinali un minimo di illusione se l’è fatta, certamente avrà pensato che dopo sei mesi di onorato servizio l’azienda forse avrebbe avuto interesse a regolarizzare la sua posizione lavorativa, quindi si è spesa i pochi stipendi per rinnovare il mobilio di casa, per mettere a posto la scassata cinquecento e ha persino pensato di metter su famiglia, perché se non l’avesse fatto adesso non l’avrebbe fatto mai più. Ed ecco il colpo di scena: l’azienda non ha nessun interesse a tenere il lavoratore per quanto bravo esso sia. Perché? Semplice: una volta che ne licenzia uno, subito dopo si rivolge ad altra agenzia interinale perché gli fornisca un’altra risorsa umana. E così, sei mesi ha lavorato uno, altri sei mesi lavora un altro e i giornali possono tranquillamente dire che in nel nostro BELPAESE si lavora proprio tutti e nessuna eccezione è ammessa. 

I contratti di collaborazione sono ancora più infidi: il collaboratore non ha diritto alcuno a ferie, a malattia, a un giorno di riposo, ad una pausa caffè, solo ha il diritto di lavorare come una bestia, perché i contratti di collaborazione sono a tutti gli effetti documenti legalizzati per la tratta delle risorse umane. Lo schiavismo si dice che non esista da un gran bel pezzo: non è vero, lo schiavismo è attualissimo. Ma chi è che usa ed osa ancora far dello schiavismo? Praticamente tutti. Le aziende private, il Comune, le Regioni. Ecco cosa accade: un’azienda ha bisogno di un tecnico specializzato, bene subito un tecnico viene contattato e viene, per così dire, regolarizzato con un contratto di collaborazione a tempo determinato, poi, una volta scaduti i termini contrattuali, l’imprenditore decide di non rinnovare il contratto di collaborazione. Ma chi pensa che siano solo le aziende private ad avvalersi di simili contratti cade nel torto, perché anche le Regioni così come i Comuni non disdegnano affatto di avvalersi di simili contratti. Per le Regioni e i Comuni il regime di collaborazione è una questione ancora più infida: questi si rivolgono alle aziende private affinché gli forniscano un tot di risorse umane da impiegare presso i loro uffici; l’azienda fornisce gli schiavi umani e questi cominciano a lavorare, poi, una volta che il lavoro più rognoso e sporco è stato consumato dai collaboratori, questi vengono sbattuti fuori a calci nel sedere perché ormai il grosso del lavoro pesante è stato sbrigato e quello pulito, quello semplice, può essere tranquillamente esser gestito da quei pochi che sono regolarmente assunti all’interno degli uffici regionali o comunali. Quasi il cinquanta per cento di quanti lavorano oggi nei vari reparti della Fiat sono collaboratori; un buon terzo di quanti lavorano in Comune e in Regione sono collaboratori esterni.

Ultimamente il CSI torinese è stato nel centro del mirino: una cosa da niente, per un qualche errore, non sono stati pagati gli stipendi a molti dipendenti regionali e molti di questi erano personaggi non poco importanti; chi ha fatto l’errore? Ovviamente il personale interno del CSI, che si è visto costretto a chiedere scusa attraverso gli organi di informazione e a imputare la colpa dell’accaduto ad un errore dei programmi di gestione guarda caso gestiti proprio dal personale interno CSI. Ovviamente tutto ciò ha fatto sì che molti collaboratori esterni sono stati licenziati su due piedi: no, loro non avevano nessuna colpa. Purtroppo, a seguito di questo errore, il CSI è stato costretto a pagare delle multe e quindi ha dovuto (Dio mio, ha dovuto!) operare dei tagli di personale e ovviamente ha deciso di tagliare i fondi ai collaboratori esterni. E questi collaboratori convocati alla vigilia di Natale sono stati licenziati su due piedi senza dar loro spiegazione alcuna del perché. Così è il lavoro, queste le angherie che deve sopportare un onesto lavoratore che è inquadrato con un meschino contratto di collaborazione. Ma intanto il Comune così come le Regioni non c’è giorno che non dicano a pieni polmoni ai quattro venti che il tasso di disoccupazione è sensibilmente diminuito. Ma che cavolo di BELPAESE siamo? I poveri collaboratori oggi a spasso avranno lavorato si e no quattro o cinque mesi, non di più, e mi venite a dire che la disoccupazione è in netto calo soprattutto al Nord! Beh, tutto ciò è molto ma molto sporco, lasciatevelo dire signori miei che arricciate il naso e che magari pensate meglio per loro, almeno hanno avuto la possibilità di lavorare per qualche mese mentre ci sono centinaia di giovani che sono costretti a lavorare in nero. Lavorare in nero? Il lavoro nero non esiste più, esiste solo lo schiavismo signori miei: un giovane che lavora in nero non porta a casa a fine del mese neanche 500 Euro e si fa un mazzo tanto sopportando orari impossibili e angherie di tutti i tipi. Se questo è lavoro nero, bene, per voi, ma non per me. Questo è schiavismo. Questi giovani non avranno mai un futuro, avranno solo la magra consolazione di arrivare a fine del mese con un euro in tasca che per forza di cose se lo sono fatto avanzare per tentare invano una sbornia con un pessimo vinello in brick. Risultato: il mattino dopo, il primo del mese avranno solo una gran brutta emicrania e il fegato ingrossato, ma questi non sono i postumi della sbornia, questi sono i postumi della disperazione. Ed intanto il lavoro in nero che più nero non si può, i contratti di collaborazione, il lavoro interinale sono la moda imperante del nostro BELPAESE.

Passeggiando per le vie centrali della mia città non posso fare a meno di notare che i barboni sono sempre più giovani, ragazzi diplomati e con tanto di laurea che hanno preferito la strada allo schiavismo. Una ragazza mi si avvicina, mi chiede se posso darle qualcosa, qualche spicciolo perché lei vive in strada: mi si è stretto il cuore, la giovane avrà avuto al massimo ventiquattro anni. Le regalo qualche spicciolo e lei mi porge un giornale ciclostilato dicendomi che quello lo scrivono loro: sono semplici fotocopie, quattro pagine scarse, ma tutti gli articoli sono di una chiarezza e di una profondità umana allarmante, sono pagine scritte con il cuore, con l’anima, con il sangue. Di fronte a ciò non ho potuto fare a meno di tirare fuori 5 euro e darglieli senza dire nulla perché troppo era il mio imbarazzo per parlare, per dire qualcosa di intelligente. Poi sono fuggito via mortificato: possibile che i giovani non abbiano altre alternative se non quelle dello schiavismo e della vita come raminghi? Francesco Guccini cantava che ‘Dio è morto?: …lungo alle nuvole di fumo del mondo fatto di città, essere contro o ingoiare la nostra stanca civiltà, è un Dio che è morto: ai bordi delle strade Dio è morto, nelle auto prese a rate Dio è morto, nei miti dell’estate Dio è morto. Mi han detto che questa mia generazione ormai non crede in ciò che spesso ha mascherato con la fede, nei miti eterni della Patria o dell’eroe perché è venuto ormai il momento di negare tutto ciò che è falsità, le fedi fatte di abitudine e paura, una politica che solo fa carriera, il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto, l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto, è un Dio che è morto… Purtroppo, in questo momento storico che sarà il futuro se qualcosa non cambierà, parlare di un Dio che è morto è cosa assai riduttiva: Dio non è morto, è risorto ma non è il Dio che ci si aspettava che risorgesse, il Dio risorto, metaforicamente parlando, è un dio pagano di disperazione che i vecchi Sessantottini hanno fatto risorgere con la forza per piegarlo ai loro interessi perché anche loro, la più parte, ormai sono passati alla classe dirigente, quella che sta torchiando la generazione di oggi con lo schiavismo, lo stesso che nel ’68 questi sessantottini combattevano. Sì, è proprio il caso di asserire a lettere maiuscole CHE NON C’E’ PIU’ RELIGIONE e scusate se è poco.

GIUSEPPE IANNOZZI


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