SENECA– Vivi adesso pag 78

De brevitate vitae

Potestne quicquam stultius esse quam quorundam sensus, hominum eorum dico qui prudentiam iactant? Operosius occupati sunt. Ut melius possint vivere, impendio vitae vitam instruunt. Cogitationes suas in longum ordinant; maxima porro vitae iactura dilatio est: illa primum quemque extrahit diem, illa eripit praesentia dum ulteriora promittit. Maximum vivendi impedimentum est exspectatio, quae pendet ex crastino, perdit hodiernum. Quod in manu fortunae positum est disponis, quod in tua, dimittis. Quo spectas? Quo te extendis? Omnia quae ventura sunt in incerto iacent: protinus vive. Clamat ecce maximus vates et velut divino ore instinctus salutare carmen canit: <Optima quaeque dies miseris mortalibus aevi prima fugit>."Quid cunctaris?", inquit, "Quid cessas? Nisi occupas, fugit." Et cum occupaveris, tamen fugiet: itaque cum celeritate temporis utendi velocitate certandum est et velut ex torrenti rapido nec semper ituro cito hauriendum. Hoc quoque pulcherrime ad exprobrandam infinitam cogitationem quod non optimam quamque aetatem sed diem dicit. Quid securus et in tanta temporum fuga lentus menses tibi et annos in longam seriem, utcumque aviditati tuae visum est, exporrigis? De die tecum loquitur et de hoc ipso fugiente. Num dubium est ergo quin prima quaeque optima dies fugiat mortalibus miseris, id est occupatis? Quorum puerilis adhuc animos senectus opprimit, ad quam imparati inermesque perveniunt; nihil enim provisum est: subito in illam necopinantes inciderunt, accedere eam cotidie non sentiebant.Quemadmodum aut sermo aut lectio aut aliqua intentior cogitatio iter facientis decipit et pervenisse ante sciunt quam appropinquasse, sic hoc iter vitae assiduum et citatissimum quod vigilantes dormientesque eodem gradu facimus occupatis non apparet nisi in fine.

Puo' esserci un atteggiamento piu' sciocco che quello degli uomini che si fanno vanto della propria lungimiranza? Sono affaccendati con piu' impegno: per poter vivere meglio organizzano la vita a scapito della vita. Fanno progetti a lungo termine; la più grande sciagura della vita è il suo procrastinarla: innanzitutto questo fatto rimanda ogni giorno, distrugge il presente mentre promette il futuro. Il più grande ostacolo al vivere è l’attesa, che dipende dal domani, (ma) perde l’oggi. Disponi ciò che è posto in grembo al fato e trascuri ciò che è in tuo potere. A che miri? Dove vuoi arrivare? Sono avvolti dall’incertezza tutti gli avvenimenti futuri: vivi subito. Ecco, grida il sommo poeta [Virgilio, Georgiche] e come ispirato da bocca divina eleva un carme salvifico: "Ogni giorno piu' lieto per i miseri mortali e' il primo a volare via." Dice: "Perché esiti? Perché indugi? Se non te ne appropri, (i giorni migliori) fuggono." E pure quando te ne sarai impossessato, essi fuggiranno: pertanto bisogna combattere con la rapidità del farne uso contro la velocità del tempo e attingerne rapidamente (cito) come da un torrente impetuoso e che non scorre per sempre. Anche ciò è molto bello, che per rimproverare un indugio senza fine, dica non "il tempo migliore", ma "i giorni migliori." Perché tu, tranquillo e ostinato in tanto fuggire del tempo prefiguri per te una lunga serie di mesi e di anni, a seconda che appaia opportuno alla tua avidità? (Virgilio) ti parla di un giorno e di un giorno che fugge. Vi è dunque dubbio che (quin) i migliori giorni fuggano ai mortali sventurati, cioè affaccendati? Sui loro animi ancora (adhuc) infantili preme la vecchiaia, alla quale giungono impreparati ed indifesi; nulla infatti fu previsto: improvvisamente e senza aspettarselo si imbatterono in essa, non si accorgevano che essa si avvicinava giorno dopo giorno. Allo stesso modo che un discorso o una lettura o un pensiero alquanto intenso trae in inganno chi percorre un cammino e si accorge di essere giunto prima di essersi avvicinato (alla meta), così questo viaggio della vita, costante e velocissimo, che percorriamo con la stessa andatura da svegli e da addormentati, non si manifesta agli affaccendati se non alla fine.

SENECA – Non cominciare a vivere quando e’ tempo di finire

De brevitate vitae

Omnia licet quae umquam ingenia fulserunt in hoc unum consentiant, numquam satis hanc humanarum mentium caliginem mirabuntur: praedia sua occupari a nullo patiuntur et, si exigua contentio est de modo finium, ad lapides et arma discurrunt; in vitam suam incedere alios sinunt, immo vero ipsi etiam possessores eius futuros inducunt; nemo invenitur qui pecuniam suam dividere velit, vitam unusquisque quam multis distribuit! Adstricti sunt in continendo patrimonio, simul ad iacturam temporis ventum est, profusissimi in eo cuius unius honesta avaritia est. Libet itaque ex seniorum turba comprendere aliquem: "Pervenisse te ad ultimum aetatis humanae videmus, centesimus tibi vel supra premitur annus: agedum, ad computationem aetatem tuam revoca. Duc quantum ex isto tempore creditor, quantum amica, quantum rex, quantum cliens abstulerit, quantum lis uxoria, quantum servorum coercitio, quantum officiosa per urbem discursatio; adice morbos quos manu fecimus, adice quod et sine usu iacuit: videbis te pauciores annos habere quam numeras. Repete memoria tecum quando certus consilii fueris, quotus quisque dies ut destinaveras recesserit, quando tibi usus tui fuerit, quando in statu suo vultus, quando animus intrepidus, quid tibi in tam longo aevo facti operis sit, quam multi vitam tuam diripuerint te non sentiente quid perderes, quantum vanus dolor, stulta laetitia, avida cupiditas, blanda conversatio abstulerit, quam exiguum tibi de tuo relictum sit: intelleges te immaturum mori." Quid ergo est in causa? Tamquam semper victuri vivitis, numquam vobis fragilitas vestra succurrit, non observatis quantum iam temporis transierit; velut ex pleno et abundanti perditis, cum interim fortasse ille ipse qui alicui vel homini vel rei donatur dies ultimus sit. Omnia tamquam mortales timetis, omnia tamquam immortales concupiscitis. Audies plerosque dicentes: "A quinquagesimo anno in otium secedam, sexagesimus me annus ab officiis dimittet." Et quem tandem longioris vitae praedem accipis? Quis ista sicut disponis ire patietur? Non pudet te reliquias vitae tibi reservare et id solum tempus bonae menti destinare quod in nullam rem conferri possit? Quam serum est tunc vivere incipere cum desinendum est? Quae tam stulta mortalitatis oblivio in quinquagesimum et sexagesimum annum differre sana consilia et inde velle vitam inchoare quo pauci perduxerunt?

Per quanto siano concordi su questo solo punto gli ingegni più illustri che mai rifulsero, mai abbastanza si meraviglieranno di questo appannamento delle menti umane: non tollerano che i propri campi vengano occupati da nessuno e, se sorge una pur minima disputa sulla modalità dei confini, si precipitano alle pietre ed alle armi: permettono che altri invadano la propria vita, anzi essi stessi vi fanno entrare i suoi futuri padroni; non si trova nessuno che sia disposto a dividere il proprio denaro: a quanti ciascuno distribuisce la propria vita! Sono avari nel tenere i beni; appena si giunge alla perdita di tempo, diventano molto prodighi in quell’unica cosa in cui l’avarizia è un pregio. E così mi piacerebbecitare uno dalla folla degli anziani: "Vediamo che sei arrivato al termine della vita umana, hai su di te cento o più anni: suvvia, fa un bilancio della tua vita. Calcola quanto da questo tempo hanno sottratto i creditori, quanto le amanti, quanto i patroni, quanto i clienti, quanto i litigi con tua moglie, quanto i castighi dei servi, quanto le visite affannose attraverso la città; aggiungi le malattie, che ci siamo procurati con le nostre mani, aggiungi il tempo che giacque inutilizzato: vedrai che hai meno anni di quanti ne conti. Ritorna con la mente a quando sei stato fermo in un proposito, quanti pochi giorni si sono svolti così come li avevi programmati, a quando hai avuto la disponibilità di te stesso, a quando il tuo volto non ha mutato espressione, a quando il tuo animo è stato coraggioso, che cosa di positivo hai realizzato in un periodo tanto lungo, quanti hanno depredato la tua vita mentre non ti accorgevi di cosa stavi perdendo, quanto ne ha sottratto un vano dispiacere, una stupida gioia, un’avida bramosia, una piacevole discussione, quanto poco ti è rimasto del tuo: capirai che muori prematuramente". Dunque qual è il motivo? Vivete come se doveste vivere in eterno, mai vi sovviene della vostra caducità, non osservate quanto tempo è già trascorso; ne perdete come da una provvista ricca ed abbondante, quando forse proprio quel giorno, che si regala ad una certa persona od attività, è l’ultimo. Avete paura di tutto come mortali, desiderate tutto come immortali. Udirai la maggior parte dire: "Dai cinquant’anni mi metterò a riposo, a sessant’anni mi ritirerò a vita privata". E che garanzia hai di una vita tanto lunga? Chi permetterà che queste cose vadano così come hai programmato? Non ti vergogni di riservare per te i rimasugli della vita e di destinare alla sana riflessione solo il tempo che non può essere utilizzato in nessun’altra cosa? Quanto tardi è allora cominciare a vivere, quando si deve finire! Che sciocca mancanza della natura umana differire i buoni propositi ai cinquanta e sessanta anni e quindi voler iniziare la vita lì dove pochi sono arrivati!

Seneca – Il tempo pag 70

Epistole

Ita fac, mi Lucili: vindica te tibi, et tempus quod adhuc aut auferebatur aut subripiebatur aut excidebat collige et serva. Persuade tibi hoc sic esse ut scribo: quaedam tempora eripiuntur nobis, quaedam subducuntur, quaedam effluunt. Turpissima tamen est iactura quae per neglegentiam fit. Et si volueris attendere, magna pars vitae elabitur male agentibus, maxima nihil agentibus, tota vita aliud agentibus. Quem mihi dabis qui aliquod pretium tempori ponat, qui diem aestimet, qui intellegat se cotidie mori? In hoc enim fallimur, quod mortem prospicimus: magna pars eius iam praeterit; quidquid aetatis retro est mors tenet. Fac ergo, mi Lucili, quod facere te scribis, omnes horas complectere; sic fiet ut minus ex crastino pendeas, si hodierno manum inieceris. Dum differtur vita transcurrit. Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est; in huius rei unius fugacis ac lubricae possessionem natura nos misit, ex qua expellit quicumque vult. Et tanta stultitia mortalium est ut quae minima et vilissima sunt, certe reparabilia, imputari sibi cum impetravere patiantur, nemo se iudicet quicquam debere qui tempus accepit, cum interim hoc unum est quod ne gratus quidem potest reddere. Interrogabis fortasse quid ego faciam qui tibi ista praecipio. Fatebor ingenue: quod apud luxuriosum sed diligentem evenit, ratio mihi constat impensae. Non possum dicere nihil perdere, sed quid perdam et quare et quemadmodum dicam; causas paupertatis meae reddam. Sed evenit mihi quod plerisque non suo vitio ad inopiam redactis: omnes ignoscunt, nemo succurrit. Quid ergo est? non puto pauperem cui quantulumcumque superest sat est; tu tamen malo serves tua, et bono tempore incipies. Nam ut visum est maioribus nostris, "sera parsimonia in fundo est"; non enim tantum minimum in imo sed pessimum remanet. Vale.

Fa cosi’, mio Lucilio: rivendica te a te stesso e raccogli e custodisci il tempo che finora o ti e’ stato portato via o sottratto o che andava perduto. Convinciti che cio’ sia cosi’ come scrivo, certi periodi di tempo ci sono tolti, certi ci sono sottratti, certi sfuggono. Tuttavia e’ vergognosissima la perdita che avviene a causa della nostra negligenza, e se vorrai stare attento, (capirai che) gran parte della nostra vita scorre via a coloro che fanno del male, grandissima parte della vita a quelli che non fanno nulla, tutta la vita a quelli che fanno altro. Chi mi indicherai che dia qualche prezzo al tempo, che dia valore al giorno, che capisca che muoriamo ogni giorno? In questo infatti noi sbagliamo: nel fatto che vediamo la morte lontano davanti a noi: gran parte della morte e’ ormai trascorsa, la morte tiene in pugno tutto il tempo che e’ dietro a noi. Fa cosi’, Lucilio mio, quello che tu dici di fare, abbraccia tutte le ore, cosi’ avverra’ che meno dipenderai dal domani se avrai allungato la mano sull’oggi. Mentre si rinvia, la vita se ne va. Lucilio: tutte le cose dipendono da altri, solo il tempo ci appartiene. La natura ci ha messo in possesso di questa sola cosa fugace e lubrica, dalla quale ci puo’ allontanare chiunque vuole. Ed e’ cosi’ grande la stoltezza dei mortali che permettono di ritenersi debitori di quelle cose minime e di pochissimo conto, ma certamente recuperabili una volta che le hanno ottenute, mentre nessuno che ha ricevuto in dono il tempo ritiene di essere debitore di qualcosa, mentre questo e’ l’unica che neppure una persona grata ci puo’ restituire. Tu forse chiederai cosa faccio io che ti do'’questi consigli. Te lo confessero’ sinceramente: accade a me cio’ che accade a chi spende molto ma e’ attento: ho sempre il controllo della spesa. Non posso dire di non sprecare nulla, ma potrei dire che cosa spendo e perche’ e in che modo. Potrei spiegare i motivi della mia poverta’, ma a me avviene cio’ che avviene ai piu’ ridotti in poverta’ non per loro colpa: tutti dimostrano comprensione, nessuno viene in aiuto. Che cosa, allora? Non ritengo povero colui al quale e’ sufficiente quel poco che gli rimane. Tuttavia desidero che tu conservi le tue cose e che cominci al tempo giusto. Infatti, come e’ sembrato giusto ai nostri antenati, e’ tardivo il risparmio che e’ in fondo, infatti in fondo non c’e’ tanto la parte piu’ piccola, ma la parte peggiore. Ciao

Seneca – Piccolezza dell’uomo nell’universo pag 27

Naturales quaestiones – Liber I

O quam ridiculi sunt mortalium termini! Ultra Histrium Dacos no(strum) arceat imperium, Haemo thraces includat, Parthis abstet Euphrates, Danuvius Sarmatica ac Romana disterminet, Rhenus Germaniae modum faciat, Pyrenaeus medium inter Gallias et Hispanias iugum extollat, inter Aegyptum et Aethiopas harenarum incluta vastitas iaceat. Si quis formicis det intellectum hominis, nonne et illae unam aream in multas provincias divident? Cum te in illa vere magna sustuleris; quoties videbis exercitus subrectis ire vexillis et quasi magnum aliquid agatur, equitem modo ulteriora explorantem, modo a lateribus affusum, libebit dicere: "It nigrum campis agmen": formicarum iste discursus est, in angusto laborantium. Quid illis et nobis interest, nisi exigui mensura corpusculi? Punctum est istud in quo navigatis, in quo bellatis, in quo regna disponitis: minima, etiam cum illis utrimque Oceanus occurrit. Sursum ingentia spatia sunt, in quorum possessionem animus admittitur: et ita, si minimum secum ex corpore tulit, si sordidum omne detersit, et expeditus levisque ac contentus modico emicuit.

O quanto sono ridicoli i confini dei mortali! Ammettiamo pure che il nostro impero tenga lontani i Daci al di la’ dell’Istro, che l’Emo racchiuda i Traci, che l’Eufrate tenga lontani i Parti, che il Danubio separi la pianura Sarmatica e quella Romana, che il Reno costituisca il confine della Germania, che i Pirenei si innalzino tra la Gallia e la Spagna, che tra l’Egitto e gli Etiopi si estenda una distesa incolta di sabbia. Se qualcuno desse alle formiche l’intelligenza propria dell’uomo, non e’ forse vero che anche quelle dividerebbero una sola aia in molte provincie? Quando ti sarai elevato a quelle cose veramente grandi, tutte le volte che vedrai gli eserciti procedere a bandiere spiegate e, come se venisse compiuto qualcosa di grande, la cavalleria ora esplorare zone piu’ lontane ora sparsa ai fianchi, ti piacera’ dire "va la nera schiera per i campi": e’ questo un andirivieni di formiche che si affannano in uno spazio angusto. Che differenza c’e’ fra noi e loro se non le dimensioni di un corpo piccolissimo? E’ un punto questo in cui navigate, combattete, disponete regni, che sono piccolissimi, anche quando hanno come confine l’oceano da entrambi i lati. In alto ci sono spazi grandi, al possesso dei quali e’ ammesso l’animo e solo a patto che porti con se’ una parte minima del corpo, se lava via ogni macchia e si leva in volo libero e leggero e contento del necessario

Seneca – A soddisfare le esigenze della natura basta la natura stessa pag 33

Epistole

Illi sapientes fuerunt aut certe sapientibus similes quibus expedita erat tutela corporis. Simplici cura constant necessaria: in delicias laboratur. Non desiderabis artifices: sequere naturam. Illa noluit esse districtos; ad quaecumque nos cogebat instruxit. 'Frigus intolerabilest corpori nudo.' Quid ergo? non pelles ferarum et aliorum animalium a frigore satis abundeque defendere queunt? non corticibus arborum pleraeque gentes tegunt corpora? non avium plumae in usum vestis conseruntur? non hodieque magna Scytharum pars tergis vulpium induitur ac murum, quae tactu mollia et inpenetrabilia ventis sunt? Quid ergo? non quilibet virgeam cratem texuerunt manu et vili obliverunt luto, deinde [de] stipula aliisque silvestribus operuere fastigium et pluviis per devexa labentibus hiemem transiere securi? 'Opus est tamen calorem solis aestivi umbra crassiore propellere.' Quid ergo? non vetustas multa abdidit loca quae vel iniuria temporis vel alio quolibet casu excavata in specum recesserunt? Quid ergo? non in defosso latent Syrticae gentes quibusque propter nimios solis ardores nullum tegimentum satis repellendis caloribus solidum est nisi ipsa arens humus? Non fuit tam iniqua natura ut, cum omnibus aliis animalibus facilem actum vitae daret, homo solus non posset sine tot artibus vivere; nihil durum ab illa nobis imperatum est, nihil aegre quaerendum, ut possit vita produci. Ad parata nati sumus: nos omnia nobis difficilia facilium fastidio fecimus. Tecta tegimentaque et fomenta corporum et cibi et quae nunc ingens negotium facta sunt obvia erant et gratuita et opera levi parabilia; modus enim omnium prout necessitas erat: nos ista pretiosa, nos mira, nos magnis multisque conquirenda artibus fecimus. Sufficit ad id natura quod poscit

Furono sapienti o certamente simili a sapienti coloro ai quali la cura del corpo era sbrigativa: le cose necessarie richiedono un impegno semplice: ci si affanna per i piaceri. Non dovrai desiderare degli artigiani, segui la natura. Quella non ha voluto che ci distraessimo, ci ha fornito tutto cio’ verso cui ci costringeva. Ma il freddo e’ insopportabile per il corpo nudo. E allora? Non e’ forse vero che le pelli delle fiere e degli altri animali possono difenderci a sufficienza e in abbondanza dal freddo? Non e’ forse vero che moltissime popolazioni proteggono i corpi con le corteccie degli alberi? Non e’ forse vero che le piume degli uccelli sono intrecciate per farne dei vestiti? Non e’ forse vero che ancora oggi gran parte degli Sciti si copre con pelli di volpi e di martoreche sono morbide al tatto e impenetrabili ai venti? E allora? Non e’ forse vero che intrecciavano con la mano graticci di vimini e li spalmavano col vile fango e coprivano i tetti con frasche e altre piante silvestri e passavano tranquilli l’inverno mentre le piogge scendevano lungo i pendii (delle capanne)? Tuttavia bisogna respingere il calore del sole estivo con un ombra piu’ fitta. E allora? Non e’ forse vero che il passare del tempo ha nascosto molti anfratti che scavati a causa della corrosione del tempo o da qualsiasi altro accidente si sono trasformati in caverne? E allora? Non e’ forse vero che le popolazioni Sirte si nascondevano sotto terra e quelle per le quali, a causa di calori eccessivi del sole, nessuna copertura e’ abbastanza efficaceper respingere il calore se non la stessa terra infuocata? La natura non e’ stata tanto ingiusta da, mentre concedeva a tutti gli altri esseri viventi un facile tenore di vita, lasciare che solo l’uomo non potesse vivere senza tanti mestieri. Niente di duro e’ stato imposto da quella a noi, niente da cercarsi con difficolta’ perche’ la vita possa essere protratta. Siamo nati per cose pronte. Noi abbiamo reso tutto per noi difficile per il rifiuto delle cose facili. La case, i vestiti e le medicine del corpo e i cibi e tutte le cose che ora sono diventate una grande preoccupazione erano a portaqta di mano e gratuite e procurabili con una fatica semplice. Infatti la misura di tutte le cose era determinata in base alla necessita’, noi abbiamo reso queste cose preziose (eccezionali), noi le abbiamo rese ottenibili con grandi e molti mestieri. La natura e’ sufficiente per cio’ che richiede.

Seneca – Gli schiavi sono uomini come noi pag 58

Epistole

Libenter ex iis qui a te veniunt cognovi familiariter te cum servis tuis vivere: hoc prudentiam tuam, hoc eruditionem decet. 'Servi sunt.' Immo homines. 'Servi sunt ' Immo contubernales. 'Servi sunt.' Immo humiles amici. 'Servi sunt.' Immo conservi, si cogitaveris tantundem in utrosque licere fortunae. Itaque rideo istos qui turpe existimant cum servo suo cenare: quare, nisi quia superbissima consuetudo cenanti domino stantium servorum turbam circumdedit? Est ille plus quam capit, et ingenti aviditate onerat distentum ventrem ac desuetum iam ventris officio, ut maiore opera omnia egerat quam ingessit. At infelicibus servis movere labra ne in hoc quidem ut loquantur, licet. Vis tu cogitare istum quem servum tuum vocas ex isdem seminibus ortum eodem frui caelo, aeque spirare, aeque vivere, aeque mori! tam tu illum videre ingenuum potes quam ille te servum. Variana clade multos splendidissime natos, senatorium per militiam auspicantes gradum, fortuna depressit: alium ex illis pastorem, alium custodem casae fecit. Contemne nunc eius fortunae hominem in quam transire dum contemnis potes. Nolo in ingentem me locum immittere et de usu servorum disputare, in quos superbissimi, crudelissimi, contumeliosissimi sumus. Haec tamen praecepti mei summa est: sic cum inferiore vivas quemadmodum tecum superiorem velis vivere. Quotiens in mentem venerit quantum tibi in servum <tuum> liceat, veniat in mentem tantundem in te domino tuo licere. 'At ego' inquis 'nullum habeo dominum.' Bona aetas est: forsitan habebis. Nescis qua aetate Hecuba servire coeperit, qua Croesus, qua Darei mater, qua Platon, qua Diogenes? Vive cum servo clementer, comiter quoque, et in sermonem illum admitte et in consilium et in convictum.

Sono venuto a sapere con piacere da quelli che vengono a casa tua che tu vivi con i tuoi servi in modo amichevole. Questo si addice alla tua saggezza e alla tua coltura. Sono servi, qunque uomini, sono servi, sono "compagni di avventura", sono servi, anzi umili amici, ma sono servi, piuttosto compagni di schiavitu’, se pensi che alla fortuna e’ lecito la stessa cosa nei confronti degli uni e degli altri (se pensi all’uguale potere che ha la sorte nei confronti si padroni e servi). Percio’ sorrido di costoro che ritengono turpe cenare con un loro schiavo. Percio’, se non per il fatto che una superbissima abitudine ha imposto intorno al padrone quando e’ in tavola una folla di schiavi che stanno in piedi. Quello mangia piu’ di quanto possa contenere e con una incredibile ingordigia appesantisce il suop stomaco dilatato e non piu’ avvezzo a compiere la funzione del ventre cosicche’ vomita tutto con maggiore sforzo di quello che ha fatto per ingurgitare. Invece ai miseri servi non e’ lecito muovere le labbra neppure per fare cio’, cioe’ parlare. Vuoi tu pensare che questo che tu chiami tuo schiavo nato dagli stessi semi gode dello stesso cielo, respire come te, vive come te, muore come te? Tu puoi vedere quello libero tanto quanto quello puo’ vedere te schiavo. La sorte schiacci’ in occasione della sconfitta di Varo molti di nobilissime origini che aspiravano al rango senatorio attraverso il servizio militare, di alcuni ne fecero pastori, di altri custodi di una capanna. Ora prova a disprezzare quell’uomo di fortuna tale nella quale tu uoi passare nel momento stesso in cui tu lo disprezzi. Non voglio immettermi in un argomento impegnativo e discutere sull’utilizzo degli schiavi, verso i quali siamo piu’ che superbi, crudeli e insolenti. Tutavia e’ questa la conclusione dei miei insegnamenti: comportati con il tuo inferiore cosi’ come vorresti che si comportasse con te il tuo superiore. Ogni volta che ti verra’ in mente quanto ti sia lecito nei confronti del servo, ricordati che al tuo padrone e’ lecito altrettanto nei tuoi confronti. "Ma io non ho alcun padrone" dici. Sono bei tempi: forse un giorno l’avrai. Non sai a che eta’ iniziarono a servire ecuba, Creso, la madre di Dario, Platone, diogene? Sii clemente con il tuo servo, anche affabile, lascia che parli con te, si consigli con te, mangi con te.

Seneca – Se vuoi essere amato ama pag 50

Epistole

Hecaton ait, 'ego tibi monstrabo amatorium sine medicamento, sine herba, sine ullius veneficae carmine: si vis amari, ama'. Habet autem non tantum usus amicitiae veteris et certae magnam voluptatem sed etiam initium et comparatio novae. Quod interest inter metentem agricolam et serentem, hoc inter eum qui amicum paravit et qui parat. Attalus philosophus dicere solebat iucundius esse amicum facere quam habere, 'quomodo artifici iucundius pingere est quam pinxisse'. Illa in opere suo occupata sollicitudo ingens oblectamentum habet in ipsa occupatione: non aeque delectatur qui ab opere perfecto removit manum. Iam fructu artis suae fruitur: ipsa fruebatur arte cum pingeret. Fructuosior est adulescentia liberorum, sed infantia dulcior. Nunc ad propositum revertamur. Sapiens etiam si contentus est se, tamen habere amicum vult, si nihil aliud, ut exerceat amicitiam, ne tam magna virtus iaceat, non ad hoc quod dicebat Epicurus in hac ipsa epistula, 'ut habeat qui sibi aegro assideat, succurrat in vincula coniecto vel inopi', sed ut habeat aliquem cui ipse aegro assideat, quem ipse circumventum hostili custodia liberet. Qui se spectat et propter hoc ad amicitiam venit male cogitat. Quemadmodum coepit, sic desinet: paravit amicum adversum vincla laturum opem; cum primum crepuerit catena, discedet. Hae sunt amicitiae quas temporarias populus appellat; qui utilitatis causa assumptus est tamdiu placebit quamdiu utilis fuerit. Hac re florentes amicorum turba circumsedet, circa eversos solitudo est, et inde amici fugiunt ubi probantur; hac re ista tot nefaria exempla sunt aliorum metu relinquentium, aliorum metu prodentium. Necesse est initia inter se et exitus congruant: qui amicus esse coepit quia expedit <et desinet quia expedit>; placebit aliquod pretium contra amicitiam, si ullum in illa placet praeter ipsam. 'In quid amicum paras?' Ut habeam pro quo mori possim, ut habeam quem in exsilium sequar, cuius me morti et opponam et impendam: ista quam tu describis negotiatio est, non amicitia, quae ad commodum accedit, quae quid consecutura sit spectat. Non dubie habet aliquid simile amicitiae affectus amantium; possis dicere illam esse insanam amicitiam. Numquid ergo quisquam amat lucri causa? numquid ambitionis aut gloriae? Ipse per se amor, omnium aliarum rerum neglegens, animos in cupiditatem formae non sine spe mutuae caritatis accendit. Quid ergo? ex honestiore causa coit turpis affectus? 'Non agitur' inquis 'nunc de hoc, an amicitia propter se ipsam appetenda sit.' Immo vero nihil magis probandum est; nam si propter se ipsam expetenda est, potest ad illam accedere qui se ipso contentus est. 'Quomodo ergo ad illam accedit?' Quomodo ad rem pulcherrimam, non lucro captus nec varietate fortunae perterritus; detrahit amicitiae maiestatem suam qui illam parat ad bonos casus.

Ecatone dice: "Ti mostrero’ un filtro d’amore senza medicamento, senza erba, senza la formula di qualche maga incantatrice: se vuoi essere amato, ama". D’altra parte non tanto e’ utile una vecchia amicizia, ma anche l’inizio e il procurarsi una nuova amicizia, comporta un grande piacere. La differenza che c’e’ tra il contadino che miete e quello che semina e’ la stessa di quella tra colui che si e’ procurato un amico e quello che se lo procura. Il filosofo Attalo era solito dire: che e’ piu’ piacevole procurarsi un amico che averlo, "cosi’ come per un artista e’ piu’ piacevole dipingere che aver dipinto". Quell’ansia dedita nella sua opera comporta un grande piacere nellìoccupazione stessa. Non allo stesso modo prova piacere colui che ha allontanato la mano dall’opera finita. Ormai gode del frutto della sua arte, mentre dipingeva godeva dell’arte stessa. L’adolescenza dei figli e’ utile, l’infanzia e’ piu’ dolce. Ora torniamo a cio’ che ci siamo prefissati. Anche se il sapiente e’ contento di se’ tuttavia vuole avere un amico, se non altro per esercitare l’amicizia, affinche’ una virtu’ cosi’ grande non rimanga inerte. Non secondo quello che diceva epicuro in questa stella lettera: "per avere qualcuno che lo assista quando e’ malato, che lo aiuti se e’ in prigione o in difficolta’ ecnomiche", ma per avere qualcuno a cui lui stesso possa portare aiuto quando e’ malato e che lui stesso possa liberare se e’ prigioniero in un carcere nemico. Quello che guarda se stesso e per questo arriva all’amicizia, pensa male. Come e’ cominciata, cosi’ finira’. Si e’ procurato un amico perche’b gli porti aiuto contro le catene, appena la catena cominciera’ a scricchiolare, se ne andra’. Queste sono le amicizie che il popolo chiama passeggere, colui che e’ stato scelto (come amico) in vista dell’utile, sara’ gradito quanto a lungo sara’ stato utile. Per questo motivo una folla d’amici sta intorno a chi e’ all’apice del successo, intorno a quelli caduti in disgrazia c’e’ la solitudine e gli amici fuggono li’ da dove sono messi alla prova. Per questo motivo ci sono cosi’ tanti esempi riprovevoli di alcuni che abbandonano per paura, di altri che tradiscono per paura. E’ necessario che gli inizi siano congruenti tra loro con gli esiti, colui che ha cominciato ad essere amico perche’ conveniva, smettera’ anche perche’ converra’. Piacera’ qualche guadagno contro l’amicizia se in quella piace qualche guadagno estraneo ad essa. "Per che cosa ti procuri un amico?" Per avere qualcuno per cui io possa morire, che io possa seguire in esilio, per avere qualcuno alla morte del quale possa oppormi e sacrificarmi. Questo che tu descrivi e’ un contratto, non amicizia, un contratto che mira a un interesse, che guarda a che cosa raggiungera’. Sicuramente il sentimento degli amanti ha qualcosa di simile all’amicizia, potresti dire che quello e’ una folle amicizia. Fosse ma che qualcuno ama per interesse? Fosse che ama per ambizione o per gloria? L’amore in se’ stesso, poiche’ trascura tutte le altre cose, spinge gli animi verso il desiderio della bellezza non senza la speranza di un affetto ricambiato. E dunque? Da uno scopo nobile si puo’ formare un sentimento turpe? Tu dici: "Non si tratta ora di cio’ se l’amicizia debba essere cercata per se stessa". Anzi in verita’ nulla e’ piu’ da approvarsi; infatti se deve essere cercata di per se stessa, puo’ raggiungerla colui che e’ autosufficiente. In che modo dunque si avvicina ad essa? Nel modo in cui si avvicina alla cosa piu’ bella, non attirato dal guadagno ne’ spaventato dalla volubilita’ della sorte, toglie all’amicizia la sua grandezza colui che se la procura in vista di esiti favorevoli

Seneca – Perche' il male colpisce i buoni? pag 22

De providentia II, 1-7

'Quare multa bonis viris adversa eveniunt?' Nihil accidere bono viro mali potest: non miscentur contraria. Quemadmodum tot amnes, tantum superne deiectorum imbrium, tanta medicatorum vis fontium non mutant saporem maris, ne remittunt quidem, ita adversarum impetus rerum viri fortis non vertit animum: manet in statu et quidquid evenit in suum colorem trahit; est enim omnibus externis potentior. Nec hoc dico, non sentit illa, sed vincit, et alioqui quietus placidusque contra incurrentia attollitur. Omnia adversa exercitationes putat. Quis autem, vir modo et erectus ad honesta, non est laboris adpetens iusti et ad officia cum periculo promptus? Cui non industrio otium poena est? Athletas videmus, quibus virium cura est, cum fortissimis quibusque confligere et exigere ab iis per quos certamini praeparantur ut totis contra ipsos viribus utantur; caedi se vexarique patiuntur et, si non inveniunt singulos pares, pluribus simul obiciuntur. Marcet sine adversario virtus: tunc apparet quanta sit quantumque polleat, cum quid possit patientia ostendit. Scias licet idem viris bonis esse faciendum, ut dura ac difficilia non reformident nec de fato querantur, quidquid accidit boni consulant, in bonum vertant; non quid sed quemadmodum feras interest. Non vides quanto aliter patres, aliter matres indulgeant? illi excitari iubent liberos ad studia obeunda mature, feriatis quoque diebus non patiuntur esse otiosos, et sudorem illis et interdum lacrimas excutiunt; at matres fouere in sinu, continere in umbra volunt, numquam contristari, numquam flere, numquam laborare.Patrium deus habet adversus bonos viros animum et illos fortiter amat et 'operibus' inquit 'doloribus damnis exagitentur, ut verum colligant robur.' Languent per inertiam saginata nec labore tantum sed motu et ipso sui onere deficiunt. Non fert ullum ictum inlaesa felicitas; at cui adsidua fuit cum incommodis suis rixa, callum per iniurias duxit nec ulli malo cedit, sed etiam si cecidit de genu pugnat. Miraris tu, si deus ille bonorum amantissimus, qui illos quam optimos esse atque excellentissimos vult, fortunam illis cum qua exerceantur adsignat? Ego vero non miror, si aliquando impetum capiunt spectandi magnos viros conluctantis cum aliqua calamitate.

Perche' agli uomini buoni accadono molte sventure? Niente di male puo' accadere all'uomo buono, le cose contrarie non si mescolano. Allo stesso modo in cui tanti fiumi, tante piogge cadute dall'alto tanta forza di fonti medicamentose non cambiano il sapore del mare e neppure lo addolciscono, cosi' l'assalto delle avversita' non abbatte l'animo dell'uomo forte, rimane nella sua condizione e qualunque cosa avvenga la adatta a se'. E' infatti piu' potente di tutti gli accidenti esterni. non dico che non le sente, ma che le supera e peraltro quieto e tranquillo si erge contro cio' che gli viene contro. Considera tutte le avversita' delle prove. Chi, del resto, che si tratti di un uomo forte e portato alle cose oneste non e' desideroso di una giusta fatica ed e' pronto ad affrontare i suoi doveri con pericolo? per quale uomo attivo l'ozio non e' una pena? Vediamo gli atleti ai quali sta a cuore la cura del corpo combattere con tutti i piu' forti e pretendere da coloro (gli allenatori), per mezzo dei quali sono preparati a combattere, di usare tutte le loro forze contro di loro. Sopportano di essere colpiti e se non trovano avversari singoli pari a loro affrontano contemporaneamente piu' avversari. La virtu' si indebolisce senza un avversario, allora appare quanto sia grande e quanto valga , quando mostra che cosa possa con la sua pazienza. E' lecito che tu sappia che gli uomini buoni devono fare la stessa cosa, cioe' non aver paura di cio' che e' duro e difficile, ne' lamentarsi del fato e qualunque cosa accada ritenerlo un bene e volgerlo al bene. Non importa che cosa, ma come lo sopporti. Non vedi quanto diversamente i padri e le madri siano indulgenti (quanto sia diverso l'affetto dei padri e quello delle madri, nn tradurre lett.)? Quelli (i padri) ordinano che i figli siano svegliati presto per affrontare i loro doveri, quelli non permettono che siano oziosi anche nei giorni di festa ed esigono sudore da parte di quelli e talvolta anche lacrime; le madri invece vogliono proteggerli nel loro seno, tenerli all'ombra, non vogliono che siano mai tristi, che piangano mai, mai fatichino . Dio ha nei confronti degli uomini buoni l'atteggiamento di un padre e ama fortemente quelli e dice: "Siano tormentati da fatiche, dolori, sventure perche' aquisiscano la vera forza". Gli animali ingrassati si indeboliscono per l'inerzia, non solo sono incapaci di compiere alcuno sforzo ma non riescono neppure a muoversi e a sostenere il loro stesso peso. una felicita' illesa non sopporta alcun colpo. Invece colui al quale e' una continua lotta con le sue sventure fa il callo alle offese, e non cede ad alcun male ma anche se cade combatte in ginocchio. Ti meravigli, dunque, se quel Dio che ama cosi' tanto i buoni, che vuole che quelli siano i migliori e piu' eccellenti possibile, assegna loro un destino con cui esercitarsi? Io pertanto non mi meraviglio se qualche volta a quel Dio prende lo schiribizzo di assistere alo spettacolo di grandi uomini che combattono con qualche calamita'

Seneca – Che cos'e' Dio? pag 19

Naturales Quaestiones - Pref. 13-14

Quid est Deus? Mens universi. Quid est Deus? Quod vides totum, et quod non vides totum. Sic demum magnitudo sua illi redditur, qua nihil maius excogitari potest, sic solus est omnia, opus suum et extra et intra tenet. Quid ergo interest inter naturam Dei et nostram? Nostri melior pars animus est: in illo nulla pars extra animum; totus ratio est. Cum interim tantus error mortalia teneat, ut hoc, quo neque formosius est quidquam, nec dispositius, nec in proposito constantius, existiment homines fortuitum et casu volubile, ideoque tumultuosum inter fulmina, nubes, tempestates, et cetera quibus terrae ac terris vicina pulsantur.

Cos'e' Dio? La mente dell'universo. Cos'e' Dio? Cio' che vedi nella sua totalita' e cio' che non vedi nella sua totalita'. Cosi' finalmente e' restituita a lui la sua grandezza, della quale non si puo' pensare nulla di piu' grande se egli solo e' tutte le cose, se abbraccia la sua opera sia dall'interno che dall'esterno. Che differenza c'e' allora tra la natura di Dio e la nostra? La parte migliore di noi e' l'anima, in quello non c'e' nessuna parte oltre l'anima. E' tutto ratio, mentre intanto un errore cosi' grande occupa i mortali tanto che gli uomini ritengono cio' di cui non c'e' nulla di piu' bello ne' piu' armonico ne' piu' fermo nel suo fine, fortuito e casuale e percio' oscillante tra i fulmini, le nubi, le tempeste e le altre cose di cui le terre e le cose vicino alle terre pulsano