Il Catalogo
della
MOSTRA ANTOLOGICA
di Giovanni De Bettin
(ESTATE 2006)

Idillio ed elegia
nella pittura di Giovanni De Bettin

"Se una composizione di alberi, di montagne, di acque e di case, cui diamo il nome di paesaggio, è bello, non risulta tale per se stesso, ma per la finezza che è mia, per l'idea o il sentimento, che vi associo." (Charles Baudelaire, Scritti sull'arte, Einaudi, 1982)

I dipinti di Giovanni De Bettin (nato a Costalta di Cadore nel 1923) hanno in molti casi una valenza transitiva, rinviano cioè a un cumulo di significati diversi che riescono a innescare nell'osservatore. Egli è pienamente immerso nel suo tempo, che taglia trasversalmente gran parte del novecento, avendo un occhio sempre attento alle evidenze della terra natia, dove risonanze di storia ed effetti di tradizioni si incrociano in un'analisi dello spazio che si fa dimensione dell'anima. Avviato fin da piccolo dal padre alla pratica della musica (l'organo è il suo strumento preferito), coltiva nelle ore libere il disegno, vergando con la matita qualsiasi superficie possa risultare piano di registrazione delle emozioni, in un lungo inesauribile abbecedario dei propri moti interiori, trasposti su una sorta di diario costituito dagli schizzi improvvisati, da fraseggi che prendono corpo nel loro evolvere chiaroscurale, nella confessione tradotta in essenza grafica di stati d'animo, dominati sovente dalla cifra melanconica. La curiosità di autodidatta, teso a ogni fonte di potenzialità creativa, lo porta a un sodalizio, denso di sollecitanti motivi di riflessione, con il poeta Silvio De Bernardin Stadoan.

Vissuto a stretto contatto con la parrocchia (anche perché il padre è campanaro), De Bettin vede avvicendarsi numerosi sacerdoti, che costituiscono spesso un punto ineliminabile di informazioni anche e soprattutto sulle questioni dell'arte, quelle più legate alle ragioni e alla dinamica iconografica sacra e religiosa. Ciò diviene presto una base di elaborazione per ulteriori approdi, costruiti sulla convergenza di figura e colore, nella resa di situazioni atmosferiche capaci di rimandare a precise circostanze di vita quotidiana. Dal dopoguerra in poi si trova ben dentro quel clima di ricostruzione, che s'avverte anche a Costalta, e il suo contributo si concretizza in decorazioni esterne delle case con scene legate alla caccia o, comunque, all'ambiente familiare. E la consuetudine con le norme costruttive della figura, con i segreti della composizione, allungata su una prospettiva che muta ad ogni punto d'osservazione, si rafforza nell'aspirazione e si consolida nel convincimenti di un impegno che non può essere sporadico o marginale. Gli anni '60 sono il periodo più favorevole a un'analisi sistematica delle ragioni creative e a un impegno costante nella pittura, dove il carattere di una leggibilità immediata si coniuga con l'esigenza di una comunicazione diretta delle proprie sensazioni sul rapporto tra l'uomo e la montagna, sul mondo naturale così come si manifesta nel Comelico, sugli usi e costumi di un tempo andato, sulle persone vicine, sugli avvicendamenti di luce durante il giorno e le stagioni, sulla brevità del segmento anagrafico, sul succedersi delle generazioni.
La sua opera si fonda quasi esclusivamente sull'atmosfera di famiglia (intesa anche in senso lato, come comunità paesana), quindi su paesaggi montani inseriti in un ambito che equivale alla scrittura di un cantastorie. Il nesso della trama sta nell'amore profuso dall'artista nella rappresentazione delle cose, in una pittura la cui vena poetica risiede nella spinta evocativa. La capacità di aprire l'orizzonte spaziale si rivela con tenui sfumature di colore, al di là del quale la vista è condotta oltre il velo lattiginoso dell'atmosfera, quasi dentro un pulviscolo bigio. Spesso il quadro nasce non solo dal gusto di tradurre i suggerimenti di natura, quanto piuttosto di condensare istanze interiori in un contesto vissuto nell'intensità di un palpito sentimentale continuo, attivato sui ritmi dell'esistente; è quello medesimo che accende le aderenze più impercettibili all'ambiente di casa, con la realizzazione di scene estrapolate da un lungo racconto sull'attaccamento alla propria terra, nella cui espressione non sfugge uno slancio esplicitamente elegiaco. Ma chi guarda è portato a sondare anche in direzione dei simbolico, qualche volta in un paesaggio che si fa luogo di un'attività fantasticante, fondata sulle illusioni del naturalismo. L'evoluzione dell'arte di Giovanni De Bettin è in alcuni punti esaltata da un senso panico e magico della natura, il suo mondo di scoscendimenti, valli, monti, piccole figure che appaiono attori di una scena dai risvolti struggenti, emersioni di una memoria dispersa nelle vibrazioni del colore, nella stratificata tensione della stesura pittorica. E' sufficiente scorrere alcune delle opere di questa mostra, per rilevare una serie di fattori strutturali che sono le radici di una "fioritura" poetica, marcata da connotazioni pienamente riconoscibili. Il tutto non disgiunto da un magma fluttuante di segnali provenienti da presenze della storia dell'arte, più o meno vicine nello spazio e nel tempo, che entrano nella sostanza di un repertorio culturale, dove si registra la prevalenza della sua sintesi personale: da una parte i suggerimenti derivati dalla sapienza cromatica di Tiziano, dalla sintassi chiaroscurale di Caravaggio, dall'altra la sensibilità rispetto all'incanto dei scenografici sfondi di Delacroix e ai molteplici giochi di luce sulle tele di Segantini.

Nei ritratti, dove sono concomitanti profonde esigenze creative con precise richieste della committenza, De Bettin interviene sulle fisionomie considerate con il tocco di una propria interpretazione, talora intrisa dal gusto per l'ironia. L'opera dedicata al vecchio dal sorriso sdentato (anni '50) ne è solo un esempio: una superficie dove la pittura vive su una matericità, dalla quale sembra aggettare il volto della persona ritratta, modulata sulle tonalità terrose. Ma il complesso di motivi si allarga a una vasta gamma di possibilità: dal bimbo imbronciato (anni '70), dove l'autore esprime la cifra di un'incisiva capacità di entrare nel carattere del soggetto e di proporlo con vibrante partecipazione personale.
E poi, dentro lo stesso genere, il ventaglio di opzioni arriva alla precisa caratterizzazione della "cadorina" (primi anni '70), alla trasognata frontalità di "Dvane dal Col" (anni '70), che si affermano in una tavolozza scarna, dove il fattore luminoso crea i contrasti, come si evidenzia "Simon co la lioda" (anni '80). Il taglio fotografico della composizione resta uno dei cardini dell'opera di De Bettin, che agisce sul fattore luminoso per dare sostanza plastica alla figura: il ritratto dell'amico Carlo Spano ('84) ne è prova rivelatrice. Oppure quello dei fratello Alberto (anni '50), "costruito" pittoricamente sulle tonalità delle terre e dei verde. Ma anche dove prevalgono il bianco e il nero l'efficacia della pittura non viene meno; lo dimostra ampiamente il ritratto dei "vecchio di profilo"(70). E il bianco è il vero dominatore nella bella nevicata (fine '80), dalla quale emergono due cavalli che trainano il fendineve, in una scena densa di slanci dinamici mentre il contesto è intessuto dalla caduta leggera dei fiocchi gelati. La simbologia del tramonto si riflette nella speculare condizione di un giorno che va incontro alla notte e di due vecchi che s'avviano alla fine dei proprio segmento esistenziale (Il tramonto del giorno e della vita", 1982); il dato drammatico della dipartita è stemperato dal contrasto della luce diffusa, che sospende la montagna in uno spazio inciso dal nero delle due figure, che s'allontanano dal primo piano. I "Tre fienili" (fine '70) poi sembrano immersi in una dimensione senza tempo, dove il silenzio scandisce i battiti di una necessità, quella degli animali. Mentre le "Tre Terze con cavalli" (fine '80) offrono una singolare combinazione osmotica tra la "pelle" dei quadrupedi e il colore delle rocce dolornitche. Nel "Paesaggio autunnale" (70) lo stato misterioso di sospensione vive tra il verde declinante delle piante e il rosso di foglie, che costituisce la griglia strutturale dei quadro. Nelle "Tre Cime Lavaredo" (70), la fisicità rarefatta dei cielo e quella dei picchi rocciosi si compenetrano in un'unica grande e pulsante situazione di natura. Quel verde non squilla per la luce cristallina delle alte quote, ma si dispiega in un canto sommesso dentro una determinata corsia cromatica, con poche variegazioni tonali; i "buoi al lavoro"(inizio '80) ribadiscono con forza questo assunto. Un che di epico anima la figura di "Giovan" (1995) di fronte a uno spettacolo di monti ad anfiteatro, dove forme alpine e sagome di luce si muovono in una cornice maestosa.
Il paesaggio è creatura pulsante nelle mani di De Bettin, che ama giocare con i riverberi di luce, innervando di un rosso cangiante un pianoro toccato dal raggi obliqui del sole ("Paesaggio", '70). Nelle nevicate ("Paesaggio invernale", inizi '80) l'artista realizza quella sintesi che congiunge la polarità lirica e quella evocativa, in un'esaltazione del silenzio quale protagonista assoluto della scena.
Il "Trasporto di tronchi" (2000) è documento di una maniera costruttiva, suggerita dalle mutate capacità di vedere: l'indugio non è più sulla minuzia del particolare e del contorno, ma la figura si forma per forza agglomerante del colore che si espande nella stesura fino al margini della figura stessa; i connotati dei volto evaporano verso la determinazione di una fisionomia generica, perché quanto interessa a De Bettin non è il dato spicciolo della cronaca, ma il valore delle azioni salienti nello sviluppo di una storia. E guardando la realtà con "1'occhio della mente", la interpreta dilatando un po' il ventaglio di colori e allontanandosi a volte decisamente dalla tendenza monocromatica; lo si riscontra, per esempio, nella "Conversione" (2004), costruita sull'intensità dei contrappunti luministici e su un complesso di tinte opache e smorzate che rilevano il tratto intimistico dell'opera.
Gli "Anziani nel bosco" (fine '80) sono gli stessi dei "Tramonto dei giorno e della vita" ( 1982) e rappresentano certamente uno stato d'animo molto diverso: i colori si accendono di un rosso che dà corpo alle evidenze figurali dei quadro, mentre le persone sono le medesime, risolte col nero che variega i propri riflessi nel gioco dell'esposizione, diretta o meno, ai raggi dei sole. Le nervature cromatiche che virano verso il rosso ricompaiono nel "Riposo nel bosco" (fine '80), dove i due personaggi dei tempi andati si beano di quel crogiuolo di silenzi e luce che promana dall'ambiente montano.
Nei "Campanili dei Comelico" (1993), quasi un omaggio al lavoro paterno, l'autore di Costalta riunisce in un unico ambito di cielo e nuvole, evidenziandole in una specie di campionario, le peculiarità architettoniche delle varie torri che punteggiano il territorio.
Nello sviluppo della pittura di Giovanni De Bettin si colgono alcune linee caratterizzanti di una presenza, generosa di spunti di riflessione per chi voglia leggere l'opera non solo per quanto essa prospetta, ma anche per quello che evoca, che richiama cioè alla superficie dell'attualità dai recessi della memoria: un mondo di attività e di abitudini cancellate dal tempi che, pertanto, assume un valore di autentica testimonianza. Poi i moduli più specifici della pittura, che anche quando ricrea sulla tela situazioni di intensa partecipazione emotiva, sa collocarle in un alveo di intonazione idillica nel quale non prevale il dato dei compiacimento formale, bensì una gamma di umori molteplici: dal tormento esistenziale alla calda adesione al suo mondo, dalla profonda malinconia per la fugacità del tempo, alla problematica relazione con l'attualità.
Dalla fine degli anni '50, quando comincia a farsi strada in lui anche la voglia di confrontarsi con iI largo pubblico delle occasioni espositive, fino ad oggi, l'artista, estraneo alle seduzioni del nuovo a tutti i costi, rimane tenacemente abbarbicato alle sue convinzioni, quelle di fissare la realtà più cara, ambientale e umana, dentro la retina della coscienza, proiettandola poi sulla superficie in una pittura che non "fotografa" il mondo ma ne elabora alcuni aspetti, quelli che maggiormente si sintonizzano con le proprie motivazioni interiori. Da questo punto di vista Giovanni De Bettin è cantore della poesia di Costalta, inscritta nei suoi silenzi, nella storia della gente frequentata in oltre ottant'anni di solidale partecipazione alle sollecitazioni di una montagna, avara eppur amica.
Enzo Santese



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