INDEX
Táifēng
Le origini della civiltà occidentale e moderna
dal Primo Tempio gerosolimitano di
Allāh a Omero
M.
G. Corsini, 22 dicembre 2007
Tutti i
diritti riservati.
Questo è
un lavoro nuovo, con diverse e fondamentali scoperte ulteriori. Qui il grosso
delle mie indagini, diciamo dal “Paradiso Terrestre” a
Omero, fa capo ed ha una soluzione finale o più avanzata, o comunque viene
rivisitato dall’alto, diciamo dal Tetto del Mondo, dal Pamir, da cui ora esamino tutto il Vecchio Continente. Ovviamente
questo lavoro non sostituisce né in parte né in tutto tutti quelli che lo hanno
preceduto. Quelli che lo hanno preceduto andranno letti, con intelligenza, alla
luce di questo. E poiché questo lavoro cade sostanzialmente anche alla fine dei
miei primi quarant’anni di studi storici, da quando alle
medie (avevo 14 anni) acquistai un sunto della vita e degli scavi in Grecia e a
Troia dai diari di Heinrich Schliemann pubblicato dalla Einaudi (nel
1968), è l’occasione per farne il
bilancio. Retrospettivamente, il filo conduttore della mia indagine è stata la
nostra civiltà, quella occidentale e moderna nel
migliore senso del termine, che, Titano abbattuto da un insulso Zeus (che
deriva da una radice indeuropea che si può leggere Dio), ho rimesso
pazientemente in piedi, pronto alla rivincita finale sul ring implacabile della
Storia, smascherando le menzogne e i
depistaggi degli imbecilli cortigiani prezzolati al servizio dei vari
signorotti medievali che mi hanno preceduto e che ancora imperano, perché grazie al cristianesimo (la dottrina
dell’opportunismo) siamo ancora nel Medioevo, anche se ci illudiamo di poter
conquistare lo Spazio. Come ho già scritto, noi occidentali siamo figli della menzogna.
Ma la menzogna è stata smascherata, fino in fondo, in sh’Allāh. Certo,
quello che ho scoperto,
lo devo anche, e aggiungerò perfino soprattutto, ai moltissimi
altri, per lo più fuori dell’apparato come
me, che mi hanno preceduto e che hanno fatto il duro lavoro di creare nel tempo
delle brecce qua e là nel muro di cinta
della cittadella dell’ignoranza medievale. Io ho avuto il privilegio di abbattere
il muro per l’assalto finale della Civiltà contro la Barbarie. Pur non
credendo in dio (ma non ho eretto l’ateismo a religione; odio i Polifemo dal cuore e dal
cervello di pietra), ma solo nell’uomo, in ciò che l’umanità ha prodotto di
meglio, ho finito per lavorare approfonditamente sulle religioni monoteiste
(cristianesimo compreso, che vera religione monoteistica non è; il
cristianesimo non solo è politeista, ma
privilegia il falso profeta di Alessandria d’Egitto, l’empia vittima sacrificale cannibalizzata nell’Eucarestia,
l’ultima vittima dei sacrifici umani dei traci) e dunque alla fine mi posso
definire anche un profeta (tranquilli, nessun dio mi ha parlato; quando si
capiscono a fondo le cose si può perfino leggere il futuro senza l’aiuto di
alcun dio), non solo della civiltà laica occidentale, ma anche, come si vedrà
da questo lavoro, che pone il sigillo ai miei primi quarant’anni di storico, un
profeta laico che attesta e grida al Mondo la veridicità storica del dio
di Abramo e, di conseguenza, della rivelazione avuta… da Maometto. L’ho
scoperto leggendo, da decenni, sempre
con maggiore approfondimento, l’Antico
Testamento cristiano ed ebreo (non posseggo il Corano, e forse un giorno lo leggerò,
ma in arabo). Da storico leale, senza che nessuno da nessuna parte, in Occidente,
ma credo nemmeno in Oriente, ne avesse scritto nei pur tanti libri da me
acquistati e letti nel corso degli anni, e senza avere un Istituto a
disposizione. Mi chiedo cosa non potrei scoprire nei prossimi 40 anni se
potessi disporre di biblioteche non di centinaia ma di migliaia di libri e
altri documenti. Farei come Enzo Biagi, che scriveva tutto lui, e bene.
Il bilancio di questi primi quarant’anni è ovviamente positivo. Ho
scoperto più di quanto mai avrei potuto sognare (e molto non l’ho potuto
rendere né posso tuttora rendere noto – nemmeno più a
me stesso, tranne quel che ricordo o ho già scritto – mi riferisco al corpus
dei testi etruschi tradotti e commentati rimasti scritti nei dischetti in
wordstar4 che non sono più in grado di leggere non avendo un computer con
installato il programma relativo di scrittura; quasi ci fosse una maledizione
sull’etrusco che deve rimanere lingua morta). E’ stata una bellissima
avventura. Soprattutto per la ventina di
lingue fra moderne e antiche imparate (un rammarico è il non potere col mio
metodo di seguire il telegiornale satellitare vocabolario in mano, imparare
definitivamente il cinese che ho studiato per anni; la Vallardi o chi per essa
dovrebbe realizzare un dizionarietto
Cinese-Italiano, magari con qualche centinaio di vocaboli in più – quello Italiano Cinese va bene così com’è –
con all’inizio la pronunzia dei vari vocaboli cinesi messi in ordine alfabetico
come un qualsiasi dizionario italiano, seguiti dal complesso di ideogrammi
relativo e infine dalla traduzione italiana; a cosa serve il dizionarietto? A
dialogare coi cinesi? E allora così com’è non serve a niente; a leggere le
scritte da parte del turista? Anche se nei luoghi turistici non si facesse uso
di segnaletica in inglese credo che chiunque riuscirebbe con un po’
d’intelligenza a raccapezzarcisi, e in ogni caso, facendo un sondaggio si
vedrebbe che nessun turista è mai riuscito a raccapezzarcisi con questo
sistema; per tutto il resto ovviamente un Vallardi (o simile) è comunque
insufficiente, ma magari se avesse qulche centinaio di vocaboli in più già
acquisterebbe valore). L’ultima, lo giuro, di lingua importante che sto tuttora
imparando, è e sarà l’ebraico moderno. Potrei perfino chiudere qui ed aver
realizzato in quarant’anni ciò che nessuno
prima o dopo di me riuscirà mai a realizzare. E potrei dedicare i miei prossimi
40 anni ad un nuovo e magari più affascinante campo d’indagine. Mi sento come
si potrebbe sentire un investigatore che alla fine dei suoi primi quarant’anni di indagini facesse il bilancio dei casi risolti anche difficilissimi e ancora rimasti da
risolvere (io non ho casi rimasti insoluti; il mio motto è che è solo questione
di tempo; il fatto è che non ho più documenti su cui lavorare, perché non ho un
Istituto; detesto girare per bibliotece e far fotocopie), con la coscienza di
aver lavorato sodo per la loro soluzione vera, seguendo solo il mio fiuto come
una bussola e senza la preoccupazione di tirare acqua al mulino della mia
fazione (che non ho) o della mia nazione (in cui mi sono trovato per caso al
momento della nascita) o della mia “civiltà”, perché io sono nato solitario,
cittadino del mondo o probabilmente di un altro mondo.
Siamo soli nell’Universo? La Chiesa Cristiana ce lo ha imposto per mangiarci
meglio. Io non lo credo che siamo soli, ma non è di quel che penso che voglio
parlare. Il punto è che nelle mie ricerche mi imbatto in due divinità sedicenti
rivelate che pretendono di essere uniche, o lo pretendono i loro seguaci.
Dunque, o una di queste esiste davvero,
oppure stanno entrambe solo nelle teste
degli uomini che l’hanno create. Poiché
al momento continuo a non credere in dio, posso al limite pensare che degli
extraterrestri della nostra Galassia,
spacciandosi per dèi, o essendo creduti dèi dai terrestri (come gli indigeni
considerano di solito i navigatori ed esploratori più civilizzati giunti nelle
loro terre), abbiano, uno buono, educato i terrestri, l’altro cattivo, diseducati e danneggiati anche materialmente.
Di avvistamenti anche del terzo tipo se ne parla nei testi antichi di varia
provenienza. Che io sappia uno solo ha avuto forse (se veramente è avvenuto)
una documentabile interferenza sulla storia umana. Il fatto è che degli
extraterrestri, se veramente hanno avuto contatti con noi, sappiamo troppo poco
e discuterne sembra fantasticare e uscire dal campo della vera scienza dove
invece io intendo restare, perché la mia guida è solo la dea Ragione. La stessa
arca degli “Ebrei dell’Esodo”, posto che sia stata uno strumento di
collegamento degli “Ebrei” con Yahweh e soprattutto di collegamento di Yahweh,
il dio cattivo, con gli “Ebrei”, e anche un marchingegno generante elettricità
per vari scopi bellici, non è servita a niente perché, come vedremo, gli
“Ebrei” persero sonoramente e non conquistarono affatto la Palestina sotto Mosè,
Giosuè, i Giudici, eccetera. Ciò forse perché il dio cattivo, come il diavolo,
fa le pentole ma non i coperchi? No, perché il dio cattivo riuscì comunque ad
imporsi su Gerusalemme dal Secondo
Tempio in poi, e poi anche a Roma su tutto il cristianesimo. Il dio cattivo
trova la forza nell’aiuto degli uomini
ignoranti (e opportunisti) che ne adottano la dottrina perché fa loro
comodo. Nell’impero della menzogna in cui viviamo prosperano gli imbecilli
opportunisti. Il male sulla Terra dipenderebbe a questo punto dal non potere
(per il momento) il “dio” buono intervenire sulla Terra a causa del predominio
di quello cattivo. Certo, quello che si deve più dar da fare è quello cattivo,
perdente in partenza. Forse il “dio” buono è tanto sicuro di vincere da
confidare solo nel fatto che alla fine l’uomo, con la sua sola ragione,
riuscirà a capire da che parte stare.
Nella tradizione degli Angeli caduti, puniti da Yahweh, si nasconde a mio parere un genocidio
avvenuto nel -1750 ca. a Mohenjo-Daro, nella valle dell’Indo. In zona – chiamiamolo, dovremo pur chiamarlo in qualche
modo, il generale Yahweh – ordinò un attacco con un’arma di tipo
nucleare su Mohenjo-Daro. Qui erano gli Angeli (ovviamente, poiché io non credo
in dio, militari extraterrestri) sotto il suo comando, ma Angeli dello stato da
cui proveniva – governato dal dio buono,
chiamiamolo il presidente del sistema di Sirio, tanto per dargli un’etichetta – di cui non poteva disporre a piacere.
Ebbene, il misogino razzista e invertito Yahweh aveva dato ordine ai suoi
Angeli di non unirsi alle vallindie, di pelle nera, questi contravvennero, e
Yahweh sterminò, coll’arma nucleare, loro, le loro mogli, i figli procreati da
entrambi, gli abitanti di Mohenjo-Daro. Nella stessa visione misogina, razzista
e da sessualmente invertito del generale ribelle Yahweh, Adamo ed Eva vengono
colpevolizzati per la loro unione sessuale (la famosa mela, il pomo della
discordia) generante prole. Invece il
“dio” buono, il Serpente, in Genesi, come scritta nel Primo Tempio di Dagon a
Gerusalemme, aveva certo preparato per l’uomo e la donna un giardino pieno di
delizie, soprattutto sessuali, quelle in cui credono gli islamici, gli indiani,
e tanti altri, e si fanno esplodere come kamikaze, per esse e per la libertà
cui aspirano (come i nostri martiri dell’indipendenza e unità d’Italia,
anch’essi brutti sporchi e cattivi per la Repubblica – nata dalla vittoria degli
angloamericani – che ne ha tradito gli
ideali e li ha gettati nel dimenticatoio come spazzatura). Se questo è stato
solo uno dei primi sgarbi fatti da Yahweh al “dio” buono, è credibile cha la
guerra continui, anche sulla Terra, con lo scontro fra civiltà portato avanti
dagli Statunitensi e dai loro alleati compagni di merende, Papa compreso,
contro l’Islam. Ma confido che alla fine
i buoni vinceranno, il Dragone l’avrà vinta sul ribelle Yahweh, come quasi
sempre in tutte le storie che si rispettino, e i cattivi processati in pubblico
e condannati al carcere, anche perpetuo, e allora, anche sulla Terra, regnerà per sempre la pace. In
sh’Allàh!
Da quando esistono, il Sole dona e
regola la vita degli uomini sorgendo
ogni giorno a Oriente e tramontando a Occidente. Il Vecchio Continente fino al
1492 era tutto quanto si conosceva (ma prima che l’umanità precipitasse nei
secoli bui del cristianesimo gli
scienziati greci, e non solo greci, sapevano – sbugiardando la Bibbia – che la Terra gira intorno al Sole e
che esiste un altro continente al di là dell’Atlantico) delle terre emerse ed
evidentemente invalse l’uso di distinguere l’estremo Oriente dei paesi asiatici
dall’estremo Occidente dell’Irlanda celtica, e si dice anche oggi (o si può
dire) che il Sole sorge dall’Oceano Pacifico e tramonta nell’Oceano Atlantico.
Ciò è astronomicamente falso, ovviamente, perché nessun punto dell’eclittica,
l’orbita apparente del Sole intorno alla Terra, è privilegiato rispetto agli
altri, e gli abitanti del Nuovo
Continente potrebbero altrettanto legittimamente affermare che il Sole sorge
dall’Atlantico e tramonta nel Pacifico. Ma è storicamente vero, perché
l’umanità, e la civiltà, nasce nel Vecchio Continente, e nasce ad Oriente,
per poi via via estendersi ad Occidente, seguendo il corso
del Sole. Dopo la riscoperta dell’America da parte di Colombo (non a caso in un
momento in cui la Chiesa Cattolica
aveva preso una via laicissima che faceva sperare con Papa Borgia una
laicizzazione definitiva del Vaticano e perfino l’unità d’Italia; ma Yahweh ci
ha messo fra le ruote la cupidigia e l’invidia del rozzo e superstizioso
Lutero, e di conseguenza la
Controriforma, la reclusione a vita di Galileo e il
predominio dei protestanti nella scienza), la mano del gioco della civiltà è
passata ancora più a Occidente. Oggi la mano è tornata
al punto di partenza, all’estremo Oriente. Forse un giorno gli antropolgi
scopriranno che il primo gruppo di esseri umani si è evoluto
da una scimmia dell’estremo Oriente, perché il rame è stato scoperto,
per la prima volta, in Asia, nel 6000, mentre in Mesopotamia solo nel 4500,
quando in Thailandia settentrionale si producevano già oggetti in bronzo. Pare
che la civiltà si sia sviluppata per la prima volta in un’area compresa fra
Giappone, Thailandia e Birmania.
Esaminiamo la preghiera al dio Sole del re ittita Muwatallis (-1300 ca.),
che recita:
Dio celeste del Sole, pastore dell’umanità!
Tu emergi su dal mare, Sole del cielo,
su verso il cielo tu vai.
Celeste Dio del
Sole, mio signore! All’uomo,
al cane, al porco, alla fiera selvaggia dei campi
tu parli di giustizia, deità del Sole, giorno per giorno.
Dapprima si potrebbe pensare ad un mondo visto alla rovescia, col sole
che sorge dall’Atlantico e tramonta nel Pacifico, poi gli studiosi hanno
pensato che il Mare in questione fosse il
Mar Caspio o il Mar Nero e che originariamente gli Ittiti fossero stanziati
nel Caucaso, a occidente del Mar Caspio, o sul Danubio, a occidente del Mar
Nero. Oggi io avanzo l’ipotesi che gli
Ittiti sapessero esattamente (in base alla loro stessa provenienza e alle
conoscenze geografiche prima della scoperta di Colombo) che il sole sorge
dall’Oceano Pacifico. Il fatto è che noi moderni sottovalutiamo le conoscenze
degli antichi, dovute non solo ai loro spostamenti come popoli e come
individui, ma anche agli scambi commerciali da un emporio all’altro che
costituivano una fitta rete di scambi di informazioni che tenevano collegato da
un estremo all’altro tutto il Vecchio Continente fin dai più antichi
millenni.
Ciò non significa che gli Ittiti non possano essersi stanziati nel
Caucaso. Ciò anzi prova una caratteristica comune a tutte le tradizioni, che
emigrano, come le fontane di Roma, ma a differenza delle fontane di Roma, che
emigrano in base ai progetti
urbanistici, le tradizioni
emigrano da Oriente a Occidente, secondo il corso del sole. Per gli
Ittiti, stanziati dove abbiamo detto, diveniva nuova tradizione quella del sole
che sorge dal Mar Caspio. La storia dell’umanità nasce nell’estremo Oriente, ma
anche la storia dell’Occidente indeuropeo nasce nell’estremo Oriente. Ci
possiamo immaginare quale fosse l’aspetto del dio venerato dagli Han, gli
abitanti dell’antica Cina nel -3000 quando sorgono qua e là le grandi civiltà.
Un pesce che, come la foca con la sua palla, spunta dall’acqua tenendo il sole
sulla testa. Più che altro un biscione, un dragone alato (il dragone cinese),
simile al Dagan/Posidone Uranio come raffigurato nel pittogramma n° 50 del
sillabario filisteo del -XIV sec. Dagan, il dio dell’Occidente, lo troviamo
venerato nel Paese Superiore, in Alta Siria (cioè nella Naharina, “Regione dei
fiumi”, e nella media valle
dell’Eufrate) già nel III millennio, mentre il “biscione” gallico *vo-bera era
dapprima il dio dei Fomoire sull’Atlantico
e dunque risalirà ancora al III millennio (cf. F. Le Roux, C.-J.
Guyonvarc’h, I Druidi, ECIG, seconda ed. 2000, p. 503, voce Fomoire). Questo fu
certo il dio più antico del mio modello interpretativo della Civiltà (quella
che appare nel -3000) dall’Oriente all’Occidente, un dio acquatico ma anche
celeste, uranio e soprattutto solare. Anche Menes, fondatore della prima
dinastia egizia intorno al -3000, prendeva il nome regale di Nar-mer “L’amato
di Nar”, dal pesce siluro Heterobranchus, Nar, mentre poneva il suo nome e il suo
palazzo sotto la protezione di Hathor, la « Grande mucca celeste che creò il
mondo e il sole », che ci rammenta la
vacca sacra che cammina imperturbabile nelle strade dell’India odierna. Dopo
aver teorizzato questo dio buono ed aver
intravisto lucidamente l’ipotesi delle guerre spaziali, posso riferirlo alla
civiltà degli esseri guidati da Oannes
(raffigurati come uomini pesce; evidentemente uomini veri e propri, sia pure di
altri mondi, con un vestiario da sommozzatori che ai primitivi ricordava vagamente quello di un pesce; essi
vivevano in sottomarini ovviamente nucleari tipo quello in cui entrò il profeta
Giona), i primi civilizzatori dell’umanità, di cui parla Beroso, sacerdote del
dio Bel/Marduk del tempo di Alessandro Magno, nei suoi Babyloniakà (Storia
babilonese). Purtroppo di Beroso non ho conoscenza diretta (pur avendolo
ricercato in libreria; se avessi l’istituto tutto sarebbe più facile), per cui
devo affidarmi alle mie fonti (fra cui
anche Roberto Pinotti, I messaggeri del cielo, Oscar Mondadori, 2002, p. 139).
Questo e i suoi uomini sarebbero apparsi uscendo dal Mare Eritreo, dall’Oceano
Indiano, dirigendosi verso la
Mesopotamia e l’Egitto (Memfi) dove avrebbero istruito alla
civiltà le relative popolazioni. Costoro « stavano fra gli uomini, senza
mangiare, per dare cognizioni di lettere, di scienze, di metallurgia, di arti,
di come innalzare templi, edificare città, istituire leggi, fissare i limiti
dei campi con sicure regole, seminare, raccogliere grani e frutti; in una
parola per insegnare tutto quanto poteva contribuire a raddolcire i costumi. Al
tramontare del Sole se ne tornavano in mare per trascorrere la notte sotto le
acque nel proprio ‘vascello’ » (Il giornale dei Misteri, agosto 1989, n° 214,
p. 10). Questo è quanto ci è pervenuto dai frammenti dell’opera di Beroso che
avrebbe promesso di rivelare il loro grande segreto. Ovvio che un Paradiso terrestre vedesse questo dio-pesce come protagonista ormai ambientato sulla
terraferma, nell’estremo Oriente, ovviamente. Là dove si trovava il « giardino
delle Esperidi… sul monte di Atlante, nel paese degli Iperborei… Lo custodiva
un drago immortale, figlio di Tifone e di Echidna, che aveva cento teste e
sapeva parlare con le voci più diverse e variegate. » (Apollodoro, Biblioteca,
2,5) Secondo Esiodo (Teog. 517-8): « Atlante il cielo ampio sostiene, a ciò
costretto da forte necessità, ai confini della terra, di fronte alle Esperidi
dal canto sonoro ». Cosa custodisse il drago ci aiuta a capirlo Diodoro (V,27):
« Nella regione chiamata Espertide dicono che ci fossero due fratelli [Atlante ed Espero] celebrati dalla
fama. Essi avevano pecore d’eccezionale bellezza, di colore giallo dorato: per
questo motivo i poeti, che definiscono le pecore “mela”, le chiamano “mela
d’oro”. » Dunque le mele o pomi d’oro non c’entrano nulla. C’entrano invece, ma
accessoriamente, le pecore. Nella Steppa dell’Eden, di cui era signore il
Serpente/Dragone Tifone, l’intruso Yahweh fabbricò per Adamo ed Eva, scopertisi
nudi dopo la violazione del divieto di accoppiarsi sessualmente, « tuniche di
pelli e li vestì. » (Genesi, 3,21) Il fatto è che il vello delle pecore serviva
a trattenere le pagliuzze d’oro dai fiumi delle zone aurifere. E’ l’oro che da
sempre fa girare il mondo. La storia è prima di tutto economia, come ha
compreso Marx. Il Paradiso Terrestre originario, quello abramitico ovvero
mongolico, era dalle parti dello Hwang
Ho “Fiume Giallo”, dove sorse (media e bassa valle del Hwang Ho) una grande
antica civiltà. La Via
Scitica passava anche attraverso la Siberia ricca d’oro e presso gli Altai (turco: I Monti dell’Oro),
come ci dice J. Innes
Miller. Gli indeuropei trasporteranno
con sé nella loro diaspora il Giardino, e lo collocheranno nel Caucaso e in
Armenia dove il dragone celeste (del dio Sole che vi regna) custodisce il Vello
d’oro. Poi la diaspora degli indeuropei yahweisti (provenienti dal Mar Nero) vedrà in quel Giardino col
Serpente l’Inferno di Circe, e, giungendo fino agli estremi confini occidentali
collocherà in Sardegna il Purgatorio di Calipso (i yahweisti vedono ovunque
l’inferno) mentre i filistei adoratori di Dagon/Posidone Uranio avevano già
portato sul litorale laziale il Paradiso di Nausikáa “Ausiliatrice dei
marinai”. Esiodo, alla fine della Teogonia,
definirà tutta l’area italica “isole sacre” dei Tirreni. Il Giardino delle Esperidi originario (prima
che migrasse) era ad Oriente, tant’è vero che Eracle attraversa l’Arabia, poi
passa in Libia, da Oriente a Occidente, sale sulla coppa del Sole nel “mare
esterno”, naviga in senso orario e approda ovviamente in Asia, giunge al
Caucaso dove parla con Prometeo e prosegue per il giardino delle Esperidi
(Apollodoro, Biblioteca 2,5, verso la fine). Dunque chi afferma che il giardino
delle Esperidi è ad Occidente non ha capito nulla.
Sulla destra la
regione degli Arimaspi, dove risiedeva Tifone, e degli Iperborei, a nord del
Fiume Giallo. La lingua degli Han, il
cinese, ha conservato il nome originario di Tifone, Tái-fēng. Nella cartina è indicata la via degli Sciti lungo la quale nei secoli
VII e VI a.C. dagli Iperborei sul Mar
Giallo, passando di mano in mano per successive tribù di Sciti, perveniva a
Delo l’oro: « E’ questo un fatto importante, che fa da sfondo alle vie e alle
relazioni commerciali tra la Cina
e il Mediterraneo in epoca romana. Erodoto, riassumendo l’Arimaspea [di Aristea di Proconneso, il greco che
disse d’aver compiuto egli stesso il viaggio per ispirazione d’Apollo], dà
una descrizione della strada, confermata da Tolomeo [nell’ottava mappa dell’Asia, Scizia oltre il Monte Imaus (cioè il
Pamir), edizione di Roma del 1478; la pubblico più sotto]: la strada,
provenendo dalle vicinanze del Lop Nor e dei Monti Altai, superava gli Urali
meridionali e giungeva alla foce del Don. Nessun dubbio che la sua estremità
orientale fosse in comunicazione col commercio della Cina settentrionale, dove
la seta si pagava con eguale peso in oro, e che all’oro portato in Occidente si
accompagnassero, insieme alla seta, anche spezie quali lo zenzero. » (J. Innes
Miller, Roma e la via delle spezie, Saggi Einaudi, 1974, p. 139) Mi pare che
conseguenza di questa identificazione sia che i grifoni etruschi e similari,
nonché il dragone, vessillo del germanizzato esercito romano del tardo impero,
sono derivazioni del drago cinese.
La nostra civiltà è da tempo incentrata sulla Bibbia (specie dopo
l’invenzione della stampa da parte di Gutemberg, che ha consentito a Lutero la
sua vittoria e anche quella del libero pensiero anglosassone), ed è soprattutto
per stimolo della Bibbia che sono partite le spedizioni archeologiche nella
“Mezzaluna fertile”. Così, sia per colpa della Bibbia stessa, che vede il mondo
concentrato in Occidente e Medio Oriente (dove si espande la discendenza del
figli di Noè, Giafet/Giapeto, capostipite degli indeuropei, Sem dei semiti e
Cam dei neri), sia per l’importanza stessa e l’antichità dei ritrovamenti
archeologici, si ritiene che i primi uomini devono essere nati in Africa, e la civiltà in Mesopotamia,
e per l’indeuropeo si tende ad immaginare un’origine non troppo lontana dalla
Mezzaluna fertile. In realtà la
Bibba è un lavoro recente che affonda i suoi ricordi nell’età degli Hyksos, ma soprattutto tendenzioso,
perché è stata rimaneggiata e dunque porta l’imprimatur finale dei sacerdoti
yahweisti del Secondo Tempio, che vogliono dimostrare l’indimostrabile,
l’esistenza di una razza semitica (da cui deriverebbero gli Ebrei) distinta da
quella bianca dei Japetici (mentre noi sappiamo che indeuropei e semiti sono
entrambi di razza bianca) e nera dei Camiti, ignorando quella gialla. Questa
razza gialla era ovviamente presa in considerazione dalla redazione di Genesi
dei sacerdoti abramitici del Primo Tempio di Gerusalemme, e quanto meno faceva
capo ad Abramo/Khayan l’hyksos, ovvero
il penultimo faraone discendente dei faraoni e dei nomadi capi pastori mongolidi venuti dalle
steppe dell’Asia centrale. Dunque la
Bibbia, divenuta ormai un prodotto yahweista, prende Abramo
ma ne fa un ebreo, discendente da un inesistente Eber, discendente da un
altrettanto inesistente Sem, come Romolo nasce da Roma. E poiché la razza
mongolica degli Hyksos era acerrima nemica del culto di Yahweh, la redazione
yahweista prende due piccioni con una fava, elimina la razza gialla e al suo
posto mette l’inesistente razza semitica. Ma, eliminata dalla discendenza di
Noè, la razza gialla mantiene il suo primato, perché Noè discende da Set (il
figlio avuto da Adamo ed Eva dopo la morte di Abele; dunque semmai, secondo i
redattori abramitici di Genesi, le prime due razze umane sono quella nera prima
(da Caino) e quella gialla poi (da Set), mentre i bianchi verranno poi; e io
condivido questa ipotesi, del resto
logica; noto che i neri sono al di sotto del Tropico del Cancro, dove, nella
foresta equatoriale, vivono le scimmie,
per cui, derivando l’uomo dalla scimmia,
è originariamente nero di pelle; l’uomo nero è stato il primo ad entrare
nel neolitico e dunque a fare la grande scoperta dell’agricoltura, dunque della
sedentarietà, dunque della civiltà, ma per me i primi neri entrati nella
civiltà sono gli australoidi estremo-orientali), e Seth era il nome del
dio con cui veniva identificato nel Levante il dio di Abramo, di stirpe
mongolica, come ci dice Martin Bernal. Poiché Adamo ed Eva furono cacciati a
oriente dell’Eden (e dio sbarrò l’accesso a Eden proprio da oriente, Genesi
3,23-24), Caino visse a oriente della
Steppa, e Set fu generato a oriente della Steppa, dunque la civiltà per i sacerdoti abramitici viene
dall’Asia. « Anche a Set nacque un figlio, che egli chiamò Enos. Allora si
cominciò ad invocare il nome del Signore [il
testo yahweista dice falsamente Yahweh; in realtà se Enos ha per primo venerato
un dio unico questo è il dio mongolico di Abramo] » (Genesi 4,26).
Giustamente i Padri della Chiesa videro nei figli degli Elohim i discendenti di Set e nei figli degli uomini i discendenti di
Caino (le vallindie nere), in quanto appunto i mongolidi delle steppe dell’Asia
centrale furono i primi creatori della religione del dio unico, e ci vuol poco
a capire che ciò gli venne suggerito dalle sconfinate steppe e dai deserti coperti sempre e solo da
un cielo incombente, signore di tutto, cui era possibile solo una sottomissione
incondizionata, la stessa che gli islamici mostrano nei confronti del loro dio.
L’incombenza di questo dio del Cielo che poi al dunque è Tifone, la si vede
dalla Cina alla Germania, come dalla Cina all’Europa centrale troviamo le
tracce dell’antico sacrificio della vedova (dei cavalli, degli schiavi ecc.)
sulla tomba del capo defunto. Tutti elementi che derivano dai nomadi mongolidi
dell’Asia centrale. Viceversa l’uomo nero aveva ereditato dalla scimmia della
foresta della fascia equatoriale, piena di vita lussureggiante e di suoni e
rumori di ogni genere, l’idea che ogni cosa avesse un’anima, da cui l’animismo
e poi il politeismo delle antiche civiltà agricole. Così la Bibbia rivisitata dai
yahweisti e la tradizione greca che ne deriva collocano il Paradiso terrestre
in Armenia (dove nascono due dei quattro fiumi dell’Eden – che però significa
“Steppa” –, il Tigri e l’Eufrate, e dove era il Serpente che avrebbe traviato
Eva e di conseguenza Adamo facendogli mangiare del frutto dell’albero della
conoscenza del bene e del male, quella che alla fine, giustamente, è diventata
nella tradizione comune la mela, o pomo della discordia, il frutto proibito
dell’amore sessuale, proibito per il solito generale ribelle e invertito) o nel
Caucaso (dove era il bosco sacro del Sole e la quercia con appeso il Vello
d’oro custodito da un drago). Anche in questo caso la tradizione è emigrata
dall’estremo Oriente all’Occidente. Da notare che il Caucaso (e l’Armenia) è la
regione dove un tempo sarebbero stati stanziati gli Ittiti. In realtà si tratta
di Hurriti che poi si imposero sugli Ittiti e sono chiamati Ittiti dalla
popolazione preesistente. Si tratta dunque di tradizioni hurrite, cioè degli
Hyksos “capitribù degli altipiani stranieri” che nel XVIII secolo, dopo
l’olocausto nucleare di Mohenjo-Daro da parte degli “Angeli” di Yahweh (causa
del rapido declino e morte della civiltà vallindia) si posero alla guida delle
popolazioni in fuga e le guidarono fino al Levante, all’Egitto, a Creta,
dove daranno vita ai secondi palazzi. La
sfinge si diffonde a partire dagli Hyksos e prosegue fino alla XVIII dinastia
all’interno della quale la regina Teye, moglie di Amenofi III/Radamanto, e
madre di Amenofi IV, è rappresentata in figura di sfinge femminile, “siriana”.
Ciò dipende dal fatto che la
XVIII dinastia a mio avviso è imparentata con quella degli
Hyksos per via hurrita e filistea (greca), per cui diverse mogli di faraoni e i
faraoni stessi di queste dinastie sono hurrite o filisteo-pelasgiche e la
tradizione le farà provenire dalla Colchide, come Tuya/Pasifae moglie del visir
Yuya/Minosse dai quali nacque Teye. Anche la Sfinge era considerata figlia di Tifone ed
Echidna. Gli Hyksos si portano dietro
gli indeuropei della stessa valle dell’Indo e di altra provenienza, sia neri di
pelle (da essi discendono il maryannu e strapotente visir Yuya, sua moglie Tuya
e la loro figlia Teye, che hanno i capelli biondi) che bianchi. Il cavallo e il
cocchio (e altre armi innovative di bronzo, l’arco asiatico, e le
fortificazioni) sono introdotti in Egitto dagli Hyksos via Hurriti e Vallindi
(il Testo di Kikkuli, il più antico trattato di addestramento dei cavalli da
carro leggero è scritto in indiano dall’hurrita Kikkuli, Johannes Lehmann, Gli Ittiti, Garzanti, pp.
201-202), che dunque conoscevano sia il cavallo sia il carro, sia la ruota.
Così ritroviamo nel Levante e a Creta insieme agli Hyksos, anche gli indeuropei
che avranno nome di Filistei e poi, migrando più a Occidente, di Pelasgi,
adoratori, non a caso del dio Posidone Uranio filisteo portatosi dietro dalla
valle dell’Indo (il pesce è di gran lunga il più diffuso segno della scrittura
vallindia, e ciò, in una civiltà fluviale e marinara deve pur dire qualcosa),
ma che ritrovarono anche in Siria dove dapprima
si stabilirono guidati dai mongolidi Hyksos. Gli Hyksos veneravano un
dio della stessa genesi di Posidone Uranio filisteo e che ad esso si era
sovrapposto in quanto erano gli Hyksos a dominare, il dragone Tifone che scopa la steppa (e perciò immaginato
coi “piedi instancabili”, Esiodo, Teogonia, 824) e che gli Egizi identificarono
col malvagio Seth che aveva ucciso il buon Osiride. Disgraziatamente furono gli
Egizi per primi (e soprattutto Esiodo per il mondo occidentale) a dare
un’immagine negativa di Tifone solo
perché gli Hyksos, che gli egittologi ci assicurano essere tutt’altro che feroci dominatori, avevano osato dominare nel
sacro Egitto.
Nella cartina sono evidenziate Harappa nel Panjab, “pianura dei cinque fiumi”, e Mohenjo-daro nel Sind.
Da tempo mi sono fatto l’idea che la civiltà della valle dell’Indo
(identificata con Meluhha), per brevità vallindia, la più estesa civiltà dei
tempi antichi, sia stata se non la culla
dell’indeuropeo almeno della civiltà occidentale. Se consideriamo Creta, terra
di Minosse figlio di Europa, culla della civiltà occidentale, ebbene, secondo
me, la civiltà cretese dei secondi palazzi
e la stessa civiltà celtica derivano dalla civiltà vallindia. Ci sono
infiniti punti di contatto fra la civiltà vallindia e Creta, dal culto del toro
all’altare con le doppie corna, dalle canalizzazioni ad alcuni segni della
scrittura pittografica (e perfino alla fonetica).
Il calderone di Gundestrup, in
argento sbalzato, del peso di circa 9 kg, 69
cm di diametro e 42 di altezza,
il più bel capolavoro dell’arte celtica, fu rinvenuto in frammenti nel 1891 in una torbiera danese
ma verisimilmente è stato fabbricato nel -I o -II secolo in un’area a occidente del Mar Nero.
Raffigura delle divinità fra cui quella che identifico come la paredra di
Taranis celtico (Tarania, anche in sanscrito, dell’Apoteosi di Radamanto), in veste
di valchiria e posa da sirenetta, con le due corna lunari e la ruota cosmica, e
presenta numerosi elementi di derivazione indiana come l’elefante e gli unicorni predominanti sui sigilli della valle
dell’Indo. Sempre nell’Apoteosi di Radamanto ϝίδρις è
connesso col sanscrito veda.
Entrambe hanno una civiltà moderna, che ci appare come già
pianificata da una mente superiore, soprattutto se guardiamo all’abbigliamento
femminile i cui stilisti sembrano voler fare concorrenza a quelli che presentano i loro capi alle sfilate parigine.
Sono dirette da una casta che domina in modo apparentemente democratico senza
l’uso della forza su una popolazione
fondamentalmente fluviale e marinara. In concomitanza col fatto che la civiltà
vallindia declina e muore, nel corso dell’XVIII secolo, a Creta compare la
civiltà dei Filistei di lingua indeuropea. Attraverso il disco di Vladikavkaz
la scrittura si ricollega alla Colchide
da cui proveniva Pasifae moglie di Minosse. Ma il sanscrito suggerisce il suo
stretto rapporto col greco (dunque di nuovo il filisteo) che si è staccato
dall’indo-ario intorno al -2000, dicono gli studiosi, secondo me nel XVIII
secolo. Portandosi più a oriente le origini del greco e della civiltà filistea
possiamo adesso riallacciarla alla civiltà della valle dell’Indo. Così ci
appare un quadro sorprendente, che già avevo intuito in altro lavoro, quello
dell’origine vallindia della tradizione delle città morte del Mar Morto. La
nostra civiltà occidentale, e vi ricomprendo a questo punto anche il Levante,
ricordava pochissimo del suo passato indeuropeo, ma ricordava: « L’episodio di
Lot, preavvertito dalla visita di due stranieri, poi rivelatisi Angeli, della
decisione di Dio di voler distruggere le perverse città della Pentapoli del Mar
Morto, presenta alcuni punti di contatto con la narrazione del Rāmāyana (Uttara Kanda) che narra la distruzione del regno di Danda nella
valle dell’Indo, identificato da David Davenport con Mohenjo-Daro: entrambe le
regioni, la Pentapoli
del Mar Morto (con la città di Sodoma, Gomorra, Adama, Zoar e Zeboim) e la
valle dell’Indo, vengono “incenerite”; in entrambi i casi qualcuno,
preavvertito, evacua la zona e si salva (la famiglia di Lot e i seguaci di
Bhargava); e infine in entrambe le situazioni il provvedimento punitivo, già
nell’aria, viene deciso senza ulteriori tentennamenti in conseguenza di un
reato simile: la violenza subita dalla figlia di Bhargava, Araga, nella valle
dell’Indo e la tentata violenza dei Sodomiti contro i due Angeli in visita a
Lot (Genesi 19). » (Roberto Pinotti,
I messaggeri del cielo, Nuovi Misteri, Oscar Mondadori, 2002, pp. 150-151) Il
luogo originario dove avvennero realmente i fatti fu la valle dell’Indo e gli indeuropei al
seguito dei mongolidi Hyksos ne portarono la tradizione in Occidente, da dove
poi fu portata dagli Sherdana e dai
Danai/Daniti della valle del Don (e più in generale di tutta la regione ad est e a nord del Mar Nero i cui fiumi
hanno per lo più questa radice
dan-/don-), adoratori di *dye/ow- (cioè Yahweh, Zeus, Giovè, è sempre la
stessa cosa), in Palestina quando la
invasero nel -XIII-XII secolo. Anche
Omero ricordava, all’inizio dell’Odissea
(1,24), gli Etiopi del sole che sorge, cioè i Vallindi, e nella tradizione riguardante la guerra di
Troia Memnone, venuto a combattere a fianco dei Troiani e contro i Greci, era
principe degli Etiopi orientali (ci dice Fausto Codino). La stessa madre di
Memnone dei Greci, cioè Amenofi IV, Teye, era considerata etiope (dunque vallindia). Gli antenati della XVIII
dinastia, i faraoni e le regine della XVII, erano venerati come “Signori
dell’Occidente” e in particolare Ahmose-Nofreteroi, moglie di Ahmose, era
rappresentata col volto nero o blu. Gli egittologi non se lo spiegano, mentre
se questo fosse stato un modo per evidenziarne l’origine vallindia, lo
spiegherebbe. Il profeta Amos fa
riferimento all’esodo degli Etiopi (9,7) probabilmente riferendosi ai Vallindi.
E anche Erodoto parla dell’arrivo dei Fenici dal Mare Eritreo, che comprende l’Oceano
indiano (Storie, 1,1; 2,44; 7,89). La data è esageratamente alta, -2750 (magari
si tratta del -1750, e ci possiamo stare; del resto
analogamente esageratamente alta è la datazione dell’inabissamento di
Atlantide come causa del movimento dei popoli del mare e di terra del XIII-XII
secolo), e mi chiedo se più che i Fenici non si tratti dei rossi e neri
indeuropei Filistei, di cultura vagamente asiatica, venuti a occidente cogli
Hyksos al tempo della fine della civiltà
vallindia. In Omero ci sono accenni anche ai pigmei e
alla loro guerra contro le gru al cui grido di guerra è paragonato quello dei
Troiani (Il. 3,1-7), che mi fanno pensare ad un’origine tropicale di questa
storia, tropicale come la valle dell’Indo. Ed è significativo forse che gli Etiopi
orientali siano vestiti come ci si potrebbero immaginare i guerrieri sotto
Troia, con « sul capo pelli dalla fronte dei cavalli, con orecchie
e criniera; la criniera fungeva da cimiero, mentre le orecchie del cavallo
stavano ritte e rigide. Per difesa, invece di scudi, usavano pelli di gru. »
(Erodoto, 7,70) A conferma dell’origine asiatica della tradizione originaria
dell’olocausto si ricorderà l’intervento delle Amazzoni scitiche a difesa di
Troia. Mi chiedo se la saga di Troia (a parte tutto ciò che ho scritto su
Albalonga, la Troia
ideale, e sull’effettivo stato conflittuale nella Troade prima che Troia fosse distrutta da genti tracie al tempo del movimento dei popoli
del mare e di terra) non sia costruita su immagini che provengono dalla
distruzione di Mohenjo-Daro e dalla conseguente distruzione della civiltà
vallindia da parte dei distruttori
extraterrestri di Yahweh che fecero uso dell’olocausto nucleare
introducendolo come nozione nella cultura umana, prima l’olocausto, poi
l’olocausto nucleare americano (il popolo della Bibbia, il popolo prediletto da
Yahweh, così gli Statunitensi, in maggioranza, pensano di sé stessi;
dunque non è un caso che i Russi atei
siano andati per primi nello spazio) su Hiroshima e Nagasaki. Naturalmente se
qualcuno riuscirà a spiegare in modo “normale” la distruzione di Mohenjo-Daro
verrà meno l’ipotesi extraterrestre, restando intatto tutto il resto. Il
parallelo fra le storie della violenza
fatta ad Araga e alla concubina del levita di Efraim/angeli di Yahweh
potrebbe farsi anche con la distruzione (olocausto) di Troia causata dalla
violenza fatta da Paride all’onore di Menelao. Gli Hyksos, che
ovviamente non si fermarono sul
posto ma proseguirono la loro marcia, il loro esodo, verso occidente, non
sarebbero stati capaci con le loro armi di cuocere come fu cotta Mohenjo-Daro.
Purtroppo non sono riuscito a trovare in commercio il lavoro di David Davenport
(cittadino britannico nato in India e studioso di sanscrito) e Ettore Vincenti
(giornalista italiano), 2000
a.C.: distruzione atomica, Sugarco editore, Milano, ma
ne ho succintamente il contenuto da altre fonti. Nel Ramayana (Uttara Kanda,
cap. 81) « si parla di un rishi (un
«sapiente») che, adirato contro gli abitanti di una città chiamata Lanka, dà un
preavviso di sette giorni; al termine dei quali promette «una calamità, che
cadrà come fuoco dal cielo». Ebbene: testo sacro alla mano, i due si sono
recati in India per identificare questa Sodoma orientale. Davenport e Vincenti
ritengono… di aver identificato l’antica Lanka («isola») nella città di
Mohenjo-Daro, centro della «civiltà di Harappa», fiorita (e improvvisamente
estinta) attorno al 2000 avanti Cristo. Mohenjo-Daro, nome moderno (significa
«luogo della morte») era chiamata qualche secolo fa «isola» (Lanka), perché era
circondata da un braccio secondario del fiume Indo, oggi prosciugato. Gli scavi
archeologici… hanno messo in luce una realtà misteriosa e sconvolgente. «Gli
ultimi abitanti di Mohenjo-Daro sono periti di una morte subitanea e violenta»,
ha scritto l’archeologo Sir Mortimer Wheeler. Nelle macerie della città sono
stati ritrovati 43 scheletri (evidentemente il grosso della popolazione aveva
fatto in tempo a sfollare): si tratta di persone colte da una morte istantanea
mentre attendevano alle loro faccende. Una famigliola composta da padre, madre
e un bambino, è stata trovata in una strada, schiacciata al suolo mentre
camminava tranquillamente. «Non si tratta di sepolture regolari», ha scritto
l’archeologo John Marshall, «ma probabilmente del risultato di una tragedia la
cui natura esatta non sarà mai nota». Un’incursione di nemici è esclusa, perché
i corpi non presentano ferite da arma bianca. In compenso, come ha scritto
l’antropologo indiano Guha, «si trovano segni di calcinazione su alcuni degli
scheletri. E’ difficile spiegare questa calcinazione…». Tanto più che gli
scheletri calcinati sembrano meglio conservati degli altri. » (Il giornale dei
Misteri, agosto 1989, n° 214, pp. 50-51). Secondo Davenport e Vincenti
«L’antica Lanka è stata spazzata via da una esplosione assimilabile ad una
deflagrazione nucleare». Le prove? «Abbiamo individuato chiaramente sul posto
l’epicentro dell’esplosione», spiega Davenport. «E’ una zona coperta da detriti
anneriti, resti di manufatti d’argilla. Abbiamo fatto esaminare alcuni di
questi detriti presso l’Istituto di Mineralogia dell’Università di Roma:
risulta che l’argilla è stata sottoposta ad una temperatura altissima, più di
1.500 gradi, per qualche frazione di
secondo. C’è stato un inizio di
fusione subito interrotta… Inoltre, le case dell’antica città sono state
danneggiate con tanto minor gravità, quanto più sono lontane dall’epicentro.
Nei pressi dello scoppio, gli edifici… sono stati rasi al suolo. Un po’ più
lontano restano muretti alti un metro e mezzo; nei punti più lontani della
città le mura rimaste in piedi superano i tre metri»… «L’ipotesi che il
disastro sia stato provocato da un’esplosione di tipo nucleare», dice Ettore
Vincenti, «è rafforzato da una leggenda che abbiamo raccolto da un abitante del
luogo. Egli ci ha raccontato che ‘i signori del cielo, adirati con gli abitanti
dell’antico regno dove ora c’è il deserto, hanno annientato la città con una
luce che brillava come mille soli e che mandava il rombo di diecimila tuoni. Da
allora chi si arrischia ad avventurarsi nei luoghi distrutti viene aggredito da
spiriti cattivi che lo fanno morire’». (Il giornale dei Misteri, agosto 1989,
n° 214, p. 51)
Il sanscrito
(meglio, un antenato del sanscrito), che, ci scommetto, è alla base della
lingua e della scrittura (corsiva) vallindie (e secondo me la civiltà indù è la
continuazione di quella vallindia), deriva dall’indeuropeizzazione avvenuta
millenni prima della fine dei siti vallindi. Qui troviamo già la Trimurti (anche i Celti
conoscono divinità con un solo corpo e tre teste, une e trine) costituita da Brahma, Vishnu e Shiva rappresentati sia
in forma animale che umana in posizione yoga e con le corna attributo degli
animali stessi.
Il sigillo vallindio con la
Trimurti, il dio uno e trino
Signore della valle dell’Indo in posizione yoga e col pene eretto, mi
richiama alla mente, oltre al Cernunno
Signore degli Animali in posizione yoga sul celtico calderone di Gundestrup
(foto sotto, più avanti), la parte frontale del sarcofago di Haghia Triada
(sopra a destra) col sacrificio del Minotauro
commentato dalla seconda parte dell’Apoteosi di Radamanto. Il dio
uomo-bufalo o il Minotauro rappresentante del dio (del faraone Amenofi
III/Radamanto che dopo morto è divenuto
dio) sopra una panca o un altare sotto i
quali compaiono due stambecchi montani
dell’Himalaya o dell’Ida rappresentanti la duplice divinità madre.
Come civiltà
acquatica la vallindia dovette venerare un dio pesce con attributi solari,
cosmici, analogo all’antico Posidone Uranio. Il pesce è di gran lunga il segno
più diffuso nelle iscrizioni vallindie e ciò deve pur significare qualcosa. La
prima incarnazione o avatara di Vishnu è il pesce. I seguaci di Vishnu portano
sulla fronte il tridente, che è
quello di Posidone Uranio. In una
fase successiva può essersi imposto,
portato da immigrazioni indeuropee, il culto del dio-cervo (che troviamo fino
al calderone di Gundestrup) e dello stambecco, e infine quello di Vishnu/uro. Quando gli indeuropei
al seguito di mongolidi affini ma precedenti agli Hyksos calarono millenni
prima nella valle dell’Indo dai passi del Pamir portarono con se il culto del
dio uro (Bos primigenius), il dio della tempesta che scopa la steppa, e questo
dio fu rappresentato nella trinità come il precedente dio cervo (che ritroviamo
presso i Celti del Danubio nel calderone di Gundestrup, anch’esso in posizione
yoga) e stambecco (che troviamo sia nella valle dell’Indo che a Creta), sostituendoli. Vishnu nella triade (si veda
il sigillo vallindio considerato all’inizio di questo discorso) assunse
l’aspetto di uro in posizione normale, in quanto dio preminente della
conservazione, con davanti il filtro per la preparazione della bevanda soma
(liquido fermentato, vino, birra, che troviamo in uso anche a Creta e in Grecia e presso i Celti).
La coppa è il « sostituto ed equivalente del calderone della sovranità.
Essa contiene la bevanda inebriante che procura l’ebbrezza e permette di
accedere all’estasi del sacro. E’ anche la coppa della verità sulla quale non
si può proferire una menzogna senza che si rompa. Infine essa è il prototipo e
l’archetipo del Graal dei romanzi arturiani. » (F. Le Roux e Ch.-J. Guyonvarc’h, I Druidi, ECIG, p. 482, voce
coppa) Dunque anche i Celti conoscevano qualcosa come il soma/homa degli
indeuropei dell’est. Sempre secondo il glossario di Le Roux e Guyonvarc’h (v.
sacrificio), « I sacrifici di grandi animali (cavallo, toro) vanno connessi con
la seconda funzione [ovvero la guerriera]
per via dell’elezione regale; la libagione di un liquido fermentato (cfr.
il soma vedico) è sicuramente correlata con la sfera della sovranità. » (op.
cit. p. 537) Ne deriva che fra le feste celtiche quella sicuramente meglio
correlata con la regalità e i banchetti e l’uso di bevande fermentate (« La
carne di maiale e il vino, la birra e l’idromele danno accesso all’eternità. Si
possono immaginare vivande più gradevoli, più sostanziose, anche se esse non
sono altro che l’illusione di un attimo fuggente, mero riflesso di un’ebbrezza
sacra? » op. cit. p. 318) sarà quella guerriera di samain a novembre, fine ed
inizio dell’anno, quando è possibile il contatto fra gli umani e gli abitanti
dell’Altro Mondo. La massima divinità dei Celti, Dagda (“dio buono” a fare
tutto, onnipotente, onnisciente; RuadhRo-fhessa, «il Rosso della scienza perfetta»; Dagan
“piccolo buono”), è rappresentato (Cernunnus, Lug) in posizione yoga (come la Trimurti dei sigilli
indiani) ed ha come attributi la mazza che uccide e resuscita, il calderone
dell’abbondanza immortalità e resurrezione, e la ruota cosmica (che ha in
comune con Taranis), quella che vediamo riprodotta frequentemente sui sigilli
indiani.
Nel Rig Veda Indra beve il soma, ma poiché il Rig Veda corrisponde alla
fase finale della civiltà della Valle dell’Indo il nostro uro dovrà
rappresentare piuttosto Varuna che risulta bere il soma prima di Indra. In
questi sigilli l’uro è così rappresentato con un solo corno visibile perché
itifallico. Secondo Iravatham Mahadevan egli punta alla pressa del soma
esprimendo così uno stato estatico che poteva essere raggiunto anche attraverso
il sesso sacro (o prostituzione sacra) come è visibile in stele della civiltà
della valle dell’Indo che raffigurano un toro che si congiunge con una
sacerdotessa in uno hieros gamos. Analogamente la “Trimurti” che abbiamo
considerato all’inizio in posizione yoga e ascetica ha tuttavia il pene eretto.
Ciò premesso si comprende perché i tratti da gazzella dell’uro potrebbero
essere, dice sempre Iravatham Mahadevan, la prefigurazione della religione vedica dove la cerva nera diventa la
rappresentazione per eccellenza della consacrata (Soma-)dîkshita, la forma
theriomorfa assunta da Prajâpati per essere penetrata dalla freccia di Rudra
nel preciso momento in cui spillava il suo seme lattiginoso dentro sua figlia
la rosea Aurora. Così si esprime a proposito di Cernunnus François Le Roux in
Le religioni dell’Europa centrale precristiana a cura di Puech BUL « E’
possibile che, a uno stadio ancora primitivo della suddivisione teologica, si
tratti dell’equivalente del Plutone latino? Si è tentati di operare
l’accostamento con il dio nero della radura nel racconto gallese di Owen e
Lunet [“ilcavaliere dal leone”]:
signore degli animali, egli colpisce in fronte un cervo con la sua clava di
ferro. » (p. 107) Il dio nero della radura essendo il cervo è evidente
l’equivalenza con la cerva nera. Dagda
il Rosso (Ruadh) è identificabile anche col biscione gallico (Dagan) e richiamato
da Rudra (Rosso), nome dato anche a Indra e Varuṇa.
Il tempio di Lydney nel
Gloucestershire dedicato a Nodons/Nuada “(re) dispensatore”, il cui epiteto è
Airgetlam “dal braccio d’argento” (il che ci riporta a Lug “luminoso”, lámfota
o lamfhada “dalle lunghe braccia” o “dal lungo braccio” o “dalla lunga mano”,
cf. il prolungamento dovuto al serpente dalla testa di ariete che il dio cervo
Cernunno del calderone di Gundestrup tiene nella mano sinistra, corrispondente
ancora a quella di Savitar, il sole, che in un inno del Rigveda è detto prthupani
“che ha una grande mano”, « il dio con la grande mano tende le braccia, e
allora tutti obbediscono » RV 2, 38.2), era « un tempio terapeutico del tipo
esculapiano e un santuario meta di pellegrinaggi… e comprendeva un lungo
porticato simile a un chiostro, diviso in tanti scompartimenti intesi a
ospitare gli ammalati; una costruzione, dotata di cortile, con altri
appartamenti e una sala di ricevimento; e ampi bagni. » (Myles Dillon e Nora K.
Chadwick, I regni dei Celti, n° 22 della collana Il Portolano de il Saggiatore,
p. 198)
In tutti i sigilli l’unicorno compare normalmente
con un solo corno e ciò non tanto perché l’altro è dietro e non si vede, quanto
perché il corno è la personificazione fallica della divinità. E
in effetti l’unicorno, eka ṡṛiṅga, è connesso con l’amore, la
passione sessuale, o desiderio o gioia, il sentimento erotico, e ha Vishṇu,
dio della vita, come sua divinità tutelare. Nei sigilli a carattere funerario,
con l’altare delle doppie corna, l’uro viene sostituito dal rinoceronte, anch’esso eka ṡṛiṅga.
Non ho il corpus delle iscrizioni vallindie, ma suppongo che anche l’elefante e
la tigre (raffigurati nel sigillo della Trimurti, dove ancora il rinoceronte
sostituisce l’unicorno) possano comparire nei sigilli a carattere funebre.
Credo che il rinoceronte e il bufalo acquatico siano gli animali rappresentanti
delle caste superiori dei sacerdoti e dei principi latifondisti, mentre
l’elefante e la tigre dovrebbero essere gli emblemi delle caste inferiori degli
artigiani e dei guerrieri, che vengono per ultimi, in una società pacifica.
Shiva quello
di bufalo acquatico (l’animale indigeno), con la testa abbassata sull’altare delle doppie corna, in
quanto dio della trasformazione, morte e resurrezione (il toro Nandi è la cavalcatura di Shiva). Brahma con la testa
di stambecco che si erge sopra quella di Vishnu (mi riferisco alla trinità teriomorfa nel
sigillo vallindio pubblicato all’inizio di questo discorso), e guarda indietro,
rimase una divinità tanto importante in
quanto dio creatore quanto pochissimo venerata. E’ evidente che fu l’uro
l’animale portato per ultimo nella valle dell’Indo dagli indeuropei invasori.
L’uro lo troviamo ancora nei giochi sacri in cui si esibiscono i giovani cretesi,
e cacciato dai giovani germani che
gareggiano ad ucciderne il maggior numero riportandone a prova le corna che,
avvolti gli orli con argento, vengono impiegate come boccali nei festini estivi
(De Bello gallico, 6,28).
L’uro (sulla
sinistra all’interno del calderone di Gundestrup, mentre sulla destra è
raffigurato Cernunno come Signore degli animali) doveva essere la
manifestazione del dio Tifone perché Cesare ci dice anche che gli uri
hanno forza e velocità straordinarie. La tradizione greca negativa di Tifone come
dio dei venti dannosi, in particolare la tempesta di vento caldo se non
addirittura infuocato, affonda le sue radici, per quel che ne sappiamo finora,
in fonti itttite del XIII derivanti da
originali hurriti del XVI sec. (Esiodo, Teogonia, BUR, p. 157; vedi le note
relative alla Tifonomachia e l’Appendice in fondo al volumetto) il che ci
porta, cogli Hurriti, ai vicini stretti degli Hyksos (in pratica agli stessi
Hyksos) e dei mongolidi partiti dalle steppe centrali dell’Asia agli estremi confini con la Cina. Nel
XVIII secolo il mondo fu collegato
dall’estremo oriente all’occidente, perché Tifone, il dio degli Hyksos, è
conservato nel cinese táifēng “tifone”. Il mio dizionario di cinese
Viotti-Bonfanti non mi fornisce l’etimologia, che ricavo da solo: “vento degli
altipiani”.
Leggo da Il Milione, De Agostini, Novara, vol. VIII (1962), Regione cinese e indocinese,
che « si ha nella Mongolia una zona caratterizzata nell’estate dalle più alte
temperature e dalla più bassa pressione atmosferica (752 mm) e in inverno dalle
più basse temperature e dalla più alta pressione (778 mm). Il vuoto di
pressione relativa richiama grandi masse d’aria umida dall’Oceano Pacifico
verso il continente, mentre invece l’alta pressione invernale scatena enormi
masse d’aria secca dagli altopiani verso il mare. Questo alternarsi dei monsoni
estivi del Sud-Est e di quelli invernali del Nord-Ovest divide praticamente
l’anno nella regione cinese in due sole stagioni fondamentali: l’estate e
l’inverno… i venti estivi possono
passare dalle velocità più moderate a quelle più distruttive. In questo caso
abbiamo i tifoni… che ogni anno, da maggio a settembre, provenendo dalle isole
Marianne e Caroline nel centro del Pacifico, si scatenano contro le coste
cinesi… I tifoni sono masse d’aria d’estrema umidità che si innalzano a spirale
fino all’altezza di parecchi chilometri attorno ad un vortice di diametro
doppio o triplo. Entro il vortice la pressione cade sovente al di sotto dei 660 mm e attorno ad esso i
venti turbinano a una velocità che può superare i 250 km orari, e la caduta di
pioggia è tanto massiccia e violenta da raggiungere pressioni tra i 4 ed i 5 kg per dmq… Quando il tifone
giunge sul continente, mancando dell’umidità di cui si alimenta sul mare, nel
raggio di qualche centinaio di chilometri si estingue. Un’importanza notevole
hanno, in rapporto all’influenza dei venti, i rilievi montuosi… La Mongolia ha un massimo di ore d’insolazione
superiore alle 3000 [è la più soleggiata
della regione] … Il ciclone
monsonico è anche il determinante principale della periodicità delle
precipitazioni. Nella regione cinese l’estate è piovosa, l’inverno è secco. »
(pp. 6-8)
Più che i
venti forti, che del resto si esauriscono appena uscito dal mare che lo
alimenta, il tifone porta l’umidità e la pioggia e dunque la fertilità della terra.
Tifone è un dio benefico che scopa la terra e la rende fertile. Attraverso i
passi fra gli altipiani del Pamir (il Tetto del Mondo) i popoli nomadi mongolidi da soli o poi
seguiti dai bianchi e neri indeuropei
sono scesi in più ondate nella valle dell’Indo, l’ultima volta dietro al
loro dio uro signore dei venti buoni e della fertilità. Dunque a seconda delle
tradizioni troveremo Tifone venerato sia sotto forma di dragone (tradizione più
antica) che sotto forma di uro (tradizione più recente).
Alla sinistra gli altipiani del Pamir (fra
Turkmenistan Occidentale e Orientale o Sinkiang – repubblica autonoma cinese di lingua turca
– dove è il deserto del Taklamakan, fra
le Montagne Celesti, Tien Shan, a nord e il Tibet a sud) dai cui passi avvenne
l’indeuropeizzazione della valle dell’Indo. Sulle Montagne Celesti secondo
me verisimilmente era il paradiso terrestre della civiltà vallindia. Sui bordi settentrionali del Taklamakan, lungo
cui passava la Via
della Seta (villaggi di Zagunluq,
Wupu, Charwigal, ecc., presso oasi che in genere si trovano a due-tre
giorni di marcia una dall’altra) – ma i popoli antichi si sono aperti una via
lungo queste oasi da 10000 anni – sono
state recuperate mummie di individui di razza bianca, risalenti anche a 3800
anni fa, alcuni tatuati e ben curati (le donne perfino truccate con cosmetici e
vanitose e sciamane, poiché si sono trovati degli specchi), che vivevano presumibilmente
di agricoltura, pastorizia, artigianato di vario genere e di notevole livello,
dalla lavorazione del cuoio e dei metalli, a quella della pietra, dell’osso,
del legno e della lana (tinta con le più varie colorazioni), commerciando (non
erano razziatori perché non sono state trovate in genere armi nelle loro tombe
eccetto stupendi archi ricurvi e frecce adatte per la caccia di piccole prede)
prodotti – perfino conchiglie di ciprea – che arrivavano da un estremo
all’altro del Continente. Conoscevano il cavallo, la ruota e il carro. Secondo
Fernand Braudel « furono gli agricoltori sedentari ad addomesticare gli animali
di grossa taglia, il bue, poi il cavallo, e organizzare un’economia mista in
cui il secondo tipo di nomadismo [il
grande nomadismo] sarà soltanto un sottoprodotto. Dato che l’allevamento,
nelle steppe, poteva sempre svilupparsi su vasta scala, serviva da via d’uscita
per i popoli sedentari ogni volta che un cattivo raccolto, la siccità o il
numero eccessivo di bocche da sfamare rendevano difficile la vita dei villaggi.
Gruppi di uomini si sono così visti respingere verso un’economia squilibrata,
incerta, e da allora vengono travolti da una valanga di necessità. Occorreva
utilizzare diversi pascoli in successione, secondo le stagioni: per seguire il
bestiame, le case si trasformarono in capanne, tende o carri pieni di bagagli,
di donne e bambini. Questo modo di vivere rimase però precario: la siccità, un
colpo di sfortuna nel disputarsi i pascoli, l’eccesso di popolazione, scambi
senza successo sui mercati ai confini dei paesi sedentari – ed ecco il panico,
l’esplosione, l’invasione delle terre coltivate. » (Memorie del Mediterraneo, II ed. Tascabili
Bompiani, 2005, p. 179) La Valle
dell’Indo, abitata dai neri Dravidi, conosceva dunque certamente la ruota (nota
del resto anche ai Sumeri) prima delle invasioni indeuropee alla metà del
secondo millennio. Ancora secondo Braudel « tutti i deserti del Vecchio Mondo,
così come i mari che li uniscono, formano un’unica massa continua di
circolazione, dall’Atlantico fino alla Cina, dal Sahara all’Arabia, al deserto
siriano, al Turkestan – che, seppure con difficoltà, raggiunge, attraverso la
porta di Zhonghua, i deserti del Taklamakan e di Gobi e, più oltre, le praterie
della Mongolia settentrionale e della Manciuria meridionale. La porta di
Zhonghua segna anche, approssimativamente, la linea di demarcazione tra bianchi
e mongolici. Ma ovunque, in questa immensa apertura che attraversa il Vecchio
Mondo, l’uomo si ritrova di fronte agli stessi imperativi: la scarsità d’acqua,
la scarsità d’erba, la necessità di continui spostamenti in massa. Infine, ha
inventato ovunque, più o meno presto, le stesse risposte ingegnose e
difficoltose, le stesse tecniche del
nomadismo. » (op. cit. p. 178) Io preferisco vedere le cose da oriente a
occidente e notare come dai gialli
vengono i bianchi, entrambi a nord dei neri.
Mongolidi e bianchi, più intraprendenti, perché la necessità aguzza l’ingegno,
come dice Paperon de’ Paperoni, si imposero sui neri e li ricacciarono o li
mantennero a sud del Tropico del Cancro. Queste vie commerciali e i passi
attraverso il Pamir devono essere stati il luogo di incontro e fusione e
diffusione delle tre razze da epoca antichissima. Leggo da Il Milione (vol.
VII, L’Asia, Istituto Geografico De Agostini, 1965, p. 448) che « tracce di questo tipo razziale [ariano] si ritrovano oggi nel nord-ovest e nelle valli dell’alto bacino
dell’Indo; nelle regioni più lontane da quest’area la fusione del tipo razziale
indoeuropeo con le altre razze diventa sempre più larga. » e da Miller, anche
se il dato si riferisce piuttosto all’età augustea, o comunque tarda, che « I
corrieri che dal Turkestan orientale si dirigevano in India per il passo del
Karakorum, del Kashmir ed altri, che portavano alla Valle dell’Indo, erano
probabilmente indiani… Da Bactra, ossia dal Turkestan occidentale, all’India,
attraverso l’Hindū Kush e lungo la valle del Kābul fino a Taxila, i
corrieri dovevano essere di nuovo indiani… » (op. cit., p. 186) Le tre razze umane
fondamentali fu in Asia centrale che si
formarono, dai neri australoidi differenziandosi i gialli mongolidi e i bianchi europoidi. Nel suo L’origine
dell’uomo, Darwin scrive: « L’espansione dell’uomo in regioni molto lontane dal
mare, senza dubbio, ha preceduto qualsiasi grande differenziazione di carattere
nelle diverse razze; infatti altrimenti ci imbatteremmo nella stessa razza in
diversi continenti, e questo non è mai avvenuto. » (Newton Compton ed.,
paperbacks saggi, quarta ed. 1977, p. 205) L’Asia centrale risponde in modo
eccellente a questo requisito. Oltre agli indeuropei bianchi a nord (Iranici,
Sciti, Sarmati, Tocari), c’erano i neri
Dravidi che parlavano indeuropeo della valle dell’Indo (la celebre danzatrice)
e i mongoli già insediati come capi nella Vallindia (il celebre re-sacerdote).
In questo sigillo vallindio il dio Shiva si inchina davanti alla dea
Párvati figlia dell’Himâlaya (un’egittizzante Hathor – una festa popolare dell’
“ebbrezza” veniva celebrata ogni anno a Denderah il ventesimo giorno del primo
mese dell’inondazione – in alto a sinistra in mezzo a fiori di loto palustre
(?) che compaiono come sottofondo anche nel calderone di Gundestrup (?), nello scenario del paradiso del dio cervo
Cernunno), nel Paradiso vallindio, forse sulle Montagne Celesti. Le sette
fanciulle potrebbero essere le sette
Hathor (Ilizie preposte alle nascite), affini alle ninfe nutrici di Zeus
sull’Ida e del dio della guerra Rudra/Skanda, il sole nascente e il nuovo anno, o le
Pleiadi figlie di Atlante che sono connesse col periodo della navigazione.
Questo sigillo ci fa comprendere che quello che appare nel calderone di
Gundestrup come dio Cernunno, è prima ancora Dagda/Taranis nel suo aspetto di
Manannan, dio del síd “pace” ovvero Altro Mondo cui nell’Apoteosi di Radamanto
è legata appunto la dea lunare delle doppie corna Tarania (attestata proprio in
sanscrito), la “Nave” dea dei Campi Elisi. Insomma, tutti i documenti di cui ci
stiamo qui occupando dall’India a Creta alle Gallie, si riferiscono alla massima
dea e al massimo dio (anche se visto in triplice forma) nel loro aspetto di
divinità totalizzanti.
Nel Taklamakan furono ritrovate sottili tavolette di legno scritte con
la scrittura indiana karoshti ma in lingua tocaria cioè indeuropea (del gruppo centum). E’ più o meno da qui che provengono anche gli “ittiti” (gruppo centum come i tocari!) poi stanziati nel
Caucaso, dove trasferirono la preghiera al dio del sole che sorge dal mare (in
origine l’Oceano Pacifico). Ho idea che
coloro che scrivevano il tocario con una scrittura indiana fossero in qualche
modo discendenti di popolazioni che direttamente o indirettamente erano state
a contatto con gli abitanti della valle
dell’Indo. Credo che costoro avessero una lingua indiana affine al sanscrito e
la scrivessero con una scrittura pittografica da cui si è evoluto come
scrittura corsiva il sanscrito. Dai miei studi risulta che la civiltà della
valle dell’Indo ha forti analogie con la civiltà cretese di lingua pelasgica e
perfino con quella celtica. E non potrebbe
avere analogie con la civiltà celtica se non fosse indeuropea. Se avessi il
corpus delle iscrizioni tenterei di decifrare la scrittura della valle
dell’Indo con il sanscrito classico, che, basato su un dialetto più orientale
dell’Antico Indo-ario, preserva un originario indoeuropeo l, dove il dialetto
del Rigveda (in comune con l’iranico) cambia questo suono in r. Così vedico
raghú “veloce, leggero” e sanscrito classico laghu “leggero, agile” sono
imparentati col greco elakhús. Il
sanscrito ha otto casi contro i cinque del greco, così se la valle dell’Indo
non fu la culla dell’indeuropeo fu comunque la culla della prima moderna
civiltà indeuropea. Come via fra le tante possibili alla decifrazione
catalogherei tutte le impronte di sigillo rinvenute in territoro indigeno e straniero associabili al prodotto
smerciato. Il nome di un dato prodotto potrebbe ricorrere in più impronte (non
necessariamente identiche) aiutandoci a decifrare qualche segno.
Sosterrei che
i Tocari si siano fin dall’inizio attardati
là dove li troviamo. In un sito
all’estremità « di una vallata dalla vegetazione lussureggiante in una zona
poco elevata delle “Montagne Celesti” si leva uno spettacolare strapiombo alto
cinquanta metri e più. L’erosione ha inciso stravaganti disegni sulla sua
superficie, attribuendogli l’aspetto di un elaborato tempio. Alla base una
sporgenza crea un ampio riparo di pietra e su quella liscia superficie rocciosa
si trova un bassorilievo scolpito con una serie di figure di donne, uomini,
bambini e animali. Le immagini sono molto stilizzate e si scorgono tracce di
pittura rossa e bianca su talune di esse, a indicare come probabilmente fossero
colorate quando vennero create circa 1000 anni prima di Cristo. Le figure
femminili hanno tutte vitini di vespa e la maggior parte di esse porta una
sorta di copricapo ornato da due penne orientate verso l’alto… Victor era
stupefatto nel vederle. Si era da poco imbattuto in immagini quasi identiche su
terraglie risalenti a circa 2000 anni prima di Cristo rinvenute negli scavi in
Bulgaria e in Ucraina… Tutti noi avevamo l’impressione che fossero stati
disegnati ispirandosi a modelli di stirpe caucasica, non mongolide. Perciò
questi antichi nomadi erano anch’essi probabilmente di razza europea, come i
loro vicini nelle oasi a bassa quota.
» (Howard Reid, Il mistero delle
mummie, Newton & Compton editori, 2005, p. 31)
Ormai ho
esperienza della mania dei Greci di inventare nuove sedi (a loro uso e consumo)
per le tradizioni, spesso non loro, di cui si appropriano. Ne parlo ancora a
proposito delle tradizioni di origine levantina (bibliche) che dai Greci
vengono moltiplicate e ambientate in
Grecia nelle tradizioni riguardanti i diversi regni. Secondo Omero il covo di
Tifone era sui monti Àrimi (Il. 2,783), che io, grazie anche al lavoro di J.
Innes Miller (Roma e la via delle spezie, Einaudi), che fa tesoro della
cartografia di Tolomeo, identifico con
la sede degli Arimaspi (Erodoto, 4,27), presso gli Iperborei,
a nord del Fiume Giallo. Nella tradizione di Tifone/Tifeo è anche citato il
Monte Casio (localizzato in Siria in base alla tarda tradizione trasferita a
occidente). Miller riporta che i
Monti Cassiani di Tolomeo sono
identificati coi monti Kun-lun del Sinkiang presso la via della seta (p. 49),
ed è dunque qui che io colloco l’originale tradizione di Tifone. E’ l’economia che muove il mondo. Da epoca
remota esisteva uno scambio commerciale fra Sumer e l’India del nord e del sud.
Così credo, sulla base di quanto scrive J. Innes Miller in “Roma e la via delle
spezie”, che la cassia (cinese kwei-shi “ramo di cinnamomo”; secondo
Bretschneider era inclusa nel più antico erbario cinese, quello dell’imperatore
Shön-nung, circa -2700; per le province della cassia passava la strada da
Ch’ang-an, allora capitale del Nord, al porto di Cattigara, nominato da
Tolomeo, probabilmente vicino alla moderna Haiphong, nel sud, in Indocina)
originaria dell’Indocina e largamente diffusa in Cina era esportata dai Khasi
(di lingua mon-anam o mon-khmer) dell’Assam settentrionale. Così pure vi erano
i Monti Cassiani (Kun Lun del Sinkiang) e la Regione Cassiana
tra Auzacia/Irkeštam? e Kashgar. Lungo questa via correva in origine il ramo meridionale della
Via della Seta, la Nan-lun,
su cui può anche essere stata trasportata la cassia della Cina. E’ pure
possibile che il nome dei monti, quello
della regione ed anche quello della
stessa Kashgar derivino da questo fatto (pp. 46-50). La battaglia fra *dye/ow-/Yahweh/Giovè/Zeus
signore della tempesta (ma anche della morte e della guerra, nonché
della pestilenza) ultimo arrivato e
Tifone mongolide ma anche diffuso (l’uro Vishnu) nella valle dell’Indo può
essere stata la trasposizione mitologica di un attacco nucleare extraterrestre
sulla valle dell’Indo (o da una pioggia “naturale” di fuoco venuto dal cielo;
senonché i testi indiani parlano di vere e proprie armi che solo noi con la
tecnologia moderna siamo in grado di costruire da pochissimi anni). Gli
studiosi affermano che gli indeuropei sarebbero scesi nella valle dell’Indo non
prima del -1500. Potrebbe anche essere che degli indeuropei siano scesi a
questa data nella valle dell’Indo, ma poiché la civiltà vallindia era terminata a partire da
Mohenjo-Daro due secoli prima è evidente che i nuovi arrivati si identificarono
alla greca coi distruttori,
appropriandosi di un misfatto non loro. Se nuovi indeuropei si stabilirono là
dove era già vissuta una civiltà indeuropea nulla toglie all’originalità
indeuropea della civiltà vallindia, e i nuovi arrivati possono solo averla
continuata. Indra Purandara
“distruttore di città” era un millantatore o s’accanì su quel poco o niente,
soprattutto niente, ch’era rimasto in piedi della civiltà vallindia. Dopo questa catastrofe i vallindi emigrarono a Occidente guidati dai soliti
energici capi pastori mongoli Hyksos portatori di Tifone e che nessuna colpa
avrebbero se non di essere passati sulle macerie fumanti lasciate da un
assassino, Yahweh, rimasto sconosciuto
fino alla mia scoperta. Qui, lo preannuncio, i risultati della mia
ricerca saranno sconcertanti. Nello stesso luogo (Mohenjo-Daro “Collina dei
Morti”), e nello stesso preciso momento (l’olocausto nucleare piovuto
dall’alto), i seguaci del malvagio
Giavè, dio della morte, della guerra e della pestilenza, gli “Angeli”
ribelli venuti dallo spazio esterno, si
sono “incontrati” con gli Angeli che si erano uniti alle vallindie adoratrici di Tifone (l’uro Vishnu), il dio che gli
Hyksos porteranno in salvo in Egitto e Siria dove sarà venerato da
Abramo/Khayan col nome di Allāh due millenni prima della nascita di
Maometto. Allāh e solo Allāh è
stato il “dio” buono educatore dell’umanità dall’inizio del balzo in avanti delle
civiltà, il III millennio. Sarà tattica dei seguaci dell’Iniquo Plagiario, generale ribelle,
invertito e stragista *dye/ow-, dio della tempesta, farlo apparire come
continuità di Tifone, raffigurandolo con un toro, ma il diavolo fa le pentole e
non i coperchi o, in altre parole, Yahweh ha fatto i conti senza il
sottoscritto.
La pittografica filistea fu elaborata certamente in
Alta Siria, perché oltre a segni ispirati alla Siria (Posidone Uranio e Filisteo/Sirio)
presenta punti esteriori di contatto con la geroglifica anatolica o luvico che
è attestata più anticamente in Cilicia
dal 1500 (J.G. Macqueen, Gli Ittiti, Newton Compton, 1978, p. 26). E fu
elaborata per volontà dei faraoni hyksos come dimostra il segno del serekh, il palazzo del faraone,
LAR(ISSA), perché i Filistei dipendevano da loro ed erano la longa manus nel controllo del loro
impero. Il segno del serekh è attestato sempre
a Festo nel XVIII secolo dello
strato MM II B del primo palazzo. Dato
ciò che dirò in questo lavoro hanno ragione (seppure senza teorizzare quel che
io teorizzo; in altre parole ci azzeccano solo per sbaglio) coloro che negano la continuità della Grecia, in
senso lato (cioè non solo il territorio della moderna Grecia), dall’età
protostorica, come si dice, a quella “storica”.
Il fatto che dobbiamo ricostruire la storia precedente i cosiddetti
“secoli bui” con l’archeologia non è
affatto vero. Abbiamo i testi, non importa in quale lingua e scrittura
pervenutici (e nel Levante non ci sono “secoli bui”), che ci aiutano meglio
dell’archeologia a ricostruire questo periodo. Fin dall’inizio i Filistei
appaiono come fidati sudditi dei faraoni hyksos e poi della XVIII dinastia che
probabilmente a partire da Tuthmosis III (e siamo nel XV secolo), che conquistò
la regione siro-palestinese, ne consentono e ne favoriscono ulteriormente lo
stabilirsi e il diffondersi nel loro impero, dove serviranno particolarmente da
uomini di guerra sia nell’esercito che nella marina, per mantenere l’ordine
sulle popolazioni sottomesse, fino ai tempi di Minosse/Yuya visir di Tuthmosis
IV e Radamanto/Amenofi III. Trovo interessante l’interpretazione che Martin
Bernal dà del nome della città di Atene, e cioè Athēnai da
Athē-Nēi(t) che a sua volta deriva dall’egizio Ḥt Nt, “Casa di
Nēit”, che era il nome della città di Sais (i cui sacerdoti avevano
magnificato a Solone – secondo quanto ci narra Platone suo discendente – la grandezza di Atene al tempo delle
invasioni dei popoli del mare e il suo gemellaggio con Sais) nel delta
orientale egizio e che i suoi abitanti chiamavano Athēnai. Anche lo scudo
a 8 o Palladio della dea risale ad iconografia egizia predinastica della dea
Nēit (Atena Nera, EST, 1997, pp.
63-4). Dunque anche Atene (e gli Ateniesi si dicevano colonia dei Pelasgi) fu
colonizzata dai Filistei col benestare
dei faraoni, per conto dei quali facevano anche i governatori.
Altri gruppi di indeuropei (che non hanno nulla a che fare con quelli al seguito degli
Hyksos) vengono dal nord del Mar Nero e, passando a occidente e a sud in senso
antiorario, si sono stabiliti in area
tracia (Danai) e nella Troade (Aqaiwasha/Achei), dove sono ancora attestati fra
-XIV e XIII secolo. in documenti ittiti ed egizi. Se coi primi capitribù nomadi Hylsos gli
indeuropei al seguito ancora non parlavano filisteo (greco), certo più tardi,
al tempo di Khayan/Abramo è possibile che si sia formata una sorta di
proto-filisteo. Le prove documentali mancano, ma va detto che i yahweisti
fecero di tutto per eliminare la parlata greca nell’area propriamente filistea
dando al rogo i documenti scritti come la chiesa cristiana ha fatto in tutto il
mondo “pagano” da lei evangelizzato. Va detto poi che gli Hyksos non
sovrapposero mai la loro cultura e lingua a quelle locali quando erano
superiori alla loro (il fatto invece che la Grecia fosse ad un livello più basso avvalora la
tradizione che furono i Filistei/Pelasgi
a colonizzarla). Il serekh del MM II di
Festo, probabilmente elaborato su
istruzioni degli Hyksos (come gli altri
segni non attestati di quest’epoca) può aver trascritto la lingua dei Filistei,
un proto-filisteo simile al vallindio. Il sillabario filisteo di Festo fu elaborato
da un’altra scrittura degli inizi del II millennio (lo stesso vallindio
probabilmente) forse già dal XVIII
secolo, periodo in cui fanno la loro comparsa gli Hyksos, perché, ancora al
tempo di Amenofi III e IV, non è una
semplice scrittura sillabica di 90 segni circa, in quanto ciascuno di questi
segni – analogamente a quanto avviene nella geroglifica egizia e cuneiforme
accadica – può valere come determinativo iniziale o finale, come complemento fonetico dietro ad
altro segno che si legge come un nome intero (logografico) o che costituisce la
parte iniziale per il nome intero. Altre volte la parola inizia come fonetica e
viene conclusa con un unico segno logografico o
iniziale per l’intero nome. E’ probabilissimo che l’uso di questi segni
con valore logografico che trascrivono
solo l’iniziale del nome dipendano dallo
spazio predeterminato sul Disco di Festo, e quindi dall’esigenza di
abbreviare. Ma questa scrittura è originariamente nata per trascrivere una
lingua diversa dal greco, perché due segni del sillabario attestato nel XIV
secolo sono incompatibili con la lettura
greca. ZEY, la “nave” e DA(L), “uomo che
cammina”, si scrivono così ma vengono riletti in greco naus, nea e megas, dris,
rispettivamente. Dunque intorno al XVIII secolo il prototipo probabilmente
vallindio di questa scrittura, sviluppatosi autonomamente anche in Cilicia e Alta Siria, fu adattato al greco dei Filistei, mentre nei
secoli precedenti il suo sillabario (certamente almeno in parte diverso da
quello oggi attestato) serviva a trascrivere
una lingua o un dialetto differente, forse indo-hurrito.
La dominazione
dei Filistei in Grecia va dal XVIII al XIV secolo, e in Filistea dura
fino all’incipiente I millennio ma la lingua si parla ancora al tempo di Romolo
signore della guerra giudeo che giunto nel Lazio adotta a Roma come lingua internazionale e aulica di
corte il greco, che resterà in auge
almeno fino al tempo di Numa Pompilio e
Tullo Ostilio e del loro cantore di corte Omero. Nel Levante qualche residuo
sprazzo di luce filistea affiora fino all’incipiente Secondo Tempio, al tempo
di Ezra e Neemia, nel -400. Scrive Neemia: « vidi anche alcuni Giudei che si
erano ammogliati con donne di Ashdod, di Ammon e di Moab; la metà dei loro
figli parlava l’ashdodeo, conosceva soltanto la lingua di questo o quest’altro
popolo, non sapeva parlare giudaico. Io li rimproverai, li maledissi, ne
picchiai alcuni, strappai loro i capelli e li feci giurare nel nome di Elohim [notare che ancora si ha pudore a parlare
esplicitamente di Yahweh] che non avrebbero dato le loro figlie ai figli di
costoro e non avrebbero preso come mogli le figlie di quelli per i loro figli
né per se stessi. » (Neemia, 13,23-25) Martin Bernal suggerisce che il greco
che si stava diffondendo rapidamente in tutto il Mediterraneo orientale (e che
per ipotesi era già parlato in Palestina dai discendenti dei Filistei) era una
plausibile minaccia per il giudeo di Neemia e che dunque con ashdodita volesse
intendere il filisteo, il greco. Analogo discorso varrebbe per azzatita, la
lingua di Gaza (p. 559). Ma è evidente
che i yahweisti (come i cristiani evangelizzatori che ne sono la continuazione)
estirparono con la violenza fino all’ultimo dei documenti e dei parlanti greco
dalla comunità di Israele, ed è per questo anche che mancano i documenti a
prova che si parlasse greco.
Esiodo
affermava che « tre tribù elleniche si
stabilirono a Creta, i Pelasgi, gli Achei e i Dori » (Egimio, fr. 8, in White, 1914). Anche
Eschilo ritiene ellenici (cioè greci) i Pelasgi (Le supplici, 911-14). E’ significativo che la civiltà filistea è
anticamente collegata all’Arcadia (Strabone, Geografia, V,2,4; Pausania, Guida
della Grecia VIII,1,4) e all’Attica (Erodoto, Le storie, 8,44). Fra le etnie
greche di Creta Omero cita Pelasgi, Achei e Dori (oltre a Eteocretesi e
Kìdoni), Od. 19,175ss. Secondo Esiodo (Eèe, Fr. 9 Merkelbach-West) da Elleno
derivano Doro Xuto e Eolo. Secondo Apollodoro, Biblioteca, 1,7, da Xuto
derivano Ione e Acheo. I Filistei hanno dato origine agli Ioni (Erodoto, Le
storie, VII,94-95). Gli Achei sono affini più per il fatto di essere stati civilizzati
dai Filistei/Pelasgi che per l’origine, che comunque è indeuropea,
traco-frigia. Secondo Eschilo ed Euripide Danao in Argolide sopraffece i
Pelasgi (« Danao… stabilì la legge che tutte le genti che sino ad allora si
erano chiamate Pelasgi assumessero il nome di Danai. » Euripide, Archelao, frammento citato in Strabone,
Geografia, V,2,4). Il poeta Callino (VII
sec.) riferisce a Mopso, guerriero greco della guerra di Troia, e alle genti da
lui guidate un percorso attraverso il Tauro la Panfilia, la Cilicia, la Siria e la Fenicia, ciò che
ricorda il percorso dei popoli del mare
al tempo di Ramesses III e ancora l’assalto dei Danai/Achei alla Palestina
dalla pianura di Israel e da Silo, loro quartier generale. Dunque secondo me
tutte queste tradizioni ed interpretazioni risalgono ai fatti come li narrano
le fonti egizie e si riferiscono ai traco-frigi Danai/Achei come ai Danai della
Grecia/Yawan. I Pelasgi non c’entrano sostanzialmente (anche gli Sherdana li
troviamo da una parte e dall’altra dello schieramento, a favore e contro gli
Egizi) perché i Filistei furono anche e soprattutto coloro che respinsero
l’aggressione dei Danai. E i Danai/Daniti/Denen/Danuna/Tanaja e gli Achei sono
gli unici fra i popoli del mare menzionati (anche altrove) che potevano parlare greco venerando *dye/ow- > Giove, Zeus > Yahweh zebaot,
Giavè degli eserciti, il dio della guerra. Anche i Filistei appaiono come
barbari in 1 Cronache e 1 Samuele, quando tagliano la testa di Saul e la
inchiodano nel tempio di Dagon e Astarte probabilmente ad Ascalona. Ma poiché i
testi furono riscritti dai yahweisti è
probabilissimo che questi abbiano
attribuito i loro stessi costumi barbari ai nemici Filistei. Del resto la
ferocia che trapela dalla descrizione omerica parallela dei Danai/Achei che rubano Criseide/arca e la restituiscono
(cioè perdono l’arca in combattimento) per scongiurare la peste, non lascia
dubbi sulla ferocia dei Danai/Achei. Dunque questi Danai alla fine sono di
stirpe achea dell’area traco-frigia e dunque anche della Troade. Sono Achei. E
li ritroviamo nel Lazio intorno al santuario di Diana Nemorense. I
Filistei/Pelasgi sono i primi greci della storia. Secondo la tradizione greca,
ottanta anni dopo la guerra di Troia (data convenzionale 1182) i Danai in Grecia sono stati rovesciati dai
Dori (il cosiddetto ritorno degli
Eraclidi; vedi anche la tradizione
secondo cui Nauplio, per
vendicare la morte di Palamede, suscita la ribellione delle mogli dei duci
achei causando in particolare la
tirannide su dieci città cretesi di Leuco che bandì Idomeneo, figlio di
Deucalione a sua volta figlio di Minosse,
da Creta, Apollodoro, Biblioteca, Epitome, 6) che si sentivano eredi della precedente dominazione
hyksos, dunque dei Filistei. Per alcuni
studiosi si tratta di un’invasione da nord-ovest per altri, e io
sono con questi, di un rovesciamento dal
basso della popolazione dominata rimasta a parlare un dialetto
proto-dorico.
La guerra
di Troia come cantata nei vari poemi del Levante, e dunque ingigantita e
travisata, è equiparabile ai poemi
medievali riguardanti le gesta di Carlo Magno e Rolando/Orlando contro i Mori,
mentre furono i Baschi a uccidere
Rolando. Si finì col vedere la guerra di
Troia come invasione dell’Asia Minore da parte dei Micenei (quelli che vengono
chiamati Micenei dagli studiosi) – che nei due secoli precedenti avevano
iniziato a “colonizzare” l’Asia Minore –
e dunque è evidente che la colonizzazione dell’Asia Minore da parte dei
Greci fu vista come continuazione di questa invasione da parte dell’invincibile
armata achea partita da Aulide in Beozia.
In realtà è evidente che la guerra di Troia cantata da Omero
rappresenta prima di tutto il movimento dei popoli del mare e di terra
che scendendo dall’area traco-frigia distrussero i centri del potere in Levante
e nella Grecia micenea stessa, anche se un certo contingente di invasori
proveniva proprio dalla Grecia/Yawan, dove una prima ondata di invasori
traco-frigi che vengono chiamati Micenei (per me solo quelli del Miceneo
recente) si erano in precedenza stabiliti. Costoro distrussero Troia e gli altri centri
dell’Asia Minore fino in Cilicia con l’olocausto. Tutti ugualmente barbari,
anche se i “Micenei” lo appaiono meno. Poiché questi eventi si collocano (nella
stessa tradizione di cui poi si servì Omero) prevalentemente in Palestina, è in
Palestina che dobbiamo valutare quanto effettivamente durò questa “guerra di
Troia”. Non dimentichiamo che Menelao e Paride alla ricerca di e con Elena (che
non è mai stata, nella realtà, a Troia) passano dalla Fenicia. La guerra dei
yahweisti in Palestina inizia decisamente nel -1178, l’ottavo del regno di
Ramesses III, e termina nel -1050 con la battaglia di Afèq, col che stiamo bene
negli 80 anni posteriori alla guerra di Troia, perché, grosso modo, la media fra
-1178 e
-1050 è -1100, data comunemente indicata per la comparsa dei Dori.
Dunque la calata dei Dori, a ben vedere (così come la ribellione delle mogli
dei duci achei), non è un fatto posteriore e senza alcun legame con la “guerra
di Troia”, bensì la conseguenza diretta, immediata, della sconfitta dei
yahweisti danao-achei, come è meglio rispecchiato dalla tradizione della
ribellione delle mogli dei duci achei. Troia nel XII secolo, dopo
l’abbassamento delle acque (per cui nel Mar Nero si usano “arche di Noè” dal
fondo piatto) per la siccità da raffreddamento della Terra (dopo l’eruzione del
Thera) e la crisi del Levante non può essere più quella che era negli anni
d’oro. Non solo non può più controllare lo Stretto dei Dardanelli, ma nemmeno
c’è più quella richiesta di metalli di un tempo, perché nel frattempo, non solo
è calato dappertutto il potere d’acquisto, ma anche si sono trovati nuovi
sbocchi per l’approvvigionamento soprattutto per lo stagno, che viene dalla
Britannia, e col rame produce il bronzo (ma nel frattempo è il ferro che
interessa maggiormente). E del resto, i popoli del mare e di terra non sono in
cerca dello stagno e del bronzo, ma di cibo con cui sfamare le loro famiglie
portate al seguito. Non vanno in cerca della bella Elena o di un impero
ellenico, ma della sopravvivenza più elementare. Troia era ricchissima, perché
si trovava fra la via Scitica (che faceva capo a Tanais dei Danai/Tanaja) e la
via della Seta che faceva capo in Cilicia e Siria. Dunque l’esodo dei popoli
del mare e di terra alla ricerca di un Lebensraum più ricco si sarà diretto
qui, nella Troade e in Cilicia e Siria, ma per un mito che non corrispondeva
più alla realtà. E tuttavia nella tradizione rimase trionfante il vecchio mito,
per cui si colpevolizzò Laomedonte, il « grande Eurimèdonte » che « regnava sui
Giganti superbi », il re tirchio
che voleva monopolizzare tutti i
traffici orientali, e attirandosi l’ira dei Greci « il pazzo suo popolo egli distrusse, e lui
stesso perì. » (Od. 7,58-60) Certo, come dirò a suo luogo, Troia c’entra con
Atlantide, perché è l’unico nome che la tradizione ci ha lasciato di questa
terra, anche se non ha collegato esplicitamente Atlantide con Troia. Ma la vera
guerra si svolse in Palestina perché la Troia di Priamo non era più quella del tempo di
Laomedonte e dei suoi predecessori. Troia, stando ad Omero, venera Posidone
Uranio/Apollo troiano/Tifone, il dio dei capi nomadi e poligami (la poligamia
che è rimasta presso gli islamici) Hyksos e Atena/Neith/’Anat (Ettore e le
donne troiane invocano da questa dea la salute di Troia) la dea a cavallo. Il
Cavallo fu lasciato dagli Achei sulle rive dell’Ellesponto come dono votivo a
Posidone – che aveva costruito le mura di Troia – o ad Atena (a seconda delle
tradizioni tutte sostanzialmente valide) per far credere ai Troiani che gli
Achei se n’erano tornati a casa
chiedendo con quel simulacro alla divinità un felice ritorno (questo
nella fantasia della tradizione, ovviamente), sicuramente perché qui, a Troia, v’erano i Filistei/Feaci
greci adoratori di Dagan che gestivano pei faraoni il traffico dei metalli
lungo le sponde del Mar Nero e dei fiumi che vi sboccavano. Dunque i Feaci
orientali omerici sono greci e nello stesso tempo troiani come voleva la
tradizione dei popoli laziali. Dunque Enea può essere davvero sbarcato nel
Lazio coi suoi feaci/filistei/pelasgi
nel XII secolo scampando da Troia ed essere il capostipite dei Prisci Latini
facenti poi capo ad Alba Longa. (Naturalmente la lista dei re Albani fino a
Romolo giudeo è tutta falsa e serve a creare un collegamento che non c’è.) Ecco
perché a qualcuno è sembrato che sia gli Achei
che i Troiani avessero in fondo la stessa civiltà. Così l’Antico
Testamento yahweista ha ostracizzato i Filistei, il popolo nemico per
eccellenza degli Ebrei (in realtà nemico dei yahweisti e dei Danai) di cui
disperdere ogni traccia, perfino il nome: « Israele… Là nacquero i famosi
giganti dei tempi antichi, alti di statura, esperti nella guerra; ma Yahweh non scelse costoro e non diede
loro la via della sapienza: perirono perché non ebbero saggezza, perirono per
la loro insipienza. » (Baruc 3,24-28) La damnatio
memoriae dei Filistei trova dunque unanimi sia la tradizione greca (dei
Danai che erano sbarcati nel Lazio e avevano in mano il santuario di Diana Nemorense)
che quella “ebraica” perché, come vedremo, dopo la guerra combattuta dalla
stessa parte, i signori della guerra al servizio dei Filistei si ribellarono ai
Filistei stessi cercando di conquistarsi un regno e Gerusalemme (non credo ad
uno stato di Giuda consapevolmente ebreo contrapposto ad uno stato di Israele
anch’esso consapevolmente ebreo; soprattutto credo ad uno staterello di Giuda
con capitale Gerusalemme che si riteneva non dissimile dagli altri staterelli
cananei della regione) divenne sede dei vincitori figli ed eredi di questi
signori della guerra, che si sentivano cananei
ed elaborarono a partire dal X-IX secolo una tradizione anti-filistea.
Omero ricava la tradizione dal signore della guerra Romolo (che non è uno
storico, e si porta dietro quel che gli hanno insegnato) e dai suoi giudei, e
tuttavia ha un’altissima stima sia dei
Pelasgi che dei Feaci (che sono lo stesso) giunti nel Lazio. Il fatto che
Romolo giudeo e pragmatico abbia optato per il greco dei Filistei vorrà pur
dire qualcosa.
E’ evidente che gli Hyksos fanno la loro comparsa nel Levante nel XVIII
secolo e con loro appaiono i Filistei
adoratori di Dagon, il dio pesce.
Abramo/Khayan è un faraone Hyksos, il penultimo e il più grande, quello
che estese maggiormente l’impero, promessogli e datogli da Allāh. Abramo non viene da Ur, ma, come
penultima tappa (nemmeno lui, tra l’altro, bensì i suoi predecessori capitribù
degli altipiani dell’Asia centrale), dall’Urartu degli Urriti (Come si dice uno
di Ur? Un Urrita. Scherzo, ma i redattori yahweisti hanno fatto lo stesso
ragionamento al contrario, interpretando Urrita, Hurrita, come uno che viene da
Ur), da Ḥarrān, da Mitanni, in Alta Siria. Questa è stata la tappa
quasi finale degli Hyksos, che, come abbiamo detto vengono da molto più
lontano, dalle steppe dell’Asia centrale passando attraverso i passi del Pamir
per la valle dell’Indo, e sotto al Mar Caspio e
al Mar Nero. Abramo va infatti
in Egitto ed è strettamente legato fin dall’inizio ai Filistei, di lingua
greca, dialetto ionico (fece alleanza con Abimelekh e visse « nel paese dei
Filistei per molto tempo. » Gen. 21,34), e prima ancora viene benedetto a
Shalem da Malkizedeq sacerdote di El Helion (Gen. 14,18). El
Helion l’“Altissimo” rimanda a Heliopolis, nel delta, dove regnavano gli
Hyksos, e dove era venerato il Sole Iperione di Omero, ma anche a
Proteo/Posidone Uranio dell’isola di Faro, davanti al delta, sempre in Omero.
Dunque il dragone celeste cinese, il dragone dei venti degli altipiani dei mongoli, certamente fusi
insieme, portati dagli Hyksos dietro cui sono i Filistei della valle dell’Indo.
Ma Shalem (“Pace”, e islam viene
dalla stessa radice, “pace”) è Gerusalemme (nella cartina sopra la si deve
immaginare poco più in alto di Ebron), fin dall’inizio la città santa di Abramo
e dunque, oggi, dei soli islamici.
Secondo l’Antico Testamento Shalem era prima una città dei Gebusei
mentre per me era degli Hyksos che dominavano sui Filistei. Gerusalemme,
ebraico Ierushalaim greco Hierousalēm, Hierosóluma “Santa Pace”, sarà il
Tempio? Santo, arabo el-Quds, Bait el-Maqdìs, la “Santa”, la “Casa Santa”. Lo
stretto rapporto fra Abramo e i Filistei è sottolineato ancora dal suo acquisto
di un sepolcro per Sara, dove sarà poi sepolto anche lui, a Qiriat Arba-Ebron,
paese per me dei Filistei e non degli Ittiti (Gen. 23). Qiriat Arba/Hebron (dove – lo
vedremo in dettaglio più avanti –
risiedette Davide, signore della
guerra, maryannu, al servizio dei Filistei) fu fondata sette anni prima di
Zoan/Avaris, la capitale degli Hyksos, fondata nel 1730 ca. (Num. 13,22). Può
essere vero, perché gli Hyksos scendono da nord. Nel passo citato di Numeri si
parla dei figli di Anaq, che sta per Anax,
Anaktos, cioè Wanax, Wanaktos,
Re, secondo quanto suggerisce Martin Bernal. Altrove ho proposto che seranim, i “principi” filistei, derivi
dal greco koiranes. A Qiriat Arba Abramo/Khayan fu sepolto, io
credo da suo figlio il faraone Ismaele/Apopis, nel momento in cui dovette
sloggiare dal delta – cacciato dal
faraone Ahmose – portandosi dietro il
sarcofago con la mummia di suo padre. I
dati biblici ebrei (da cui dipendono quelli cristiani), nonostante il
travisamento operato dai yahweisti, ci dicono
che fino alla distruzione del Primo Tempio nel -586 e alla caduta della
città e all’esilio a Babilonia, stando all’apparato esteriore, vi fu venerato
Dagon (non lo ripeterò sempre, ma quando dico
Dagon dobbiamo sempre pensare a Tifone soprattutto; il dio di Abramo era
chiamato anche El Shaddai, ambientazione
cananea del Signore della Steppa, cioè il Tifone che spazza la steppa: « Elohim
parlò a Mosè e gli disse: Io sono Yahweh! Sono apparso ad Abramo, a Isacco, a
Giacobbe come El Shaddai, ma con il mio nome Yahweh non mi son manifestato a loro. » Es. 6,2-3). In tutto il territorio sotto il
controllo dei Filistei, anche a Gerusalemme, furono venerati Dagon/Posidone
Uranio e Derketo/Afrodite Urania –
Martin Bernal ha capito che risale agli Hyksos il culto di Posidone/Seth
e Atena/Anat, Atena Nera, EST, p. 25 –
raffigurati a metà pesce e a metà umani con la corona solare e
rispettivamente lunare in testa. A Gerusalemme, fino all’esilio in Babilonia,
erano venerati lui raffigurato dal carro del Sole, lei con associata la
prostituzione sacra (2 Re 23,11). Poiché
il dio degli Hyksos, Tifone, era il dio dei dominatori è evidente che dietro
Dagon filisteo si adorava Tifone dei
dominatori. Che gli arabi abbiano mantenuto una tradizione, addirittura scritta,
è più che probabile. La “tavola dei popoli” in Genesi 10 è stata redatta nella
prima metà del -VI secolo: « In tutta la «tavola» c’è peraltro una grossa
prevalenza delle genti tribali, specie per l’area araba, ciò che fa sospettare
sostanziosi apporti da tradizioni genealogiche dell’area desertica e delle
genti arabo-aramaiche… La «tavola dei
popoli» non è documento di origine specificamente israelitica (Giuda e Israele
non vi compaiono neppure), potrebbe derivare piuttosto da un epicentro
nord-arabico a ridosso della Mesopotamia (la Teima di Nabonedo?); appartiene comunque ad
un’epoca e ad un ambiente in cui non si avvertiva l’esigenza di inserire un
«Israele» nella rete dei rapporti genealogici che tenevano insieme l’ecumene di
allora. » (Mario Liverani, Oltre la
Bibbia, Laterza, 2a ed. 2004, p. 266) Grazie, Liverani. Giuda
e Israele non vi compaiono perché questi due “stati” non sono mai esistiti se
non come città-stato cananee, Samaria e Giuda, dunque da non doversi per nulla
distinguere dalle tante altre città-stato cananee (e come potrebbe una «tavola» della prima
metà del VI secolo, come afferma nella stessa pagina l’Autore, non menzionare
Israele e Giuda se queste fossero davvero esistite come stati ebraici,
differenziandosi dalle città cananee? Solo per questioni di cronologia? Perché
la «tavola» si riferisce ai discendenti di Noè? Niente affatto. Prima di tutto
perché si cita un Eber che dovrebbe essere antenato degli Ebrei, e non lo è,
perché non può esserlo, secondo poi perché le conoscenze storiche degli antichi
posteriori al Diluvio, di Deucalione, figlio di Minosse, dopo l’eruzione del
Thera, erano minime ma non troppo
lontane, quando si diffuse la scrittura alfabetica, dal tempo di Saul al nord e
David al sud, signori della guerra al servizio dei Filistei, che si collocano,
secondo l’Antico Testamento yahweista non molto prima e intorno all’anno
1000) e mai nessuno dei paesi
circostanti ha potuto avere rapporti con loro, con loro in quanto città-stato
ebree. Gerusalemme è città ebrea e yahweista solo a partire dal Secondo Tempio.
A questo punto mi chiedo, giustamente, sulla base del suggerimento di
Liverani, se oltre alla «tavola» i
yahweisti abbiano potuto manipolare
materiale abramitico preesistente del Primo Tempio di Gerusalemme e anche di provenienza nord-arabica, perché da queste
parti nascerà l’Islam, e sarebbe interessante scoprire le eventuali radici
comuni di “ebrei” (prima dell’arrivo del
yahweismo) e arabi (prima di Maometto) nel nord arabico. L’ipotesi che avanzo è
che, dopo aver contraffatto, come dirò,
i documenti filisteo-cananei cioè greco-aramaici del Primo Tempio di Dagon a
Gerusalemme, i yahweisti contraffecero, sempre al tempo del Secondo Tempio, i
documenti della tradizione comune dei beduini ismaeliti (i discendenti di
Ismaele/Apopis, l’arabo, il primogenito cacciato da Abramo con sua madre Agar)
e edomiti-idumei, anche “ebrei” (i discendenti di Esaù, l’edomita, il primogenito che Isacco non benedisse, benedicendo, e quindi
anteponendo nella priorità di successione, a causa della truffa di Giacobbe, Giacobbe stesso). Dunque,
è evidente perfino ad un cieco che i documenti originali appartenevano a queste
genti imparentate fra loro, ismaeliti e idumei, arabi e proto-ebrei/edomiti,
della vera primogenitura da Abramo,
attraverso Ismaele suo figlio primogenito e attraverso Esaù figlio
priomogenito… evidentemente di Ismaele. I yahweisti indeuropei, venuti dalla
regione traco-frigia e dalla Grecia/Ya(h)wan nell’Esodo… dei popoli del mare e
di terra nel XIII-XII secolo,
manipolarono i documenti filisteo-cananei e arabo-edomiti senza poter evidentemente negare la primogenitura di quelli e ricorrendo ad espedienti truffaldini puerili
per occupare abusivamente il loro posto. E infatti nella comparazione delle
tradizioni Isacco è fuori posto,
ricollegabile a Frisso che, per non essere sacrificato dal padre, viene mandato
dalla madre in Colchide con l’ariete fatato dal Vello d’oro sparendo di scena. Quanto a Giacobbe, potrebbe esisterne traccia nelle iscrizioni
egizie di epoca hyksos ma su chi vuole affermarlo cade l’onere della prova che si tratta
proprio di lui e di un discendente di Abramo via Isacco. Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.
Sono comunque sorpreso di aver fatto una
scoperta così rivoluzionaria che altri studiosi, che hanno fin dall’inizio
preso un titolo di studio (la mia laurea è in giurisprudenza; come dire, una
superlaurea in italiano e in logica, che ti insegna a spaccare il capello in
quattro e a ragionare, perché, come dice il maestro al suo ex allievo
poliziotto che andava male in italiano, in quel capolavoro di cinematografia
che è “Un caso semplice”, l’Italiano non è… l’Italiano… E’ il ra-gio-na-men-to) solo per questo scopo, i semitisti,
biblisti ecc. – e vengono pagati per farlo, e gli vengono dati gli istituti e
le poltrone su cui leggono il giornale dello sport – non hanno mai nemmeno
intravisto lontanamente nei secoli che ormai conta l’archeologia, l’epigrafia,
la linguistica ecc. Non credo all’Esodo
degli Ebrei dall’Egitto. Sia l’ebreo di casta sacerdotale Flavio Giuseppe che
il sacerdote egizio Manetone sapevano che c’era stato un solo esodo, e può essere solo quello degli Hyksos, cacciati
da un Mose che fu Ah-mose, primo faraone della XVIII dinastia. E gli Hyksos
adoravano il dio abramitico e dunque cogli ebrei hanno solo a che fare
geneticamente, semmai, ma gli ebrei verranno dopo, esattamente col Secondo
Tempio, quando saranno ebrei anche in quanto yahweisti. Credo alle
testimonianze egizie, come il diario di un funzionario di confine che nel 1210,
anno 3 di Merenptaḥ, scrive: « Abbiamo finito per concedere alle tribù
Shōsu [Beduini] di Edom il permesso di passare oltre la fortezza di
Merenptaḥ che è nel Tjeku per recarsi agli stagni di Pi-Tūm di
Merenptaḥ che sono nel Tjeku, onde mantenerle in vita e mantenere vivo il
loro bestiame grazie alla generosità del faraone… » (Gardiner, p. 248;
cf., identica per gli elementi che ci
interessano, seppur meno bella, la versione in Liverani, p. 29) Erano gli
Edomiti/Idumei – estromessi dalla
primogenitura dall’impostore Isacco e costretti ad un ruolo quasi sempre da
cattivi nell’Antico Testamento e anche nell’orizzonte storico del Nuovo – e anche
i Cananei e i Filistei con cui si fusero,
i proto-Ebrei! I yahweisti faranno poi credere che a Pi-Tūm, la Città di Aton, lavorassero
forzatamente gli Ebrei (sotto Ramesses II) per poi emigrare (sotto Ramesses
III) dietro a “Mosè”. Si trattava di beduini edomiti, nord-arabici, e non era
nemmeno quella volta lì – perché l’Esodo
di Mosè non è mai avvenuto – mentre è
probabilissimo che i beduini siano stati
costretti ai lavori forzati nelle miniere di turchese del Sinai o i cananei in
quelle di rame di Timna (di Timna era la moglie filistea del sacerdote
yahweista guerriero Sansone, Gd 14), vicino Gerusalemme, « sfruttate
direttamente dall’Egitto durante tutto il periodo ramesside. » Liverani, p.
16). Insomma il quadro che mi si illumina, grazie a Liverani, è di un mondo
beduino (arabo ed edomita/”ebreo”
insieme, i sopravvissuti al crollo del
potere centrale nel Levante, all’inabissamento della “Atlantide” ideale) che,
dopo quello filisteo-cananeo, ha scritto i documenti sulla storia della
Palestina, da ultimo manipolati dai
yahweisti di origine indeuropea che vennero a Gerusalemme dal nord,
dall’Israele di Elia, di Eliseo, di Giuda Galileo e dei suoi figli, del falso
profeta egiziano-Gesù, dei pervertiti Simone di Ghiora e Giovanni di Giscala,
degli zeloti, dei sicari, di Masada. Dunque, a ben vedere, più figli di puttana
cristiani, che ebrei. Ritengo che dal tempo di Abramo fino a Maometto arabi e
edomiti (gli ebrei compresi, in senso etnico-culturale, eccettuata la fede
yahweista) hanno condiviso la medesima cultura abramitica incentrata sul culto
di Dagon e Afrodite Urania esclusivamente.
Il libro di Daniele, scritto intorno al 164 a.C., è l’ultimo
dell’Antico Testamento e si trova pure fra i Ketubim, gli Scritti, della Bibbia
ebraica. Ebbene, in un passo si legge a
proposito di Daniele, chiamato Baltazzàr, prigioniero ebreo e poi profeta di
corte a Babilonia, che « Le finestre
della sua stanza si aprivano verso Gerusalemme e tre volte al giorno si metteva
in ginocchio a pregare e lodava il suo
Allāh, come era solito fare anche prima » (6,11; per chi volesse
verificare la traduzione sulla Bibbia ebraica ricordo che qui il testo è in
aramaico). Come Daniele, Maometto « stesso, secondo il Corano, in origine pregava solo tre volte al giorno…
«Quando, perché e come il numero delle ṣalāt prescritte aumentò
dalle tre chiaramente menzionate nel Corano, alle cinque prescritte dal diritto
islamico, non è ancora chiarito in modo soddisfacente» (A.T. Welsch). » (Küng,
p. 160) Maometto all’inizio aveva prescritto la direzione della preghiera verso
Gerusalemme, ma dopo la rottura con gli
ebrei a Medina prescrisse che fosse orientata in direzione della Ka'ba alla Mecca (Küng, p. 138). Originariamente
Maometto considerava Gerusalemme il centro della fede islamica (Küng, p.
144). Allāh, Elāh, אלה (in semitico le doppie non vengono
trascritte) in aramaico biblico, plurale elohin אלהיו, è affine all’ebraico biblico Eloāh
אלה e אלוה che
al plurale fa elohim אלוהים che
serve, come elohin, ad indicare gli dèi pagani. Purtroppo non ho un istituto.
Se lo avessi disporrei o farei in modo di procurarmi un sistema di scrittura
ebraica (ecc. ecc.) decente, che trascrivesse anche le vocalizzazioni. Ed è già
assai ciò che ci offre Bill Gates.
Questi sono nomi propri del Dio arabo-“ebreo”. Non è un nome contratto,
anche se sinceramente non sono ancora capace di darne l’etimologia (non ho
l’istituto e dunque i mezzi adatti). Certamente nella mente degli enoteisti
precedenti al monoteista Maometto questo dio era comunque il massimo dio
venerato a Gerusalemme come alla Ka'ba degli
esuli Hyksos dall’Egitto (dunque almeno Ismaele/Apopis può davvero essere stato
qui e aver fondato la Ka’ba).
Il nome comune di dio c’è già ed è
El, אל. Anche Eloāh ebraico corrisponde ad Allāh in quanto gli “ebrei” che lavorano a Pi-Tūm
protestano: « Vogliamo partire, dobbiamo sacrificare al nostro Eloāh
[Eloheinu, אלהינו] » (Esodo 5,8) Infatti i muratori e carpentieri
edomiti saranno sempre ostili a Mosè (e al suo Yahweh) che dovrà fabbricare per loro in territorio di Edom il
cosiddetto Serpente di bronzo Necustan
(Numeri 21,8-9), in realtà una statua di Dagon, che deve essere sempre stata a
Gerusalemme nel Primo Tempio (2 Re, 18,4), ben prima del yahweista Mosè che non
è mai esistito. Voglio dimostrare (se
avessi l’istituto certamente troverei qualche testo decisivo) che nei poco più
di 4 secoli dal -586 al -164, data del libro di Daniele, l’usanza non solo di
rivolgersi verso Gerusalemme – è troppo ovvio che un esule si rivolga verso il
Tempio, che si trova in Gerusalemme – ma
anche di pregare tre volte al giorno (di sera, al mattino e a mezzogiorno, vedi
Salmo 55,18), inginocchiandosi
presumibilmente nello stesso modo dei musulmani odierni, risale al Primo Tempio
di Dagon. Cioè voglio dimostrare che già prima dell’esilio a Babilonia, presso il Tempio, o comunque in Gerusalemme e
intorno a Gerusalemme, i fedeli tre volte al giorno si inginocchiavano verso il
Tempio stesso. Il Salmo 55 è ispirato al profeta Geremia. Fortuna vuole che
Geremia, nato nel -650 ca., non sia
andato in esilio a Babilonia (come Daniele), ma sia rimasto in Giudea e dopo
l’assassinio di Godolia, che ne era il governatore per conto dei babilonesi,
abbia seguito gli ebrei fuggiaschi in Egitto dove probabilmente morì. Il Salmo
55 per essere ispirato a Geremia sarà posteriore, ma anche appartenente alla
cerchia di ebrei che faranno capo all’Egitto. Ora è difficile che a Babilonia e
in Egitto si innovasse, indipendentemente gli uni dagli altri, inventando la
moda di inchinarsi tre volte al giorno verso Gerusalemme. Ritengo dunque che ci
siano buone probabilità che l’uso di inchinarsi verso il Primo Tempio tre volte
al giorno fosse una pratica non solo precedente all’esilio, ma anche risalente
alla fondazione del tempio stesso. Anche II Cronache 29,27-30 mi induce a questa
conclusione. Se è vero che Ezechia passa per un re yahweista e dunque le sue
iniziative sono sospette, è pur vero che gli si attribuisce la restaurazione
del rituale originario. E poiché inginocchiarsi davanti al dio tre volte al
giorno è una pratica innocua Ezechia può tranquillamente averla rimessa in
funzione anche se stavolta legata al
solo Yahweh: « Ezechia ordinò di offrire gli olocausti sull’altare. Quando
iniziò l’olocausto, cominciarono anche i canti di Yahweh al suono delle trombe
e con l’accompagnamento degli strumenti di Davide re di Israele. Tutta
l’assemblea si prostrò, mentre si cantavano inni e si suonavano le trombe;
tutto questo durò fino alla fine dell’olocausto. Terminato l’olocausto, il re e
tutti i presenti si inginocchiarono e si prostrarono. Il re Ezechia e i suoi capi ordinarono ai
leviti di lodare Yahweh con le parole di Davide e del veggente Asaf; lo
lodarono fino all’entusiasmo, poi si inchinarono e lo lodarono. » Nella Bibbia tanto ebrea che aramaica (credo
che a partire dal X-IX secolo la
Bibbia abramitica sia stata riscritta a Gerusalemme in
aramaico e con spirito ormai anti-filisteo da parte di un clero figlio di una
popolazione che si sente cananea; l’ebreo viene introdotto col Secondo Tempio
dai guerrafondai yahweisti dispersi nel Sinai e a contatto con la parlata
egizia) e nel Corano, dio, qualsiasi sia il suo nome, deve essere presentato
come unico e dunque, sia El, אל, sia
Allāh, sia Eloāh, non hanno (più) il femminile della loro originaria
compagna associata ed omonima. Però
secondo Erodoto, V sec., gli
Arabi fanno sacrifici ad Afrodite Urania che chiamano Alilàt (1,131) e a
Dioniso che chiamano Orotalt, per loro gli unici dèi esistenti (3,8).
Alilāt pare dar ragione ai semitisti che parlano di Allāh come di una
contrazione da al-ilāh, nel senso di
dio supremo della fase enoteistica (quando si veneravano anche altri dèi
in posizione subordinata) passato a diventare l’unico Dio monoteista (Hans
Küng, Islam, Rizzoli, 2005, pp. 81 e 102). Ma a rendere dubbia la cosa rimane
la forma aramaica אלה, già
leggibile compiutamente come Allāh.
Allāt infatti è attestata come
figlia di Allāh alla Ka’ba prima della riforma di Maometto (Küng,
p. 102). Questa attestazione erodotea, che riferisce anche che il culto era comune agli Assiri, cioè ai
Siri, è significativa per indicare la possibile stretta relazione fra
Dagon/Allāh e Afrodite Urania/Allāt, ma Dioniso/Orotalt potrebbe
essere corrispondente al Yahweh che a Kuntillat Ajrud, avamposto giudaita del
IX-VII sec. a.C. nel Negev, viene associato ad Asherah (Maier, p. 57),
ovviamente sostituendosi a Dagon, e dunque saremmo, e siamo, punto e a capo.
Però nella tradizione greca da me ricostruita in lavori precedenti sulla base
dei raffronti con l’Egitto, l’introduzione del culto di Dioniso avviene da
parte di Melampode/Yuya/Minosse, visir di Tuthmosi IV e Amenofi III, e non può
che trattarsi dell’Aton poi fatto assurgere a unica e massima divinità egizia
da Amenofi IV. Allo strapotente visir
Minosse/Yuya succede suo figlio Deucalione/Ay, ma a questo punto Creta è invasa
dai Danai e il re Idomeneo, che partirà per il Levante (non per la guerra di
Troia), non ha nessuna parentela coi primi due, né
condivide la venerazione del medesimo dio. Il sacerdote guerriero (non giudice) danao Idomeneo/Iefte
fece un voto a Yahweh, ovviamente quello
che i Greci chiameranno Zeus : « Se tu mi dai nelle mani gli Ammoniti, la
persona che uscirà per prima dalle porte di casa mia per venirmi incontro, quando
tornerò vittorioso dagli Ammoniti, sarà per Yahweh e io l’offrirò in olocausto.
» (Giudici 11,30-31) Ed effettivamente sacrificò in olocausto sua figlia quando
tornò vittorioso (Giudici 11,32-40) a Creta, presumibilmente a Cnosso. Infatti
su Idomeneo la tradizione greca
(raccolta anche dall’Eneide) racconta una storia analoga. Il contesto in cui si muove Idomeneo è quello
derivante da “Mosè” e dunque pienamente yahweista coi suoi sacrifici umani di
tipo druidico traco-frigio su uno
scenario cananeo. Non è possibile fare alcun paragone di somiglianza fra il
buon Aton di Yuya/Minosse e il feroce Yahweh di Iefte/Idomeneo. Aton è la
divinità evolutasi da quella
delle mogli abramitiche/hurrite dei faraoni di questo periodo,
fin dalla lontana Colchide col suo dio Sole, e dunque è un perfezionamento di
Posidone Uranio, Dagon filisteo, il Dragone che custodiva il Paradiso e la
quercia con appeso il Vello d’oro, nell’Oriente da cui questa civiltà veniva (e
veniva dai confini con la Cina
settentrionale, col paese degli Arimaspi e Iperborei), mentre Yahweh è il
dio indeuropeo *dye/ow- da cui derivano tanto Zeus che Giove/Giavè, che calò in Palestina
venendo da nord (e poi andando a finire
con i Danai in Grecia/Ya(h)wan il “Paese di Yahweh/Zeus” e con gli Sherdani in
Sardegna, dove si parla una lingua anindeuropea, segno che gli Sherdani vi si
sono sommersi linguisticamente come i Filistei sono stati sommersi dalle
parlate semitiche in Palestina). Fra Tifone degli Hyksos e Giavè dei Danai e
Sherdani non esiste alcuna relazione se non del “vincitore” Giavè sul “vinto”
Tifone. Ma le tradizioni antiche non finiscono qui: « La successione esiodea
dei re degli dèi Urano, Crono, Zeus ha un preciso parallelo in un testo
cuneiforme ittita risalente al XIII sec. a.C., ma derivante da un originale
hurrita. » (Esiodo, Teogonia, BUR, p. 30)
Ma altrove, p. 157, nello stesso volumetto, si legge: « come mostrano bene i miti paralleli
orientali (soprattutto testimoniati da fonti ittite del XIII sec. a.C., ma
derivanti da originali churriti ancor più antichi, del XVI sec. a.C. …) »
Dunque i testi hurriti del XVI secolo a.C. ci portano dritti agli Hyksos che
sono con gli Hurriti la casta guerriera sovrappostasi agli Ittiti, nome della
popolazione originaria. Rimesse le cose a posto, continuiamo la citazione « Anche questo testo tratta di una lotta di
divinità per conseguire la supremazia; si tratta di quattro entità invece delle
tre esiodee: Alalu, Anu, Kumarbi, Dio delle tempeste. Il racconto, nella parte
di testo a noi conservata, inizia con il regno di Alalu; eccolo nella
traduzione di Meriggi: » (Teogonia, BUR,
p. 30) Prima di continuare chiariamo che non è affatto vero che Alalu lotta per
conseguire la supremazia. Egli ce l’ha già, e presumo sia il dio più antico, di
nome magari Allāh. Ma iniziamo a leggere il testo (che riassumo, tagliando
il non necessario a quanto ci serve), originario del XVI secolo a.C., età degli
Hyksos: « Un tempo, in anni remoti,
Alalus era re in cielo… Nove anni contati Alalus fu re in cielo. Nel nono (?)
anno… contro Alalus Anu diede battaglia, e … vinse … Alalus… Nove (?) anni contati Anu fu re in cielo. Nel
nono (?)… anno … Kumarpi, discendente di Alalus, contro Anu diede
battaglia… Anu (come) un uccello (?) al
cielo andò. Detro gli si precipitò Kumarpi e lo prese (pei) piedi… e lo tirò
giù dal cielo… [qui Kumarpi si lavora ben
bene Anu che alla fine] (Dalla) bocca fuori sputò Kumarpi, il savio re,
(dalla) bocca fuori sputò… » (pp. 30-31) Qui il testo si interrompe ma è
evidente che Anu risputa i saggi re, che sono solo due Kumarpi (che francamente
non si capisce come faccia ad essere risputato da Anu) e Alalu, che dunque
tuttora regna. Dunque, eccettuato Anu l’usurpatore, le altre due divinità
dovrebbero essere sempre la stessa cosa,
il dio Tifone/Posidone Uranio. Succederà ancora un dio ittito delle
tempeste simile a Zeus che però è il dio dell’ultima ondata indeuropea, quella
di *dye/ow-. Il dio
di Abramo/Khayan l’hyksos, un dio commisto fra Tifone e Dagon (l’asino era
l’animale di Tifone e molto probabilmente fino a tutto il Primo Tempio può aver
raffigurato il dio; è probabile che nel tesoro del Secondo Tempio i yahweisti
conservassero, per il puro valore venale, non certo per venerazione, oggetti
del Primo Tempio; e infatti Apione asserisce che Antioco Epifane – quando ebbe
bisogno di raccogliere i fondi di cui
aveva bisogno, perché i templi erano le banche degli antichi re, e magari lo sono ancora – aveva trovato nel
tempio, meglio, nel tesoro del tempio, di Gerusalemme una testa d’asino d’oro,
che quindi in malafede si volle ritenere adorata dai Giudei, Giuseppe Flavio,
Contro Apione, 2,7) è morto a Gerusalemme
nel -586 con la distruzione del Primo Tempio (di Dagon) e la morte o
l’esautorazione dei suoi sacerdoti (sia quelli rimasti a Gerusalemme sia quelli andati in esilio,
tutti messi al bando dai yahweisti
“tornati dall’esilio”), mentre la tradizione dei yahweisti imposti a
Gerusalemme dall’esercito persiano finge che fino agli Oniadi la casta sadocita
sia rimasta al potere (come poteva rimanere al potere la casta dei sacerdoti di
Tifone/Dagon dopo l’avvento al potere dei yahweisti?). Dunque è evidente che
l’unico modo perché si conservasse l’autentica tradizione di Abramo e del suo
dio era solo attraverso i beduini ismaeliti ed idumei-“ebrei” (e Maometto ebbe relazioni con gli ebrei
della penisola arabica e ne sterminò diverse tribù quando ruppe con loro)
dell’Arabia. Dunque, senza voler minimamente mettere in discussione la
rivelazione coranica di cui Maometto fu depositario (perché lui ne è il
testimone unico), io sostengo che la religione in cui credette per primo
Maometto, ma già ad uno stadio ben definito, era quella del dio di
Abramo/Khayan, l’hyksos-filisteo Tifone/Posidone
Uranio/Dagon/Allāh/Eloāh a Gerusalemme e Ebron (con Ismaele/Apopis anche alla Ka’ba) fin dal XVIII secolo a.C.
Per molto tempo questa religione fu enoteistica, e a fianco di Allāh ci fu
la sua Alilāt o Allāt, Afrodite Urania, venerata alla Ka’ba prima
della riforma di Maometto. Attraverso il cugino (Waraka ibn Naufal) di sua moglie
Hadiga – che dopo sua moglie è il primo
a prendere sul serio la sua rivelazione –
che « « leggeva le sacre Scritture e conosceva le dottrine dei seguaci
della Torah e del Vangelo » … molto probabilmente un giudeo-cristiano dato che,
evidentemente, leggeva la
Bibbia in aramaico e non in greco – non vi era ancora,
allora, una traduzione araba della Bibbia. » (Küng, p. 125), Maometto disponeva delle stesse fonti di cui
dispongo io e poteva trovare conferma
sui testi sacri abramitici in aramaico (se fossero stati scritti in greco
sarebbe rimasto fregato), nonostante fossero già stati alterati dai yahweisti,
della veridicità della sua rivelazione perché da quei testi risultava a lui,
come oggi a me, che, veramente, Allāh era stato il dio di Abramo. Maometto
crede in una religione storicamente vera ed è fedele testimone di questa
religione storicamente vera. Quanto al fatto che Allāh sia davvero un dio
io non lo credo (per il momento; sono costretto a dire “per il momento”, perché
adesso per lo meno è provata la veridicità storica dell’affermazione di
Allāh come dio di Abramo/Khayan, e se è vero fino a questo punto potrebbe
essere vero anche oltre questo punto), ma io non credo a nessun dio. Le
religioni giudea e cristiana sono invece anche storicamente false in quanto
Yahweh, il dio della morte e della guerra, il Male Assoluto, non è mai stato il
dio di Abramo. Quella cristiana è la più falsa di tutte perché i cristiani,
attraverso il falso profeta egiziano colpevole primo della distruzione del
Secondo Tempio, sono figli di Satana. Ora la strada è tracciata e io stesso, se
potrò, se non potrò altri dopo di me la spianeranno per benino come
un’autostrada. In sh’Allāh. Trovare la verità non ha prezzo. Per tutto il
resto c’è … (ovviamente non ho nulla di preconcetto contro i cristiani; è che
detesto i truffatori da quattro soldi)
Dopo aver chiarito che Eloāh biblico è Allāh andiamo a
smascherare la truffa yahweista all’inizio di Genesi: « Quando gli uomini
cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro figlie, i figli di
Elohim (plurale: degli gli dèi) videro che le figlie degli uomini erano belle e
ne presero in mogli quante ne vollero. Allora Yahweh disse: «Il mio spirito non
resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi
anni. » C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo – quando i
figli di Elohim si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro
dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi. Yahweh vide che
la malvagità degli uomini era grande sulla terra… E Yahweh si pentì di aver
fatto l’uomo… Ma Noè trovò grazia agli occhi di Yahweh… » (Genesi 6,1-8) E
Giavè manda il Diluvio, sì, il diluvio di fuoco dell’olocausto nucleare. Se
l’unico dio è Yahweh, e dio se esiste deve essere unico, i yahweisti non
potevano ovviamente citare sia Yahweh che Eloāh. Mettendo il nome al
plurale, elohim, si dava l’illusione di parlare dei popoli politeisti e pagani.
La verità è invece che il generale ribelle Yahweh (o chiunque indichiamo dietro
a questo nome) sterminò le truppe sotto il suo comando che erano prima di tutto truppe del
presidente legittimamente in carica Eloāh/Allāh, dunque sterminò i
figli di Allāh (le loro mogli e i figli avuti da esse) che si erano uniti,
contravvenendo ai suoi ordini, con le terrestri della valle dell’Indo. Quando
più avanti riciterò lo stesso passo per sostenere che i figli degli dèi (cioè
di Eloāh/Allāh) sono i Filistei sopravissuti all’eruzione del Thera,
dirò la stessa identica cosa, perché i Filistei della valle dell’Indo erano i
cosiddetti giganti, nati dall’unione degli “Angeli” figli di
Eloāh/Allāh e delle vallindie nere.
Gli Ebrei, se ed in quanto edomiti/idumei, in quanto cananei e in quanto
filistei, cioè quanto a razza, possono benissimo essere figli di Abramo. Se non
sono anche figli del dio di Abramo potrebbe, e sottolineo potrebbe, essere a
causa dell’inganno dei sacerdoti yahweisti. Se « Fin da un’epoca molto antica,
il tetragramma era… diventato un tabù,
trattato in modo del tutto singolare quanto alla grafia e riservato all’uso
liturgico-cultuale; normalmente, quindi, non veniva pronunciato, ma sostituito
con «signore» … [e] … «cielo». » (Maier, p. 255) può darsi che ciò
dipendesse dal fatto che la casta sacerdotale yahweista più intelligente e
furba del Secondo Tempio volesse evitare
che qualcuno scoprisse la verità di un dio straniero, indeuropeo, Giavè/Giove,
impostosi in Palestina con la violenza delle armi sulla popolazione semitica, e
dunque la massa degli ebrei rimanesse ingannata sentendo chiamare questo dio
El, Elohîm e Adonâi come in realtà
veniva chiamato anche, nel senso generico di “Signore” (il nome reale era Eloāh/Allāh), al
tempo di Abramo. Se YHWH significasse semplicemente “Egli è”, terza persona del
verbo haiah, essere, o “Io sono colui che sono” (Enrico Zoffoli, Dizionario del
cristianesimo, Sinopsis Iniziative Culturali, Roma, 1992, voce: nome di dio,
dove si legge che « Dopo l’esilio babilonese gli Ebrei, per rispetto, evitavano
di pronunziarlo, per cui esso divenne ineffabile. » Più che per rispetto, io
direi per “pudore”) che male ci sarebbe stato a pronunciarlo? D’altra parte i cristiani, proprio per
sentirsi più yahweisti possibile, si rifanno a Gesù falso profeta egiziano (in realtà proveniente dalla diaspora greca
di Alessandria in Egitto) scatenante la guerriglia dal Monte degli Ulivi che
alla fine porta alla distruzione del Secondo Tempio. Non contenti, i cristiani
verranno poi a distruggere ed insediarsi a Roma, la sede dove Dagon (dei Feaci
occidentali e di Romolo) s’era ulteriormente trasferito. Essi non sono figli di
Abramo, ovviamente, né del suo dio, piuttosto del Male Assoluto.
Dopo l’arrivo del yahweismo, il culto del Male Assoluto, i cristiani ne
sono oggi i più aderenti rappresentanti,
mentre gli appartenenti alla religione ebraica mi appaiono quanto meno
più moderati, anche perché essi non sono portati a fare proseliti, in quanto
yahweisti si nasce, e inoltre non mirano, né potrebbero, al dominio sulla
Terra. Un indizio della loro onestà rispetto ai cristiani può essere questo: «
E’ altresì documentato che, dopo il 70 d.C., i rabbi ebbero dei dubbi sull’uso
dei «Settanta»… approntando (con Aquila)
nuove traduzioni greche ad uso della diaspora di lingua greca. Spesso si
interpreta questa iniziativa rabbinica come una reazione all’impiego cristiano
dei «Settanta». Certo, questo fattore ha avuto un ruolo crescente nel corso dei
secoli… » (Maier, p. 21) Certamente la versione greca e latina (e quelle che
via via sforna la CEI
in italiano per far quattrini, servendosi di che cazzo – quando ce vo’ ce vo’
si dice a Roma – di eminenti
specialisti, se poi dal punto di vista
scientifico fanno schifo? Cara CEI, c’è tutto da rifare, Antico e Nuovo
Testamento vanno rivisitati tutti daccapo e da veri competenti, non quelli che
ti scegli tu o che l’establishment ti impone di scegliere) dell’Antico
Testamento può non corrispondere a quella ebraica di Torah, Profeti e Scritti.
Non corrisponde (a parte ovviamente certi libri considerati canonici dai
cristiani e ignorati dalla Bibbia ebraica) soprattutto perché solo nell’“Antico
Testamento” ebraico i nomi di dio vengono dati esattamente come sono, senza
fare di tutta l’erba un fascio. Così, dal confronto delle due versioni, appare
evidente che il dio ebraico di Abramo e dei patriarchi fino a Mosè escluso
aveva determinati nomi derivanti da una determinata storia, mentre da Mosè in
poi è Yahweh. Ora, i cristiani, diabolici manipolatori, hanno fatto di Yahweh,
il Male Assoluto, l’unico dio, sovrapponendolo ai nomi dell’altro venuto prima
(come fa il lettore che non può verificare la traduzione dall’originale –
mancando il testo originale a fronte, quello ebraico-aramaico, o comunque una
chiarificazione nelle note – a capire che Dio, Dio altissimo, Signore, Elohim,
e compagnia bella, possono trascrivere i nomi di due dèi opposti, sottolineo opposti, fra loro
come lo sono Yahweh e Allāh?). I
cristiani devono sapere – poi si regolino come credono – che nella loro Bibbia fanno a cazzotti fra
loro due dèi distinti, uno più antico e “buono”, Allāh di Abramo, l’altro
malvagio e recente Yahweh di “Mosè” (in realtà dei popoli del mare e di terra
indeuropei che invasero il Levante ma non lo conquistarono perché furono
ricacciati indietro), di cui Gesù/falso
profeta di Alessandria d’Egitto sarebbe, per loro, i cristiani, il figlio.
Secondo me i Danai attaccano la Palestina dal mare e da nord, dalla valle di
Israel (l’appendice 1 a
Giudici dice che essi migrarono al nord, dunque erano (anche) a nord). Poi via
via scendono a sud stabilendo il loro quartier generale a Silo, poi ancora più
a sud dove hanno già perso sonoramente
al tempo del citrullo attaccabrighe Sansone. Sostengo dunque una teoria che non
è ovviamente quella dell’Esodo, riscritto dai yahwisti del Secondo Tempio, ma
ho buoni argomenti testuali – veterotestamentari – a favore. Esodo travisa i Danai ormai
sbandati del sud chiamandoli Madianiti e collocandoli nella penisola sinaitica
dove li trova Mosè, ma essi venerano il dio della tempesta e della guerra Yahweh.
Si tratta a mio avviso quanto meno di ricostruzione storica di un tempo passato
sulla base di elementi attuali, quelli in cui i yahweisti, sconfitti e
sbandati, si ritrovano tanto al nord (Israele) quanto al sud (Negev) come
forsennati profeti (Elia, Eliseo) o attaccabrighe mercenari (vedi i mercenari
di Kuntillat Ajrud del IX-VII secolo). Leggo in La Chiave di Hiram che dopo
aver ucciso un egizio Mosè « si diede alla fuga, dirigendosi verso oriente,
nella penisola sinaitica, dove fu accolto dai Madianiti (altresì detti Keniti)
e dove prese in moglie Zippora, la figlia del re. In questa terra Mosè si
avvicinò al dio delle tribù madianite, signore delle tempeste e della guerra,
il cui simbolo era una sorta di motivo a croce che queste genti portavano
impresso sulla fronte, in prosieguo noto con l’espressione «segno di Jahvè».
Dopo l’incontro con Mosè sul monte Oreb questo ente divino abitatore delle
montagne divenne per l’appunto ispiratore e motivo centrale del dio degli
ebrei. » (Christopher Knight e Robert Lomas, Oscar Mondadori, 1998, p. 171)
Ora, come ho detto, l’invasione della Palestina non venne dall’Egitto né dalla
penisola del Sinai, ma è significativo che questo dio indeuropeo era già
associato alla croce che si ritrova anche a Creta, non come semplice graffito,
il che potrebbe avere diversi significati, anche decorativi, come la svastica,
bensì attraverso due croci a bracci uguali in marmo e maiolica con evidente connessione al culto.)
L’Antico Testamento è stato rimaneggiato (per la parte da Genesi a
Salomone, 1 Re/2 Cronache; grosso modo, non sto qui a fare il riesame di tutti
i testi; se mi daranno l’istituto farò questo e molto altro) e tutto il resto
redatto ex novo dai sacerdoti-guerrieri yahweisti (spesso leggiamo nel’Iliade
di guerrieri che in tempo di pace erano dei profeti, dunque
sacerdoti-guerrieri). Questi si sono affacciati in Palestina al tempo
dell’Esodo dei popoli del mare e di terra nel XIII-XII secolo a.C. Alla penuria
alimentare (seguita alla carestia da raffreddamento della terra dopo l’eruzione
del Thera) seguono regolarmente il fervore religioso, come nel suo lavoro bene
evidenzia, con sottile ironia, B. Fagan (peccato che il suo lavoro non riguardi
le età antiche di cui qui io mi occupo), e i disordini sociali. Dopo l’eruzione
del Thera questo disordine sociale e religioso è portato avanti dai yahweisti. I Danai/Achei (così li assimila
Omero, ma io ritengo prevalentemente responsabili i Danai, meglio
identificabili) – animati da un fervore religioso che doveva caricare gli
animi contro un nemico da distruggere per
razziargli le fertili e ricche terre (è lo stesso principio che adottano
gli angloamericani del Nemico islamico da distruggere per togliergli il
petrolio ma soprattutto il territorio strategico per il dominio del mondo)
– partirono per una vera e propria
crociata nella Terra Promessa, che
Yahweh gli destinava come Lebensraum, nella Terra Santa, che devastarono con un
furore religioso (del clero del dio della morte e della guerra *dye/ow- > Zeus/Giove/Yahweh prima di tutto) contro il diverso, il nemico
di Yahweh da sterminare, vecchi, donne, bambini, bestiame, mura e case, tutto,
senza lasciare, dopo il loro passaggio, altro che cumuli di carne sanguinolenta
e macerie fumanti. Olocausto. I yahweisti Danai non hanno forse inventato
l’olocausto, come abbiamo visto, ma ne
hanno fatto una ideologia chiamata Antico Testamento, di cui il Nuovo non è che
una derivazione, dove il lupo ha visto bene di
mascherarsi da buon pastore. Il nazismo dell’autore del Mein Kampf non è
che una scopiazzatura dell’ideologia satanica del dio della guerra totale
dell’Antico Testamento. E sono entrambe ideologie di popoli indeuropei. Tutte
le ideologie totalitarie e sterminatrici nascono da questi insegnamenti,
qualsiasi sia il loro colore. Le fonti omeriche non dipendono da quelle dei
yahweisti come in un primo momento avevo cominciato a dubitare. All’inizio
dell’Iliade sono gli Achei/Danai invasori a catturare l’arca/Criseide, poi
restituita per porre termine alla peste inviata da Yahweh/Apollo, mentre nella
battaglia di Afèq, del -1050, furono i Filistei/Pelasgi (che Omero definisce
illustri) a vincere sugli Achei/Danai yahweisti e a portargi via l’arca (non
solo, ma anche a radere al suolo il loro quartier generale di Silo, ponendo
praticamente fine alla loro conquista;
fine della “guerra di Troia”). Ma – a parte il fatto che Omero usa materiale
estraneo per raccontare ai suoi fini la guerra di Troia, e dunque lo manipola a
piacere, come possiamo appurare da altri esempi – l’arca/Criseide viene restituita dai
Danai/Achei (yahweisti) che perciò la perdono, secondo ogni verosimiglianza
concordando con le originali fonti filisteo-cananee (l’arca certo non fu
restituita; a chi se i Danai erano stati definitivamente sconfitti?), senza
dover mettere in campo una tradizione yahweista – vincente a questa data – che non avrebbe avuto nessun centro urbano
dove potersi sviluppare, men che meno a Gerusalemme, città di Dagon fino alla
caduta del Primo Tempio. Possiamo invece ipotizzare che a partire dal X-IX
secolo il clero abramitico ormai ampiamente “secolarizzato” riscriva la storia
in funzione anti-filistea perché è contro i Filistei che alla fine Gerusalemme
è venuta su come città cananea indipendente sotto un re discendente dai signori
della guerra al servizio dei Filistei. Solo a partire dal Secondo Tempio, i
yahweisti hanno riscritto la storia a loro uso e consumo senza un briciolo di
verità. Sta allo storico ricostruire come avvennero realmente i fatti basandosi
sugli errori dei yahweisti, perché, come si dice, il diavolo fa le pentole ma
non i coperchi. Dalla sconfitta ad Afèq e a Silo i yahweisti sono rimasti sbandati al nord
(Elia, Eliseo) come al sud (mercenari di Elefantina, Kuntillat Ajrud,
ecc.) come profeti e mercenari del loro
sanguinario dio della guerra e della morte Yahweh. O sono tornati in Grecia o
finiti in altre terre dell’Occidente. In tutto questo tempo i yahweisti della
Palestina conservarono accanitamente le loro tradizioni mirando ad un futuro in
cui avrebbero trionfato. Dopo che Dario II ebbe sconfitto Babilonia gli faceva
comodo creare a Gerusalemme e altrove dei centri destabilizzatori
dell’Occidente nel quadro della sua progettata invasione dell’Occidente per
attuare il suo impero mondiale. I Persiani, infatti, attaccarono l’Occidente e la Grecia (ma la Grecia bene o male sventò i
loro piani e li fermò; la
Grecia ha il merito di aver salvato per prima la civiltà
occidentale; dirò di più, ha un merito anche maggiore di Roma che invece alla
fine soccombette per incuria al cristianesimo). Dario II e i suoi successori
videro nei sacerdoti guerrieri yahweisti, invasi da furore bestiale contro
chiunque non adorasse il loro unico dio, totalizzante, della morte e della
guerra, l’arma ideale per realizzare il
loro progetto, e li insediarono a Gerusalemme incuranti dei cananei di
religione anche abramitica che l’abitavano. Voglio proprio dire, si badi bene,
che i yahweisti che i Persiani collocarono ai vertici di Gerusalemme nulla
avevano mai avuto a che fare con Gerusalemme, e dunque non erano mai andati in
esilio a Babilonia partendo da Gerusalemme. Ci furono portati – raccattati dal
Sinai, dal Negev, dall’Israele pagano del nord, perché
qui gli Assiri avevano deportato la popolazione originaria e l’avevano
sostituita con genti venute dai quattro angoli del loro impero – dall’esercito
persiano a bella posta. L’unica invasione vittoriosa della Palestina fatta dai
yahweisti fu quella dietro alle armate persiane che ve li insediarono al tempo
del cosiddetto ritorno dall’esilio in Babilonia. Da questo momento la redazione
dell’Antico Testamento è la contraffazione di documenti filisteo-cananei (che
narravano la controffensiva vittoriosa della Palestina contro i crociati
yahweisti) e nord-arabici (idumei/edomiti, che raccontavano più o meno le
stesse cose dal loro punto di vista) riscritti sulla base dell’interesse dei
yahweisti a provare fin dall’inizio la loro conquista della Palestina, la Terra Promessa, la Terra Santa, in nome e
per ordine di Yahweh, il dio Zeus di Ya(h)wan, la Grecia (voglio proporla
come ipotesi; in ogni caso la
Grecia non era l’unica fonte di provenienza dei Danai
yahweisti). E’ solo dal Secondo Tempio
che esiste una Gerusalemme che venera Yahweh.
Dopo la catastrofe materiale e umanitaria successiva all’eruzione del
Thera il mondo occidentale, cioè come io lo chiamo, moderno (ma è occidentale e
moderno fin da Abramo), faceva risalire la sua storia non più in là di
Minosse e Radamanto, quando dai porti di
Festo e Cnosso, o da quelli di Gaza (dove aveva sede un governatore
egizio), Ascalona e Ashdod, i marinai filistei partivano alla volta della
Sicilia per trasportarvi Minosse alla ricerca di Dedalo o dell’Eubea per
trasportarvi Radamanto alla ricerca del gigante Tizio (Od. 7,321-324). (E’ vero
che l’Antico Testamento andava più in là con Abramo/Khayan e i Filistei in Palestina, ma questo ed altri
accenni ad un tempo anteriore non erano nettamente ricostruiti, anche perché la
redazione finale era dei yahweisti che, oltre a manomettere la verità,
conoscevano bene solo la loro “epopea” di popolo occidentale e nordico) Dei
Filistei ho già detto abbastanza. I faraoni Tuthmosis IV e Amenofi
III/Radamanto e il loro visir Yuya/Minosse se ne servivano come sudditi fidati per il
controllo dei turbolenti sudditi dell’Egeo e
del Levante, oltre che per esplorare il Mediterraneo a Occidente e il
Mar Nero a Oriente. L’unico documento
pervenutoci dei Filistei è l’Apoteosi di Radamanto, del -1348, che attesta una
perfetta collaborazione fra clero filisteo dell’Ida (dove Zeus Velkhanos deve
essere l’erede di Tifone/Dagon/Posidone Uranio) e casa faraonica ancora al
tempo della successione di Amenofi IV, il re eretico adoratore di Aton, ad
Amenofi III. Un tempo non lontano Festo era stata la sede di un governatore
egizio o filisteo su tutta Creta che adesso, nel tritopalazziale, risiedeva ad Haghia Triada. Quanto al disco di
Vladikavkaz è indizio che al tempo di
Radamanto i Filistei navigavano fino alla Colchide sulle coste del Mar Nero per riportarne indietro il ferro
(oltre che l’oro), ma anche le mogli
hurrito-indiane dei faraoni (Tuthmosis IV) e dei visir (Minosse un
maryannu, signore della guerra,
filisteo, aveva sposato Tuya/Pasifae e la loro figlia Teye/Megara
era andata in moglie ad Amenofi IV). Le conoscenze geografiche sul
Mediterraneo orientale e sul Mar Nero pervennero ad Omero tramite i Filistei (i
Feaci omerici, che in origine avevo identificato coi Tirreni orientali e
occidentali, cioè con gli Etruschi). Quando il Thera eruppe, verso il -1340,
diede davvero inizio all’età moderna. Niente sarebbe più stato come prima. La
terra, specie in Europa, si raffreddò e furono anni di carestia. In seguito al periodo di raffreddamento comparvero le foche (animali polari) sul mare
“nebbioso” antistante il delta egiziano (Od. 4, 404ss). Banchi galleggianti di
ghiaccio « da lontano grazie alla
caratteristica luminosità che vi si riflette » (Brian Fagan, La rivoluzione del
clima, Sperling & Kupfer, 2001, p. 5)
suggerirono alla fantasia omerica « l’isola galleggiante [di Eolo]: tutta un muro di bronzo,
indistruttibile, la circondava, nuda s’ergeva la roccia. » (10, 3-4) Dunque non
c’è assolutamente bisogno di teorizzare che Omero sia nordico o che i poemi da
lui rielaborati abbiano un nucleo di origine nordica. Tutto ciò che di nordico
v’è nei poemi deriva semplicemente dal contatto di Omero con i popoli
indeuropei del mare e di terra (e soprattutto con le tradizioni circolanti sul
loro conto) scesi nei paesi del Mediterraneo centro orientale dopo la
catastrofe, e col periodo di raffreddamento del Mediterraneo stesso. Anche
riguardo al santuario di Ilizia a Pyrgi non c’è affatto bisogno di teorizzare
la sua fondazione a partire da nuclei di nordici o da tradizioni nordiche. In
seguito ad approfondimenti recenti (la lettura approfondita del lavoro citato
di J. I. Miller, che si fonda sulle conoscenze geografiche di Tolomeo), e
secondo logica, il Sole sorge a oriente e dunque se Ilizia ha aiutato Latona a
partorire Apollo/Sole, deve essere venuta da oriente anche se il paese da cui
proveniva era detto degli Iperborei, che suscita l’idea che venissero dal polo
o giù di lì. In realtà Tolomeo sapeva che gli Iperborei vivevano all’estremo
oriente della Cina settentrionale (il limite estremo della terra conosciuta), e
la Cina è più
che altro un paese estremo-orientale.
Secondo Brian Fagan « Le eruzioni hanno importanti conseguenze climatiche
a causa della cenere che producono, che può resistere nell’atmosfera per anni.
Le ipotesi che vedono un legame tra le eruzioni e il clima circolano da molto
tempo. Benjamin Franklin teorizzò che la cenere vulcanica è in grado di
abbassare la temperatura sulla terra.
Nel 1913 uno scienziato dell’US Weather Bureau, William Humphreys, usò i dati
della spettacolare eruzione del 1883 del Krakatoa nel Sudest asiatico, per
documentare la correlazione tra eruzioni vulcaniche storiche e mutamenti
globali della temperatura. La cenere vulcanica ha una capacità di schermare la
terra dalle radiazioni solari circa trenta volte superiore all’efficacia che ha
di impedire al calore del globo di sfuggire. Durante i tre anni che potrebbe
impiegare la cenere di una grande eruzione a depositarsi, la temperatura media
di gran parte del globo può abbassarsi anche di un intero grado, forse anche di
più. Gli effetti più marcati tendono a essere quelli che si manifestano durante
l’estate successiva a un evento vulcanico maggiore… Le maggiori eruzioni
vulcaniche hanno portato quasi invariabilmente estati più fredde e cattivi
raccolti, fenomeni naturali non connessi con le interminabili perturbazioni
della Piccola Era Glaciale… » (pp. 61-2) E ancora: « La densa polvere
vulcanica a forti altitudini diminuisce
l’assorbimento delle radiazioni solari in arrivo riducendo la trasparenza
dell’atmosfera, il che provoca minori temperature di superficie. Gli effetti
possono essere valutati dalle misurazioni complessive prese dopo l’eruzione del
Krakatoa del 1883, quando la media mensile di radiazione solare scese del 20-22
per cento al di sotto del valore medio per il periodo 1883-1938. Se un aumento
della luce e del calore dispersi (radiazione diffusa) compensa in parte il
calo, una fluttuazione di appena l’1 per cento dell’energia solare assorbita
dalla terra può alterare le temperature di superficie anche di 1 °C. In un’area
agricola marginale come la
Scandinavia settentrionale,
questa differenza può essere critica. Un decremento nella radiazione solare
porta a un indebolimento della circolazione zonale nelle latitudini
settentrionali e spinge a sud, verso l’equatore, i percorsi delle depressioni
prevalenti occidentali. La bassa pressione subpolare si muove verso sud. Alle
latitudini temperate settentrionali arriva una primavera più fredda e più
fosca, portando precipitazioni maggiori del normale. Una prolungata attività
vulcanica può avere un effetto potente. Le grandi eruzioni dal 1812 al 1815
contribuirono a spingere il minimo subpolare
di mezza estate fino a 60,7° nord, sei gradi buoni più a sud di quanto
fosse nei mesi di luglio tra il 1925 e il 1934. » (Fagan, pp. 191-2)
Come conseguenza dell’eruzione e dei terremoti seguì un’alluvione che i yahweisti hanno
trasformato incautamente nel Diluvio di Noè:
« Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero
loro figlie, i figli degli dèi videro che le figlie degli uomini erano belle e
ne presero in mogli quante ne vollero. Allora Yahweh disse: «Il mio spirito non
resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi
anni. » C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo – quando i
figli degli dèi si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro
dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi. Yahweh vide che
la malvagità degli uomini era grande sulla terra… E Yahweh si pentì di aver
fatto l’uomo… Ma Noè trovò grazia agli occhi di Yahweh… » (Genesi 6,1-8) E
Giavè manda il Diluvio. Qui c’è la stessa concezione greca di un Achille figlio di Teti (questa Teti, Tetisheri, moglie
del faraone della XVII dinastia tebana Tao I, dopo morta fu divinizzata come
dea oracolare – tutta la famiglia dinastica era venerata sotto il nome di
“Signori dell’Occidente” a Deir el-Medina dove gli operai lavoravano a
costruire le tombe reali, Gardiner, pp.
157-160 – dai Filistei/Feaci e da tutti
quei popoli intorno al Mar Nero come i Tursha, antenati degli Etrusco-Romani,
che lavoravano soprattutto alla ricerca del ferro e dell’oro per i faraoni
egizi) o di un Enea figlio di Afrodite, o ancora un Odisseo che Calipso
sposerebbe volentieri. C’è anche l’accenno alla malvagità degli uomini,
compresi evidentemente i giudici che non pronunciano giuste sentenze. I Greci
lo ricorderanno come diluvio di
Deucalione, sì, ma Deucalione figlio di Minosse, cioè Ay, visir di Amenofi IV.
I popoli nordici ma anche i libici i frigi, gli aramei emigrarono dalle loro
terre in cerca di cibo. Fecero la loro comparsa i popoli del mare e di terra
che attaccarono i paesi ricchi. Attaccarono l’Egitto in diverse ondate, una
decisiva sotto Ramesses III, che li ricacciò in mare, ma si erano già insediati nel Levante e l’Egitto divenne da
quel momento una “canna rotta”. Il regno ittita sparì dalla storia.
Ma da dove vengono questi adoratori di Yahweh? Innanzitutto sono un
popolo indeuropeo, perché io sono convinto che Yahweh derivi come
Giove/Zeus dalla radice indeuropea
*dye/ow-. Nella cartina sopra, si
consideri la freccia che parte dal Pamir
e dalle Montagne Celesti, scende lungo la valle dell’Indo e passando per
Mohenjo-daro si dirama nel Levante, Caucaso, Alta Siria, Cilicia, Cipro,
Grecia, Creta, da una parte,
Palestina, e delta egiziano dall’altra. Questo deve essere stato il percorso
degli Hyksos portatori di Tifone e dei proto-Filistei e Hurriti e Vallindi di
lingua indeuropea nel XVIII secolo. Una seconda più tarda ondata di indeuropei
portatori di Yahweh parte al di sopra
del Mar Nero e scende diramandosi come nella figura attardandosi in Tracia, Tessaglia e Frigia, area di dialetto
traco-frigio. Questi, Sherdana
e Danai/Achei, che poco prima si erano stabiliti in Grecia, dopo l’eruzione del Thera e i suoi effetti
devastanti al tempo di Ay/Deucalione si
mossero conquistando Cnosso (e Creta) e
poi da qui e dall’area traco-frigia, unendosi ai popoli del mare e di
terra, finirono di distruggere
(compiendo l’opera del Thera) la civiltà
antica riversandosi in Cilicia (gli Achei omerici combattono sia nella Troade
che in Cilicia) e in Siria-Palestina, e
poi sparendo nei secoli bui che da
protagonisti avevano contribuito a determinare. Ma non sparì la loro religione,
che alla fine (Secondo Tempio) attecchì in Palestina e da qui, attraverso un
processo di cui ho già detto altrove, passò a Roma da dove si diffuse come
cristianesimo. Vivendo ai margini
dell’impero filisteo gli Sherdana e i Danai/Achei acquisirono vagamente dei
costumi greci (pelasgi) come anche la lingua. In Grecia potrebbero aver
assorbito il dialetto filisteo-pelasgico (proto-ionico) producendo
l’arcado-cipriota (miceneo), oppure, più verisimilmente, aver costretto gli
scribi locali a tenere i conti nella lingua originaria ma per conto proprio,
dei nuovi padroni. Erano dunque capaci quanto meno di leggere e capire a
sufficienza, e di controllare l’esattezza dei conti, anche se eventualmente non
parlavano e scrivevano la lingua correntemente.
Sono quelli che gli studiosi chiamano Micenei (ma solo quelli del
Miceneo recente: 1400-1200). I Danai devono essere stati ricompresi sotto il
nome di Achei, altrimenti non sono fra i popoli greci di Creta (Pelasgi, Achei
e Dori) e non compaiono nella genealogia
etno-linguistica della Grecia, e ciò tanto in Omero (nonostante i suoi Danai
nell’Iliade assimilati agli Achei) che in Esiodo. Sono genti che potevano
essere stanziate dal Danubio al Don,
scese a meridione ed attestatesi
in area traco-frigia, da cui si mossero per fondare la dinastia di Tantalo e
Pelope. I yahweisti, al momento di contraffare i testi sacri del Primo Tempio,
di Dagon, a Gerusalemme, attribuirono le
loro caratteristiche traco-frigie, cioè barbare, anche ad Abramo e ai
patriarchi. Infatti, in modo affine ai
druidi celtici (da cui comunque bisogna distinguerli), praticavano i
sacrifici umani in nome di Diana o Artemide Taurica. Si pensi ad Ifigenia
sacrificata da Agamennone suo padre per avere il vento favorevole alla volta di
Troia. Si pensi ancora a Idomeneo, che corrisponde al “giudice”, in realtà al
sacerdote guerriero Iefte, che fa voto a Yahweh che in caso di vittoria farà in
suo onore l’olocausto del primo familiare che uscendo da casa sua al rientro a Cnosso gli verrà
incontro, e infatti sacrificherà sua figlia. Idomeneo è un Danao, un Tanaja,
uno che viene dalla “valle del Don” un “Miceneo” che nulla ha a che vedere con
Yuya/Minosse e Ay/Deucalione visir filistei dei faraoni egizi su una
popolazione pelasgo-filistea che ha come capitale Festo, poi Haghia Triada al
tempo di Radamanto/Amenofi III. Ma i yahweisti,
per quanto abbiano tutto contraffatto, non hanno potuto attribuire questo
misfatto ad Abramo/Khayan. Dovettero immaginare che avrebbe obbedito ciecamente
all’ordine criminale di Yahweh se questo alla fine non ci avesse ripensato
graziando Isacco. Questo culto
traco-frigio fu portato anche nel Lazio sul lago di Nemi dove, presso il
santuario di Diana, sacerdoti vagamente
druidici regolavano secondo consuetudine
la loro successione ricorrendo nei casi estremi perfino ad un duello mortale.
La migliore esemplificazione dell’arrivo dei Danai/Achei che si sovrappongono ai Filistei/Pelasgi è
data da Creta dove i Danai sostituiscono
il loro *dye/ow- > Zeus/Yahweh dio della guerra e le loro classi indeuropee a
Tifone/Posidone/Dagon/Zeus Velkhanos, e alle quattro classi sociali filistee dei
Titani re e sacerdoti, Giganti guerrieri, Centimani agricoltori e Ciclopi
artigiani. Adottarono la lineare B quando cominciarono la conquista della
Grecia all’inizio del Miceneo recente. Dopo l’eruzione del Thera presero Creta, dunque una generazione prima
del 1300 (al tempo del faraone Horemhab che la tradizione di Manetone ha
identificato con Danao) dove dominarono dal palazzo di Cnosso. La cosiddetta
guerra dei Sette contro Tebe deve essere successiva e potrebbe essere una
trasfigurazione dell’assalto all’Egitto coi popoli del mare, mentre la guerra
di Troia soprattutto una trasfigurazione
delle ultime battaglie nel Levante, e in particolare della battaglia di
Afèq. Ho il sospetto che il cosiddetto
«vasellame filisteo», di produzione locale ma che somiglia allo stile Miceneo
III C IB, appartenga ai Danai invasori della Palestina perché gli esempi più
strettamente somiglianti provengono da Tarso in Cilicia, da Cipro e da Cnosso.
La produzione filistea risalendo al XVIII secolo, in qualche modo si deve
confondere con quella cananea. I Filistei non arrivano nel XIV secolo, i Danai
sì.
Nella cartina sotto, da Francis Conte, Gli Slavi, si può verificare che i
nomi dei fiumi, dal Danubio (Istros) al Dnestr (Tiras; nella cartina il fiume e
il nome è coperto dall’area tratteggiata del territorio slavo delle origini) al
Dnepr (Borysthenes) al Don (Tanais) e al
Donec, fiumi della steppa scitica, sono tutti caratterizzati dalla radice
dan-/don- iranica di danu “fiume” (Tascabili Einaudi, p. 322).
Che i fiumi fossero divini per i Danai lo dimostra il fatto che Achille
appena nato fu immerso da sua madre nelle acque dello Stige per renderlo
invulnerabile. Sia Achille che Odisseo
venerano lo Zeus di Dodona: « In Tesprotide… c’è il tempio di Zeus a Dodona e
la quercia sacra al dio. Inoltre, presso Cichiro, c’è anche la palude detta
Acherusia e il fiume Acheronte, e scorre l’acqua tristissima del Cocito. »
(Pausania, 1, 18,1) Si trattava di un nekyomantêion che ci ricorda la negromante interrogata da
Saul, comandante ribelle di una guarnigione filistea di 600 uomini.
Iardēn, hiaròs + dan = “sacro fiume”, è dato sia al Giordano (il fiume in
cui Giovanni immergeva la gente battezzandola in nome di Yahweh) che allo
Iardanos (attuale Hieropotamos), che scorre vicino Festo nella piana della
Messarà, e ancora ad un fiume dell’Elide (Il. 7,135), dove regnava Enomao padre
di Ippodamia che Pelope, dopo aver vinto
con la frode la corsa dei carri, sposò ereditando il regno. E’ evidente che
furono i Danai/Achei ad imporre questi nomi ai fiumi laddove arrivarono. Era «
usanza degli antichi Celti continentali (e dei Germani) di tuffare i loro
bambini appena nati nelle acque del Reno. » (F. Le Roux e Ch-J. Guyonvarc’h, I
Druidi, ECIG, 2a ed. 2000, p. 163) Sulla base della mia decifrazione
dell’Apoteosi di Radamanto, fiume in filisteo è JOR, per cui al limite il Giordano,
fiume di un’area in cui dominarono i Filistei potrebbe aver avuto in
origine un’etimologia filistea (“Fiume secco”? In effetti il Giordano è un
fiume solo per modo di dire). Qui avrebbe predominato il dialetto ionico dei
Filistei, mentre, dopo l’arrivo dei Danai e Achei nordici, cioè dorici, si
sarebbe sostituita la loro interpretazione dei nomi dei fiumi principali.
E’ evidente che i nomi greci dei fiumi Tiras (così anche in Gen. 10,2) e
Tanais danno il nome alle rispettive popolazioni dei Tirsenoi/Tirreni, eg. Trshw,
e dei Danai/Tanaja/Danuna/Daniti, calate insieme ai popoli del mare.
Dunque credo di aver scoperto la
patria di origine dei Tirreni/Etruschi, cui vanno associati in qualche modo,
soprattutto attraverso il giudice (sulla questione se si debba o no restituire
ai Colchi Medea fuggita con gli Argonauti) Alcinoo di Pyrgi, anche i Mossineci
a sud del Mar Nero (che saranno più affini ai Filistei come filistei/pelasgi
sono i Feaci di Scherìa). Secondo Senofonte, che ne attraversò il territorio, i
Mossineci hanno pelle candida e si tatuano, non si vergognano della nudità e di
accoppiarsi in pubblico, vivono in torri e case di legno a forma conica dette
“mossine”, hanno canoe da tre posti, i guerrieri portano caschi di cuoio di
foggia paflagonica simili a tiare con pennacchio in cima, bipenni di ferro,
giavellotti e aste enormi, hanno degli armati alla leggera che in improvvise
sortite lanciano pietre, tagliano la testa dei nemici uccisi, mangiano delfini
affettati e in salamoia e castagne bollite e abbrustolite come pane, vino che
mescolato con acqua diveniva dolce e profumato, Anabasi V, 4,1-34; sono tutti
elementi che in qualche modo si riscontrano nei segni del sillabario
filisteo). Agli antenati degli Etruschi,
che sono anche di nuovo i Filistei di Vladikavkaz, si riferiscono certo questi
elementi culturali che traggo da F. Conte: « Fra gli dei del paganesimo slavo,
Chors e Simar’gl provengono direttamente dai culti delle popolazioni di ceppo
iranico stanziati nelle steppe contornanti il Mar Nero. Simar’gl o Simar’g sono
forme sarmatiche rinvenibili nel vocabolo marg,
«uccello» in osseto moderno – lingua tuttora parlata nel Caucaso sovietico,
nella repubblica autonoma dell’Ossetia del Nord e nella regione autonoma
dell’Ossetia del Sud abitate dai pronipoti dei Sarmati-Alani. Il persiano, poi,
usava Simurg… L’uccello era legato a
Simar’gl, uccello cane, grifone la cui missione consisteva nel proteggere
l’albero della vita, produttore d’ogni semente. » (pp. 323-4 e 325)
E’ dunque evidente che il Disco di Vladikavkaz è stato ritrovato (nel
Caucaso) più o meno dalle parti da cui
sono transitati i Filistei/Pelasgi (provenienti dalla Vallindia) e dove
vivevano i Mossineci, il che non vuol
dire che sia scritto in greco come l’Apoteosi di Radamanto, e nemmeno che la
sua scrittura sia originata in Ossetia. L’ipotesi per me più plausibile al
momento è che si tratti di cultura di ritorno dalla Filistea con una scrittura
eventualmente adattata a trascrivere un hurrito-iranico. E i Filistei/Feaci
omerici (poi stabilitisi a Tarquinia col suo porto di Pyrgi divenendo Etruschi)
per conto dei faraoni navigavano fino al Mar Nero da cui portavano indietro
l’oro e i grifoni (i grifoni etruschi) che secondo Erodoto lo custodivano, come
adesso erano chiamati a custodire le dimore dei defunti e i defunti stessi.
Sono essi i primi Tirreni.
Ricapitolando, su una base autoctona, abbiamo prima elementi filisteo-pelasgi
(i Feaci omerici) “troiani”, poi dell’area del Dnestr/Tiras arrivano i
Tursha/Tirreni di ritorno dalle guerre in Levante, insieme magari ai Mossineci costruttori di torri, poi
possiamo inserire i Sabini di stirpe celto-germanica scesi dalle montagne
dell’Appennino, infine genti siro-cipriote che portano l’orientalizante. Roma, fondata dal giudeo Romolo, in testa con
Tarquinia, Cere, Pyrgi, ed altre dell’Alto Lazio, è la prima città “etrusca”.
Del resto bisogna ricordare che Rasen(n)a è il nome etnico etrusco, e questo si
ricollega, come ho già scritto, al Rasenw egizio, cioè alla Siria costiera.
L’Esodo della tradizione greca dei Danai/Yawan dalla Grecia e da Creta
verso il Levante (si pensi all’inverosimile invincibile armata achea dell’Iliade
partita da Aulide in Beozia verso la
Troade e la
Cilicia e a Odisseo che quando non si vuol far riconoscere
dice di essere un principe bastardo cretese che ha compiuto spedizioni
piratiche fino al delta egizio) si lega alle testimonianze egizie. Un primo
assalto è nel quinto anno di Merenptaḥ,
nel -1208 da parte di Maraye figlio del re dei Libi con i Qeheq e i Meshwesh,
dal lato occidentale del delta. Dall’altra parte un movimento di cinque popoli
da nord e da oriente che in senso orario discende il Levante per mare e per
terra dalla regione traco-frigia fino a
irrompere in Palestina e poi ai confini orientali del delta egiziano. Si tratta
di Dardani, Luka/Lici, Aqaiwasha/Achei
(a volte vengono letti Eqwesh e ricordano gli Equi poi arrivati nel Lazio)
della Troade e più in generale dell’Anatolia occidentale, Sheklesh (Siculi, che daranno il nome alla
Sicilia quando ci andranno a finire) e Tyrsha (che non possono venire
dall’Etruria/Tirrenia, ma ci verranno a finire). Mentre i Libici a occidente non praticavano la circoncisione, Sherdana,
Sheklesh, Aqaiwasha e Tyrsha sì [dunque è
da questi popoli che deriva l’usanza ebraica della circoncisione!], e da
tempo immemorabile, per cui ai morti venivanono tagliate solo le mani. Ai
Libici uccisi venivano invece tagliati i genitali ammucchiati e offerti, come
le mani degli altri, al faraone (Gardiner, p. 245). Con gli Aqaiwasha Achei/Danai possiamo immaginare di collocare
intorno a questa data (-1208) l’aggressione capeggiata dal sacerdote-guerriero
Giosuè alla piana di Israel, che,
nonostante l’intervento vittorioso
– dice il faraone – sulla
regione, questa appare dalle iscrizioni
del tempio di Karnak « desolata e non ha più seme ». Ma sappiamo che gli Egizi
amano esagerare. Una nuova
invasione avvenne nell’anno
-1178, l’ottavo del regno di Ramesses III: « I paesi stranieri ordirono un
complotto nelle loro isole. La guerra si diffuse contemporaneamente in tutti i
paesi e li sconvolse, e nessuno poté resistere alle loro armi, a incominciare
dal Khatti, Kode, Karkamiş, Arzawa e Alasiya… [sono palesemente tutte regioni anatoliche fino alla Cilicia e a Cipro]
Un attendamento fu posto in una località di Amor [Siria] ed essi
devastarono e spopolarono quel paese come se non fosse mai esistito. Essi
avanzarono verso l’Egitto, con le fiamme davanti a sé [le
fiamme sono quelle che il faraone gli manda contro]. La loro confederazione
era formata dai Peleset, Tjekker, Sheklesh, Danu e Weshesh, ed essi si impossessarono dei paesi di tutto l’orbe
terrestre, con cuore risoluto e fiducioso: « il nostro piano è compiuto! » Ma…
Stabilii il mio fronte nel Djahi [Siria e
Palestina], tenni pronti ad affrontarli i principi locali, i comandanti di
guarnigione e i Maryannu [guerrieri
carristi]. Feci approntare le foci del fiume a guisa di vallo fortificato, con navi da
guerra, galere e navigli leggeri, che furono completamente equipaggiati, da
prua a poppa con arditi combattenti che portavano le loro armi, il fior fiore
della fanteria egizia… » (A. Gardiner, La Civiltà Egizia,
Einaudi, 1971, p. 259) Qui sono esplicitamente nominati i Danu, Danuna di Amarna e della Cilicia,
Danai omerici, Daniti biblici. I Peleset
sono i Pelasgi, cioè i Filistei occidentali/settentrionali rozzi e primitivi
della regione traco-frigia; i Tjekker li possiamo identificare coi Teucri
omerici della Troade; i Weshesh con
gli Osci che poi vennero a finire in
Italia. Gardiner cita ancora gli Sherdana che sono sia fra i nemici attaccanti
che fra le guardie del corpo del faraone (p. 258). Questi avevano assalito
l’Egitto già all’inizio del regno di Ramesses II (1279-1212) (Gardiner pp.
235-236) E’ evidente che gli Sherdana finirono in Sardegna dandole il nome. Mi
paiono per vari motivi affini ai Danai e dunque pur non menzionandoli sempre
esplicitamente quando parlo dei Danai invito a tenerli sempre presenti, come
gli Aqaiwasha/Achei. L’unico elmo cornuto di tipo Sherdana è stato trovato in Bulgaria, dunque in
Tracia, vicino a Sofia, in una tomba
tracia del -VI-V secolo. Nei resoconti levantini sulla guerra crociata gli
Sherdana sono attestati all’estremo nord (tra Ugarit e Biblo; a Biblo arriva
comunque l’influenza dei pirati gentiluomini Tjekker di Dor) e i Danai, chissà
come, se non sono legati agli Sherdana, riescono ad intrufolarsi fra loro e i
Tjekker nella piana di Israel. Gli
Sherdana, me lo dice il mio fiuto investigativo, devono avere culto simile a
quello dei Danai, dall’arca puzzolente alla quercia oracolare di Yahweh/Zeus
(Liverani, p. 28). Quando sono finiti in Sardegna vi hanno portato la loro
tradizione yahweista e vi hanno elaborato dei bronzetti votivi, trovati nei
pozzi sacri (della Sardegna/Purgatorio di Calipso omerica), che costituiscono
una specie di Bibblia figurata (dicono gli archeologi) a partire dall’arca di
Noè. In effetti, quanto all’arca di Noè, l’unica su cui posso discutere (e io
ormai ho imparato a credere solo in me stesso, perché in giro c’è tanta
ignoranza proprio fra i cosiddetti addetti ai lavori, e spesso più sono
decantati più sono ignoranti), la navicella sarda di bronzo con figure di
animali trovata nella tomba del Duce di Vetulonia, -VII sec., m’è sempre parsa
un’arca di Noè. Ora, l’arca di Noè, rimanda a quanto ho scritto in altro lavoro
a proposito del Diluvio del Mar Nero, che (correlato all’idea platonica di un’Atlantide
nell’Oceano Atlantico che sappiamo nascondere comunque le vicende dei popoli
del mare e di terra del -XIII-XII sec.), ci porta alla unica vera Atlantide
possibile della storia, quella che portò all’emigrazione dei popoli yahweisti
dal Mar Nero. Ora, poniamo che i sacerdoti del tempio di Neith a Sais abbiano
(sulla base delle loro antiche carte e non capendo più la scrittura geroglifica
né quella ieratica perché, ormai da qualche secolo era solo il demotico ad
essere in uso) detto a Solone, nel -590, qualcosa che nemmeno loro sapevano
orientare (l’Egitto non s’è mai troppo interessato al mondo che lo circondava)
per bene e comunque l’orientavano all’egizia, e che ulteriormente Solone,
attraverso l’interprete, abbia ulteriormente frainteso, e abbia ancora errato
laddove diede un nome greco in base all’etimologia (da lui recuperata ci
immaginiamo con quali competenze filologiche) a quegli stessi nomi che già gli
Egizi avevano (con le loro competenze filologiche; del resto un nome tradotto
etimologicamente è già perduto ai fini dell’identificazione geografica; occorre
una trascrizione fonetica dei nomi per poterli adoperare al nostro fine)
tradotto nella loro lingua. Non un’Atlantide, una Babele! E’ possibile allora
che queste Colonne d’Ercole cui si riferivano i sacerdoti di Sais non siano lo
Stretto di Gibilterra (qui comunque ce le mette Platone perché le Americhe sono
dall’altra parte e a lui gli servono, le Americhe, per il suo trattato di
geopolitica; dunque lo stesso Platone dà il colpo finale al depistaggio perché
a lui Atlantide nel Mar Nero non gli serve proprio) ma quello dei Dardanelli?
Tanto per cominciare i sacerdoti affermano che questa potenza, come del resto
raccontano i testi di Medinet Habu, aveva conquistato la Libia e l’Egitto e parte
dell’Europa fino alla Tirrenia, e tentò anche di conquistare Atene che sappiamo
non essere stata toccata dal movimento dei popoli del mare. Tutto al di qua
dello Stretto di Gibilterra (Timeo 25b). Ma se è tutto al di qua, anche
Atlantide originaria sarà al di qua. In ogni caso i popoli del mare e di terra
non vengono da paesi atlantici, né da Occidente della Grecia, e dunque sono i
traco-frigi, che vengono dal Mar Nero, e probabilmente possono transitare coi
carri pieni di donne e bambini proprio perché quelle acque (nei vecchi testi
dei sacerdoti di Sais, non necessariamente al tempo di Solone o di Platone) in
qualche modo s’erano abbassate ed erano diventate sentieri fangosi che univano
le due Colonne dello Stretto dei Dardanelli e tutto lo Stretto con lo stesso
Mare di Marmara abbastanza prosciugato. E’ per questo che i Traci (Achei,
Danai, Sherdana, Peleset) poterono dare l’assalto a Troia, altro che
invincibile armata partita da Aulide. Ma allora quello del Mar Nero non fu un
Diluvio. Piuttosto una conseguenza del raffreddamento terrestre con
abbassamento delle acque e siccità. Poi c’è la confusione fra la potenza di
“Atlantide” che avrà potuto avere Troia come città emblema, e gli invasori
popoli del mare e di terra che invece, dominando sulla Libia, l’Egitto, la Tirrenia (qui si
riferisce a Sheklesh, Sherdana e Tyrsha ma anacronisticamente perché costoro
vennero dopo), distrussero Atlantide e il Levante.
« Allora infatti quel mare [che io per ipotesi chiamo Mar Nero]
era navigabile [dunque se non
lo è più vuol dire che le acque si sono abbassate e sono divenute fangose],
e davanti a quell’imboccatura che, come dite, voi
chiamate colonne d’Ercole [Stretto dei
Dardanelli], aveva un’isola, e quest’isola era più grande della Libia e
dell’Asia messe insieme [così come le
definivano l’Asia e la Libia
gli antichi; certo ci sarà pure un’esagerazione da parte dei sacerdoti o di
Solone ecc. sia nella stima dell’isola di Atlantide sia in quella, se ho
ragione, del Mar Nero; ma è anche possibile, e da verificare, che tutte le
isolette dell’Egeo davanti allo Stretto fino a Creta potessero in qualche modo essere o essere considerate
una grande isola prima di frammentarsi con l’eruzione del Thera e i terremoti
connessi]: partendo da quella era possibile raggiungere le altre isole [all’interno del Mar Nero] per coloro
che allora compivano le traversate, e dalle isole a tutto il continente [Asia] opposto che si trovava intorno a
quel vero mare [Mar Nero]. Infatti tutto quanto è compreso nei limiti dell’imboccatura
di cui ho parlato [il Mare di Marmara]
appare come un porto caratterizzato da una stretta entrata: quell’altro mare [il Mar Nero], invece, puoi
effettivamente chiamarlo mare e quella terra che interamente lo circonda [Asia] puoi veramente e assai
giustamente chiamarla continente. » (Timeo 24e-25a) Per capire la mia teoria
occorre prima di tutto ricordare che se Solone ha avuto questa tradizione dai
sacerdoti di Sais comunque Platone ha travisato volutamente tutto perché non
gli interessava Atlantide come fatto storico (che noi da tempo attribuiamo al
–XIII-XII secolo e al movimento dei popoli del mare e di terra: J. V. Luce ne
dà un’esposizione assai esauriente in La fine di Atlantide Newton Compton,
1976) bensì per la sua teoria geopolitica di Repubblica Timeo e Crizia. In ogni
caso, se qualcosa è davvero avvenuto, è
avvenuto in area traco-frigia perché è da qui che scendono i popoli del mare e
di terra.
Io ho solo sentito parlare di e non ho mai visto un curragh né un coracle, ma
questa navicella sarda vi somiglia moltissimo,
apparendo leggerissima, con un’intelaiatura di legno ricoperta da pelli di
animale, col fondo piatto, utilizzata
per lo più per la pesca sui fiumi e sui laghi. Solo i pazzi cristiani come
Brendano coi più grandi curraghs si avventuravano dall’Irlanda alla ricerca
del Paradiso a Occidente. Posso immaginare dunque che i popoli del Mar Nero
spostandosi in seguito verso nord e verso Occidente abbiano prestato ai Celti
sia le corna degli Sherdana che i curraghs
e i coracles del Mar Nero.
Gli stessi Danai devasteranno l’Occidente arrivando forse fino
all’Irlanda coi Tuatha Dé Danann “Gente della Dea Dana” e oltre, se la
testimonianza di Plutarco (De facie in orbe Lunae 26) dice il vero
sull’esistenza di Greci in isole anche più a Occidente e a Nord. Si direbbe una
febbre da evangelizzazione cristiana – se si pensa che costoro portavano come
insegna la croce sia pure a tau – ante
litteram che ha preceduto le devastazioni cristiane di due millenni dopo. Ecco
ancor più confermato ciò che ricavo dai poemi omerici e cioè un cristianesimo,
nemmeno tanto paradossalmente, nato prima e più pericoloso dell’ebraismo. La
versione dei fatti incisa sui rilievi del tempio di Medinet Habu doveva
corrispondere anche ai documenti filisteo-cananei conservati dal clero di Dagon
nel suo Primo Tempio a Gerusalemme. Nonostante le loro manipolazioni di questi
documenti i yahweisti non ci impediranno di ricostruire i fatti esattamente
come avvennero. Ovviamente l’attacco alla Palestina, come dice lo stesso
faraone, precedette quello all’Egitto e dunque si colloca prima del 1178.
Già al tempo di Amenofi IV, il faraone teosofo ritiratosi nella sua
Amarna, l’Egeo e il Levante erano in subbuglio e i pirati iniziavano a colpire il Levante. Si alzavano
grida di aiuto ma il faraone era tutto intento ad adorare Aton e se ne fregava
(più o meno come gli imperatori esteti e filosofi del II secolo che hanno
mandato in malora l’impero romano e l’hanno dato in mano ai cristiani). Gli
bastava che qualcuno mandasse tributi, chiunque fosse, vecchi re o nuovi re
impostisi ai primi, non faceva importanza. E intanto il Levante andava a fuoco.
Ci furono giudici (ebraico = suffeti, greco = basilées) in Canaan, sia prima
sia dopo l’eruzione del Thera. Si trovavano fra l’incudine delle comunità
cittadine e di villaggio (di cui erano a capo)
che pagavano i tributi al faraone, e il martello dei funzionari anche
locali, del palazzo governativo o dei principi (possiamo chiamarli wanaktes
perché erano in gran parte filistei) che ritiravano i tributi in nome e per
conto del faraone. Più la situazione si faceva critica più cresceva il
malcontento popolare che, non potendosela prendere con l’asino, finivano per prendersela
col basto, come avrebbe detto un personaggio del Satyricon. Rimase di loro un
ricordo negativo anche perché, quando alla fine fu decapitato il palazzo e la
rete di funzionari reali, le comunità che sopravvissero alla catastrofe,
divenute indipendenti, continuarono ad avere come unico interlocutore, che
adesso chiedeva i tributi per proprio conto, il suo o i suoi basilèes (Martin
Bernal suggerisce che il nome derivi dall’egizio p3 sr, titolo comune del visir, “funzionario”, che in origine era sottoposto al wanax, al re, p.
76). Dunque più che iniqui i giudici dovettero chiedere alle loro comunità
lacrime e sangue nel loro stesso interesse. Era soprattutto sgradevole la loro
posizione in quanto prima dovevano
pretendere i tributi per conto del faraone e poi (anche il reclutamento
forzato) per la difesa di Canaan dagli invasori. Fino a Omero ed Esiodo i
giudici sono individui che « con prepotenza contorte sentenze
sentenziano, e scacciano la giustizia, non curano l’occhio dei numi » (Il. 16,
387-8), « ingordi di doni, emettono verdetti con ambigue sentenze » (Opere e
giorni, 221), « con torte sentenze … incuranti dell’occhio divino » (250-1), «
ché il popolo paghi le malefatte dei giudici che, meditando luttuosi propositi,
deviano le loro sentenze dal giusto con ambigui discorsi. Attenti a questo, o
giudici, mangiatori di doni, raddrizzate le vostre parole, scordate del tutto i
torti giudizi. » (260-4) e oltretutto vengono pagati per farlo e così vengono
detti addirittura «mangiatori del popolo» (Il. 1,231). Dunque gli “iniqui”
giudici cananei, insieme alle assemblee cittadine e di villaggio cui
soprassedevano, furono da subito gli organismi locali che dovettero reagire all’aggressione dei popoli
del mare organizzandosi per la difesa e il contrattacco. I redattori yahweisti
della Torah e poi del rimanente Antico Testamento rivisitarono tutta la storia
facendo degli aggrediti (i giudici cananei e i Filistei) gli aggressori di
Canaan. Credo di essere il primo a sostenere ciò, come anche – come vedremo
– che dei primi “re di Israele unitario”
non v’è traccia perché erano signori della guerra al servizio del Filistei. I
Danai, i Daniti della sedicente tribù ebrea di Dan, condussero la prima guerra santa di sterminio
in nome di un dio razzista, immorale, disumano, assassino, privo di qualsiasi
scrupolo, il Male Assoluto, Yahweh. Danai e Sherdana sono la forza prevalente
d’invasione. A sud c’erano già i Filistei e più a nord, fino alla piana di
Israel e oltre ci sono i Danai (che inglobano i pirati gentiluomini
Tjekker/Teucri che controllano i porti fenici e nel 1050 fanno sentire la loro
influenza fino a Biblo), e poi da Biblo a Ugarit e oltre gli Sherdana. Danai e
Sherdana, al tempo di Giosuè/Gesù (le due versioni del nome corrispondono all’identico
originale), conquistarono una testa di
ponte a nord dei Tjekker, nella piana di Israel (Giudici appendice 1 fa migrare
i Daniti al nord), mentre alla fine del
conflitto, intrappolati, sono ridotti a
difendersi al sud, dove si trova la
Filistea, guidati da
un sacerdote-guerriero deficiente di
nome Sansone. Si portano dietro il loro “dio”, probabilmente un antenato
guerriero defunto e mummificato, in un sarcofago o arca, che emana effluvi
mortali.
Nel punto in cui la valle di Israel toccava quella del Giordano, a
Bet-Shean (nella parte alta di questa cartina) gli Egizi avevano stabilito la
residenza di un governatore a tutela di un terreno demaniale agricolo chiamato
Yarimuta che nel XIV, in tempo di crisi,
sfamava perfino quelli di Biblo, molto più a nord (iscrizione LA74, Liverani,
p. 387). Siccome i faraoni, come abbiamo visto, consideravano i Filistei come i
più affidabili fra i loro sudditi, è evidente che anche in questo punto nodale
del controllo egizio sul Levante vi fosse un presidio filisteo. E infatti le
prime guerre seriamente ricostruibili avvengono coi Danai che irrompono nella piana di Israel e contro
il presidio filisteo di Bet-Shean che dispone di carri di ferro (« tutti i
Cananei che abitano nel paese della
valle hanno carri di ferro, tanto in Bet-Shean
e nelle sue dipendenze, quanto nella pianura di Israel, יזרעאל. » Giosuè 17,16). Israel non trascrive esattamente
Israele, ישראל, ma è talmente simile che mi suggerisce che Israele
nasca da qui. Tutto il resto è manipolazione yahweista. Laddove l’iscrizione
ramesside dice che i popoli del mare si accamparono in Siria potrebbe riferirsi
a quello che nell’Antico Testamento yahweista è il quartier generale di Silo
(l’attendamento degli Achei omerici dove le varie tribù militari si incontrano
intorno all’arca puzzolente di Yahweh e a druidi altrettanto puzzolenti,
colleghi di Calcante, che con le loro profezie tentano di prendere il
sopravvento sui veri e propri duci militari come Agamennone e Menelao). Ma
l’iscrizione ramesside fa apparire l’assalto
a Canaan come devastante e già assolutamente
compiuto prima dell’attacco all’Egitto, mentre dai testi manipolati dai
yahweisti risulta che la lotta fu dura, ma continuò fino alla disfatta dei
yahweisti, perché nella battaglia di Afèq (-1050) i Danai yahweisti persero
l’arca/Criseide, ma i Filistei non la restituirono nonostante contenesse la pestilenziale mummia del loro dio-feticcio
della morte e della guerra assimilabile al siriano Reshef e al greco Apollo.
Essi infatti nello stesso anno rasero anche al suolo il quartier generale di Silo,
costringento i Danai yahweisti allo sbando.
I yahweisti si vantano di aver
abbattuto 600 Filistei al tempo del “giudice” Samgar (Giudici 3,31). I giudici,
come ho già spiegato, nella verità storica, sono solo cananei, quelli
aggrediti. Gli aggressori sono guidati da delle specie di druidi, sacerdoti
guerrieri. Poiché i yahweisti hanno manomesso tutto è possibile che un determinato nome di
giudice vada messo ora dalla parte dei Cananei, ed è un vero giudice, ora dalla
parte dei Danai, ed è un druida guerriero.
Se davvero furono sconfitti, questa storica eroica di difesa del
territorio di Canaan e dei suoi abitanti da parte del presidio filisteo colto
di sprovvista (dalle iscrizioni che riguardano l’arrivo dei popoli del mare
risulta che tutti furono colti di sorpresa, tranne gli Egizi del delta; il che
non è vero perché alla fine anche l’Egitto dové sopportare la presenza di
barbari ospitati al suo interno come accadde esattamente ai Romani coi popoli
germanici) dall’arrivo dei predoni Danai è stata un’impresa epica come quella dei 300 di Leonida nel tentativo
di tenere la posizione fino all’arrivo dei rinforzi dalla Filistea, visto che
da Amenofi IV i faraoni non hanno più quel potere che avevano un tempo e comunque
si preoccupano sempre più di se stessi e
di salvare l’Egitto. Della ferocia dei Danai parlano l’infinità di città,
fortificate e non, date alle fiamme insieme alla popolazione inerme, salvando
solo, si può credere a Omero, le donne altocinte, dalle belle gambe lunghe, da
usare come concubine (come Agamennone e Achille fanno con Criseide e Briseide
rispettivamente, anche se Achille preferisce Patroclo; mentre gli
Hyksos/Filistei di Troia sono poligami normalmente, gli Achei/Danai, come il
loro dio Yahweh, sono normalmente sessualmente invertiti; Achille venera il
santuario dello Zeus di Dodona i cui profeti sono gli Helli/Selli «che mai
lavano i piedi, e dormono in terra» (Il. 16, 235), il che ci riporta a El, nome
del dio generico ebraico, che certamente a Dodona e in genere nell’area traco-frigia
era Zeus/Yahweh). E sarebbe una lettura istruttiva per quei cristiani in buona
fede che ancora credono a questa religione del male assoluto. La loro ferocia era gratuita, come si ricava da
questo esempio: « sconfissero a Bezek diecimila uomini. Incontrato Adoni-Bezek
a Bezek, l’attaccarono… lo catturarono e gli amputarono i pollici delle mani e
dei piedi. » (Giudici 1,4-6) Quella di 600 uomini era certo l’unità tattica
standard dei Filistei, quattrocento che combattono
e duecento che custodiscono le salmerie e magari in un secondo tempo possono
rimpiazzarne duecento che retrocedono dalla battaglia, fra morti, feriti ed
esausti. Evidentemente la rabbia forsennata dei yahweisti era un fiume in piena
se anche il generale Sisara coi suoi 900
carri ferrati fu sconfitto presso il
monte Tabor (Liverani fornisce un altro sito, secondo me totalmente fuori
posto) al tempo in cui era “giudice” la profetessa o dovremmo dire la druidessa
Debora (Giudici 4). Ma il Canto di Vittoria di Debora gli si strozzò
in gola perché le cose cominciano ad andare male per i Danai a partire dal
giudice Gedeone, che tanto per cominciare aveva un nome cananeo, Ierub-Baal.
Egli fece flagellare i 77 anziani di Succot, demolì la torre di Penuel e uccise
gli uomini della città (tutti costoro vengono presentati come Ebrei) perché si
erano rifiutati di fornire l’aiuto alimentare ai suoi uomini stanchi e affamati
(Giudici, 8,4-17). Abimelek, suo figlio, regnò per tre anni su un territorio “ebraico”
che comprendeva Sichem, dove era il tempio di Baal-Berit e il cui governatore
si chiamava Zebul. Costui lo informa che la città gli si sta ribellando. Egli
fa un agguato all’ingresso della città e uccide molti nemici, torna ad Aruma
mentre Zebul caccia Gaal e i suoi fratelli. Il giorno dopo essendo usciti di
nuovo fuori i ribelli, Abimelek tornò a Sichem, ne uccise tutti gli uomini e
rase al suolo la città cospargendovi sopra il sale. Diede fuoco alla torre di Sichem con dentro i
rifugiati. Poi andò a cingere d’assedio Tebez e stava per appiccarvi il fuoco
quando una donna dall’alto gli tirò in testa una macina e gli spaccò il cranio
(Giudici 9). Mi pare evidente che Ierub-Baal/Gedeone e suo figlio Abimelek
combatterono contro centri in precedenza occupati dai Danai yahweisti (“ebrei”
in senso religioso) riconquistandoli.
Abbiamo ancora il duce (non
giudice) danao Iefte, che fece un voto a
Yahweh: « Se tu mi dai nelle mani gli Ammoniti, la persona che uscirà per prima
dalle porte di casa mia per venirmi incontro, quando tornerò vittorioso dagli
Ammoniti, sarà per Yahweh e io l’offrirò in olocausto. » (Giudici 11,30-31) Ed
effettivamente sacrificò in olocausto sua figlia quando tornò vittorioso
(Giudici 11,32-40) a Cnosso, perché si
tratta di Idomeneo, che la tradizione greca ha voluto riallacciare ai dinasti
egizi (al visir Minosse/Yuya e a suo figlio il visir Deucalione/Ay), mentre era
un danao signore di Cnosso, sul quale la tradizione greca (raccolta anche
dall’Eneide) racconta appunto una storia analoga. Montanelli ha scritto giustamente che una
nazione ha bisogno di eroi quando le cose vanno male, ed uccidere un familiare
per vincere una guerra è sicuramente segno che le cose vanno male. Sansone, che
non era in realtà un giudice ma un
sacerdote-guerriero, un nazireo consacrato in perpetuo a Yahweh, era un
attaccabrighe e un puttaniere, oltretutto deficiente, perché si faceva fregare
ripetutamente dalle prostitute, filistee per giunta, con cui si accompagnava.
Le mire di “conquista” dei Danai terminano miseramente coi loro ultimi Calcante
(da Eli e i suoi figli a Samuele; dal che deduciamo facilmente che contro i
veri giudici cananei combatterono questi sacerdoti-guerrieri, questi druidi,
portatori della croce a “tau” di Yahweh)
che vengono sconfitti dai Filistei nella battaglia di Afèq del 1050 i quali gli
catturano l’arca-sarcofago del loro putrido dio e radono al suolo il campo di
Silo (il quartier generale) alla stessa data (Knight e Lomas, p. 178). I
Filistei ripresero il controllo della
regione e sistemarono un loro caposaldo anche a Sichem, intorno a cui sorgerà
tutt’al più lo staterello nordista cananeo che qualcuno avrà magari anche
chiamato di Israele. I yahweisti
rimasero sbandati in zona (tanto al nord quanto al sud, come dei folli profeti di sciagure in nome
del loro dio assassino (vedi Eliseo ed Elia al nord e i Madianiti al sud) o
come mercenari guerrafondai al servizio di chiunque li pagasse (Elefantina,
Kuntillat Ajrud, ecc).
Con la fine della vera guerra di Troia, con la battaglia di Afèq in cui i
Danai persero l’arca e il loro quartier generale di Silo, con la fine dei Danai/Achei, ai quali si addicono le
parole di Odisseo, « noi, cui Zeus appunto donò che di giovinezza a vecchiaia
dipanassimo il filo d’aspre guerre, finché a uno a uno moriamo! » (Il.
14,85ss), si apre una nuova pagina nella storia della Palestina. I Cananei,
lavorando fianco a fianco dei Filistei, sono diventati come loro, si sono fusi
con loro, le loro donne si sono unite ai
Filistei e ai loro maryannu carristi. I Cananei sono ora un popolo orgoglioso
dei propri successi. A questo punto deve essere accaduto quello che accade sempre. I capitani di
ventura filistei o cananei al servizio dei Filistei, avendo sposato loro e i
loro guerrieri donne cananee, vogliono portare avanti gli interessi indigeni (ma soprattutto i loro propri interessi) contro
l’occupante, che ora è solo filisteo. Già Saul si ribella al governatore della
fortezza filistea di Gibea ed è suo figlio Gionata a sconfiggerne la
guarnigione. Saul all’inizio della
ribellione comandava seicento mercenari (1 Sam. 13,15). Anche Davide all’inizio fu a capo di seicento
mercenari come capitano di ventura al servizio del re filisteo di Gat. Eli e i figli di Eli e Samuele non furono giudici degeneri che si
misero a fare solo i sacerdoti. Furono, come i precedenti, sacerdoti-guerrieri yahweisti che
volevano crearsi un potere politico, ma perdevano il controllo sui loro stessi
seguaci che evidentemente provavano orrore, e ce ne voleva, per la loro
efferata violenza druidica. L’equivalente Calcante non ha certo uno strapotere
all’interno della coalizione di Achei/Danai che rapiscono Criseide/arca nella
battaglia di Afèq, subiscono la pestilenza e devono restituirla per farla
cessare. Egli chiede il soccorso di Achille per pronunciare il suo vaticinio,
altrimenti Agamennone lo lascerebbe steso morto al solo aprir bocca. I capitani
di ventura sono atei per definizione e non stanno certo ad ascoltare i profeti.
E del resto in Palestina prima del loro
arrivo, nel XIV-XIII secolo « il mondo della politica sembra il più «laico» che si fosse mai visto in tutto il
Vicino Oriente » (Mario Liverani, Oltre la Bibbia, Laterza, 2° ed.
2004, p. 22) Però i seguaci di Yahweh
zebaot (Giove degli eserciti) sono tanto pieni di furore religioso che avranno
cercato a più riprese di prendere la mano ai vari condottieri. I Danai si portavano dietro questi sacerdoti che
trasportavano in battaglia il loro dio
in un’arca in cui è facile vedere una bara, un sarcofago pestilenziale, che
manda le sue maledizioni come le celebri mummie dei faraoni che uccidono chi
viola il loro riposo eterno. Avranno perfino adorato un loro eroe divinizzato e
mummificato all’egizia. I mercenari
semiti in Egitto lo chiamavano “Reshef
il combattente”, dio della morte, della guerra, della pestilenza, che è
poi l’Apollo diffusore della peste
all’inizio dell’Iliade. Reshef era
identificato anche con Seth e Baal-Tifone, divinità aborrite dagli Egiziani
perché simbolizzanti le forze caotiche contrarie a quelle solari ed era affine
al dio della tempesta indeuropeo, Giove/Zeus.
Queste identificazioni sono distorte dalla confusione egizia fra culto di
Tifone (odiato perché erano odiati, a torto, gli Hyksos) e quello di Yahweh.
Chi dice che i poemi omerici non traspirano aria di medioevo non ha capito
nulla. Rifacciamoci allo spirito delle crociate, bandite (in cerca di un Lebensraum
per i diseredati d’Europa che in patria davano solo fastidi, per brama di ricchezze da accaparrare
per la Chiesa,
che si faceva anche ago della bilancia della politica europea, e con spirito
assassino smanioso di vedere versato il sangue dell’infedele) da un papa
cattolico, Urbano II, erede degli yahweisti maledetti del nord, dalla distruzione del Secondo Tempio in poi,
dal falso profeta egiziano (Gesù dei vangeli) in poi. Chissà
quante volte un soldato crociato avrà dovuto trattenere, lui soldato, un frate
dal massacrare e violare donne e bambini infedeli. A Saul, Davide
(nonostante fosse un cinico assassino), Salomone, fecero schifo questi zelatori
sacerdoti di un dio assetato di sangue come e più di quelli dell’America
precolombiana, e li fecero letteralmente fuori come Saul i sacerdoti yahweisti
di Nob. Tutto inizia quando Samuele ordina a Saul di colpire gli Amaleciti e
votare allo sterminio tutto quel che appartiene loro: « non lasciarti prendere
da compassione per lui, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e
pecore, cammelli e asini. » (1 Samuele, 15, 3; io credo che i genitori che
permettono che i propri figli siano indottrinati all’empia religione
giudeo-cristiana siano degli assassini
indegni di vivere nel consesso umano e civile, perché nessuna ignoranza
è ammessa quando si tratta di educare i propri figli.) Non che Saul si sia
comportato bene, perché sterminò il popolo degli Amaleciti, ma almeno risparmiò
una vita, quella del re Agag, e poi il bestiame migliore. Samuele, venutolo a
sapere, “divorzia” da Saul ed ha già in mente di ungere un suo sostituto (è il
principio delle profezie che annunciano l’avvento di un nuovo re: prima o poi si trova uno senza scrupoli disposto ad
assassinare il re legittimo per far piacere al sacerdote yahweista di turno),
ma intanto disse: « «Conducetemi Agag, re di Àmalek.» Agag avanzò verso di lui
tutto tremante, dicendo: «Certo è passata l’amarezza della morte!» Samuele
l’apostrofò: «Come la tua spada ha privato di figli le donne, così sarà privata
di figli tra le donne tua madre.» Poi Samuele trafisse Agag davanti al Signore
in Gàlgala. Samuele andò quindi a Rama… » (1 Samuele 15,32-34) … con la coscienza
tranquilla di aver fatto un’azione da vero uomo! Ma per chi ama la catarsi nei
film di violenza, eccola! Poiché il partito di Samuele vuole destituire Saul
aiutando il proscritto Davide e Saul lo viene a sapere, « disse a Doeg: «Accostati tu e colpisci i sacerdoti.» Doeg
l’Idumeo [gli Idumei, come gli Arabi, i
veri discendenti di Abramo, fanno sempre o quasi sempre la parte dei cattivi]
si fece avanti e colpì di sua mano i sacerdoti e uccise in quel giorno
ottantacinque uomini che portavano l’efod
di lino. Saul passò a fil di spada Nob, la città dei sacerdoti: uomini e donne,
fanciulli e lattanti; anche buoi, asini e pecore passò a fil di spada.
Scampò » solo Ebiatar (1 Samuele 22,
18-20), che verrà estromesso (forse anche soppresso, dato quel che combinò
contro la sua regalità) da Salomone. Quanto è bello vedere che c’è una
giustizia al di sopra del malvagio Giavè. Ora, questi preti intrallazzatori,
che vogliono stare al di sopra del potere costituito perché si sentono
investiti del potere di Yahweh, hanno cercato di seminare zizzania fino a
trovare un capitano di ventura
abbastanza malleabile e corrotto e lo hanno trovato in Davide, la belva
umana. Saul vuol farsi il suo piccolo
regno a nord e non sa nemmeno cosa significhi ebreo, né glie ne potrebbe
fregare di meno. I suoi sudditi sono
Cananei, la prevalenza, che al momento
del crollo del potere centrale dovettero difendersi da soli o sotto la
guida di un giudice dagli attacchi dei Danai e degli altri popoli del
mare. Il conflitto fra Davide e Saul non
è tanto il conflitto fra due capi mercenari uno infedele, l’altro fedelissimo
ai Filistei, quanto il tentativo del un sacerdozio profetico yahweista di
crearsi un potere al di sopra della casta guerriera. Notiamo bene che poiché la
storia l’hanno scritta i yahweisti, è probabilissimo che la loro presenza storica a quest’epoca, dopo la
disfatta di Afèq, sia del tutto infondata. Certamente loro intenzione era di
dimostrare la loro presenza in ogni tempo e dappertutto, e soprattutto la loro
necessità di esserci nella storia di Israele. Dunque tratterò di questa storia
avvertendo che Samuele è sicuramente fuori di posto o comunque assai sospetto
in tutte queste vicende. Ormai i sacerdoti yahweisti sono dispersi nelle aree marginali all’estremo nord e all’estremo
sud dove resteranno latitanti a predicare sciagure e fare i mercenari fino a
che rispunteranno dal nord a distruggere il Secondo Tempio. Comunque rileggerò
criticamente il testo yahweista quanto meno per evidenziare la violenza
gratuita che esso manifesta. Samuele lo spietato unge Davide lo spietato – che pare aver accettato di essere uno
strumento nelle sue mani – contro
Saul. A parte ciò non c’è molta
differenza fra Saul e Davide nei confronti del culto, segno che anche allo
schifoso Davide riusciva a far schifo –
e ce ne voleva – il clero yahweista con la sua mummia puzzolente. Se
Saul mostra una totale avversità verso il clero e, pur spregiando la religione,
è disposto ad essere lui l’intermediario fra la divinità e il suo popolo
guerriero, Davide, che oltretutto è un falso ipocrita, non si fida dell’arca,
che ha ucciso uno dei trasportatori coi suoi microbi pestilenziali (ma l’arca
fu catturata dai Filistei, e certo non restituita, a chi poi, visto che i Danai
erano disfatti? I Filistei avrebbero potuto porla come trofeo nel tesoro del
Primo Tempio, a Gerusalemme; ma il fatto che Davide stia ancora discorrendo di
portarla a Gerusalemme puzza; la cosa più plausibile è che l’arca fu distrutta
dai Filistei per non nuocere più e in quanto oggetto immondo di un dio immondo,
per cui evidentemente nel Secondo Tempio
gli ebrei, questa volta ebrei, hanno dovuto metterci una copia fatta da loro e
certo senza i poteri dell’altra, ammesso che ne abbia mai avuti), e la tiene in
deposito fuori Gerusalemme per tre mesi e non
costruirà il tempio, pur asserendo a parole che lui vive in un palazzo
di cedro e che dunque a maggior ragione lo meriterebbe Yahweh. Da quel che
segue della storia di Davide e il clero yahweista dubito assai che l’arca sia
mai entrata in Gerusalemme sotto Davide o sotto lo stesso Salomone, per il
semplice fatto che tanto pericoloso era il clero yahweista che fu tolto subito
di mezzo in Giuda. Dunque non solo Saul spregiò la religione yahweista ma anche
Davide e Salomone, che non pensarono mai di realizzare, né mai realizzarono un
tempio per Giavè. Il Primo Tempio esisteva già ed era quello di Allāh,
cioè Dagon/Tifone. Davide e Salomone
furono poligami e le loro mogli
straniere portavano con sé culti stranieri. Inoltre Davide e Salomone, come
tutti i sovrani intelligenti, si adeguano ad osservare il culto locale nel
Primo Tempio, di Dagon. Non erano razzisti come i sacerdoti di Giavè che
proibivano i matrimoni con le straniere perché poi queste avrebbero
indottrinato ai loro culti pagani i loro figli eredi al trono. Davide e
Salomone, atei capitani di ventura, non veneravano Giavè. Davide, risiedendo a
Qiriat Arba/Ebron, luogo santo di Abramo/Khayan, non ha dovuto ossequiare
Yahweh (come invece sostiene Liverani) e
a maggior ragione dopo essersi
stabilito a Gerusalemme, città di Dagon. Tiene il clero sotto il suo
controllo. Ebiatar, l’unico sacerdote yahweista scampato alla strage di Nob (ma
sarà vero? Io non ci credo; Saul ha sterminato tutti i yahweisti) in cui Saul
stermina il clero yahwista, viene associato da Davide a Sadoq sacerdote del
clero locale (filisteo, come ho già detto) di Gerusalemme, ma si mette, insieme a quell’Innominato e
innominabile di Ioab/Iobate di Bellerofonte (capo dell’esercito), dalla parte
di Adonia, che voleva il posto di Salomone. Davide quando lo viene a sapere
nomina Salomone suo successore e gli affida il compito di punire i ribelli.
Salomone si circonda di persone fidate e cioè
di Benaià comandante della guardia del corpo costituita da arcieri
cretesi e lancieri filistei e di Sadoq, sacerdote del clero “pagano”
(licenziando Ebiatar o forse meglio eliminandolo fisicamente visto quel che gli
aveva combinato, « adempiendo la parola che il Signore aveva pronunziata in
Silo riguardo alla casa di Eli. » 1 Re 2,27) E cioè la fine del clero yahweista
discendente da Eli. A riprova che anche Salomone spregiò Giavè c’è l’ennesimo
fatto che diede ordine a Benaià di uccidere Ioab nonostante avesse afferrato i
corni dell’altare all’interno della tenda di Giavè. Da questo momento v’è un
solo sacerdote (sacerdote di
Eloāh/Allāh) a Gerusalemme, Sadoq, ed un solo comandante
dell’esercito, Benaià. Dunque, riassumendo, l’unico sommo sacerdote di
Gerusalemme fu Sadoq, che non era yahweista, non era della casa di Aronne e nemmeno
apparteneva ai leviti. Certamente era sacerdote di Dagon al momento in cui fu
nominato sommo sacerdote. Come ho scritto altrove, la storia degli Ebrei è la
storia di un dio, Yahweh, che vuole conquistarli e di un popolo che non vuol
essere conquistato perché si trova bene con gli dèi pagani, e quando si mette
con lui si trova male e malissimo. La storia dei due pseudo regni separati di Israele e Giuda è un continuo di riprovazione di Yahweh
verso di loro e minacce di estinzione, che avverrà quando deve avvenire,
comunque tardi (naturalmente le profezie di estinzione sono state scritte ad
estinzione avvenuta). Le lamentele continue del clero yahweista sono una
riprova del paganesimo sostanziale della storia di Israele e Giuda fino
all’esilio in Assiria e Babilonia. Vi sono dei passi veramente degni di riso
sguaiato, come questo: Abiam di Giuda « Egli imitò tutti i peccati che suo
padre aveva commessi prima di lui; il suo cuore non fu sottomesso al Signore [Yahweh] suo Dio, come lo era stato il
cuore di Davide suo antenato. Ma, per amore di Davide, il Signore suo Dio gli
concesse una lampada in Gerusalemme, perché Davide aveva fatto ciò che è giusto
agli occhi del Signore e non aveva traviato dai comandi che il Signore gli
aveva impartiti, durante tutta la sua vita, se si eccettua il caso di Uria
l’Hittita. » (1 Re 15, 3-5) Dunque il
primo assassino è Giavè stesso, complice il clero yahweista che gli mette in
bocca le parole. Adesso, visto che c’è molto materiale su Davide, vediamolo in
dettaglio. Credo che Davide sia stato fin dall’inizio a capo dei seicento della
guardia del corpo del re filisteo di Gat (1 Sam. 27 e 28,2) e abbia combattuto
contro Saul, sconfitto e ucciso nella battaglia di Gilboa cui Davide certo
partecipò coi suoi dalla parte dei Filistei. Le armi e la testa di Saul
finiscono inchiodate nel tesoro di un
santuario filisteo, presumo quello di Dagon e Derketo ad Ascalona (1
Sam. 31,9-10; 1 Cron. 10,9-10). Attribuiscono probabilmente i yahweisti ai
Filistei, inconsapevolmente, quelli che sono i loro feroci costumi (come
attribuire ad Abramo la possibilità di uccidere suo figlio Isacco perché lo
vuole Yahweh). I Filistei mantengono la loro posizione e la rafforzano anche
durante il regno di Davide che secondo la tradizione biblica, licenziato dai sospettosi capi filistei, avrebbe combattuto contro i Filistei. Se così fosse,
Davide avrebbe faticato per ritrovarsi un pugno di mosche in mano, il che non è
credibile. Io credo che Davide sia stato uno dei più turpi capi di popolo della
storia. Non mi stupisco che Israele
(l’Israele filoamericana e stupida) si riconosca in lui e nemmeno che la
Chiesa (degna di un processo di Norimberga) riconosca in lui
l’unto di dio, perché è vero che dall’albero riconoscerete i frutti e un albero
marcio dà frutti marci. Tutta la religione giudeo-cristiana è una colossale
truffa (che per fortuna ho potuto smascherare – in buona compagnia di altri
studiosi per lo più fuori dell’establishment – per benino) che mette sul
piedistallo il male assoluto. Come tutti
i capitani di ventura Davide taglieggia i territori su cui passa (con un
cerimoniale che ricorda quello della mafia: « andate da Nabal e chiedetegli a
mio nome se sta bene… ») prendendo ciò che vuole, anche nel territorio di Giuda
che all’inizio è l’unico a sostenerlo (1 Sam. 25, 4-12ss). Tanto poco i
mercenari di Saul seguivano Davide che,
morto Saul, Abner, capo delle milizie, ne nominò duce il figlio
superstite, Is-Bàal (2 Sam. 2,8-10). La guerra fra i due eserciti mercenari
(gli Israeliti e i Beniaminiti si riconoscevano nel successore di Saul mentre
dalla parte di Davide c’era solo la “tribù” di Giuda; a proposito delle
tribù greche Murray sostiene che « furono originariamente divisioni militari,
e presumibilmente anche le fratrie… »
p. 72) fu lunga (vi sono
similitudini col duello degli Orazi e Curiazi nella rincorsa di Ioab,
Abisài e Asaèl dietro ad Abner, ma
poiché questa è una tradizione
indeuropea si tratta certamente
di varianti indipendenti sul tema) e si concluse con l’ordine di Davide dato a
Ioab di assassinare Abner che se ne
tornava a Macanàim dopo essere venuto a colloquio con lui a Ebron. Ma Davide
giurò e spergiurò, si stracciò le vesti, seguì la bara e pianse sul sepolcro
intonando un canto, digiunò: « Tutto il popolo, cioè tutto Israele, fu convinto
in quel giorno che la morte di Abner figlio di Ner non era stata provocata dal
re. » (2 Sam. 3,37). Dopo Abner non rimane che ammazzare Is-Bàal e non c’è
dubbio che questo giovò a Davide anche qualora non l’abbia ordinato. I due capi
mercenari, beniaminiti, di Is-Bàal se la vedono brutta e passano dalla parte di
Davide portandogli la testa del loro duce.
Davide dà ordine ai suoi
“giovani” e « questi li uccisero, tagliarono loro le mani e i piedi e li
appesero presso la piscina di Ebron. » (2 Sam. 4,12) Omero, che conosce la
storia di Davide, fa fare questa fine al traditore Melanzio nell’Odissea. Con questi metodi terroristici Davide ottiene la sottomissione delle “tribù”
di Israele e dei Beniaminiti, e dunque è ormai tanto potente che potrebbe svincolarsi
dai Filistei e conquistare Gat. Ma è probabile che sia diventato signore di Gat
dopo la morte del suo signore filisteo che certo prima di morire lo designò
alla successione. Decimò i Moabiti con un metodo che ricorda il letto di
Procuste (2 sam. 8,2), ecc. ecc. Ma nonostante la sfilza di vittorie e
annessioni attribuitegli, il regno di Davide rimane una modesta formazione
politica sotto l’egemonia dei Filistei. Mentre Ioab era a capo di tutto l’esercito di Davide,
Benaià, figlio di Ioiadà, probabilmente un greco, era a capo delle guardia
pretoriana costituita da Crete(s)i e
Pele(s)tei (2 Sam. 8,16-18 e 20,23). Al
momento di uscire da Gerusalemme a causa della rivolta di suo figlio Assalonne,
Davide è preceduto dalla guardia pretoriana di seicento uomini guidati da
Ittài di Gat, costituita da Crete(s)i e Pele(s)tei (2 Sam.
15,18). Dopo tentativi di usurpazione vari Davide riesce a passare il trono di Giuda a Salomone di cui pure
manca ogni traccia storico-archeologica, ma il perché in gran parte si spiega
col fatto che i primi “re” proto-ebrei sono stati dei capitani di ventura al
comando di tribù militari e dunque viventi nelle tende come i primi soldati di
Roma quando Roma era grande. Cominciò a diventare piccola quando i suoi soldati
si fecero case in muratura, come scrive più o meno Montanelli. Ma non è questo
che qui mi interessa trattare. Ora è chiaro perché i cosiddetti re del
cosiddetto regno unito israelitico (Saul, Davide, Salomone) non hanno a
supporto alcuna documentazione epigrafica ed archeologica. La verità è che
questi erano dei capitani di ventura al comando di truppe mercenarie al servizio dei Filistei o,
ora lo possiamo dire apertamente, Filistei essi stessi. La storiografia
nazionalistica ebraica (che non operò diversamente da tutte le storiografie
nazionalistiche di tutto il mondo, compresa quella italiana, che ha voluto
vedere i “primi italiani” fin dal lontano medioevo, ad esempio in Berengario
Marchese del Friuli) ha visto in questi Brancaleone e nelle loro ribellioni ai
Filistei (motivate da tutt’altro fine che quello della nascita di Israele) i primi
re ed inventar loro una sede – Gerusalemme – che divenne ebrea solo dopo il
“ritorno dall’esilio” in Babilonia.
Mentre i Danai finivano così miseramente la loro conquista, i Filistei, e i Cananei con essi, si ritrovavano ad
essere, in un Levante martoriato dalla guerra santa, la prima potenza mondiale
(questo deve aver intuito Sabatino Moscati, attribuendolo ai Fenici,
smentito erroneamente da Fernand
Braudel), dominatrice dei mari. Forse
soprattutto per “colpa” di Omero, la cosiddetta
“guerra di Troia” (che dovette riguardare il conflitto fra staterelli
filo-ittiti e achei dell’Asia Minore; ma
sulla via di Troia erano i percorsi marittimi e commerciali dei Feaci/Filistei
e dei Tursha/Tirreni, gli antenati degli Etrusco-Romani, alla ricerca del ferro
e dell’oro, il quale proveniva fin dalla lontana terra del Mare Giallo, presso
gli Iperborei e gli Arimaspi), divenne la sintesi emblematica della fine di un
mondo (quello ittita prima di tutto) anche per i vincitori che, tornati a casa,
quei pochi che non erano morti in battaglia o sulla via del ritorno, vi
venivano ammazzati come bestie al macello dai nuovi signori che avevano
intrallazzato con le regine o, scampati all’agguato mortale, riprendevano il mare in cerca di un luogo dove rifarsi una
vita. Se prima dell’“età assiale” avevano navigato in Occidente, fino alla
Sicilia, per conto di Minosse, adesso navigavano per conto proprio fino
all’Adriatico, in fondo al quale fondarono Spina, e al Tirreno, dove fondarono
Pyrgi e Cere, portandovi la loro letteratura (in scrittura pittografica,
soprattutto corsiva, o
già alfabetica pennellata su lino, pergamena o papiro) sotto forma di poemi
epici cavallereschi (quelli sulla guerra nel Levante), canti conviviali e
amorosi, insomma tutto ciò che poté analogamente circolare nelle corti
medioevali prodotto dai menestrelli, e qui,
sulle coste laziali fino ad Alba Longa, questa letteratura continuò a svilupparsi autonomamente grazie
ad aedi filistei (e indigeni che ne appresero l’arte) di cui Omero non fu che
l’ultimo e il migliore in assoluto, il primo autore della civiltà occidentale –
e in Italia – e il primo autore greco. La civiltà greca, in
assoluto, nasce in Italia, assai prima della colonizzazione greca, dopo la
battaglia di Afèq, in cui il Levante, in nome e per conto della Civiltà,
combatté e vinse il primo round (come direbbe Montanelli; peccato che non abbia
capito che appunto nella guerra di Troia il primo round lo vinse proprio
l’Oriente) contro il Male Assoluto. Come ho scritto sopra, dopo l’eruzione del Thera
che ci diede Madre Natura, la storia non sarebbe più stata la stessa. La storia
nel breve periodo è un insieme di alti e bassi, ma nel lunghissimo periodo è un
fiume in piena che travolge gli argini e si scava l’alveo in discesa. Due grandi rivoluzioni segnano il cammino
dell’uomo, la scrittura e l’organizzazione della società. L’età antica è quella
della scrittura logografico-sillabica e sillabica, l’età moderna quella della
scrittura alfabetica. Da un punto di vista marxiano potremmo dire che la società
della scrittura logografico-sillabica ha dato vita a società piramidali e
teocratiche oppressione dell’uomo. Al vertice è il faraone-dio in terra o il
clero onnipotente, e alla base gli uomini-animali, forza lavoro, schiavi,
sudditi dell’uomo-dio o dell’uomo unico interprete della volontà di dio. Solo
chi sta al vertice ha il tempo libero e il diritto di dedicare la sua vita allo
studio di una scrittura difficile da apprendere, che mantiene dunque il segreto
del potere accessibile per diritto di
casta solo a coloro, e ai loro discendenti, che lo detengono. In queste
condizioni un ricambio sociale è utopistico. Quando invece si diffonde la
scrittura alfabetica, questa diviene accessibile a tutti e nasce la democrazia,
ovvero si ribalta la situazione, vengono tagliate le teste dei re, i papi
vengono rovesciati dai loro troni, le statue di tutti gli dèi buttate giù dai
loro piedistalli, i templi (e le banche da essi custodite) dati alle fiamme, il
popolo regna sovrano. La scrittura alfabetica ci darà una società democratica.
Se ho ragione, Madre Natura ha dato una spinta in questa direzione con
l’eruzione del Thera e quanto ne seguì. Quanto scrivo potrebbe sembrerebbe in
contraddizione col male del giudeo-cristianesimo che era da venire proprio in
seguito all’eruzione del Thera e all’emergere del yahweismo, ma, come dice più o meno Cesare,
spesso gli dèi mandano delle difficoltà proprio a coloro che vogliono favorire,
mentre rendono la vita liscia a chi detestano; possiamo intendere il
giudeo-cristianesimo come l’ultimo sussulto del male – si dice che il veleno
sta nella coda – anche se questo male
dura ancora ai nostri tempi, ricordando sempre che la storia è lineare solo nel
lunghissimo periodo, mentre nel breve è costituita da flussi e riflussi; ad esempio, la Rivoluzione Francese
è indubbiamente nel senso della sovranità del popolo, ma se la storia si fosse
subito allineata alla Rivoluzione Francese, o addirittura non fosse andata nel
senso contrario, il nostro mondo non sarebbe quella cosa immonda che ancora è.
Ma diamo tempo al tempo, perché il tempo gioca a favore della democrazia.
Con l’alfabeto a disposizione
hanno cominciato a far sentire la loro voce le assemblee cittadine.
Tersite omerico non è un brutto deforme e ridicolo, piagnucolante mentre Odisseo
lo bastona con lo scettro di Agamennone, come le mie professoresse greciste
delle medie e del liceo mi insegnarono (avevano così poco capito Omero –
ovviamente apprendendolo da “degni cattedratici” – che analogamente piangevano sul povero
Polifemo accecato che parlava col suo ariete e gli chiedeva come mai lui,
sempre così pronto ad andare in testa al gregge ora, che sotto portava il peso
di Odisseo, fosse così lento, forse perché piangeva la sorte del suo padrone?).
Tersite è la nascita della città democratica, e non a caso dice contro gli
arbìtrii del potere, a gran voce, le stesse cose che dice Achille contro Agamennone, ma mentre Achille,
il più colossale uomo che combatta a Troia, vigliaccamente si ritira dalla guerra e sopporta in silenzio
che gli sia tolta Briseide nella sua tenda, Tersite ha il coraggio di dirle a
gran voce e di dare appunto del vigliacco ad Achille. Naturalmente non è ancora
venuto il tempo del potere del popolo (Omero ha cercato di riprodurre la realtà
di un tempo assai più antico; in più
doveva far ridere la massa popolana laziale – prima ancora che della
Magna Grecia e della Grecia orientale – che conosceva il greco! e l’ha
accontentata) e Tersite ci rimette, contro un potere troppo più forte di lui, ma, ripeto, Tersite è una
gran bella figura. Tersite calza alla perfezione con la Roma che va democratizzandosi
al tempo di Tullo Ostilio.
La differenza fra la Roma
(e in genere la Tirrenia)
mercantile ricca e atea, spregiatrice degli dèi, del VII secolo di Tullo
Ostilio e la Grecia
povera e dunque bigotta di Esiodo e di tutto l’oriente in generale, segna un
altro punto di svolta, perché a Roma,
cantata da Omero, nasce per la prima volta, realmente, l’uomo occidentale, la
città, la vera democrazia. L’alfabetizzazione è diffusa, gli archivi di palazzi
e templi sono pieni di rotoli di papiro e di lino, la grande città di Roma ha
fatto una grande svolta democratica inserendo le classi inferiori nell’esercito
oplitico. Ettore non è un principe aristocratico come Achille a capo di un
branco di selvaggi. E’ un generale dell’esercito romano. E’ evidente che qui
c’è un profondo cambiamento. Non si tratta di selvaggi orgogliosi di ubbidire
ad Achille, ma di un generale orgoglioso di comandare l’esercito romano. Il
popolo ha davvero vinto. Se l’Oriente da Esiodo in là è attaccato alla vita
presente misera e si crea due inferni, uno in questa e uno nell’altra vita di
cui non v’è certezza, l’uomo romano e occidentale italico vive nel Paradiso in
terra e non si cura dell’al di là.
Dunque l’uomo moderno nasce ancor più con Omero, a Roma. E’ Roma
l’ulteriore pietra miliare della storia dell’umanità. Mentre Ghilgamesh si
preoccupa dell’immortalità, per Odisseo l’immortalità sono l’amore degli amici,
dei sudditi, della moglie, dei genitori, del figlio. Mentre Circe vorrebbe
renderlo immortale a vivere in eterno con lei sulla sua isola incantata (io
personalmente non me lo sarei fatto dire due volte), Odisseo preferisce tornare
a casa sua, anche se è ben consapevole di trovarci molto meno di quanto dio ha
poi risarcito (ma si può parlare di risarcimento di soldi e ricchezze; quale
risarcimento è quello di dare a Giobbe altri figli in sostituzione di quelli
persi?) Giobbe, una moglie vecchia venti anni di più, un figlio che non lo
riconosce, servi allo sbando, sudditi divisi in opposte fazioni, un padre pieno
di acciacchi, la madre morta (gli amici persi sotto le mura di Troia o negli
abissi marini o nella gola di Polifemo). Eppure, l’uomo occidentale,
preferisce, breve e problematica che sia, la vita che gli è toccata in sorte e
la assapora momento per momento e la valuta tanto più in quanto ce n’è una sola
e breve. Omero è il primo autore moderno della storia dell’umanità. Il guaio è
che è stato seguito, ancora oggi, da tanti autori antichi.
Diciamo dunque che l’arrivo nel Lazio e nella valle del Po (forse anche
fino alle Colonne d’Ercole prima che vi arrivassero i Fenici e comunque in
concorrenza coi Fenici) della civiltà filistea coincide con l’XI secolo, lo
stesso in cui la tradizione colloca lo stabilimento delle più occidentali
colonie fenicie. Dunque Braccesi potrebbe aver ragione a sostenere una presenza
greca anteriore a quella fenicia alle Colonne d’Ercole, ma si tratta di
presenza filistea. Una letteratura affine, riguardante gli avvenimenti epici
dei Filistei e Cananei nella guerra contro i popoli del mare, deve esserci
stata in tutte le lingue e scritture del Levante. E’ da questa letteratura
(in filisteo e aramaico soprattutto) che
derivano molto materiale sia l’Antico Testamento che i poemi di Omero, anche
se, per i motivi che ho detto, entrambi rialeborano questo materiale per
scrivere di argomenti diversi con finalità diverse. Il dialetto omerico ha una
base ionica ed eolismi che in base alle conoscenze attuali dobbiamo riportare alla
Troade. Dunque Omero si esprimeva col linguaggio epico dei Filistei troiani che
erano sbarcati nel Lazio probabilmente con Enea secondo la tradizione antica.
E’ possibile che fra i profughi al seguito di Enea vi fossero dei cantori di
corte che scrissero e cantarono nel Lazio le gesta delle vittime troiane
dell’olocausto compiuto dai popoli del mare e di terra, ma Omero si servì per
lo più di materiale che cantava la guerra vittoriosa dei Filistei e Cananei di
Palestina, anche in filisteo, ionico, e i suoi poemi sono dall’inizio alla fine
(anche se redatti a blocchi distanziati nel tempo) interamente concepiti da
lui, salve le manomissioni greche successive, trascurabili nell’Odissea, non irreparabili nell’Iliade. Come ho già
scritto, Omero si propone di celebrare la grandezza di Roma, città fondata
dal giudeo signore della guerra
Romolo, in greco, perché di lingua
greca, filisteo-pelasgica, è l’originaria civiltà del Lazio che Romolo trova al
suo arrivo e per primo decide di adottare come lingua dell’élite (come tutti
sanno, al momento di morire si parla la propria lingua, perché è il momento in
cui non si può fingere, e Cesare parlò greco, dicendo “Anche tu, Bruto, figlio
mio!”), perché il greco è la lingua internazionale e Greci sono i suoi
interlocutori preferiti cui sono rivolti i poemi al fine di sottolineare la
comunanza culturale, al fine di creare una civiltà globalizzata di cui Roma sia
il faro, al fine di dissuadere i Greci dalla pirateria barbarica (specie dopo
che Roma ha tolto agli Euboico-calcidesi
il monopolio del porto di Pyrgi) in nome della
Civiltà, e perché i Greci vengano ad investire i loro capitali nel
Lazio. Ma questa celebrazione di Roma viene fatta senza arroganza, in
sottofondo, e al contrario i poemi sono la celebrazione della grandezza passata
della Grecia che si riallacciava alle attuali colonizzazioni dell’Asia Minore
con gli Achei della Troade ad aprire la pista. In ciò c’è una sovrastima della
grandezza della Grecia, in realtà inferiore a Roma (basti vedere la situazione in
cui vive il contemporaneo Esiodo che pure vive vicino alla parte più florida
della Grecia; e c’è una sovrastima anche nella “grandezza” passata di un popolo
che era stato, coi Danai/Achei, un barbaro distruttore di città fiorenti e
civili e massacratore di popolazioni innocenti) e una sottostima della reale
grandezza di Roma e del mondo etrusco che ruotava intorno a Roma. C’è un secondo motivo non meno importante, e
cioè che da poco Tullo Ostilio ha distrutto Alba Longa e vuole riappacificarsi
con questa nazione che vantava, giustamente, origini greche,
filisteo-pelasgiche e troiane allo stesso tempo. Ebbene, il matrimonio fra il
troiano/romano Paride e la greca/albana Elena, nonché il rappacificamento
finale fra il greco/albano Achille e il troiano/romano Priamo aprono e chiudono
il messaggio di unità fra Romani da una parte e Albani e Greci dall’altra. E
ancora una volta sono i Greci, sono gli Albani a vedersi celebrati come
vincitori, mentre risultano nella realtà gli sconfitti.
Il cratere ceretano di Aristonothos, del 675 circa, è la rappresentazione
visiva di questo messaggio (che Omero mette in versi) che paragona la barbarie
di Polifemo (uccisore dei supplici e stranieri che gli chiedono protezione e sostegno) accecato da Odisseo e
compagni, su un lato, alla guerra navale commerciale (definita dai Greci
pirateria, ma erano loro inizialmente a fare guerra di corsa contro i navigli
dei Tirreni, cioè gli Erusco-Romani, anche nelle stesse acque dei Tirreni, di
cui avevano già precluso la via al Mar Nero), sull’altro lato, che si svolgeva
nel mare antistante l’emporio di Pyrgi soprattutto fra Euboico-Calcidesi ed
Etrusco-Romani. Poiché Omero nel Viaggio d’Odisseo celebra il santuario di
Ino-Leucothea pirgense, regnante Numa
Pompilio, non è da escludere che il passaggio dell’emporio sotto controllo
tarquiniate (qui risiedeva stabilmente dal 657 Demarato corinzio, grande uomo
d’affari e padre del futuro re Tarquinio I, ma già prima vi era considerato
un’autorità e dunque possiamo immaginare che diciotto anni prima abbia potuto
commissionare il Viaggio d’Odisseo con l’episodio di Polifemo e palesi accenni
antieuboici; ma ora preferisco mettere in secondo piano questa ipotesi meno
probabile e le antepongo quella di Numa Pompilio, che pone sotto il patrocinio di
Roma, insieme al successore Tullo Ostilio, i poemi omerici nella loro
globalità), e poi ceretano, sia avvenuto dopo una battaglia navale di cui le
cronache etrusche potrebbero un giorno
darci notizia. Essendo Pyrgi città
emporica che dava spazio a tante rappresentanze commerciali, poteva darne e
certamente ne diede anche a Roma. Mi basta dunque sottolineare l’interesse di
Roma per questo emporio e il sostegno che certamente diede quanto meno
finanziario, per il successo dell’impresa, condotta materialmente dagli
Etruschi, ma non escluderei anche dai Romani (penso alle implicazioni della
Stele di Lemno su cui ho scritto anche nel lavoro precedente su questo sito).
Numa Pompilio fu dipinto come re religioso e probabilmente doveva passare sotto
silenzio dalla storiografia romana il fatto che avesse anche solo finanziato
un’impresa militare.
Il greco parlato da Omero appartiene dunque al più antico dialetto greco
attestato, il filisteo-pelasgico. Abbiamo dunque due monumenti della civiltà
linguistica filistea, l’Apoteosi di Radamanto della metà del XIV secolo e i
poemi omerici che coprono il secondo e terzo quarto del VII secolo. Il dialetto
cui appartengono va definito sostanzialmente come Ionico, una cui variante è
l’arcado-cipriota (miceneo). Omero non ignora l’esistenza dei Dori perché li
cita come popolo dell’isola di Creta. Il fatto che non entrino nell’economia
dei poemi è ovvio. Mentre i poemi ruotano intorno alla guerra di Troia (cioè
più esattamente alla battaglia di Afèq e alla distruzione del QG danao di Silo
da cui venne asportata l’arca) cioè alla fine del mondo antico, i Dori vengono
dopo e rappresentano l’attualità. Per quanto Omero abbia certo tentato di
ricostruire un passato così lontano cercando di non incorrere in anacronismi
(del tipo far portare l’orologio alle sue comparse) sono convinto che non dovette fare nessuno
sforzo per eliminare i Dori dalla scena in quanto non facevano parte della
tradizione giunta nel Lazio prima o nello stesso tempo in cui essi comparivano
in Grecia. Omero, Omar, etrusco Umar, è
il nome datogli da sua madre nobile giudea discendente da Romolo o comunque da
uno dei compagni della sua straordinaria
avventura umana (facilmente definibile
anche come etrusca). Nacque
probabilmente ad Alba Longa da padre di discendenza filistea di Alba Longa.
Poiché la guerra di Troia era divenuta il simbolo della catastrofe fra i due
mondi con Enea troiano eppur greco (Dionisio d’Alicarnasso) considerato
capostipite dei Latini, si perse di vista il
quadro complessivo della situazione. Dunque non fu invenzione greca quella secondo cui Romolo e Remo furono « condotti a
Gabii per imparare l’uso della scrittura e tutto ciò che solitamente devono
apprendere i fanciulli di nobili origini. » (Plutarco) o « furono inviati a Gabii… perché vi
ricevessero un’educazione di tipo greco… le lettere, la musica e l’uso delle
armi greche finché non divennero uomini. » (Dionisio d’Alicarnasso) Il recente
ritrovamento nella necropoli di Gabii (a Osteria dell’Osa) di una fiaschetta
della prima metà dell’VIII secolo con incise rozze lettere greche fa
riflettere. Che sia la prima attestazione dell’alfabeto greco? Ovviamente il
tutto va rielaborato, e significa solo che i primi aristocratici romani (e
prima di loro quelli laziali, sabini) andavano a Gabii e altri centri albani
dove potevano apprendere il greco e i canti epici o conviviali dagli aedi di
corte filistei e discendenti di filistei anteriori e posteriori ad Omero che era uno, il migliore, fra tanti.
Cicerone nelle Tuscolane ci dice che nelle Origini di Catone si legge che « i
convitati solevano nei banchetti cantare accompagnati dal flauto le virtù degli
uomini illustri », ciò che corrisponde all’omerico kléa andrôn. Gli
ambasciatori trovano Achille « che con
la cetra sonora si dilettava… cantava glorie d’eroi. » (IX, 18-189) Il latino
era rozzo ai tempi di Omero e continuava ad essere rozzo nel III secolo. I fini
pubblicitari erano inseguiti da Numa Pompilio e Tullo Ostilio che finanziarono
le opere di Omero e i fini pubblicitari continuavano ad essere inseguiti dai «
primi annalisti », che scrivevano in greco, e con gli stessi metodi epici e con
scarso o nullo interesse per la verità storica. Del resto la colonizzazione
greca dell’Italia arrivava fino alla Campania e dobbiamo ammettere la possibilità
che i Greci abbiano cercato di attestarsi in un primo momento anche più a nord
a controllo del Tevere. E infatti Pyrgi appare un emporio in gran parte e
dapprima in mano a Greci e la tradizione del “greco” Enea a Lavinio a sud del
Tevere completa la forcella greca a controllo di questo fiume. Dunque non a
caso Omero nel primissimo canto dell’Iliade da lui concepito, il XV, rievoca il
ratto delle Sabine (nella parte di greche – dunque filistee – indigene
arroccate sul Campidoglio) da parte dei Romani nella parte di troiani nuovi
arrivati dal mare. C’è stato poi chi,
come il poeta Similo, ha messo in
relazione Sabini e Celti al tempo della
presa del Campidoglio e l’ha attribuita ai Celti. Celti che in un primo tempo
ho associato ad Achille e altri achei come li raffigura Omero. E invece si tratta, oltre che dei Sabini, dei giganti
filistei. Il termine giganti non indicava la loro statura bensì la loro casta
guerriera, ma il passaggio alla grande statura è stato breve. Achille è un
gigante (in quanto figlio di una dea e di
un mortale), e anche Nausicàa è una gigantessa (perché figlia di Alcinoo e
Arète della casta dei giganti Feaci/Filistei) filistea. Secondo Omero i Feaci un tempo risiedevano
in Oriente, vicino ai Ciclopi (Od.
6,5ss; 7,321-324), ed erano imparentati coi Giganti. I Giganti della Palestina (Baruc, 3,26;
Genesi, 6,4: dove si capisce che il Diluvio è quello di Deucalione figlio di
Minosse, e cioè generato dall’eruzione del Thera, vista come una punizione
divina per i peccati dei Giganti, cf. Od. 7,58ss), come il gigante filisteo
Golia del tempo di Davide, sono gli eroi “dell’antichità, uomini famosi” figli degli dèi (elohim in ebraico) che si
univano alle figlie degli uomini. Cioè gli eroi dell’epopea omerica, Achille
figlio di Teti, Enea figlio di Afrodite, Odisseo che Calipso vorrebbe per
marito. Questo popolo di eroi e giganti è andato distrutto con l’eruzione del
Thera, e i loro brandelli sono confluiti nella tradizione dei superstiti della guerra di Troia (tanto achei
che troiani) che trovano una nuova patria ad occidente. La concezione è
identica a quella greca e infatti Golia era filisteo, cioè di origini greche.
Perìbea, figlia di Eurimèdonte re dei
Giganti, si unì a Posidone (divinità che identifico decisamente col filisteo
Dagan), generando Nausìtoo da cui discendono
Rexènore, padre di Arète, e Alcinoo.
I Feaci dunque sono Giganti, sono Filistei. Odisseo, incontrando Nausicàa, la paragona
per la sua altezza ad un fusto nuovo di palma (« Se dea sei tu, di quelli che
il cielo vasto possiedono, Artemide, certo, la figlia del massimo Zeus, per
bellezza e grandezza e figura mi sembri. Ma se tu sei mortale, di quelli che
vivono in terra… Mai cosa simile ho veduto con gli occhi, né uomo né donna: e
riverenza a guardarti mi vince. In Delo una volta, così, presso l’ara d’Apollo,
vidi levarsi un fusto nuovo di palma… » 6,150-163). La descrizione omerica vale
come quella di Achille, descritto grande e grosso per suggestione del fatto che
è un gigante in quanto figlio di una dea e di casta guerriera. Ma la genesi di
Achille è quella di un guerriero che in origine apparteneva alla tradizione
filistea attraverso Tetisheri dea oracolare dei Filistei/Feaci orientali e dei
Tursha/Tirreni altresì orientali al servizio dei faraoni a partire dalla XVII
dinastia tebana. I Feaci/Filistei
occidentali (da distinguere da quelli che prima vivevano in oriente, a Troia)
appartenevano alla casta degli eroi o giganti, figli degli dèi, e cioè degli
indeuropei filistei (Od. 7,201-206), e delle figlie degli uomini, cioè delle
cananee (la tradizione si sposta da
oriente a occidente). Se ci si fa caso,
la maledizione contro Cam che ha visto nudo il padre Noè si riversa contro suo
figlio Canaan che dunque verrà sottomesso dai discendenti di Sem e Giafet
(entrambi di razza bianca – semiti e indeuropei sono entrambi di razza bianca
– perché l’Antico Testamento ignora i gialli, meglio, fa finta di
ignorarli perché sono i Mongoli dell’élite di Khayan il Gran Khan degli
Hyksos). Ciò corrisponde alla supremazia dei figli “degli dèi” discendenti da
Seth (da cui discende Noè) sulle figlie “degli uomini” discendenti da Caino.
Dunque se è vero il contrario, e cioè che i Sabini e i Filistei erano già sul Campidoglio prima
dell’arrivo di Romolo coi suoi giudei, allora abbiamo una visione realistica di
una presenza greca sulle coste laziali anteriormente alla presa di possesso di
Romolo. Caduta nelle mani di Romolo l’area della futura Roma
(vedi il mio lavoro precedente su questo sito) i Greci rivali di Romolo saranno da questo
confinati ad Alba Longa che diverrà città greca. Ora, i Romani avevano bisogno
di una lingua per esprimersi con la popolazione indigena e a livello
internazionale e hanno subito optato per il greco. La cosa del resto era
scontata in quanto morta la prima generazione dei giudei nessuno avrebbe potuto
insegnare l’aramaico ai figli nati dalle mogli sabine ovvero filistee, e dunque
furono queste ad insegnare il greco ai
loro figli. Comunque certamente Romolo si pose il problema ed optò subito per
il greco e suo pronipote Tullo Ostilio
lo seguì in tutte le sue riforme, escludendo il semtico di Romolo e dei suoi
compagni. E la ragione è chiara. Se di una lingua straniera ci si doveva
servire per dare voce internazionale a Roma, questo era il greco della parte
sconfitta ma integrata nella popolazione romana e tanto più integrata in quanto
riscattata sul piano culturale
dedicandole non meno che ai Greci esterni i poemi omerici. Ma ancora coi re “etruschi” che erano
etruschi per modo di dire (Demarato,
padre del primo re “etrusco” Tarquinio I era corinzio e l’Etruria era sotto
influenza culturale greca), Roma ebbe cultura greca. E a maggior ragione dopo la cacciata dei re e
l’instaurazione della Repubblica. E a maggior ragione al tempo dello scontro
con Cartagine. Credo che da Omero, VII secolo, al III secolo con la guerra di
Taranto, 272 a. C., con l’arrivo a
Roma del primo autore latino, il greco Livio Andronico traduttore dell’Odissea
(e ancora due carmi del III secolo il carmen
Priami e il carmen Nelei
documentano un interesse particolare per il ciclo troiano e per il mito di
Neleo), vi siano quattro secoli in cui se il latino era, e doveva essere la
lingua ufficiale, pubblica, le aristocrazie devono già aver avuto, conservato,
familiarità col greco, almeno fino a non troppo tempo prima, altrimenti non si
sarebbero buttati con tanta facilità su una lingua straniera. Dopo l’impatto di
Roma con la Magna Grecia
il greco divenne accessibile (magari solo all’ascolto se non nel parlato) anche
agli strati più bassi della popolazione romana. Se all’aristocrazia romana non
fosse già stato familiare il greco vedo poco verosimile che di punto in bianco
gli annalisti romani si sarebbero messi a scrivere in greco dal III secolo
(Fabio Pittore combatté contro i Galli Insubri nel 225-222 a.C.): « La prima
manifestazione di storiografia romana, che segue immediatamente alla cronaca
degli Annales pontificum, è quella
dei cosiddetti « primi annalisti », anteriori a Catone o comunque non sensibili
al suo influsso. Costoro, che scrissero le loro opere in lingua greca, vollero
quasi continuare le cronache pontificali, elencando, anno per anno, le vicende
che si erano svolte a Roma. … L’uso della lingua greca, che veniva ritenuta la
lingua della cultura diffusa nel bacino del Mediterraneo (il latino rimaneva
circoscritto – dice Cicerone – suis
finibus, exiguis sane), ci mostra uno dei fini dell’annalistica: quello di
diffondere le idee di Roma, e, soprattutto, di giustificare la sua politica
espansionistica dopo la II
guerra punica. In ciò l’annalistica replicava alle tendenze di una storiografia
filocartaginese, in cui si distinse Filino di Agrigento (III sec. a. C.). A
quest’opera, ispirata soprattutto a criteri di pubblica utilità, si accinsero
personaggi per lo più assai in vista della vita politica romana, senatori e
magistrati, in gran parte personaggi di rilievo anche nelle vicende che
andavano narrando. Tipico dell’annalistica doveva essere il tono (quasi epico)
di esaltazione, il gusto del meraviglioso e del favoloso: tali caratteristiche
si ritroveranno, in parte, e con ben altra prospettiva, in Livio. La
partecipazione diretta agli avvenimenti più vicini a loro rendeva gli annalisti
assai poco credibili, per non parlare degli intenti propagandistici che spesso
falsavano la reale visione storica dei fatti. D’altronde, per le vicende più
lontane, ugualmente essi non erano attendibili: a supplire le lacune della loro
informazione, spesso, nelle loro opere, inserivano leggende e favole, come
Fabio Pittore, cui Polibio rinfaccia appunto la poca fede nel suo racconto,
contrastante con il prestigio del personaggio. » (Armando e Antonio Salvatore,
Storia della letteratura latina, Loffredo editore, Napoli, pp. 66-7) La verità
è che le aristocrazie ricordavano il greco come loro lingua di casta e
preferivano tornare ad usarlo, come lo usa Cesare in punto di morte. Com’è noto
il greco si diffuse come lingua della parte orientale dell’impero romano ma era
anche la lingua dell’élite nella parte occidentale. L’Iliade appare stesa in
una prima parte, seria e con una conclusione tragica (morte di Ettore) ma con
finale di riappacificazione fra l’uccisore Achille e il padre Priamo per
celebrare la fondazione di Roma. Successivamente viene aggiunta una parte
abbastanza comica laddove i duci Greci sono tutti malridotti dalla battaglia o
dove gli dei si azzuffano fra loro da una parte e dall’altra dello
schieramento. La mano può adesso attribuirsi sempre ad Omero. Solo la massa
avrebbe accolto con entusiasmo un poema comico, e la massa romana adorava
questo genere, ma doveva parlare greco per capire, e adesso sappiamo che
parlava o almeno comprendeva il greco, specie nell’area albana (oltre ai Greci
della Magna Grecia ecc.). Solo così si potrebbe comprendere la caricatura degli
eroi Greci, col fatto che i Latini stessi in gran parte si sentivano greci e
accettavano volentieri di ridere su se stessi. In questo caso anche l’Iliade
sarebbe, eccetto qualche libro interpolato (di cui ho detto) e qualche
interpolazione qua e là, praticamente tutta omerica. I Filistei/Pelasgi iniziarono nel Lazio una
civiltà greca, erede di quella filistea orientale, secoli prima della civiltà
greca e della fondazione della colonia di Ischia nel 775 a. C. da parte degli
euboico-calcidesi che vi acquistavano e lavoravano il ferro. I nobili guerrieri
filistei possedevano armi innovative di ferro. Il generale Sisara, sconfitto
dal “giudice” Debora, possedeva 900 carri ferrati (Giudici 4). Sarebbe curioso
che in età posteriore, un popolo a
oriente, e in contatto con gli Ittiti, e ricco come quello dei Filistei, si
privasse di questi mezzi bellici d’avanguardia. Non mi spiegherei altrimenti
perché i Filistei (quelli che finora ho sempre considerato Tirreni orientali e
poi Tirreni occidentali) viaggiavano alla ricerca del ferro fino al Mar Nero e
poi non lo avrebbero impiegato in guerra, visti oltretutto i loro successi
militari per tutto il periodo del cosiddetto regno unitario di Israele. I
Filistei occidentali si trasferirono sulle coste laziali, a Pyrgi, a nord del
Tevere, perché a Occidente nel frattempo s’era spostato l’asse dell’economia e
della storia, che ruotava intorno al ferro dell’Etruria anche laziale, della
Sardegna e della Spagna, e ciò anche se quanto ad armatura i nobili filistei
preferissero cavallerescamente il bronzo: Il “gigante” Golia possiede armi di
bronzo e a Pyrgi filistea, Eurialo, per
farsi perdonare dell’offesa recata a Odisseo, gli regala una spada di bronzo
(8,403). La battaglia di Afèq (1050 a. C.) segna la fine di
un’epoca e cioè la fine dei guerrieri omerici che si spostano col carro armati
di bronzo e l’inizio dei guerrieri moderni che si sposteranno a cavallo armati
di ferro, anche se ciò non avverrà dappertutto subito. Oswyn Murray colloca
intorno al 1050 il momento di passaggio dal bronzo al ferro nell’impiego
quotidiano (La Grecia
delle origini, Il Mulino, 1996, p. 24). L’aristocrazia per lungo tempo continuò
a preferire armature di bronzo per un conservatorismo cavalleresco, ma
l’Odissea inizia con l’arrivo alla corte di Telemaco di Atena sotto le spoglie
di Mente re dei vicini Tafi che di
ritorno dalla stessa Pyrgi, dove ha caricato ferro, è diretto a Cipro per
scambiarlo con bronzo. Le risultanze archeologiche confermano che le
importazioni dall’emporio di Al Mina sull’Oronte (dove fianco a fianco
operavano Fenici Ciprioti ed Euboici),
sono di ferro grezzo per armature, manufatti metallici, tessuti, oggetti in
avorio, monili preziosi, dunque beni di
lusso richiesti dalle aristocrazie. L’adozione dell’alfabeto greco da quello
fenicio è avvenuta secondo Erodoto in ambito beotico-euboico (V, 58-61), dove
più tardi operò Esiodo, probabilmente per la via di Al Mina come propone Murray
(pp. 120-123). Ora da Al Mina partiva la
navigazione commerciale che arrivava fino a Ischia, la più antica colonia greca
(euboico-calcidese) a occidente, fondata nel 775 primariamente per l’acquisto e
la lavorazione del ferro, vicina a Pyrgi, antico scalo ugualmente degli
Euboico-Calcidesi (prima che verso il 675 passasse nelle mani dei Romani o
degli Etrusco-Romani) secondo quanto ho
ricavato dai poemi omerici e già scritto altrove. Dunque l’una e l’altra ipotesi (di Erodoto e Murray)
mi vanno bene per dimostrare che, se a Pyrgi la scrittura alfabetica non arrivò
anche prima (e indipendentemente da questi due centri di diffusione), dai
traffici dei Filistei e dei Fenici, vi arrivò subito dopo la sua adozione da
parte degli Euboico-Calcidesi. Ma qui devo subito affermare che, per quel che
mi consta, non solo la scrittura alfabetica in assoluto è attestata per la
prima volta proprio nel Lazio (e non in Grecia o ad Al Mina, a parte ovviamente
la scrittura fenicia che però non è puramente alfabetica e comunque non ci
interessa), ma anche indipendentemente dall’ambito beotico-euboico e di Al
Mina il che potrebbe chiamare in
causa origini filistee (i Filistei già
stanziati in Italia e in contatto con quelli della Filistea avrebbero
indipendentemente acquisito la scrittura
dai Fenici nel Levante o sulle coste
laziali) anteriori alla colonizzazione greca. Si tratta di un vaso con
iscrizione di cinque lettere che trascrivono un nome etrusco o italico trovato
in una tomba (482) muliebre del 770
a.C. a Osteria dell’Osa nel Lazio (Murray p. 13). Se
subito dopo ci mettiamo l’iscrizione sulla “coppa di Nestore” a Ischia, di
circa cinquant’anni dopo, ne deriva che la civiltà greca sboccia prima di tutto
in Italia e da qui si diffonde attraverso i traffici marittimi verso la Grecia. Si cita la
“coppa di Nestore” per dimostrare che i
poemi omerici, scritti in Grecia (cosa
che io per primo ho messo in discussione),
da qui sono subito diventati un best seller letto perfino nella lontana
Italia. Ma Joachim Latacz s’è soffermato parecchio sulla testualità, affermando
che « Si arriva alla testualità solo con un istituzionalizzato impiego del
testo a fini conservativi: con la registrazione e la tesaurizzazione di dati,
eventi, conoscenze, azioni, ecc. in forma di registri, catasti, elenchi,
raccolte di leggi, cronache e così via. Perché si possa capire, volere e
raggiungere questo grado di alfabetizzazione, occorre in ambito psicologico
«una volontà di ricordare» che si concretizza in un’«attività di raccolta e
conservazione» [Wimmel 1981, 6,9] » (Omero, Laterza, p. 17). Mentre Roma
combacia perfettamente con questo quadro fin dall’età regia, la
Grecia è da questo punto di vista un deserto: « Per
tutta l’età arcaica e gli inizi dell’età classica, interi settori della vita
pubblica e privata rimasero estranei all’influsso dell’alfabetizzazione: per
esempio, si deliberava per mezzo di dibattiti pubblici, e senza l’aiuto della
scrittura: la deliberazione finale non fu regolarmente registrata in forma
scritta fino alla metà del V secolo. » (Murray, p. 127) Nel Lazio c’è il buon
vino dei Castelli Romani e il popolo ama da sempre bere nelle osterie e in
occasione delle varie sagre paesane, tanto che Fenice lo da a bere ad Achille (« E tu spesso la tunica mi
bagnasti sul petto, risputandolo, il vino, nell’infanzia difficile! » 9,490-1)
E ci credo che così l’infanzia è difficile! Chissà quanti Nestore, vecchi
sputasentenze, forti solo a chiacchiere e a bere, ci saranno stati nelle locande di tutto il
Lazio da cui la locanda pitecusana ha
preso il suggerimento (l’acqua fa mal il vin fa cantar, si legge sulle tazze da
vino in Friuli; la “coppa di Nestore” fa il paio con queste cose: “Vada alla
malora la coppa di Nestore, anche se ci bevi bene! Chi a questa coppa beve,
presto lo coglierà desiderio di Afrodite dalla bella corona”). Nemmeno è da
escludere che Nestore sia il locandiere rivale dell’autore di questi versi. I
personaggi dei poemi omerici sono in gran parte
presi dalla strada e certo già personaggi tipici delle cantate popolari
dei predecessori di Omero di tradizione filistea in Italia. Comunque, alla luce
di questi sviluppi della mia ricerca è evidente che le tradizioni sulle guerre
palestinesi pervennero a Omero tramite scritti poetici cavallereschi filistei e
aramaici, e dunque è possibilissimo che Omero abbia rielaborato questo
materiale adattandolo alla sua “guerra di Troia”. Da qui deriverebbe
quell’eterogeneità di tempi e tecniche di guerra mentre i poemi omerici furono
opera di un solo autore. Forse Omero leggeva ancora testi scritti nella
pittografica filistea, purtroppo su materiale deperibile (nel 1050 a. C. l’Egitto esporta
a Biblo, per la missione del sacerdote di Amon-Ra Unamon, fra le altre cose, «
dieci pacchi di buon lino dell’Alto Egitto, cinquecento rotoli di papiro di
buona qualità, cinquecento pelli di bove » Edda Bresciani, Letteratura e poesia
dell’Antico Egitto, Einaudi tascabili, p. 602) e li trascriveva in scrittura
alfabetica su materiale analogo. Che si possano rinvenire prima o poi nel Lazio
stesso documenti su argilla cotta o altro materiale resistente in scrittura
pittografica filistea? Dunque, fermo restando che sempre di lingua greca si tratta, la civiltà greca ha
il suo primo cantore in Esiodo, la civiltà filistea il suo ultimo cantore in Omero. Ma poiché la
civiltà di Omero è stata adottata anche dalla Grecia, occorre dire che Omero è
il più antico autore greco di tutti i tempi e la civiltà greca è nata in Italia
(per diretta filiazione dalla civiltà filisteo-pelasgica occidentale) prima che
in Grecia. E’ difficile che nell’età in cui i filistei erano stanziati nel
Lazio potessero aver noie dai Fenici, ma poi erano scesi dai monti i Sabini a
controllare il guado del Tevere e dunque erano gli indigeni a mantenere il
controllo del territorio, fino all’arrivo del signore della guerra Romolo
che fondò Roma e divenne in brevissimo tempo il signore
del Lazio. I greci furono respinti in aree marginali come Alba Longa, ma la
cultura greca divenne patrimonio dell’aristocrazia romana per lungo tempo fino
a ricongiungersi con la conquista della Magna Grecia.
Dopo il “ritorno dall’esilio”, per volontà dei persiani, il culto
introdotto a Gerusalemme fu quello
yahweista, estremista, egoista e razzista. Basti vedere il comportamento
disumano di Ezra e Neemia, che imposero lo scioglimento dei matrimoni misti,
fra ebrei e straniere: « Tutti questi avevano sposato donne straniere e
rimandarono le donne insieme con i figli avuti da esse. » (Ezra 10,44). Questo
clero yahweista non poteva avere nulla a che fare con Sadoq, il sommo sacerdote
di Davide che venerava Allāh. Del resto, con l’arrivo al potere dei
Maccabei, probabilmente esistevano « i presupposti di fondo per il successivo
esodo di un gruppo sadocita, che – col concorso di altri dissidenti – darà
origine alla comunità di Qumran. » (Johann Maier, Il giudaismo del secondo
tempio, Paideia Ed., 1991, p. 194) Se così fosse, a maggior ragione, questo
“clero sadocita” non aveva nulla a che
fare con Sadoq, perché quella del deserto
di Qumran è una comunità di esaltati manichei
yahweisti, e il falso profeta egiziano s’era rifugiato qui coi suoi 4000
dopo la disfatta dell’assalto a Gerusalemme dal Monte degli Ulivi (« Sul punto
di esser condotto nella fortezza, Paolo disse al tribuno: «Posso dirti una
parola?» «Conosci il greco? – disse
quello – Allora non sei quell’Egiziano che in questi ultimi tempi ha sobillato
e condotto nel deserto i quattromila ribelli?» » Atti, 21,37-38). Dunque il
falso profeta egiziano veniva dalla comunità di Alessandria, che parlava greco
e aveva redatto la versione greca dell’Antico Testamento. Le fonti
filisteo-cananee di Genesi riguardavano certamente l’impero universale – il primo di cui si sente parlare nella storia
– dato da Allāh ad
Abramo/Khayan, il Gran khān dei nomadi della steppa mongola. Genesi riscritta dai yahweisti vuol fare
degli Ebrei una razza semitica a sé. Anche i libri successivi che narravano la
controffensiva filisteo-cananea fino alla vittoria finale furono riscritti dai
yahweisti diventando l’epopea di una mai avvenuta conquista
della Palestina da parte loro (e nemmeno da parte dei Danai). La Torah
esistente, che è quella di Ezra, «
dovette soggiacere alle riforme avviate sotto Ezra/Neemia, così come non è da
escludere che abbia effettivamente un qualche fondamento storico la tradizione
farisaico-rabbinica che con la sua «Torah orale» si richiama a Ezra come ad un
secondo Mosè. La più tarda tradizione giudaica associò infatti Ezra
essenzialmente a due iniziative: al ripristino dei ventiquattro scritti
biblici, che erano andati bruciati nella distruzione del tempio, ed alla
fondazione delle tradizioni extra-bibliche (4 Ezra 14); inoltre, le
disposizioni ascritte agli «uomini della grande sinagoga» (Neem. 8-10) erano
riguardate come il fondamento dell’ordinamento rabbinico. » (Maier, p. 66) Dunque i yahweisti ebbero mano libera
per rivedere e ritoccare come vollero, e in successive occasioni, gli originali
testi sacri del Primo Tempio di Gerusalemme. E alla loro “conquista”, i
yahweisti, senza alcun pudore, aggiunsero
quelle più antiche dell’Hyksos Abramo/Khayan.
E non gli bastò, perché, già che ci stavano, perché non rivendicare una
genealogia fino a Noè (peccato che il suo diluvio era quella causato
dall’eruzione del Thera che, secoli dopo Khayan, aveva alla fine provocato
l’Esodo… dei popoli del mare e dei Danai), anzi fino ad Adamo? Il Secondo
Tempio fu distrutto soprattutto a causa dei yahweisti del nord guidati dai
sessualmente invertiti falso profeta egiziano (il Gesù dei vangeli), Simone di
Ghiora e Giovanni di Giscala coi loro zeloti e sicari. Sia la tradizione
rabbinico-farisaica che quella cristiana attuali sono figlie del
yahweismo. E’ evidente che, devastata
la civiltà cananea, integratasi la
civiltà filistea in quella locale, ebraica, con la sua damnatio memoriae ad opera del clero yahweista del Secondo Tempio
(e probabilmente già dal X-IX secolo anche del Primo Tempio) e delle sue
filiazioni, scomparve quasi perfino il ricordo dei Filistei, i nemici storici
degli Ebrei. Se per caso ebrei e filistei
odierni si sentissero, e magari forse si sentono, di perpetuare l’antica
presunta rivalità, leggendo questo mio lavoro e magari verificando se ho
ragione con studi e ricerche proprie,
capiranno che fondamentalmente
sbagliano. Loro combatterono fianco a fianco dalla stessa parte contro i
Danai e il loro Yahweh signore della guerra portatori di morte. I Danai erano
il nemico che essi insieme vinsero, anche se poi vinse Yahweh, ma solo per
colpa degli esaltati e intrallazzatori
sacerdoti e profeti yahweisti e dei furbi Persiani, che ne sanno sempre una più
del diavolo. La religione è, sempre,
tutta falsa (lascio in sospeso il giudizio su quella di Maometto), ma contro
gli sciocchi uomini può essere un’arma peggiore della bomba nucleare, e questo
i Persiani, di ieri come di oggi (attento Bush!), lo sanno.
I Filistei di Troia e altrove portarono Dagon nel Lazio intorno all’XI
secolo se non prima e qui resistette
fino a che il signore della guerra giudeo
Romolo (ancora era in piedi a Gerusalemme il Primo Tempio) fondò Roma, e
quattro anni dopo celebrò questo evento con giochi, e in particolare con corse
di carri (perché il cavallo è sacro a Dagon/Posidone) da tenersi ogni secolo a
venire. Romolo non era certamente un letterato come tutti i capitani di
ventura, né uno storico, ma sapeva distinguere fra bene e male, e scelse il
greco, dei filistei. Romolo incentrò questi giochi solenni intorno al culto di
Dagon, un cui altare era sotterrato alla metà del Circo Massimo. Più tardi i
Romani lo chiamarono Conso, dio del
grano come lo era Dagon, derivandolo da
Consualia, le feste secolari per la celebrazione della “Fondazione” di Roma.
Nelle corse dei cavalli in onore del defunto Patroclo c’è una contestazione, e Menelao impone ad
Antiloco un giuramento: « Vieni qui, Antìloco, alunno di Zeus – questo è l’uso
– dritto davanto al carro e ai cavalli, e la frusta flessibile prendi in mano,
quella con cui guidavi, e toccando i cavalli, per Ennosìgeo (Posidone/Dagon)
scuotitore della terra giura che non impedisti il mio carro volutamente e con
dolo. » (23,581-5) Dagon, ovvero Posidone, è stato adottato come sommo dio
degli etrusco-romani. Egli infatti è Proteo omerico e Vertumno. Con la cacciata
dei re etruschi da Roma e poi con la scomparsa della civiltà etrusca Dagon è morto definitivamente, in Occidente.
Dovunque regnava Dagon i cristiani yahweisti ci si sono imposti distruggendone
i templi, prima a Gerusalemme, dove si sono installati abusivamente insieme
agli ebrei, poi a Roma dove c’è il Vaticano. Come Caino (o, dovremmo dire, il
rompiscatole nomade Abele), come Remo, come l’Antinoo, l’Oppositore di
Odisseo/Romolo. Alla fine dovrà sloggiare da un luogo da lui solamente
profanato (insieme a tanti altri luoghi) grazie all’ignoranza degli uomini.
Fin da
Genesi non mi piace Yahweh, col suo gelido occhio da Polifemo che pare quello
di una telecamera nascosta pronta a cogliere in fallo l’automobilista
indisciplinato o l’operaio che non lavora abbastanza, che comunque
viola la libertà di movimento dell’individuo e perfino la sua coscienza. Non mi
piace la sua falsa infallibilità, che pare quella spiccicata del Papa, che
anche quando ha ordinato di massacrare gente inerme per procurare un Lebensraum
alla sua orda di sacerdoti-guerrieri, e l’ordine è stato eseguito dai suoi
yahweisti invasati, non prova rimorso, perché lui non sbaglia mai. E’ gelido e
freddo calcolatore, dio della morte e della guerra. Amo invece il serpente del
giardino dell’Eden, perché suscita nell’uomo il dubbio e l’amore, fisico. Il
dubbio è l’anima di una mente pensante: Cogito ergo sum, dice il filosofo
Cartesio. Là dove la mente è gelida e il sangue non scorre, là c’è Yahweh con
la sua morte e non vi potrà mai essere umanità. Là ci sarà la peggiore
dittatura. Il dio Dagon, il Serpente, il Dragone Tifone che il sacerdozio di
Yahweh crede di condannare relegandolo a custode del giardino del Paradiso,
mantiene tutta la sua signoria originaria, perché di quel Paradiso era il dio
originario. Un dio intelligente, prima di tutto, e dell’amore, in quanto è con
la mela che Eva seduce Adamo, e poi nascono dei figli. Senza la mela e il
Serpente, Adamo ed Eva sarebbero rimasti nel Giardino come due pupazzi a far da
tappezzeria per il piacere dell’asessuato e invertito Yahweh.
Sono quasi due millenni e mezzo che l’ideologia del Male Assoluto domina
larga parte dell’umanità e, grazie a pochi paesi, praticamente tutta la Terra. La politica folle
degli USA di abbattere gli Stati sovrani laici (seppure di religione islamica)
mediorientali, membri dell’ONU, mira a creare il pericolo islamico per poi
avere la scusa di abbattere questo pericolo islamico e così conquistare il
mondo. Io non credo in Yhaweh perché so benissimo che si tratta di un dio da
barzelletta e un dio così non può esistere. Ma un filo rosso di Arianna nel
Labirinto della storia umana c’è, che unisce il passato più remoto al presente
attuale. Genesi apre la Bibbia
e Apocalisse la chiude. Anche in Apocalisse torna il Dragone, per
l’appuntamento dello scontro finale, e io con tutto il cuore spero che tutto il
male profetizzato da quel falso porofeta che non è altro di Giovanni di Giscala
ricada sui maledetti yahweisti cristiani. Il Dragone è il simbolo della
riscossa di coloro che a suo tempo persero, perché era l’insegna dei soldati
romano-germanici alla fine dell’impero distrutto dai cristiani, dunque, oggi,
l’insegna di tutti i popoli e stati laici. E’ l’insegna anche di tutti coloro
che sono stati martirizzati dai cristiani e dagli stati cristiani USA (per me la Babilonia di Apocalisse)
in testa. E’ l’insegna della Cina (e Russia e Cina sono alleate e fanno le
manovre militari congiunte), e dei Turchi,
mongoli venuti dalle steppe dell’Asia centrale come Abramo, adoratori
del cielo che scopa la steppa. E dietro alla Turchia moderna, paese laico (chissà
ancora per quanto) guidato da un partito islamico si celano forse Gog e Magog di Apocalisse. Per essere
precisi Ezechiele dice che « Gog nel paese di Magog è principe capo di Mesech e
Tubal » (38,2), dunque le parole chiave sono Mesech e Tubal, che nella “tavola
dei popoli” di Mario Liverani, Oltre la Bibbia, sono collocati a
nord e sud in Turchia. Sarà vero, non sarà vero. Ai cristiani sperimentarlo, se
credono di portare fino in fondo la loro crociata finale, per loro.
Profezie dei pazzi cristiani a parte, c’è un motivo fondamentale che mi
induce a prevedere la vittoria finale
degli islamici, che erediteranno la Terra. Come storico mi sono interessato anche
alla filosofia, che da una parte si identifica con la scienza e ne viene
abbondantemente superata, dall’altra di occupa della serenità dell’animo. Da
questo punto di vista la filosofia migliore, per me, è quella degli epicurei e
materialisti, che negano dio. Detesto i miracoli perché non amo che la mia vita
o qualsiasi cosa io desideri stia in mano ad un altro. Non mi piace vivere con
quel sentimento di vita sospesa poi regolarmente deluso perché dio non
interviene. Del resto i miracoli di Yahweh e di suo figlio Gesù e di tutta la
cricca di impostori cristiani, oltre ad essere solo truffa, sono la prova che
questo dio non è onnisciente perché ogni tanto è costretto a correggere coi
miracoli la sua sistemazione del mondo. E se non è onnisciente non è nemmeno
onnipotente. Non sono islamico, ma mi immagino dalla fede che gli islamici
hanno in Allāh, che questo dio abbia talmente bene regolato la vita degli
uomini da non aver bisogno di fare miracoli, cioè di intervenire modificandolo
l’ordine che ha dato a tutto fin dall’inizio. L’islamico è consapevole davvero
che il suo dio è perfetto e non gli chiede nulla perché sa già che quel che è
stato concesso lo è stato dall’inizio dei tempi. Da questo punto di vista la
visuale mia come ateo e di un islamico hanno gli stessi effetti: la serenità
assoluta dell’animo. Allora, datosi che non esiste dio o questo è Allāh, l’individuo si
concentra solo su ciò che vuole e desidera con maggiore fiducia in se stesso e
con molta maggiore probabilità di raggiungerlo. In più gli islamici hanno un vero Paradiso che
li attende, pieno di meravigliose e giovani donne, mentre ai cristiani (oltre all’Inferno in terra) rimane un noiosissimo Inferno di là, dove
sono costretti ad ascoltare all’infinito i concerti degli Angeli come il
Papa è costretto a sorbirsi quelli degli uomini. No, grazie, odio i
concerti e affini. Se mi sarà concesso vivere in un
III millennio da laico, bene, altrimenti, che vinca il Dragone! In
sh’Allāh.
Fine
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