Nel guado rimangono i malati "difficili"
di Arturo Reggio e Antonio Virzì*

La “frettolosa” emanazione sotto la minaccia referendaria, l’assenza di adeguata copertura economica per la realizzazione di strutture “intermedie” e “alternative”, l’essere più che altro un’affermazione di principi, sono queste le critiche che più frequentemente sono state fatte alla Legge 180 dalla sua emanazione ad ora, ma ad onta di tutto ciò e delle svariate proposte di modifica nessun cambiamento, dopo quasi 20 anni, è stato operato.

A meno di interpretare questa assenza come una normale carenza degli Organi legislativi, non possiamo non ammettere che nel suo complesso la Legge trova un generale consenso negli Operatori e nell’opinione pubblica ed è forte il timore che modifiche anche parziali possano snaturare il senso.

Questo atteggiamento, anche se giustificato, non deve però impedire che si discuta di eventuali miglioramenti o adeguamenti, pur nel rispetto dell’irrinunciabile indicazione della territorializzazione dell’intervento.

A nostro avviso due rimangono i nodi principali non risolti: il cosiddetto “residuo manicomiale” e i “pazienti difficili”.

Per quanto riguarda il primo, fugati gli iniziali timori per i rischi che la “liberazione” avrebbe portato, si avverte chiaramente oggi come il problema sia legato non alla presunta pericolosità ma alla capacità organizzativa delle singole Regioni o UUSSLL. Pur rammaricandoci della lentezza esasperante con cui, specie nel meridione, il numero dei pazienti ancora in Ospedale Psichiatrico si riduce, riteniamo prossima la soluzione anche se rimane da definire la destinazione futura delle vecchie e nuove strutture.

Molto più grave rimane il problema dei pazienti “difficili”.

Già la definizione di questa tipologia presenta non poche difficoltà mettendosi insieme sia caratteristiche psicopatologiche, facilmente immaginabili, del paziente, ma anche, e con un peso a volte determinante, carenze e difficoltà ambientali fino all’inadeguatezza o incapacità dei Servizi preposti.

Questo paziente non trova una risposta nella 180 e finisce per rappresentare un carico, spesso insopportabile, per i parenti e per la società in generale. Verrebbe facile ipotizzare una risposta manicomiale per questo tipo di paziente, considerandola comunque come senza possibili alternative.

Bisogna riconoscere che il buon senso e forse anche una serena valutazione dei nostri limiti terapeutici, specie territoriali, fa apparire questa soluzione semplice e praticabile. In pratica si tratterebbe di prevedere la possibilità di ricoveri coatti prolungati per un numero limitato di pazienti difficili, in strutture di limitate dimensioni che per tale ragione non dovrebbero riprodurre quelle condizioni che avevano reso così criticabili i vecchi Ospedali Psichiatrici.

Ma è veramente così semplice?

O forse l’indeterminatezza delle caratteristiche di questo paziente candidato ad un iter neo-manicomiale ci espone al rischio di far entrare in questa categoria un numero enorme di pazienti, alla ricerca della risposta più “semplice” che finisce sempre per essere quella dell’emarginazione.

Certamente oggi esiste un ristretto numero di casi per i quali la mancanza di soluzioni “semplici” diventa un carico pesantissimo per la famiglia, ma fornire quel tipo di soluzioni significa sicuramente per quel numero, ben più ampio, smettere di lottare e sperare, venendo inglobati dentro un contenitore, nuovamente enorme, per nulla distinguibile dal vecchio manicomio.

E’ una scelta difficile, che non richiede solo cognizioni tecniche e che non può essere lasciata solo agli Operatori, ma che deve essere fatta da tutta la società civile.

La 180 rappresentava una scelta, se la si vuole modificare si faccia con la piena consapevolezza delle conseguenze. 

* Università degli Studi di Catania