L A  C I T T A'  D I   S A L E M I

 

 

 

 

 

L A   F E S T A   D I   S. G I U S E P P E   E   D E I  P A N I

Uno Dei Pani della Cena " CUCCIDDATU"

 

 

Le Feste dei Pani

Molte delle antiche feste di ispirazione religiosa, ma di cultura contadina, che si celebrano a Salemi, hanno come comune e principale elemento il pane. Il prezioso alimento lo troviamo protagonista nelle ricorrenze di S. Biagio, S. Giuseppe, S. Antonio, S. Elisabetta, PANI DI S. GIUSEPPE  dei Defunti e nel rito propiziatorio delle "Tridici Virgini". In ognuna di queste celebrazioni, il pane ha un ruolo specifico di diverso significato divenendo, di volta in volta, messaggio, stimolo di riti agresti, raffigurazione del rituale cristiano, alimento da offrire secondo gli insegnamenti della religione. Delle feste che abbiamo elencato, solo alcune hanno resistito; le altre sono cadute nell'oblio. Il 3 febbraio di ogni anno, nell'antico quartiere arabo del Rabato, si celebra la festa di S. Biagio. Nell'antica chiesa vengono donati ai visitatori sacchetti con piccoli pani delle dimensioni di una moneta da cento lire, finemente lavorati. Le "cudduredde" riproducono la gola di cui il Santo è protettore, i "cavadduzzi" ricordano il miracoloso arresto, per intercessione del Santo, dell'invasione delle cavallette che minacciava il raccolto del 1542. Infine la "manuzza", "lu vastuni", "li cannistreddi", oggetti personali del Santo. Tutti i pani, ripetiamo, sono di piccolissime dimensioni, lavorati a rilievo, intagliati dalle donne del quartiere con l'affilatissima lama di un coltellino. Il 17 di novembre, nell'antica chiesa di S. Chiara, durante il rito sacro, venivano offerti ai poveri "li cucciddati" di S. Elisabetta, veneratissima in paese, la cui immagine, miracolosa, venne trasferita nella chiesa del convento dei Cappuccini dopo la trasformazione del convento di S. Chiara in servizi di pubblica utilità. La ricorrenza è stata abolita. Caduta in disuso è anche la distribuzione del "pane dei morti", filoni a forma di braccia incrociate come fossero le membra composte dei defunti, che a piene ceste venivano donati durante la visita del 2 novembre al Camposanto, ai poveri che si accalcavano lungo il percorso. Altra donazione di pagnotte benedette veniva fatta il 13 di giugno nella chiesa di S. Antonio da Padova " ... al popolo che va in tutti li dodici giorni previ alla Sua festa a farli divoti ossequi ......Dodici fanciulli e un fanciullo, "li Tridici Virgini", accompagnavano i penitenti dalla chiesa di S. Francesco di Paola a quella del Crocefisso, intonando nenie e suppliche per ottenere la grazia. Sotto il braccio portavano una pagnotta per testimoniare che erano stati sfamati. Al ritorno del "viaggio", veniva offerta una minestra di pasta e fave per riempire loro la "panzudda". La festa dei pani più famosa rimane quella di S. Giuseppe. Riti, credenze, fantasia, spettacolo la rendono affascinante La Cena è deliziosamente bella per chi riesce ancora ad assaporare il significato.

                                           

Pane dei Morti

 

  

La chiesa di S. Giuseppe

 

La chiesa di San Giuseppe si affaccia sulla via F.sco Crispi, la strada che anticamente segnava il confine tra la città cristiana ed il quartiere giudaico. Il terremoto del 1968 la danneggiò seriamente. Un frettoloso consolidamento e un poco accorto restauro non servirono a restituire alla comunità l'antico tempio. Anzi, è quasi certo che, recuperata, sarà destinata ad imprecisati usi sociali. Dell'edificio si sconosce la data della costruzione (1550?). Cappelletta di proprietà di qualche signorotto fino al 1665, venne successivamente ampliata mediante acquisti di case limitrofe coi lasciti di tal Giovanni Augueli che del Santo era "divotissimo". Composta di quattro altari, oltre a quello della tribuna, la chiesa era frequentata dai fedeli " ... che a gran calca vi concorrono, massìme ai 23 di gennaio giorno proprio dell'annovale del Sagro Sponsalizio, e nei sette mercoledì prima della festa del Santo Patriarca ai 19 di marzo che si fanno con pompa non ordinaria, concorrendo assaissimo coll'elemosine di divoti ......Alla chiesa era aggregata una fiorentissima compagnia, fratelli che per istituto "avevano a menar vita propria di veri cristiani". Vestivano un sacco di tela bianca con mantelletta e cappello color azzurro; avevano l'obbligo ‑ fra l'altro ‑di aprire la processione del Santo. Istituzione collaterale era quella delle maestranze dei mastri d'ascia e bottai, protetti da S. Giuseppe. Per la festa del Patrono era stabilito "... che tutti li maestri di detta arte che terranno bottega, ogni anno siano obbligati a pagare tarì tre, i lavoranti tarì uno per ogni tre, da contarsi dall'anno presente che saranno approbati a li sopra infrascritti capitoli innanti, e questa limosina si espanderà tanto per l'oglio della lampa d'accendersi innanti a detto Santo, quanto per cera e spesa da farsi per la festività del transito di S. Giuseppe". Era fatto obbligo " ... che tutti li mastri e lavoranti tanto nel vespere dela vigilia quanto la ma‑, tina della festa di detto transito... abbino tutti ad andare in detto Vespere e chiudere le loro botteghe sotto pena di pagari rotoli mez­zo di cera e li lavoranti onze tre di cera applicata alla cascia di det­to Santo ......Dietro il portone della chiesa, chiuso da venticinque anni, è car­cerata la storia scolpita, reclusi i riti, le funzioni religiose, le invo­cazioni di tante generazioni. Un portone che non si apre e non per­mette di visitare una delle più antiche chiese della città.

 

PREMESSA

 Fino agli anni 70 sulle Cene di San Giuseppe, festa popolare di antichissima origine, non venne sprecata neppure una goccia di inchiostro. Negli anni 70, appunto, il dr. F.sco Bivona, presidente della pro‑loco di allora e dell'A.P.T. di Trapani, portarono la manifestazione oltre i confini del territorio salemitano. Di conseguenza, se ne sono interessati i giornali e bellissimi servizi sono stati realizzati dalle riviste specializzate. La Rai, nel corso del programma "Uno Mattina", dedicò ai pani di San Giuseppe circa sette minuti di trasmissione. A nostro avviso, però, i servizi giornalistici, seppure interessantissimi e di alto livello culturale ‑ forse appunto per questo ‑ hanno trascurato la parte più importante delle Cene: la presenza e l'importanza che anticamente avevano i poveri per cui la Cena veniva preparata. Per leggere la manifestazione da questo angolo visuale, abbiamo fatto un passo indietro nel tempo, di qualche secolo, per una visitazione nuova in compagnia dei personaggi di allora. Solo così a nostro avviso ‑ possiamo capire meglio le Cene di oggi.

 

 

 

Il VOTO

 Don Calogero è partito di buon mattino per la campagna. Dopo avere consumato "l'agghia" ‑ un pasto che precede la colazione ‑ ha cavalcato la giumenta e, tagliando per la discesadella Catena, si è diretto verso il suo podere. Giunto all'altezza del convento del Carmine, un cane che precede il gregge, gli si para innanzi e spaventa l'animale. Don Calogero, disarcionato, cade pesantemente per terra. Alcuni contadini, che assistono impotenti alla scena, lo soccorrono. Lo adagiano su di una scala a pioli e lo riportano in casa da donna Peppina che lo aspettava, invece, per la fine della settimana. La povera donna ha vissuto giorni d'angoscia. Sebbene rassicurata dai medici, si è affidata alla grazia dì S. Giuseppe. Dopo avere acceso le candele davanti alla Sua immagine gli ha promesso "una Cena addumannata di porta in porta" Don Calogero e donna Peppina, agiati contadini, potevano permettersi le spese per allestire l'altare, ma chiedere l'elemosina era una mortificazione. Dopo le feste di Natale, a guarigione del marito avvenuta, donna Peppina si è messa in camino.‑ San Giusippuzzu, ci dati nenti ... ? Uova, farina, grano, promesse di pietanze e qualche spicciolo finivano nella "mmesta", un sacco che si portava appresso. Nei primi di marzo la sua casa viene invasa dalle vicine che avevano promesso aiuto. Impastare quintali di pane, lavorarlo, preparare il forno è lavoro di donne. Gli uomini si occupano dell'altare, delle impalcature che debbono montare, adornare, abbellire. Il lavoro si è svolto in armonia. Il 17 di marzo la Cena è pronta. Mancano solo le sedie per gli invitati.

 

 

 

 

 

MASTRO SIMUNI `L' SCIANCATU`

 Dal misero pagliaio posto a ridosso della collinetta di contrada Pietrazzi, poco sotto S. Ciro, si leva il canto di una nenia. La voce, rauca e sgraziata, infastidisce i cani randagi che, per protesta, fanno eco ai lamenti con lunghi latriti. E’ sera! L'aria umida e uggiosa fa temere ancora lontana l'attesa prossima primavera. Mastro Simuni "u sciancatu" non ha voglia di cantare. Il suo cuore è disposto al pianto, a sfogare la rabbia repressa per le avversità della vita che lo hanno reso invalido e mendicante. Se non sfoga le sue amarezze, lo fa per non adombrare donna Japica, la sua compagna, che è il suo unico sostegno. Per la sua bontà, hanno ottenuto dai padroni del podere l'uso di quel pagliaio che li ripara dalle intemperie. E’ la vigilia di S. Giuseppe! Nella casa dei padroni che si trova più in alto, oltre la stradella, c'è aria di festa. L'eco delle gioiose grida giunge fino al pagliaio e rende più triste e penosa la solitudine. Donna Japica si lascia cadere sul giaciglio con la speranza di vincere il freddo pungente che fa concorrenza alla fame nel tormentare quel corpo serviziato dalla fatica. Mastro Simuni, dopo avere consumato la misera cena di "minestra maritata", un insieme di verdure raccolte pei campi, ripassa la nenia accompagnandosi col mandolino. Domani, girando per le Cene, i suoi canti dovranno risultare graditi e commoventi. Solo così potrà riempire la "camella" di pietanze. Ritornerà ubriaco, questo lo sa. Ma il vino gli donerà l'oblio, gli farà dimenticare, per qualche attimo, quella maledetta giumenta che, disarcionandolo, lo rese invalido. "San Giusippuzzu, datini pani..." Depone lo strumento e si adagia vicino alla sua donna. Aspetta che si levi la "puddara", la stella del mattino, per mettersi in cammino alla volta di Salemi. Sul pagliaio cala il silenzio della notte. I cani non hanno più motivo di protestare.

                          

 

 

DON CALOGERO E DONNA PEPPINA

 Donna Peppina apre l'imposta della sua casetta per accertarsi che la pioggia, caduta durante il pomeriggio sia del tutto cessata. La strada della Giudecca è ancora coperta dal manto scuro della notte. Deboli lumicini violano i segreti delle tenebre e accarezzano le finestre socchiuse. Segno che alcune massaie si sono levate per accudire ai lavori di casa. Domani è festa (e per domani si intende l'alba vicina). Fuori non piove ed è buon segno. La strada è deserta, ma, in lontananza, si sente lo scalpitare di qualche animale, mulo o cavallo, che rìporta verso casa il suo padrone. Donna Peppina scende in cucina e attizza il fuoco. Pone sulla fiamma la pentola di terracotta con le ultime fave secche della stagione borbottando, fra sé e sé, che per cuocere le fave "menu si riminanu e megghiu. è ...(meno si mescolano meglio è) 99. Ad un tratto sente tossire don Calogero, suo marito. Si è svegliato e quel tossire equivale ad una chiamata. Donna Peppina va in camera da letto, saluta il suo uomo, gli si china davanti e glì allaccia le stringhe delle scarpe. Scendono insieme in cucina. Don Calogero attizza con un legno ardente la pipa e aspira una boccata dì fumo. Insieme vanno nella stanza "di riciviri"( dove si ricevono i visitatori) e guardano la Cena. Sistemano le sedie e danno gli ultimi tocchi. Poi si affacciano sulla strada. La "puddara" già brilla ad oriente e il cielo è sgombro di nubi. L'aria umida e pungente favorisce un tenero abbraccio, un momento di debolezza, una piccola concessione di tenerezza dell'uomo alla sua donna.

 

I L      L A B O R A TO R I O      D E I       P A N I

 

 

                                                                               

Le donne si occupano della preparazione e la decorazione dei pani, dalle loro mani nascono veri e propri capolavori

 

                                    

 

 

 

Mastru Aspanu “ U Pignataru”

 La casa di donna Marianna "a parrinara" è in fondo alla discesa della Misericordia. Donna Marianna è così chiamata perché trascorre più tempo in chiesa che in casa. E', a modo suo, generosa e caritatevole. Da quando è rimasta vedova e ha dovuto vendere il mulo ha concesso l'uso del "catoio" a mastru Aspanu " 'u piragnaru" che lo abita con la moglie e la censiosa folla di marmocchi. Dei suoi figli, Andrea, Marietta e Nicola sono stati scelti da donna Peppina per comporre la Sacra Famiglia, nella Cena di S. Giuseppe. La prospettiva del pranzo rende frenetica l'attesa dei ragazzi. Patri, agghiurnau"? Prestu è, durmiti". Chiudono gli occhi e si vedono seduti a tavola, serviti come signori. Sentono il profumo delle pietanze: le frittate, i cannoli, "li cassateddi", i formaggi, la pasta con la mollica. Programmano vendette: niente pietanze per le persone antipatiche. Le offriranno a parenti e amici. ‑ Patri, chi ura è? ‑ Durmiti, santu diantanuni, tri uri di notti sunnu..." Poi si pente. Dio non voglia che donna Marianna possa aver sentito. Si fanno tutti il segno della croce e si addormentano.

 

 

LA FESTA IN CHIESA

 

La chiesa di S. Giuseppe si trova sulla parallela della strada della Giudecca ed è circondata da altre chiese e dai conventi. Oggi si festeggia il Santo e i battenti sono stati aperti prima dell'alba. Mastro Nino " 'u tammurinaru" ha già preso posto nell'antiporta, mentre sul gradino esterno si è seduto mastro Sìmuni " 'u sciancatu" per chiedere l'elemosina. Un gruppo di ragazzi si aggira attorno al tamburo con la segreta speranza di menare qualche pugno sulla pelle dello strumento. Maestro Nino che, quando non è ubriaco, è lesto di mano, li sorveglia e di tanto in tanto, con le "mazzocole" mena randellate sulla testa dei discoli. Mastro Tanu " 'u Talianu", calzolaio e artificiere nello stesso tempo, dispone i filari di petardi lungo la scalinata laterale, poco più in alto rispetto alla chiesa, perché vuole che i botti disturbino il sonno mattutino dei gesuiti, il cui convento è a circa cento passi, oltre la scalinata. Coi gesuiti ha un conto da regolare per una "battaria" che quei "prepotenti" non gli hanno voluto pagare. "Quando viene in Sicilia lu Re di Piemuntì, a quelle carogne ci debbo mangiare il cuore", ripeteva spesso. E per questa simpatia per il Re era stato soprannominato " 'u Taliano". Il suono a distesa delle campane chiama a raccolta i fedeli. Mastro Nino batte freneticamente sul tamburo, la gente prende posto in chiesa per il "matinali"." 'U Talianu", dopo avere assestato un calcione ad uno dei ragazzi che disturba il suo lavoro, dà fuoco alla miccia e spara i primi botti. Dalle chiese e dai conventi risponde il suono dei bronzi che annunciano al popolo che la festa di S. Giuseppe ha avuto inizio.

 

Agli uomini è affidata la costruzione della struttura della cena

La Cena

 Amici e parenti hanno già preso posto.Chi non ha trovato una sedia, segue dall'esterno. Mastro Nino, col suo tarnburo, si è piazzato sull'ingresso; mastro Simuni " 'u sciancatu" ha trovato uno sgabello ai piedi dell'altare. " 'U Talianu" ha disposto i filari di botti in uno spiazzo vicino. Padre Saverio, a mezzogiorno, benedice la Cena. Andrea, Marietta e Nicuzzu aspettano l'invito per entrare in scena. Donna Peppina dà loro una sistematina ai capelli, li invita a disporsi in preghiera e li spinge affettuosamente nella stanza. Gli invitati li salutano con "Evviva" e con invocazioni alla Sacra Famiglia. Impacciati, i tre ragazzini muovono pochi passi e si fermano davanti all'altare, dove il "miracolato don Calogero, commosso, li introduce. Poi raccoglie la brocca posta sulla tovaglia a M (Maria) e lava, in segno di umiltà, loro le mani e i piedi. Dopo averli baciati, li fa sedere a tavola. Decine di mani, attraverso i listelli addobbati di bosso, alloro, arance, limoni e pane, sfiorano i "Santi" per essere coinvolti nella grazia. Il rullo del tamburo e lo sparo dei mortaretti annunciano che è stata servita la prima pietanza. Quante frittate e quanti dolci! Centouno spari di mortaretti, centouno pietanze. Poi la pasta con la mollica salutata dagli evviva della gente. Tutti ne mangiano usando le mani, perché la tradizione non ammette la forchetta. E non ammette la carne, perché la festa cade di quaresima. Nell'angolo a destra, poco dietro l'altare, la giovane Annina è distratta. i suoi occhi sono puntati su Lorenzino che non ha mai cessato di guardarla. Quanti amori nascono e maturano nelle Cene ... ! Ad un tratto, il clamore cessa. Le donne, che erano in cucina, si affacciano e tentano di guadagnare uno spiraglio per seguire gli avvenimenti. Anche Annina e Lorenzino si fanno seri: 1 "Santi" tagliano il pane. Un taglio abbondante preannuncia una annata ricca di messi. Gli "evviva" che seguono salutano i segni favorevoli del destino. Il sole del pomeriggio intiepidisce l'aria ed accompagna il via vai della gente. Maestro Simuni, che ha già fatto il giro per le altre Cene, ritorna per cantare la sua ultima litania. Le donne, intanto, gli riempiono la "camella" di prelibate pietanze. Poi, lentamente, le ombre della sera calano su Salemi e mastro Vito " 'u lampiunaru" si mette all'opera. La Cena, spogliata dai pani, proietta le ombre scheletriche sui muri. Lentamente, le strade si fanno deserte. I figli di mastro Aspanu, abbracciati i grossi pani che gli spettano, corrono sazi e felici verso la strada della Misericordia. Annina e Lorenzino si lanciano un ultimo sguardo e prendono ognuno la via della propria dimora, sognando di averne una per loro due. Mastru Simuni " 'u sciancatu", appesantito dal vino, trascina penosamente la gamba appoggiandosi al bastone. Lunga è la strada del ritorno. La festa di S. Giuseppe è finita. Domani ricomincia la vita di sempre.

                                  

 

 

 

INDIETRO                                           AVANTI