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Una cosa divertente che non farò mai più
(David Foster Wallace)

Nel parlare di questo libro, dirò che si tratta di una lettura breve, scorrevole e perfino umoristica, grossomodo consigliabile nel periodo estivo che ci invita a un certo disimpegno in compagnia di libri di evasione e divertimento, ma quello che mi preme di più è introdurre questo autore all'attenzione di chi non lo conosce, suggerendo un suo lavoro non eccessivamente impegnativo quale assaggio, nella speranza che serva da stimolo per passare poi a opere più significative e complesse, perché D.F.Wallace è senz'altro uno scrittore da scoprire, da studiare, da ammirare. Non sapevo nemmeno della sua esistenza fino a qualche mese fa, quando ho letto della sua morte prematura (si è tolto la vita impiccandosi nella sua casa californiana nel settembre 2008) ma soprattutto quando ho raccolto, girando in internet, un'eco di cordoglio e di rimpianto veramente sorprendente da parte di critici e lettori. D.F.Wallace non aveva ancora 50 anni, ed era già considerato forse la massima voce della recente letteratura americana, da molti anzi definito un genio, un colosso, e avvicinato a maestri eccellenti quali Zola e Nabokov (ma io personalmente lo trovo più vicino a Kerouac, un Kerouac dei nostri tempi ossia altrettanto disperato ma più scaltrito). Il suo curriculum ci parla di un talento precoce ed eclettico, dotato di una seria preparazione non solo nel campo umanistico-letterario ma anche in quello logico-matematico; e per di più D.F.Wallace si era distinto anche in quello sportivo, avendo praticato il tennis a livello agonistico con risultati degni di nota. E' proprio il tennis a essere al centro, come filo ispiratore e conduttore, di quello che generalmente è giudicato il suo capolavoro, o senz'altro l'opera più completa e rappresentativa, Infinite jest, un romanzo che però per le sue dimensioni e per l'impatto generale richiede tempi di lettura e assimilazione piuttosto lunghi (e pazienti). Tornando al libro in questione, si tratta invece di un volumetto di poco più di 140 pagine, e non contiene in realtà un romanzo, e nemmeno un racconto in senso stretto: è invece un lungo reportage, il resoconto di una settimana di crociera ai Caraibi, che era stato commissionato a Wallace dalla rivista Harper's nel 1997. Inizialmente era il pezzo che dava il titolo a una raccolta di saggi; gli altri sono poi stati pubblicati in Italia in un volumetto a parte con il titolo Tennis, tv, trigonometria e tornado. In questi saggi, come anche in tutta la narrativa (racconti e romanzi), lo stile di Wallace è fortemente originale e innovativo, caratterizzato da linguaggio scanzonato e ironico, sorprendente varietà di lessico, capacità descrittiva di tipo "cinematografico" ossia molto per immagini, ritmi torrenziali, ossessione del particolare, accumulo frenetico di note a piè di pagina che sembrano ripensamenti della seconda ora ritenuti dall'Autore nevroticamente necessari a spiegare meglio, a farsi capire, a colmare eventuali lacune. Uno stile che o affascina per la novità oppure esaspera, lo dico subito; indubbiamente rivela tratti caratteriali molto tipici e un bel fondo di nevrosi.
La crociera ai Caraibi pare sia un must di una certa larga fascia della popolazione americana, tanto è vero che esistono numerose compagnie di viaggio che si dedicano quasi esclusivamente a queste rotte allestendo navi gigantesche e dotate di tutte le più superflue comodità per offrire al pubblico i più diversi modi di realizzare questa diffusissima aspirazione. L'organizzazione di questi pacchetti-vacanze è maniacalmente volta a garantire (meglio sarebbe dire a obbligare) al passeggero un divertimento continuo nel lusso più sfrenato, offerto come la cura o il compenso a tutto lo stress accumulato durante l'anno: le giornate sono scandite da ininterrotti appuntamenti con il cibo, i giochi, la cura del corpo, essendo le navi vere e proprie città galleggianti dotate di piscine, casino, saloni, bar e ristoranti, palestre, centri benessere e via dicendo. La vita a bordo è regolata dalla legge del "relax", il che appare in realtà un bel controsenso dato che i ritmi dei divertimenti sono, al contrario, tanto intensi da risultare stressanti. Eppure i passeggeri sono lì per questo, per approfittare di tutto, anche di opportunità che in altre circostanze non troverebbero né interessanti né adatte, e in pratica vivono l'esperienza come una corsa continua e sfrenata, un mordi & fuggi, nell'ansia di non perdersi niente e di mettere a frutto al meglio il non indifferente prezzo del biglietto. Da notare che l'età media a bordo è tutt'altro che bassa: a questi tour-de-force del divertimento partecipano per lo più coppie di mezza età, e i giovani vi sono rappresentati in percentuale modesta, forse anche per una questione appunto economica. Al seguito delle diverse centinaia di passeggeri, vi è un esercito di quasi altrettanti addetti, votati al servizio più completo e meticoloso possibile e ossessionati dall'obbligo di prevenire ogni esigenza e ogni desiderio. Praticamente un esercito di schiavi.
Wallace, che caratterialmente era tutt'altro che un tipo mondano, si imbarca per questa avventura portando con sé un personale corredo di nevrosi, principalmente l'agorafobia che condiziona molti suoi comportamenti, e in pratica mette se stesso alla prova di fronte alle molte e spesso grottesche situazioni che un'esperienza così intessuta di lussuosi eccessi comporta, trattandola con tutto lo humour feroce di cui è capace; in pratica ne approfitta per sottoporre a una critica meticolosa molti aspetti della società americana, toccando cioè i temi che sono in effetti quelli più costanti nella sua produzione. Non si tratta di semplice umorismo, di comica presa in giro, ma piuttosto di acuminata satira di molti stereotipi dell'americano medio (e non solo): il consumismo, il provincialismo, la smania di apparire, di essere all'altezza, la vanità, e in buona sostanza la tensione di una competitività continua, forse spesso sotto la spinta più forte di tutte le altre, che è il bisogno di esorcizzare la paura della vecchiaia e della morte. Wallace ci racconta numerosissimi episodi e ci trasmette numerosissime sue considerazioni in cui mette soprattutto in evidenza la componente ossessiva di questo genere di "cosa divertente" tanto amata dai suoi connazionali; ci regala pagine assolutamente spassose (nel linguaggio, meno invece nel contenuto che, non ci sfugge, è crudamente satirico) in cui descrive atteggiamenti, pose, manie di gusto assolutamente kitsch. Il succo dunque è questo: il reportage si legge con grande divertimento, perché il tono è non solo umoristico, ma umoristico in modo del tutto originale, però il senso è ben altro, è una denuncia delle tante e allarmanti nevrosi dalle quali l'americano medio (ma non molto dissimilmente dall'europeo medio, o da tanti di noi) si illude di liberarsi semplicemente lasciandosi imprigionare nella nevrosi più ingannevole di tutte: quella del divertimento a ogni costo, anche a costo della salute.
Leggere D.F.W. significa avvicinarsi a uno scrittore nuovo e unico che ha lasciato un segno formidabile nella letteratura contemporanea con la sua acuta, intelligente analisi della realtà, descritta con toni vivaci che mescolano farsa e tragedia, corrispondendo in pieno a quel livello di crisi esistenziale permanente che caratterizza le moderne cosiddette società sviluppate, vittime di uno stress mortale da esse stesse inventato. Un mondo così alienato e alienante come quello che Wallace spietatamente ci illustra non deve essergli più sembrato un luogo dignitoso in cui vivere, se lo ha lasciato con quello che è in fondo il gesto più assurdo di tutti, ponendo fine alla sua vita quando l'età e il successo parevano al contrario le condizioni più favorevoli per continuarla e magari, chi può saperlo, combattere un po' di più per renderla migliore.

* * *

Nota personale.
La mia unica esperienza di crociera è abbastanza diversa da questa di Wallace, almeno dal punto di vista formale. Niente lussi sfrenati, per cominciare, ma un pacchetto standard di 6-giorni-e-7-notti su un traghetto che compiva il giro dell'Egeo facendo scalo in alcune isole greche. Tuttavia nella sostanza i punti in comune fra le due esperienze ci sono eccome; anzitutto una cosa che ho capito subito è che la crociera non ha molto a che fare con l'andar per mare o con il mare in generale, sebbene la nave viaggi circondata costantemente dal mare e per lunghi tratti senza alcun segno di terraferma in vista. Tuttavia quel mare lì, per quanto esteso a perdita d'occhio, visto dall'alto di una nave da crociera è un mare da tivù: è lontano giù in basso, non si può toccare, non ha odore né rumore in quanto entrambi sono soverchiati da ben più prosaici odori e rumori prodotti dalla nave stessa e con assai scarso buon gusto. Prevale un sentore di combustibile misto a metallo, e talora ci affligge una punta di alga in marcescenza sulla quale si adagia il diffuso profumo degli oli abbronzanti o protettivi che a bordo si sprecano. Che non si tratti di un ologramma, il mare ce ne assicura avvolgendoci di un concretissimo aerosol salmastro che pizzica la pelle e ci fa desiderare ad ogni ora del giorno una doccia di acqua dolce, doccia che comunque non sarà mai così generosa e confortevole come quelle di casa nostra.
Se Wallace confessa di aver dovuto fare i conti con la propria cronica agorafobia, io ho avuto piuttosto a che fare con il suo contrario, la claustrofobia; paradossalmente, un posto come una nave, tutta esposta all'aria, al mare e al cielo, a guardar bene proprio per questa sua caratteristica di essere l'unico posto sicuro in mezzo all'immensità risulta una specie di prigione (più elegantemente ma con lo stesso significato, una gabbia dorata) dalla quale è impossibile uscire per farsi un giretto per conto proprio, per cambiare aria, per un momento di personale esilio. Quando ti imbarchi, devi avere ben chiaro che da lì non scenderai di tua volontà quando ti garba, ma solo quando altri ti autorizzeranno o ti ordineranno di farlo. Se scoprirai che la vita di crociera non ti piace, se i tuoi vicini di tavolo si riveleranno insopportabili, se le interminabili ore di navigazione fra uno scalo e l'altro ti scateneranno crisi di depressione da noia cosmica, se – vogliamo dirlo – ti assalirà il più piccolo disturbo gastrointestinale o qualunque altra seccatura di carattere fisico che ti farà rimpiangere la tua casa, il tuo lettino, il tuo bagno, quel rimpianto dovrai tenertelo e potrà pesarti addosso come un supplizio.
Se viceversa sei portato alla mondanità, ne avrai magari anche troppa, e tutta generalmente organizzata anche se non necessariamente come avresti voluto tu. Il tempo dedicato agli ozi e al divertimento è infinitamente superiore a quello riservato alle escursioni a terra, che in genere si svolgono a ritmo di galoppo e non consentono divagazioni personali; da segnalare che la parte più deludente di queste escursioni sono le lungaggini delle operazioni di sbarco, che richiedono levatacce mattutine e attese esasperanti e incomprensibili in coda lungo i corridoi di uscita prima che finalmente si possa scendere la maledetta scaletta che ci porterà sulla terraferma di un molo, dal quale improvvisamente vedremo il mare (ahimè, quello portuale) davvero da vicino, anche se oleoso come uno stagno.
Val la pena segnalare che le cucine di una nave da crociera, dovendo fornire menu internazionali a troppe centinaia di passeggeri, confezionano cibi abbastanza anonimi nel sapore e privi di reali e pittoresche sorprese, seppure mascherati da immensamente inutili decorazioni. Non essendo molto interessata, non ricordo di averne particolarmente sofferto, come non mi sono mancati gli alcolici coloratissimi dei vari bar di bordo, frequentati per motivi a me inspiegabili a tutte le ore; ho avuto però l'impressione che il costo degli ombrellini di carta affacciati ai bicchieri dei cocktail fosse spudoratamente elevato.
I divertimenti a bordo sono affidati ad animatori che, come ovunque, hanno un concetto piuttosto limitato della creatività, ma anche di questo servizio ho fatto a meno, resistendo strenuamente ai quotidiani inviti che lo staff non manca di rivolgere a ogni singolo passeggero con un'insistenza che definirei paranoica.
Cosa mi è piaciuto, della mia crociera, non saprei dirlo; forse il fatto che non ne avevo mai fatta una e che ora posso dire di sapere come funziona. Ma se proprio volessi ripetere l'esperienza, lo farei solo in compagnia di una persona capace di farmi vedere oltre la noia e la fatuità come David Foster Wallace.


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