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Come un romanzo
(Daniel Pennac)

Rivolto a giovani disaffezionati e a educatori sull'orlo della rassegnazione, Come un romanzo è un breve ed efficacissimo corso di sopravvivenza nel mondo della lettura, che rappresenta la forma più intelligente (e divertente) di conoscenza di se stessi e degli altri.
Con acume, semplicità e francesissima grazia, questo saggio ci dice tutto ma proprio tutto sulla lettura e sui lettori, che vengono presentati, a seconda dei casi, come adepti appassionati oppure vittime neghittose; di entrambe queste facce del popolo che legge - chi per il proprio fanatico piacere, chi per uno svogliato dovere - Pennac illustra e spiega gli aspetti, allo scopo di suscitare in tutti una affettuosa comprensione per chi la pensa diversamente e per le cause che lo muovono. Così riesce a suscitare anche nei non interessati la curiosità di avvicinarsi alla lettura non come a un faticoso impegno da forzati della mente ma a un goloso disimpegno liberatorio da esploratori della fantasia.
Come un romanzo si legge come un romanzo e ad ogni pagina fa sorridere per la garbata precisione con cui sviluppa le sue considerazioni, ma anche ridere per lo spirito col quale ci porge un argomento che altrove viene generalmente trattato con seriosa accademia. A scrivere sembra uno di noi, a metà fra il monellaccio e il professore, in un tono simpaticamente discorsivo che alla fin fine è il modo migliore per risultare convincente e lasciare il segno.
L'Autore, che per sensibilità personale ed esperienza professionale è molto vicino alle realtà dell'età evolutiva, parte dalla constatazione che i bambini nell'età prescolare manifestano un naturale ed estatico interesse per il racconto, ma lo perdono rapidamente quando la lettura, poco più avanti, viene rivestita del disvalore antipatico dell'obbligo, dell'imposizione scolastica prima e di quella più genericamente culturale poi. Rimuovere queste coercizioni è l'unica soluzione che permette di riprendersi il piacere incontaminato e incontaminabile di liberare la fantasia nella delizia della lettura libera. Una tesi non nuova, ma nuovo è il linguaggio e la sincerità con cui viene esposta e che la rendono leggibilissima e coinvolgente.


Per favorire la liberazione del lettore, molto concretamente Pennac ha stilato il famoso decalogo dei suoi Diritti Imprescrittibili, ognuno dei quali merita almeno una breve considerazione: io ci ho provato con le mie, ma non c'è dubbio (anzi, è proprio questo il bello) che ognuno di noi abbia le proprie altrettanto rispettabili, esattamente secondo la fondamentale e illuminante asserzione che la vera ricchezza della lettura consiste nel suo essere un bene privato, e l'obiettivo (raggiunto) di Pennac è quello di invitare a rifletterci su - ma con leggerezza e divertimento, davanti a una tazza di tè e a un vassoio di croissants rigorosamente francesi.

 

I Diritti Imprescrittibili del Lettore

 

1. Il diritto di non leggere

Mettiamola così: se non esistessero quelli che non amano i libri, noi lettori non potremmo ritenerci un popolo di privilegiati. Sì, perché confessiamolo: ci sentiamo adepti di una setta giusta, detentori di una verità esclusiva; ci consideriamo, rispetto ai non-lettori, persone superiori per sensibilità, intelligenza, cultura. Siamo portati a deridere con sufficienza coloro che non hanno ricevuto la nostra rivelazione, quella che dietro la copertina di un libro si sveli un intero universo parallelo dove si rincorrono e si alternano sensazioni e opportunità migliori, più affascinanti e soprattutto liberatorie. Siamo dell'idea che chi non varca quella porta resti schiavo della barbarie, dell'oscurantismo, della piattezza quotidiana, mentre noi ce ne affranchiamo.
Ma in fondo, riflettiamoci, è libertà la nostra che ci incatena alle pagine scritte e alle illusioni che contengono, o lo è quella di chi non avverte il bisogno di sfuggire alla realtà attraverso i sogni degli scrittori? Non sarà che sono più realizzati e più consapevoli i non lettori, quelli che sono esenti dalla nostra passione (e ogni passione contiene in sé i germi dell'asservimento) e possiedono invece in se stessi la capacità di gestirsi, di bastarsi?
Ammettiamolo: troppo spesso ai nostri sentimenti, alle nostre gioie oppure sventure, alle stesse decisioni che prendiamo, noi diamo il volto, il nome, i gesti e la partecipazione di quei personaggi di carta e inchiostro nei quali ci immedesimiamo con ardore. La nostra passione per i libri, per le storie raccontate, non sarà una fuga da un'identità imprecisa - la nostra - che ci va stretta, che si dimostra quotidianamente inadeguata?
Spero di no. Spero caldamente di no.
Ma se anche fosse, mi riconosco il diritto di essere umile e eternamente schiava delle catene della lettura, finché morte non ci separi.

2. Il diritto di saltare le pagine

Sì sì, è vero, questo è un diritto inebriante, una volta che si sia preso coscienza che non è un dovere morale leggere parola per parola un trenta-quaranta pagine di fila di sole descrizioni di paesaggi o elucubrazioni cervellotiche che non siano inconfutabilmente funzionali alla vicenda.
Gli sbrodolamenti, i fronzoli superflui, le disquisizioni accademiche, ma in genere tutto ciò che tende a rallentarci il ritmo di lettura, ad allungare il brodo e a collocarsi nella categoria volgarmente definita "delle seghe mentali", ci è lecito tagliarli prima che ci privino del piacere di finire un libro che magari per molti altri versi è valido.
O l'autore preferirebbe che, presi da sfiducia e sbadigli, mollassimo tutto?
Un lettore che salta le pagine - a meno che non sia per colpevole pigrizia - andrebbe preso molto sul serio dallo scrittore in questione, perché se lo fa non può essere che per un motivo: la noia. Lo scrittore probabilmente non si rende conto di avere scritto quelle trenta-quaranta pagine di noia. Per lui erano pagine profonde, magari liriche, magari così rifinite da ritenerle il clou dell'intera opera; ma se il lettore le salta perché ci si annoia, perché gli pare che siano ininfluenti, perché a lui non dicono niente, lo scrittore dovrebbe rifletterci. Può significare che quelle pagine saltate, scartate, in pratica rifiutate, contengano solo messaggi personali che l'autore invia a se stesso, uno scambio di complimenti fra sé e sé, un esercizio di vanità privata che si trasforma in una pubblica incomunicabilità. Quando cioè lo scrittore scrive solo per se stesso e perde di vista il suo lettore, quest'ultimo, che è molto più obbiettivo, se ne accorge, ci resta male e lo punisce. Saltando le pagine.

3. Il diritto di non finire un libro

Ah sì: il lettore è tristemente consapevole che non gli basterà una vita per appagare la sua smania di lettura, perché leggere non è una professione remunerativa ma una necessità privata che richiede tempo e condizioni ambientali favorevoli, due requisiti sempre troppo difficili da trovare. Liberarsi dalla falsa idea che portare a termine un libro, anche se non piace, sia un obbligo morale è un comportamento di semplice e sacrosanta autodifesa. Rifiutiamo questa coscienza ligia e miope e abbracciamo senza rimorsi la fede della libertà di accantonare, che ci eviterà la frustrazione di spendere il nostro poco tempo al servizio devoto di un'autodisciplina senza scopo, ma al contrario ci permetterà di riservare la dovuta accoglienza ad altre letture, più soddisfacenti e convincenti. Un libro non finito non è un libro cestinato, non lo bruceremo né lo cancelleremo dalla mente: lo terremo parcheggiato sotto gli altri, giusto un po' in disparte, nel baule delle cose lasciate a metà (ne collezioniamo tante ogni giorno, in fondo), ad aspettare, magari inutilmente ma non è mai detto, che ripassi il suo momento e che noi lo sappiamo riconoscere.

4. Il diritto di rileggere

Soprattutto quando non c'è in vista una lettura intrigante, oppure si sente il bisogno di una vacanza mentale prima di affrontare qualcosa di nuovo o impegnativo, tornare su testi già letti e collaudati è un conforto. E' un po' come tornare in un posto conosciuto e amato, di cui si sente la nostalgia e dove si sa già che ci si troverà bene, a casa, fra amici.
C'è chi afferma che rileggere è una perdita di tempo rispetto a una lettura nuova; che è sentimentalismo. A volte sì, è per debolezza che ci si rifugia nel già letto; oppure è per sopportare meglio una certa stanchezza, una certa sfiducia, che si torna sui propri passi, con l'idea di andare sul sicuro, di evitarsi delusioni.
Ma rileggendo si finisce spesso con lo scoprire che a distanza di tempo i buoni libri non solo continuano a trasmettere sensazioni, ma ne suscitano di diverse e spesso sorprendenti, perché il tempo che è passato ha reso diversi noi e il nostro piano di lettura, la nostra visuale, la nostra reattività. Rileggere un libro in realtà è un po' rileggere dentro noi stessi e contarci l'età, i cambiamenti, gli arricchimenti oppure le perdite; è un po' rifare il punto delle nostre esperienze, guardarci allo specchio e conoscerci un po' di più.

5. Il diritto di leggere qualsiasi cosa

Giusto: riprendiamoci il diritto alle letture informali, cialtrone, svaccate. Capita di attraversare periodi di apatia mentale in cui un po' di abbrutimento non può peggiorare le cose più di tanto, e poi anche la mente più fulgida e pura ha bisogno ogni tanto di staccare la spina.
Ci prenderà il senso di colpa per aver tradito i nostri amici ufficiali, i nostri sodali, i condiscepoli della nostra setta esclusiva, con i quali ci atteggiamo a lettori esigenti e selettivi? Ci vergogneremo di noi al punto di non confessare le nostre debolezze?
Sbagliato.
La passione per la lettura di cui tanto ci vantiamo implica il pregio vizioso (o il prezioso vizio) della curiosità. E' quella che seguiamo quando, ben nascosti e in incognito, apriamo uno di quei libri proibiti, messi all'indice dalla giuria degli intellettuali duri e puri cui guardiamo come a un faro, e ce lo sciroppiamo con inconfessabile delizia. Del resto, come potremmo parlare noi pro o contro (possibilmente contro, ci auguriamo) di un best seller da ombrellone senza averlo letto? Ce lo faremo prestare da una biblioteca oppure da un conoscente dal palato più facile del nostro, ma in qualche modo lo leggeremo, lo espugneremo, ci faremo una ragione del suo successo, verificheremo di persona i gusti dei milioni di lettori entusiasti, sonderemo i perversi meccanismi che determinano la popolarità di uno scrittore (e ne fanno la fortuna, quella finanziaria) a prescindere dal suo valore e spesso in totale assenza dello stesso.
In parole povere ma oneste: il Codice Da Vinci - beninteso, sempre che riusciamo a superare le prime cinque righe senza arrenderci alla rivelazione che si tratta del più indegno trash mai letto da occhi umani - leggiamolo pure alla luce del sole e ammettiamolo a testa alta. Solo dopo, ma con cognizione di causa, lanceremo la nostra liberatoria vendetta, proclamando il verdetto di una totale e sdegnatissima stroncatura.

6. Il diritto al bovarismo (malattia testualmente contagiosa)

Ma in fondo il bovarismo non è un diritto, bensì una vera e propria motivazione alla lettura. Io ne approfitto senza risparmio, e i miei libri più amati sono ovviamente quelli che mi permettono di esercitare il mio bovarismo dalla prima all'ultima pagina.
Bovarismo significa, in buona sintesi, immedesimazione, ma di regola la si intende in senso deteriore, ossia nel suo essere eccessiva e quindi connotarsi come vizio o debolezza adolescenziale, da immaturi, da sprovveduti. Eppure quando abbiamo scoperto la lettura abbiamo scoperto contestualmente il piacere dell'immedesimazione, del suo potere di farci evadere rivestendoci dei panni e dei sentimenti dei nostri eroi, e ne siamo caduti subito in balia. E' un altro mondo più esaltante e sorprendente quello che ci aspettiamo di trovare tra le pagine di un libro; un mondo dove succedono le cose che noi desideriamo, che noi progettiamo, noi e non le circostanze prevedibili del nostro quotidiano.
E cos'è che ci tiene avvinghiati a una lettura, che ci fa stare svegli la notte per continuarla, che ci estrania dall'incresciosa piattezza delle giornate e che ci fa sentire orfani quando il nostro libro è finito, se non la delizia dell'immedesimazione? Ci si affeziona non solo ai personaggi e alle vicende, ma anche agli ambienti e ai tempi in cui si svolgono, e quando si volta una pagina e ci si ritrova in una scena già nota se ne riconoscono i segni e le dimensioni come rientrando nel tinello, nel salotto, nella camera da letto di una casa che consideriamo nostra. Ci sono familiari - perché li vediamo nitidamente con la nostra immaginazione bovarista - perfino gli oggetti, le tende alle finestre, gli abiti, gli alberi delle strade, le facciate delle case, gli archi di un ponte. E' un mondo parallelo nel quale entriamo con golosità, e dal quale usciamo di malavoglia e quasi sentendoci estirpati quando ci chiamano a tavola o al lavoro.
Godiamocela, questa malattia testualmente contagiosa; anzi, facciamoci contagiare incurabilmente dall'immedesimazione letteraria, e consigliamo vivamente a chi ne è esente di sostituire con essa quella veramente deleteria, ingiustificata e sempre più diffusa che prende a modello le vacuità insignificanti che ci offre la tivù.

7. Il diritto di leggere ovunque

Ovunque non è poi un problema, per il vero lettore. Il vero lettore non ha bisogno di particolari comodità per leggere; ottima la poltrona in studio o in salotto, oppure il letto o la sdraio o anche due bei cuscini su un tappeto, ma il vero lettore legge tranquillamente anche in autobus, in metropolitana, in treno, in aereo, su barche, traghetti, navi da crociera, in sale d'aspetto e su panchine dei giardini; il vero lettore legge seduto, sdraiato, stravaccato, raggomitolato, ma anche in piedi sotto le pensiline e addirittura camminando, se convenientemente addestrato. Da tutti questi posti e da tutti questi modi, il vero lettore esce e si affranca quando entra nel suo libro; dentro le pagine, un altro mondo, forse un'altra strada, un'altra pensilina, un'altra sala d'aspetto, oppure un giardino o un deserto, un salone da ballo o una soffitta, comunque sia per lui sarà un altro dove, e non ne prova mai disagio. Sa sempre dove stare, il lettore, e ci sta bene, ci sta da dio, dimentica il resto, non avverte scomodità, non si lamenta di sedili duri o correnti d'aria.
Il problema non è dove, ma casomai quando.
Il vero lettore dovrebbe avere il diritto di leggere ogni volta che lo desidera, e di farlo in pace, senza invasioni o interruzioni, senza la distrazione di passanti e impiccioni, senza l'obbligo di guardare l'orologio e di affrettarsi perché è ora di pranzo o di lezione o d'altro. Il vero lettore soffre fisicamente a dover chiudere il suo libro perché lo reclamano a tavola o perché la sua luce accesa alle tre di notte disturba chi dorme. Il vero problema del vero lettore - il vero diritto da regolamentare - sono i rumori di fondo.

8. Il diritto di spizzicare

Diritto ampiamente esercitabile nelle librerie e nelle biblioteche, e non solo per evitare di comprare a scatola chiusa ma prima di tutto perché il vero lettore è uno che di fronte a tanta grazia di libri esposti perde la testa e li vorrebbe annusare, toccare, sfogliare, accarezzare, conoscere, assaggiare tutti. Li vorrebbe quasi abbracciare, sopraffatto dalla commozione di trovarsi circondato da tanti amici. E per non trascurarne qualcuno, gli vien voglia di spizzicarne più possibile, per procurarsi l'illusione di portarsi a casa almeno un pezzetto, un segno, una traccia, un ricordo di ognuno.
A casa è ancora più facile: basta ammassare libri anche a casaccio vicino al letto o alla poltrona, e passare le serate soprattutto d'inverno a saltabeccare dall'uno all'altro secondo l'estro del momento. Perché c'è un libro per ogni occasione della vita e anche per ogni circostanza della giornata e per ogni variazione di umore: la mattina si può (è un diritto) sentirsi attratti da Melville, il pomeriggio da Benni, la sera da Agata Christhie e in piena notte da E.A.Poe, e il solito vero lettore impara presto a destreggiarsi fra i diversi stili e intrecci senza perdere il filo.
Senza contare che spizzicare libri, al contrario di spizzicare cioccolatini o patatine che porta facilmente a nausea, ha i suoi vantaggi: ogni libro contiene messaggi e riferimenti che allargano la mente e le suggeriscono nuove strade, nuove ricerche. I libri, lo sostengo da sempre, sono un po' tutti imparentati fra loro, figli della stessa voglia di raccontare, stupire, incuriosire, e a sapersi ben disporre risulta facile riconoscere in ciascuno dei legami, dei richiami, che portano - sulla via di questa curiosità - ad altri libri che trattino oppure approfondiscano temi simili, o viceversa propongano argomenti in netta antitesi. Seguendo queste tracce, questi suggerimenti, queste associazioni di idee, si comincia per esempio con lo sfogliare una biografia storica e critica di Giulio Cesare scritta da Antonio Spinosa, poi, passando per le ricostruzioni avvincenti e verosimili di Colleen McCullough, si approda con animo ormai appassionato alla tragedia di Shakespeare, ma sono ammesse e raccomandate ampie digressioni nei tomi del liceo da cui si traduceva il nostro De Bello Gallico quotidiano e, con più divertimento, nel campo del fumetto o meglio nell'accampamento di Asterix.
E alla fine saremo ricchi di sempre più numerosi input, perché di Spinosa c'è molto altro da leggere, anzi c'è tutto il settore delle biografie storiche da esplorare, così come i romanzi della McCullough risultano buoni riempitivi per le stagioni morte, e come di Shakespeare ci si rende conto di non aver mai letto né riletto abbastanza, e di Asterix non si può non ammettere di essere innamorati e ammiratori.
Insomma, si spizzicano libri come si trangugiano pop corn, con la differenza che i secondi al massimo provocano mal di pancia, mentre i libri... beh, sì: provocano dipendenza. Ma volete mettere, che magnifica droga?

9. Il diritto di leggere a voce alta

Su questo diritto non mi pronuncio perché non ne sento, personalmente, il bisogno. Non leggo a voce alta perché non sono io, non è la mia voce, che darebbe voce al libro, ma è il libro stesso che mi parla nella mente, e con la sua voce. E' lui che parla, e io devo solo ascoltarlo. Allo stesso modo, non riesco ad ascoltare un libro letto da altri: è come se, passando attraverso la voce, la pronuncia, la declamazione di un altro, il libro perdesse qualcosa della sua identità e arrivasse a me mediato da un estraneo, quando invece ciò che mi aspetto dalla lettura è lo stabilirsi di un ponte diretto e molto privato fra me e il racconto, senza suggeritori né spettatori. Ricordo molto bene quando e perché ho imparato a leggere: ero ancora troppo piccola per la scuola, ma già non mi bastavano più le storie raccontate da altri, i libri letti da altri. Volevo impossessarmi io di quelle storie e quegli oggetti chiamati libri, volevo gestirli, spadroneggiarli e tuffarmici dentro di persona, volevo essere io a esplorarli e a trovarne il significato, il mio significato e non l'interpretazione di qualcun altro; probabilmente non mi rendevo conto - a cinque anni - che già allora il mio rapporto con la lettura era quello di una profonda interazione, uno scambio intenso e senza intermediari.

10. Il diritto di tacere

Pennac si riferisce alla facoltà di non rispondere cui può appellarsi un lettore interpellato su un libro letto, o meglio sulla sostanza di cui è fatto il rapporto che lo lega alla lettura. Anche lui, Pennac, sa benissimo che si tratta di un rapporto troppo intimo per venir condiviso facilmente, per venir addirittura reso a parole senza timore di un travisamento. E' un po' quello che dicevo nelle mie considerazioni sulla lettura ad alta voce: tra lettore e libro intercorre un legame troppo personale per poter essere ridotto a formule o soggetto a giustificazioni. Nella lettura ciascuno proietta un po' o molto o a volte tutto di sé, in particolare gli aspetti più nascosti o inconfessati, e più ancora quelli nebulosi, non chiari nemmeno a lui stesso. Di tutto questo non è lecito chiedere un rendiconto: teniamoci dunque il nostro segreto e la nostra rivelazione privata, che solo a noi può giovare, al nostro microcosmo che è sempre e comunque sostanzialmente diverso da qualunque altro. Dei libri che leggiamo parleremo, è certo, anche a voce alta, anche con ardore, o ne scriveremo recensioni perfino ragionate e documentate, ma sarà un parlare della superficie, di ciò che è già chiaro e comprensibile a tutti; il nucleo, ciò che solo noi sappiamo averci smosso dentro e perché, è un tesoro inesprimibile ed è solo ed esclusivamente affar nostro.

Dello stesso Autore leggi anche la recensione di
La saga Malaussène


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