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Settanta acrilico trenta lana
(Viola Di Grado)

Per un terzo, l'ho letto con curiosità e ammirazione, restando molto impressionata dall'originalità dello stile e dalla sicurezza con cui la giovanissima (ora direi "troppo giovane") autrice sembrava gestire un linguaggio e una vicenda che hanno tutte le caratteristiche dell'eccesso. Prima della metà ho cominciato a trovare una certa ripetitività sempre più inconcludente e ho avvertito la noia. Andando ancora avanti, le cose sono cambiate in peggio: alla noia e alla frustrazione per lo stallo della vicenda e dei personaggi si è aggiunto un crescente disgusto per l'insistente ricorso alla materia sessuale, trattata con superfluo e bieco compiacimento. Mi ha fatto pensare a un altro giovane autore, bravo, Niccolò Ammaniti: questi scrittori precoci, enfant prodige, prima stupiscono poi deludono perché sembrano sprecare il loro talento in un genere (volutamente o inconsapevolmente?) trash. In conclusione, il libro della Di Grado si risolve in una ricerca dell'effettaccio fine a se stessa, o meglio fine al soddisfacimento di una vanità personale immatura e velleitaria, e lascia quella che si suole definire "una sensazione di vuoto desolante", tanto più che, ripeto, il talento c'è, ma gli editori - che adesso si coccoleranno questa nuova stella dalla quale si aspettano senz'altro profitti - dovrebbero avere l'onestà intellettuale e culturale di aiutarla a incanalarlo meglio.
In altre parole, questa ragazza, indubbiamente dotata e intelligente, farebbe bene a evitare di restare accecata dal successo del Campiello e impegnarsi a mettere ordine nel suo patrimonio creativo, trovando una direzione, uno scopo alla sua scrittura al di là di una acerba e aggressiva autoreferenzialità. Tutto questo si chiama "crescere", e le permetterà di scrivere altri libri, migliori, cento per cento lana, in cui di acrilico non troveremo più nessuna traccia.


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