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 Roma fondazione giudea

(di mercenari ambientati in Egitto)

MGCorsini. 21 agosto 2007. Tutti i diritti riservati.

 

 

Quando una decina d’anni fa scoprii che il nucleo più antico dell’Odissea, il Viaggio d’Odisseo, fu commissionato ad Omero per celebrare il santuario di Ino Leucothea a Pyrgi ero consapevole di aver fatto una grande scoperta, che consentiva finalmente di gettare luce su Omero e l’ambiente in cui scrisse, ma non immaginavo quanto lontano quella scoperta mi avrebbe portato. A distanza di tempo ancora emergono nuovi dettagli ad arricchire la messe del raccolto. Devo certamente dire grazie per questa intuizione, in gran parte,  alle fotocopie di un libricino sugli scavi di Pyrgi che Francesco De Marco (specialista nel ricostruire le regole e i giochi antichi scoperti nei diversi scavi archeologici), che sapeva dei miei studi,  con preveggenza  mi donò  ben sapendo che mi sarebbero state utili. Quello che segue è un riesame ed un approfondimento dei miei lavori su Omero e i poemi omerici, Romolo e la fondazione di Roma, la questione dei “Pelasgi”, il Cippo del Foro, la Stele di Lemno, ecc. successivo alla lettura di diversi libri nuovi e alla rilettura di altri. Per il resto rimando ai miei precedenti lavori sui miei siti.

In sintesi credo adesso che tre stratificazioni culturali abbiano dato vita a Roma. Quella incineratrice celto-germanica dei re e sacerdoti sabini del Campidoglio e Quirinale, quella linguistica dei prospettori minerari e metallurgi di Lemno, Imbro e Samotracia dell’altare di Efesto nel Foro, ancora sacerdoti, e quella politica e istituzionale dei guerrieri giudei e beniaminiti di Romolo, fondatore di Roma (Rumah, collina) sul Palatino. Dietro alle ultime due stratificazioni c’è, più che altro culturalmente, l’Egitto dalla  XVII dinastia tebana alla XXII libica. Roma è la più antica e importante città etrusca ed altre importanti e antiche città etrusche sono nel Lazio. E’ qui, nel Lazio, il cuore della civiltà etrusca, anche dove non ne viene parlata la lingua.

« Quando non vanno in guerra, trascorrono il tempo più nell’ozio che nella caccia, occupati a dormire e a mangiare, mentre i più forti e i più bellicosi se ne stanno senza far nulla… se ne stanno in ozio per uno strano contrasto della natura, questi uomini che amano l’inerzia e nello stesso tempo odiano tanto la pace. » (Tacito, La Germania, 15,1) Bastano queste poche righe di Tacito per rievocare  la corte olimpica di Omero e la civiltà degli Achei celto-germani (per me si tratta fondamentalmente della stessa civiltà potendosi distinguere solo la lingua, celtica o germanica) nonché quella dei Sabini del Lazio. Ma fra Cere e Lavinio, a Roma soprattutto, accade un miracolo per cui, con questa civiltà di fondo, prima si fonde o s’è già fusa o è la medesima cosa, una componente che non è molto distante culturalmente, quella lemnio-tracia (a ben vedere si tratta sempre di celto-germani che parlano lemnio, cioè una lingua da cui deriva l’etrusco), e poi soprattutto si fonde perfettamente una componente semitica (giudea, cioè israelitica del sud) che la rende altamente civilizzata e all’avanguardia. Sarà poi Omero, nella sua lingua paterna, ad esprimere (per i Greci, cui era diretta la propaganda romana di Numa Pompilio e Tullo Ostilio discendente di Romolo) tutta la raffinatezza cui questa civiltà poteva arrivare già alla metà del VII secolo da Pyrgi e Lavinio di Numa del Viaggio d’Odisseo intorno al 675, alla Roma Tulliana della guerra fra Romani e Sabini (dell’inganno a Zeus – i versi omerici più alti si trovano proprio qui, da 159 a 354 –  e del contrattacco alle navi, libri XIV e XV dell’Iliade) del centenario del 649 (poi rielaborata dallo stesso Omero nell’Ira d’Achille), nonché della seconda parte dell’Odissea qualche anno più tardi. 

Prima di tutto dobbiamo mettere bene in risalto quell’officina gentium  che fu  il quadrante nord-occidentale dell’ecumene (penso soprattutto alla penisola dello Jutland con riferimento al culto della dea Nerthus/Nortia di cui riparleremo in relazione a due luoghi di culto strettamente legati fra loro, quelli di Artemide Taurica in Crimea e di Diana Nemorense nei Castelli Romani), abitato secondo Erodoto dai Celti (chiamati a volte Iperborei e confusi anche coi Germani e altri popoli slavi ad oriente, come gli Sciti, con cui condividevano usi e costumi, come quello di tagliare le teste dei nemici uccisi e attaccarle al collo dei propri cavalli) a nord del Danubio e delle Alpi, dalle regioni atlantiche  di Spagna e Gallia fino alle coste settentrionali del Mar Nero (cf. anche L. Braccesi, I Greci delle periferie, Editori Laterza, pp. 147-148).

L’ecumene di Erodoto (da Peretti, Il Periplo)

 

Leggo da I regni dei Celti di Myles Dillon e Nora K. Chadwick che  « Per due secoli » dice Grenier « essi (i Celti) furono il più grande popolo d’Europa… Attorno al 300 a.C. la potenza dei Celti raggiunse il culmine, e sembra inesauribile quanto a energia e potenziale umano. » (il Saggiatore, Alberto Mondatori Editore, 1a ed. 1968, p. 27; A. Grenier, Les Gaulois, pp.  99-100) Questa realtà io credo (con altri) si debba e si possa estendere indietro nel tempo fino al 2000 a.C. (questi autori, quanto al celtico come dialetto distinto, preferiscono « considerare come già celtico qualunque elemento sia possibile far risalire all’inizio del II millennio » op. cit. p. 22; v. p. 288; ma certo in questa valutazione deve giocare molto il parallelismo strabiliante sia linguistico che culturale con la più antica India indeuropea, ciò che anche per la primitiva civiltà romana è stato tentato da Dumézil, che in questo campo ha scritto una montagna di sciocchezze, seguito da Bloch). Io credo che a partire dal 2000 a. C. circa a questa parte dovunque troviamo diffuso il rito incineratorio là ci sono dei popoli di lingua indeuropea strettamente imparentati con i celto-germani dell’Europa centrale. Dunque  Latini, Umbri, Sabini, perfino gli Etruschi, hanno un fondo linguistico, più o meno evidente, imparentato col celto-germanico.

Le stesse vie carovaniere che percorrevano  l’Europa in lungo e in largo certamente almeno fin dal II millennio passavano per i  territori dei “barbari” ed erano da loro sottoposte ad un rigoroso controllo di polizia mercantile (terrestre, fluviale e marittima) perché ciascun signore e ciascun popolo indigeno  aveva tutto l’interesse affinché i  prodotti locali, in particolare l’ambra che proveniva dal Mare del Nord in un’area compresa fra lo Jutland e l’Estonia, giungessero di mano in mano ai consumatori del Mediterraneo, del Mar Nero e oltre, così come aveva  interesse ad approvvigionarsi di mercato in mercato dei prodotti di scambio meridionali che facevano il percorso in senso inverso.

Ci aiutano a comprendere questa realtà il racconto di Erodoto sulle offerte inviate da tempo immemorabile dagli Iperborei a Delo, offerte (probabilmente di ambra) che passano di mano in mano finché giungono a Delo (Tutto prese avvio da quando la dea Ilizia in persona giunse a Delo per aiutare Latona nel parto di Apollo e da quando poi gli Iperborei resero grazie a Ilizia del rapido parto: 4,35. E’ interessante notare che queste offerte « provenienti dagli Iperborei arrivano nelle mani degli Sciti e dagli Sciti via via passano di gente in gente fino a giungere nel lontanissimo occidente, fino all’Adriatico. Da qui vengono inviate verso sud: i primi Greci a riceverle sono quelli di Dodona » in Epiro, e da qui, di passaggio in passaggio arrivano a Delo: 4,33.  E’ poi difficile pensare che il santuario di Ilizia iperborea a Pyrgi fosse estraneo a questa tradizione. Forse era collegato  con il capolinea piceno (sulla sponda adriatica) della via dell’ambra.  Possiamo pensare a Novilara, e anche qui, la stele omonima dimostra nella lettura data da Braccesi che il signore del luogo scortava le navi che provenendo dallo snodo della laguna veneta  vi venivano a  scaricare e caricare merci perché era un suo preciso interesse  garantire il regolare svolgimento dei commerci contro la pirateria illirica. Ed è significativo che  nella vicina Verucchio sia attestato da Pausania, 5,12,5, un « Arìmnesto che regnò sui Tirreni, il quale, primo fra i barbari, offrì un ex voto allo Zeus di Olimpia », un trono, donato verisimilmente in ringraziamento di una vittoria sui pirati illirici (Braccesi, op. cit. pp. 115-116). Ancora un  passo di questo libro, citato dal De mirabilibus auscultationibus, mi convince che l’iniziativa dei commerci non è tanto degli stranieri che provengono dal sud per comprare, quanto degli indigeni iperborei che intendono esportare il surplus dei loro prodotti: « Narrano che dall’Italia fino alla Celtica, al paese dei Celto-liguri, e al paese degli Iberi, vi sia una strada cosiddetta ‘di Eracle’ lungo la quale gli indigeni vigilano affinché non sia recata offesa ai viaggiatori, siano essi greci o nativi. Subiscono, infatti, una condanna quanti compiono un’ingiustizia nel proprio territorio. » (85 = 837a) Il libro di Braccesi ricostruisce sulla base dei dati della tradizione la via degli Argonauti che via terra soprattutto, ma anche parzialmente via fiume, dalla Tracia europea  (percorso ricco di giacimenti argentiferi poi ricalcato via terra dalla romana via Egnazia), lungo la valle del Danubio, giungeva fino alle lagune venete e alla foce del Po e da questo snodo nevralgico si diramava, da una parte come via Eraclea, attraverso le valli del Po e del Rodano, arrivando fino a Marsiglia e poi fino a Tartesso e Gades (colonia di Tiro, al di là delle colonne di Eracle così dette dalle  due grandi colonne davanti al tempio di Melqart “Signore della città” per cui era riconoscibile a distanza dai marinai)   in Spagna (percorso poi ricalcato dalla via Domizia), e dall’altra giù per la penisola italica, passando gli Appennini e Cortona fino a Cere (cioè Pyrgi) e Roma nel Tirreno.

Nelle Argonautiche, che io ritengo di tradizione etrusco-romana, i Colchi del Mar Nero all’inseguimento di Medea giungono presso Alcinoo, ovviamente a Pyrgi, nel Lazio, dove io l’ho collocato da un decennio. Devo ora sostituire a questa interpretazione quella che ho elaborato di recente, in seguito a vari dubbi che avevo già avuto, e poi abbracciato grazie al   suggerimento decisivo – cioè che per qualche tempo Pyrgi sia stata porto di Roma, p. 254 –  datomi dalla lettura di Memorie del Mediterraneo, Preistoria e antichità, libro postumo sui manoscritti di Fernand Braudel, Tascabili Bompiani, 2° ed. 2005, e cioè che Omero sia volutamente vago sulla geografia di Pyrgi, che comunque è la città di Alcinoo. Grazie a Braudel sostengo ora che Omero faccia come una forcella fra Pyrgi a nord del Tevere e a sud di questo il santuario delle tredici are recentemente scoperto presso Lavinio (e presso il fiume Numico, Fosso di Pratica di Mare) che calza  perfettamente col culto dei dodici sovrani di Scheria su cui regna tredicesimo Alcinoo. Dunque è il Tevere (lo Xantos “Biondo”, il biondo Tevere, omerico dei primissimi canti omerici, gli attuali libri XIV: Romolo/Ettore colpito da un masso alla testa cade a terra e i Romani fuggono inseguiti dai Sabini e XV: Zeus – si risveglia dal sonno ingannatore di Era e secondo quanto promesso a Teti, ma questa è una riedizione omerica successiva  – comanda che Ettore/Romolo si rialzi e assistito da Apollo respinga i Sabini fino alla Regia e al tempio di Vesta, e il tutto si doveva concludere con l’intervento pacificatore delle Sabine e l’unione fra i due popoli firmata al Volcanal) di Roma,  il fiume sacro nelle cui acque Omero immagina che  Odisseo naufrago tocchi terra nel magico paese dei Feaci di Scheria, ed è infatti Roma che Omero celebra dapprima sotto Numa Pompilio il re pio – celebrando col Viaggio d’Odisseo il santuario iperboreo di Ilizia a Pyrgi porto di Roma prima che questa fondi Ostia –  e poi, sotto Tullo Ostilio il re ateo nipote di Romolo,  ad un secolo dalla fondazione, con un poema che originariamente – l’ho scoperto adesso grazie ad aver preso fin dall’inizio la giusta via interpretativa –  celebrava proprio la guerra fra Romani ultimamente arrivati e Sabini già stanziati sul Campidoglio e sul Quirinale. Ne riparlerò ampiamente in seguito). So bene che Apollonio Rodio fornisce altra ubicazione e altro percorso, ma io mi riferisco alla tradizione originaria, che deduco da Omero (che fu il primo a inventarsi    su solidi elementi storici travisati per comporre una favola divertente e piacevole soprattutto pei Greci cui era diretta – la guerra di Troia che altri si incaricarono di perfezionare per quel poco che era loro lasciato da inventare, ognuno portando il proprio contributo di dettaglio) e in particolare dal Viaggio d’Odisseo, che aveva cognizione delle navigazioni nel Mar Nero (probabilmente Omero deriva il suo mare “nebbioso” da questo mare dalle frequenti tempeste, sempre “avvolto in nebbie e nuvole”), dove appunto, nella Colchide, era collocata Circe. A me non interessa l’erudizione dei mitografi greci posteriori che rilessero a loro uso e consumo, applicandola a situazioni via via nuove e diverse, la tradizione originaria. Per me è Vangelo come lo era per Schliemann quanto racconta Omero,  mio compaesano (nato ai piedi di Monte Cavo da padre discendente dei greci dell’Aventino, da Romolo relegati ad Alba Longa, e da madre indigena, probabilmente etrusco-romana come sostenni all’inizio, perché gli elementi culturali  iperborei sono al fondo anche della civiltà etrusco-romana), il più antico testimone degli eventi di cui ci occupiamo, che poté ancora parlare con qualche sopravvissuto delle imprese di Romolo e comunque poté udir parlare delle sue imprese da una tradizione ancora vicinissima ai fatti. Se si pensa che Piero Angela poté intervistare l’ultimo soldato napoleonico si capirà meglio cosa intendo dire.

Ora è probabilissimo che il tragitto originario di questi Argonauti di ritorno dalla Colchide scendesse per la carovaniera “pelasgica”, ricostruita da Braccesi,  che dall’Alto Adriatico, lungo la penisola italiana, attraverso gli Appennini,  raggiungeva Pyrgi di Alcinoo. Lo deduco dal fatto che secondo Apollonio Rodio gli Argonauti passano per due volte presso i monti Cerauni della costa ex jugoslava (cioè visibilmente allungano il percorso facendo tutto l’Adriatico andata e ritorno fino al punto di partenza, allungando poi ancora il percorso per l’Eridano e il Rodano, scendendo per il Tirreno e giungendo a Corcira, ai monti Cerauni, attraverso lo stretto di Messina), mentre in origine dovevano incontrare i monti Cerauni del centro Italia. Rileggendo Dionisio d’Alicarnasso, « vicino ai monti Cerauni » c’è « Suesbula, sessanta stadi da Tribula », antichi centri occupati dagli Aborigeni nel territorio di Rieti (1,14,1-2). Dunque, passando presso questi monti Cerauni, si arriva alla costa laziale e a Pyrgi/Perge monte dei Tirreni. Non è chi non veda che i Colchi alla ricerca di Medea giunti fino alla corte di Alcinoo e rimasti ad abitare in amicizia nella sua terra corrispondono a popoli di navigatori e mercanti che avevano l’iniziativa del trasporto delle loro merci sulla via degli Argonauti. E’ evidente che il Lemnio della stele omonima, che si trova sulla via di queste correnti marinare poteva essere una via di mezzo fra la lingua degli Etruschi di Alcinoo e quella dei Colchi del Mar Nero con essi strettamente legati. Ma è chiaro che più di Pyrgi la città predestinata ad avvantaggiarsi della sua posizione strategica in questa via carovaniera “pelasgica” era Roma, e infatti, come scrive nel suo ottimo libro L. Quilici, la Salaria e la via dell’ambra scendevano dalla Sabina (Roma primitiva e le origini della civiltà laziale, Newton Compton Editori, 1979, p. 108).

 

Come si vede chiaramente dalla cartina (che rende bene l’idea della morfologia del suolo di Roma in età protostorica, con sulla sinistra il Tevere e l’isola Tiberina), il Velabro, un rio che si dipartiva dal Tevere che quando straripava allagava la pianura rendendola un pantano, divideva fisicamente la città nascente in tre parti:  nord, in mano ai Sabini (Campidoglio, Quirinale e Viminale), centro  in mano ai Romani di Romolo (Germalo, a guardia del guado del fiume e del Foro Boario,  Palatino e Celio), sud, stando alla ricostruzione della tradizione antica, in mano ai Greci (Aventino) che avevano tentato la colonizzazione del Tevere (con Remo antagonista di Romolo) ma poi erano stati vinti e confinati ad Alba Longa. I tre colli fondamentali erano Campidoglio, Palatino e Aventino. Da Dionisio d’Alicarnasso, Storia di Roma arcaica, Rusconi.

 

Già che sto riscrivendo la storia primitiva di Roma comincio col dire che mi pare assurdo che i Sabini possano aver conquistato di sorpresa il Campidoglio (collegato al Quirinale), dato che questo  monte costituiva la roccaforte della città, abitato tra la fine dell’età del bronzo e l’inizio dell’età del ferro ovviamente dai Sabini stessi. E perché non avrebbero dato l’allarme le oche capitoline, oche che, in sogno, mandano presagi anche a Penelope? E i Sabini avevano lingua e costumi celto-germanici, anzi, linguisticamente germanici (anche alla base dell’etrusco, che io ho tradotto in grandissima parte anche se non riesco più a leggere i dischetti in Wordstar4, c’è un lessico celto-germanico). I Sabini avevano costumi celtici con quei loro bracciali d’oro e anelli che fecero gola a Tarpea  e ne determinarono la morte. Secondo Strabone  « Gli uomini [Celti della Gallia] portano tutti monili d’oro, collari al collo e bracciali alle braccia e ai polsi » 4, 4, 4). Un primo mercato s’era così creato presso il Foro Boario (perché vi si mercanteggiavano i buoi) in prossimità del guado del Tevere all’isola Tiberina. Detto in lingua celtica, qui si aveva un Oxford, un “guado dei buoi”. E nel latino (che ha anch’esso origini celto-germaniche e d’altra parte molto deve al sabino) io ipotizzo ora che dal celtico wər-bos (luogo dell’“attraversamento dei buoi, del bestiame”) derivi con accento sulla vocale iniziale la parola urbs, nome della Città. E ben presto qui si costruì (scommetto ad opera dei genieri di Romolo) il ponte di legno a incastro, rimovibile in caso di guerra, detto Sublicio. Dunque i Sabini furono coloro che in un primo momento il destino pose a controllo dell’importantissima arteria commerciale lungo il Tevere. L’iniziativa degli scambi commerciali era dei Sabini che dunque intendevano garantire la regolarità degli scambi commerciali.  Le favolistiche notizie riguardanti la fanciullezza dei due gemelli fornite da Dionisio d’Alicarnasso sembrano sottolineare che  prima dell’arrivo di Romolo ognuno faceva (come del resto nei regni di Odisseo e di Nestore) quel che gli pareva ed era un continuo di faide e scontri anche mortali connessi con l’abigeato e gli assalti alle carovane e ai viandanti che precorrevano le direttrici commerciali che scendevano dagli Appennini seguendo il corso del Tevere e quella congiungente  l’Etruria alla  Campania e a Capua. Inoltre era possibile una certa attività piratesca (competizione fra fenici, greci, sabini terrieri, metallurgi traci di Lemno Imbro e Samotracia) contro le navi che scendevano o risalivano il corso del Tevere.

 

Lo stato barbarico del Lazio primitivo è sufficientemente rappresentato dal ladro di bestiame Caco, dalla pena capitale (pena comminata dall’etrusco Tarquinio prisco) consistente nell’ immergere qualcuno nel fango di una palude ricoprendolo con  una stuoia (probabilmente all’origine di qualcuna delle mummie che rinveniamo nell’Europa nord-occidentale, anche se  altre possono aver appartenuto a persone  sacrificate nei rituali connessi coi culti dei boschi e dei laghi della dea Nerthus/Northia germanica ma anche etrusca, la madre Terra, cui si donavano le prede belliche spesso costituenti veri tesori, come il calderone d’argento di Gundestrup, e carri a quattro ruote che forse erano i carri stessi tirati da giovenche su cui la dea era portata annualmente in processione poi immersi nel lago da alcuni schiavi  sacrificati a morire affogati (vedi Tacito, La Germania, 40; anche la dea Diana Aricina il cui santuario era il cratere stesso del lago di Nemi e il cui  sacrario era sul breve tratto piano a oriente del lago, aveva dimora « nel fondo della parte orientale del cratere, ove si trovava anche il vischio sacro (Virbius) »  Quilici, op. cit., p. 80) o nello  squartarlo (pena comminata da Tullo Ostilio che era sabino dalla parte di Ersilia) legandolo a due bighe incitate a muovere in direzione opposta,  usanze entrambe dei Germani. Per quanto riguarda il rito degli argei (Dion. Hal. 1,38,3; Livio 1,21) i fantocci di vimini  che venivano gettati nel Tevere in sostituzione delle antiche vittime umane, si pensi a quanto racconta Cesare a proposito dei Celti: « Alcuni popoli posseggono enormi pupazzi con le membra tessute di vimini, che riempiono di uomini vivi e cui dànno fuoco, e gli uomini muoiono avvolti dalle fiamme. » (De bello Gallico, 6,16,4).  A questo punto posso giustificare perché considero verisimile  la tesi ritenuta inattendibile dagli Antichi di « quelli  che narrano che [Tarpea] era figlia di Tazio, comandante dei Sabini, che sarebbe stata costretta a convivere con Romolo e che ebbe e subì questa sorte per volontà del padre », Plutarco, Vita di Romolo, 17,5, e ancor più quella ritenuta totale vaneggiamento del poeta Similo che racconta « che Tarpea consegnò il Campidoglio ai Celti e non ai Sabini, essendosi innamorata del loro re »  (Plutarco, Vita di Romolo, 17,6). Insomma questi Celti erano gli Iperborei della tradizione del santuario di Ino Leucothea a Pyrgi (la cui celebrazione intorno al 675 a. C. fu affidata probabilmente come ora credo da Numa Pompilio a Omero  in quanto per via di madre sabino o anche etrusco-romano come pensavo all’inizio, essendo gli elementi celtici o iperborei al fondo della civiltà sabina ed etrusco-romana), come la moglie iperborea di Eracle (da cui avrebbe avuto Latino) lasciata poi in moglie a Fauno, re degli Aborigeni (Dion. Hal. 1,43,1). A me pare che, nonostante Ridgeway,  Micenei e Achei siano sostanzialmente la stessa cosa anche se gli Achei omerici nella realtà guardano più alla situazione dei più recenti parenti italici, e cioè  una tribù celto-germanica dell’Europa centrale che calò sul Peloponneso non «dalla» ma «attraverso» la Tessaglia, sottomise gl’indigeni (che già parlavano greco, come dimostrano il Disco di Festo e le tavolette in Lineare B), e fra il quattordicesimo e il tredicesimo secolo a.C. con essi si fuse sino a creare una nuova civiltà di lingua greca, pur restando sempre classe dirigente. Se alcune delle defunte dei sepolcri a pozzo I, III e IV (del Circolo funerario A di Micene) possono essere già state di stirpe nordica,  Braudel si chiede se non siano proprio achei e micenei quelli che i testi egizi riguardanti i popoli del mare descrivono come uomini « di alta statura, con un grande corpo bianco, capelli biondi, occhi azzurri. » (op. cit., p. 196)  Dunque i Pelasgi (questo termine abusato deve essere lasciato ai soli Pelasgi di Creta, che hanno origini orientali e siro-palestinesi e parlano greco come prova il Disco di Festo) di Dionisio d’Alicarnasso che occuparono il Peloponneso corrispondono agli  Achei omerici, il cui capostipite aveva fondato la dinastia degli Atridi. Sempre secondo Dionisio d’Alicarnasso, rivisitato alla luce della ricerca di Ridgeway, celto-germani  calarono in Italia dall’Adriatico partendo da Dodona in Epiro.  A Dodona  era la quercia  oracolare dello Zeus Pelasgico venerato da Achille (che, come abbiamo visto grazie a Ridgeway, era solo di passaggio  dalla sua Ftia in Tessaglia, che si trova all’estremo opposto orientale della Grecia, mentre l’Epiro all’opposto estremo occidentale) che era al seguito di Agamennone (che provenendo dalla Tracia e chiedendo il vento favorevole a salpare con la sua flotta per Troia aveva dovuto sacrificare sua figlia Ifigenia all’Artemide Taurica) che coi suoi guerrieri aveva dato alle fiamme (olocausto) Troia. Tucidide fa riferimento a Pelasgi di Acte in Tracia (4, 109). Anche Enea parte dalla Tracia (Dion. Hal. 1,49).

 

Nel suo lavoro sul santuario di Diana Nemorense J. G. Frazer scrive: « Si narra che il culto di Diana a Nemi fosse stato istituito da Oreste il quale, dopo aver ucciso Toante re del Chersoneso Taurico (la Crimea), si rifugiò in Italia con sua sorella, portando con sé il simulacro della Diana Taurica nascosta in una fascina di legna. Quando Oreste morì, le sue ossa furono trasportate da Aricia a Roma e sepolte davanti al tempio di Saturno, sul colle Capitolino, accanto al tempio della Concordia. » (Il ramo d’oro, Grandi tascabili economici Newton, p. 22) Oreste era figlio di Agamennone. Secondo Dionisio i Pelasgi calati in Italia occuparono le terre degli Umbri (importando il rito incineratorio in Etruria, tant’è vero che per Ellenico di Lesbo i Pelasgi sono i Tirreni; stiamo attenti a non fare disquisizioni onomastiche: si chiamino come si voglia, Pelasgi – termine che andrebbe evitato poiché i Pelasgi, ellenofoni, vengono da Creta –  o Tirreni, ma sono sempre di stampo celto-germanico e non implicano ancora la presenza dell’elemento orientale – dall’VIII secolo – che solo li farà essere Etruschi o Romani) giungendo fino al Lazio (si ricordi che i più importanti e antichi centri etruschi sono ubicati nell’Alto Lazio) e a Roma. Mi chiedo se l’eventuale  filiazione del culto di Diana Nemorense  da quello di Artemide Taurica sia diretto, come dice la tradizione, oppure mediato via la Palestina e l’Egitto toccati dalle incursioni e conquiste  dei popoli del mare, qualcuno dei quali  poi fece vela per l’Italia. Dall’Iliade e da Erodoto sappiamo che Paride e Menelao toccarono la Palestina nella loro fuga con Elena e rispettivamente andandone alla ricerca. Elena  poi sarebbe stata fermata in Egitto dal visir Toone o Toni da dove poi Menelao la rapì portandola a Sparta senza che mai Elena abbia raggiunto Troia. Questo contatto con la Palestina  via delta egiziano potrebbe spiegare l’interesse di un Romolo capo di mercenari giudei  a seguire la rotta che portava all’Eldorado dell’Etruria che era soprattutto localizzata nel Lazio a nord del Tevere. Ma c’è anche l’ipotesi dei mercenari Cari al soldo dei re giudei e dei tardi faraoni egizi, che possono aver lavorato (insieme a mercenari giudei e beniaminiti) nella polizia marittima e fluviale del Nilo per i faraoni prima di tentare l’avventura dell’Eldorado tirrenico.

La componente “iperborea” deve  essere anche più antica, in Etruria,  dei terramaricoli e dei villanoviani, ma è certo che in epoca assai antica, nell’arco del buio medioevo greco, la troviamo già fusa con una componente egea che aveva la lingua in comune con l’Etruria o perché due isole linguistiche isolate dall’indeuropeizzazione o perché, come io credo più probabile, perché in età preistorica metallurgi di Lemno Imbro e Samotracia frequentarono la Tirrenia con modalità simili a quelle fenicie, e cioè non lasciando traccia rilevante del loro passaggio se non la lingua. I fabbri di Lemno fumosa dove lavora Efesto. Lemno Imbro e Samotracia sono anche per Omero le antiche isole almeno in parte origine della civiltà romana. Nelle loro profondità marine viveva Teti (madre di Achille) un cui oracolo era nel territorio di Cere e dunque di Pyrgi.  Secondo Timeo di Taormina « gli oggetti sacri contenuti nei santuari di Lavinio sarebbero alcuni caducei di ferro e di bronzo, e vasellame di fabbricazione troiana. » (Dion. Hal. 1,67,4) I Feaci di Scheria venerano come divinità principale, come i Celti (Lug) e come i Germani (Wodan), il dio Hermes. La Troade vantava frequentazioni sulle coste tirreniche, ma certo poi furono  Roma e le  vicine Cere e Tarquinia, da cui dipende il porto di Pyrgi, ad avere interessi commerciali sulla via della troade (e appunto Omero celebra il centenario della fondazione di Roma con un poema riguardante la caduta di Troia), del Mar Nero e del Danubio. Sono i Romani (con la vicina Cere da cui dipende il porto di Pyrgi) a possedere i punti chiave della via dei metalli e tenerli bene stretti con una polizia marittima o talassocrazia, per cui i Tirreni (e i Feaci omerici) sono celebri come abilissimi marinai da età abbastanza precedente la guerra di Troia. I popoli egei, fra cui i Cari, erano già stati ridotti a marinai che svolgevano servizio di polizia marittima o talassocrazia per conto di Minosse/Yuya, mentre i Feaci (di Siria, Cipro e Cilicia) erano al servizio di Radamanto/Amenofi III (vedi i miei lavori sul Disco di Festo), e dunque avevano nel XIV secolo tutto il tempo di adocchiare le sponde tirreniche e svolgervi commercio. Ma probabilmente queste relazioni sono più antiche e risalgono a Seqenenra Tao I marito di Tetisheri. Si ricordi che Ahhotep, moglie di Seqenenra Tao II, era ritenuta originaria di Haw Nebw, l’Egeo. A questi sovrani fu tributato un culto divino come “Signori dell’Occidente”. Gli si rivolgevano preghiere nei momenti difficili  e  « si chiedevano responsi ai loro oracoli in caso di controversie legali. » (Gardiner, La civiltà egizia, Giulio Einaudi editore, 1971, p. 160) La lingua di Lemno è strettamente connessa con la lingua etrusca e probabilmente ne è all’origine. La lingua etrusca poi è stata influenzata da apporti linguistici indeuropei,  celto-germanici in particolare, mentre il lemnio è rimasto sostanzialmente una lingua preindeuropea. La Stele di Lemno da me interpretata getta luce sui traffici e i possedimenti romani a Lemno e a Focea in Lidia sulla via dei metalli degli Argonauti etrusco-romani che dallo Stretto dei Dardanelli portava al Mar Nero,  alla Colchide, al Danubio. La stele è del VI secolo (del tempo di Servio Tullio o di Tarquinio II) e prossima alla fine della talassocrazia  etrusco-romana. La stele di Lemno  conferma anche molto a grandi linee la tradizione riguardante Enea troiano. Fa riferimento ad un certo  Hylaios/Silvio sacerdote di Efesto Tiberino a Roma e defunto all’età di  quarantacinque anni a Focea dove abitava da sette anni. Un sacerdote bronzista probabilmente. L’altare di Efesto (Dagan, Posidone Uranio, Zeus Velkhanos, Vertumno, Proteo, Jahveh Sebaoth,  il massimo – l’unico –  dio di Romolo e poi massimo dio della federazione etrusca) fu il più importante della Roma primitiva. Su di esso Romolo e Tito Tazio firmarono l’accordo che univa i due popoli in uno solo. Si ardevano le armi tolte al nemico nel rito del Volcanale dove anche Romolo collocò il suo trofeo dopo la presa di Cameria (cilici 209Quilici, op. cit., 209). Dunque la stele di Lemno in qualche modo conferma che avventurieri e metallurgi parlanti lemnio giunsero sulle sponde laziali e vennero a Roma dove può aver regnato, probabilmente sullo stesso Palatino (Enea sposa Lavinia figlia di Evandro del Palatino; Alba Longa non può mai essere stata il centro politico di questa gente ma viene in gioco solo quando Romolo caccia i Greci dell’Aventino ad Alba Longa), una dinastia di sovrani capannicoli detti Silvi. L’Hylaios commemorato dalla stele era così un lontano discendente di Romolo addetto al culto suo (il sacerdote è raffigurato come lo stesso Romolo, come uno dei Penati del tempio della Velia, con lancia e scudo; ma potrebbe trattarsi di duplicazione propagandistica greca anche orientale della tradizione di Romolo giudeo) e del dio Vulcano del Foro. Tutto il resto, anche il culto di Lavinio ruota intorno a questa tradizione solo in età tarda quando la presenza culturale greca si fa sentire in modo prepotente, e allora nasce il culto di Enea e dei Dioscuri (Remo antagonista dell’Aventino associato a Romolo che fu sempre figlio unico). Per di più l’area anatolica occidentale ha le sue tradizioni antiche legate ai metallurgi dell’Antro dell’Ida a Creta associati a Zeus Velkhanos e ai suoi aiutanti o Cureti/Cabiri che lavorano nella fucina e fanno baccano con le lance che percuotono gli scudi per coprire i vagiti del piccolo Zeus proteggendolo da Crono che altrimenti lo mangerebbe. Gli scudi a otto dei Salii non sono necessariamente indizio di antichità, né di provenienza cretese. Potrebbero benissimo essere solo il frutto  di tradizioni conservatrici. Per ogni approfondimento rimando al mio precedente lavoro pubblicato sui miei siti.

 

Trascrizione: Lato A:  aker tavarsio / vanala3ial seronai morinail / holaies naphoth / siasi / marasm av / 3ialkhveis avis / evi3tho seronaith / sivai. Lato B: holaiesi phokiasiale seronaith evi3tho toverona[l?] / romh aralio sivai eptesio arai tis phoke[-?] / sivai avis sialkhvis marasm avis aomai.

 

Traduzione: A: Aker Tavarsio / donò come ufficio funebre, / (A. T. il) nipote di Hylaios, / defunto, / per cinque (e) / quaranta anni / al servizio di Efesto (il dio) / vissuto. B: Ad Hylaios di Focea al servizio di Efesto Tiberino (Thyberonal)/ sul suolo di Roma, nel settimo anno di residenza a Focea, / ad anni di vita quarantacinque scomparso.

 

Traduzione più scorrevole: A: Aker Tavarsio donò (la stele) come ufficio funebre. (A. T. il) nipote di Hylaios/Silvio, defunto, vissuto per quarantacinque anni al servizio del dio Efesto. B: A Hylaios di Focea servitore di Efesto Tiberino a Roma, scomparso ad anni quarantacinque nel settimo anno che risiedeva a Focea.

 

 

Anche Braudel è stato colpito dalle navi senza remi dei popoli del mare con protome animale e le accosta ai più tardi hippoi fenici delle coste siriache, delle battute di caccia di Assurbanipal, dei tributi di Tiro, di un gioiello fenicio in Spagna, e conclude che « Tutte queste immagini riportano a un’unica regione: la Siria. E forse quindi a Cipro, alla Cilicia… » (op. cit., p. 198) Il che torna alla mia teoria dell’origine siro-cipriota-cilicia dei Feaci le cui navi non avevano remi, appunto. Ma va anche ricordato che Cesare in Gallia venne a contatto coi Veneti del Mare del Nord che issavano vele di cuoio, e non è da escludere che questi Iperborei siano venuti a fare scorrerie attraverso lo stretto di Gibilterra fino nell’area detta.  Comunque si potrebbe anche pensare a mercenari lidi e cari unitisi a quelle giudei di Romolo ed operanti prima in Egitto e poi di qui spintisi nell’avventura tirrenica.

Erodoto (VI,138) accenna al rapimento delle Ateniesi che celebravano a Braurone una festa in onore di Artemide da parte dei Tirreni (che lui chiama Pelasgi) di Lemno. Dunque i Tirreni volevano integrarsi con la popolazione locale attraverso il (finto: forse finto fu perfino il primo rapimento delle danzatrici del tempio di Silo da parte dei Beniaminiti; tutto il resto fu poi solo tradizione fino ai tempi romani classici) rapimento delle donne, come comandava Afrodite Urania.

Tempo dopo la morte del sacerdote Hylaios, nel 509 a. C., cade la monarchia di Tarquinio II il Superbo e di ciò approfitta probabilmente Milziade per conquistare Lemno entro la fine del VI secolo. Col crollo della monarchia etrusca a Roma e dunque con l’uscita di Roma dalla confederazione l’Etruria vede ridursi i collegamenti con la  Campania e poi, dopo un iniziale successo con la sconfitta dei Liparesi, anche quelli con l’Egeo attraverso lo stretto di Messina a causa della  fortificazione dello Skyllaion (Scilla) da parte di Anaxilas di Regio e delle disfatte dei Cartaginesi ad Imera (480) e degli Etruschi nelle acque di Cuma (474). Si interrompono i legami fra Roma repubblicana, che deve ricominciare daccapo la corsa all’impero, e l’Egeo, mentre gli Etruschi del Tirreno si richiudono sempre più in se stessi fino alla conquista romana e alla loro integrazione nella nazione vincente.

 

I Celti (e dunque i Sabini) sono terrieri e non navigatori (la spedizione a Troia, l’unica impresa marinara che gli si potrebbe attribuire fu una disperata emigrazione – ai tempi delle invasioni dei popoli del mare – in cerca di nuovi sbocchi, e fu condotta via Tracia). E’ per questo motivo che io credo che il re sabino concesse volentieri, di più,  invitò addirittura a prestare servizio di polizia fluviale e marittima   Romolo e i suoi soldati di ventura (con tutta evidenza Romolo non è a capo di una colonia di Albalonga, composta di giovani in esubero di ambo i sessi, bensì a capo di avventurieri mercenari che rapidamente conquistano e assoggettano popoli per loro stranieri, e giunge dunque con le modalità di Enea, via mare, fondando dapprima un accampamento militare presso la foce del Numico (Fosso di Pratica) richiamando così l’attenzione del signore del Campidoglio), concedendogli uno spazio in cui questo fondò uno stratopedon, un accampamento militare  sul colle (che poi dall’ebraico i seguaci preminenti di Romolo chiamarono Rama, Ruma) Germalo (e gli scavi effettuati nel 1907 confermano che il villaggio è dell’VIII secolo: si tratta di tre capanne rettangolari ad angoli tondeggianti, con piancito leggermente ribassato nel banco di tufo davanti al tempio di Mater Matuta nel Foro Boario), che prendeva nome, nome sabino, indigeno,  da una piccola punta o sperone (sporgente nella groppa occidentale del  Palatino, mentre quella orientale è il Palatiale), cf.  ted. Ger, giavellotto, dunque “punta, sperone”; cf. Germani, gli “uomini del giavellotto”; e ted. Mal, “segno”, “cippo”, “monumento”, dunque qualcosa come “il colle marchiato dalla pietra a forma di punta di giavellotto”. Questo accampamento militare a guardia del mercato boario e delle vie commerciali che facevano capo a Roma  assegnato agli stranieri mercenari ebrei era comunque in posizione subordinata e dunque controllabile –  così pensava, giustamente, il re sabino –  dalla rocca.

 

I Sabini erano sempre stati sui colli Quirinale e Campidoglio e nella loro lingua la tribù in armi depositaria del potere si riuniva nella  Curia (gall. corios, ted. Heer), sede dei cittadini sovrani kyrioi/koϝíranes (in armi). Era o meglio Iuno Curitis   sarà piuttosto Iuno delle Curie e il fatto di essere armata di lancia farà appunto riferimento al popolo in armi delle tribù. Non molto tempo fa una laureanda in archeologia mi chiese lumi per la sua tesi sulla differenza fra Iuno italica e Hera greca. Non era un problema che m’ero mai posto e dunque mi limitai a darle dei suggerimenti su come procedere nella ricerca anche se non ricordo più cosa le risposi esattamente. E’ una domanda difficile. Oggi se dovessi fare io la tesi direi che Iuno italica è una divinità a base celto-germanica, dunque indeuropea, che fa riferimento alla tribù in armi. E’ dunque una dea guerriera ma anche politica, che guida le scelte politiche della curia, dell’assemblea dei guerrieri in pace e in guerra. La si dovrebbe identificare con Athena o Afrodite guerriera o Freya e doveva essere la compagna di un Marte guerriero appunto (senza interessi procreativi; più una divinità spirituale e concettuale quasi generata come la Sapienza e Athena dalla testa di Zeus o Jahveh Sebaoth). Hera viceversa è la consorte del capo indeuropeo, ma poiché è certamente una dea madre e della fertilità deriva dagli indigeni preindeuropei ed appare come un compromesso fra i due popoli vincitore e vinto (ma si sa che i vinti sono poi spesso quelli che comandano e nel caso di Hera non c’è dubbio). Dunque abbiamo Iuno quando la popolazione è compattamente indeuropea e una subordinazione di Iuno a Hera quando si fa sentire la componente indigena preindeuropea che appunto è molto forte in  Grecia a causa della precedente civiltà minoico-micenea.

 

Qualche signore della guerra approdato sulle coste tirreniche si  portò dietro dall’Egitto qualche oggetto firmato col cartiglio del faraone. Se in genere questi cartigli sono o possono essere  falsi degli artigiani orientali allo scopo di autenticare i loro oggetti, ciò non vale per il sigillo di Bocchoris, un oscuro faraone della XXIV dinastia che regnò solo dal 720 al 715 a. C., che compare su uno scarabeo della tomba 325  di Pitecussa e su due situle in faïence da Tarquinia e Mozia, cosicché possiamo affermare che l’orientalizzante, anche se assume un aspetto vistoso nel VII secolo è coevo alla colonizzazione greca e all’espansione fenicia, cioè all’VIII secolo (cf. Michel Gras, Pierre Rouillard e Javier Teixidor, L’universo fenicio, Einaudi tascabili, 2000, pp. 169 e 173)  Ciò mi farebbe supporre che i re sabini possano aver richiesto o comunque arruolato distaccamenti di truppe mercenarie di Alessandria (dove nell’isola di Faro Omero colloca Proteo/Vertumno/Jahveh e dove in età precristiana  c’è una turbolenta e rissosa comunità di ebrei messianisti che possiamo chiamare cristiani solo perché traduzione di messianisti, mentre i cristiani veri e propri nascono solo dopo il 70 d. C. e la distruzione del Secondo Tempio da parte dei loro capostipiti israeliti e samaritani ovvero pagani del nord: il falso profeta egiziano/Gesù, Simone di Ghiora/Pietro e  Giovanni di Giscala autore del protovangelo e dell’esaltata Apocalisse apoteosi di vaneggiamenti satanici e antiumani)  o Memfi (dov’era l’accampamento stratopedon dei Tiri e dove secondo Erodoto, che interpreta anche Omero, fu fermata Elena, tolta a Paride e poi ripresa da Menelao senza che mai fosse stata a Troia) proprio perché collaudate in operazioni di vigilanza nelle città emporiche lungo il Nilo.

Come non credo che i Sabini abbiano assaltato la rocca dei Romani (che stavolta stranamente non sarebbero stati avvisati dalle oche capitoline come più tardi nel caso della scalata dei Galli),  così nemmeno credo che  Romolo abbia mai rapito le Sabine o le Latine. Egli credette che il momento era giunto per tentare di prendere il potere (questi colpi di mano sono tipici dei soldati mercenari) combatté e sostanzialmente perse, ma poiché anche il vincitore era in una situazione di difficoltà (i Celti, dice Cesare, si scoraggiano presto) Tito Tazio (si noti l’onomastica bimembre che deve essere tipicamente sabina come è sabino anche il nome dell’ultimo re di Alba Longa, Mettius Fufetius, cf. Quilici, op. cit., p. 239) e Romolo (alla sabina fu chiamato Osto Ostilio, lo Straniero figlio di Straniero o qualcosa del genere) conclusero la pace e si accordarono per unire i due popoli in uno solo. Così come sempre accade nella storia, per suggellare le unioni fra popoli, il re sabino diede sua figlia Ersilia (e nulla conta che fosse eventualmente già sposata o promessa ad un altro, perché la ragion di stato passa sopra a tutto come uno schiacciasassi) in sposa a Romolo.  Laddove la tradizione narra che le sabine si interposero fra i due contendenti invocando dai Sabini la fine delle ostilità in quanto ormai esse avevano avuto dei figli dai Romani, la realtà dovette essere diversa, come ho detto, sicuramente perché in un momento di scoraggiamento o perché  ricacciati indietro dai Romani (cf. Iliade libro XV), i Sabini erano pronti a squagliarsela, come apprendiamo dal comportamento delle donne celte nella Gallia conquistata da Cesare. I Celti nottetempo stanno per scappare dalla roccaforte di Avarico « quando improvvisamente le donne uscirono di  corsa per le strade e si gettarono piangendo ai piedi dei mariti, implorando con gesti e parole  che non le consegnassero insieme ai loro comuni figlioli nelle mani e ai supplizi dei nemici, dal momento che la debolezza della natura e delle forze impediva loro di prendere la fuga. Visto che gli uomini erano irremovibili ̶̶  di solito nei sommi pericoli la paura non lascia posto alla pietà  ̶̶ , esse si diedero a gridare per segnalare la fuga ai Romani. Sconvolti così dal timore che le strade fossero presidiate in anticipo dalla cavalleria romana, desistettero dal loro proposito » (De bello Gallico, 7, 26,3-5), e, più avanti:  « cominciarono a scongiurare i propri mariti, a sciogliere davanti a loro i capelli secondo l’usanza dei Galli, e a presentare alla loro vista i figli. » (7,48,3) Dunque, data la situazione di stallo –  che però a mio avviso lasciò ancora su una posizione di preminenza i Sabini, dato che mantennero le loro rocche e che Romolo dovette vedersela con il regno collegiale con Tito Tazio –  i due popoli si accordarono a vivere insieme in pace con doppia monarchia fino a che Romolo, rimasto solo per la morte violenta di Tito Tazio,  trasmise un regno unico ai successori  sabini (fino all’arrivo dei re etruschi), in quanto sono le madri ad allevare i figli nella lingua e cultura del luogo, da qui la preminenza sabina, anche se le istituzioni giudee di Romolo riuscirono in parte a sopravvivere. La monarchia romana (di Romolo) inoltre si trasmetteva, come per gli Ebrei gli Etruschi e gli Egizi, per via femminile.

 

Procedendo nell’approfondimento della ricerca ho scoperto che bene a ragione ritenevo l’antico nucleo dell’Iliade scritto da Omero per celebrare il centenario della fondazione di Roma. Infatti, fermo restando tutto quel che ho scritto sull’argomento, è venuto fuori che i libri XIV e XV si riferiscono all’episodio di Romolo/Ettore che nell’ultimo di molti scontri in un’arco di tempo ristretto venne « colpito alla testa da una pietra, cadde svenuto per un attimo, incapace di contrattaccare. Allora i Romani [Troiani] cedettero ai Sabini [Achei] e, respinti dal pianoro, furono messi in fuga verso il Palatino. Tuttavia, poiché la fuga dilagava tutt’attorno a lui e nessuno aveva il coraggio di tornare indietro, alzate le mani al cielo, pregava Giove di fermare l’esercito e di non tollerare la sconfitta che si stava preparando per i Romani, ma di raddrizzare le sorti della battaglia. Ascoltando questa preghiera, molti provarono vergogna nei confronti del re, e i fuggitivi improvvisamente ritrovarono il coraggio. Si fermarono dunque inizialmente nel luogo in cui sorge il tempio di Giove Statore (vale a dire Giove che trattiene), poi, serrate di nuovo le file, respinsero  i Sabini sino alla cosiddetta  Regia e al tempio di Vesta. »  (Plutarco, Vita di Romolo, 18,7-9) Nell’Iliade la fuga cessa al momento del risveglio di Zeus dall’inganno di Era e dell’ordine che questo impartisce secondo la promessa fatta a Teti di dare la vittoria ai Romani/Troiani che così inseguono i Sabini/Achei fino alle navi. C’è persino da chiedersi se Omero non abbia inizialmente scritto per Tullo Ostilio un poema teso a celebrare unicamente il conflitto Romani/Sabini poi inglobato in un più alto disegno riguardante un episodio dell’ultimo anno della decennale guerra di Troia. Che di ciò si tratti lo dimostra il nome di Xanto il “Biondo” Tevere dato all’unico fiume che nei poemi non omerici verrà chiamato Scamandro ed affiancato dal Simoenta. Fra l’altro « non molti giorni prima, per caso, era straripato il fiume, lasciando depositare nei punti pianeggianti dove ora si trova il foro una melma densa, ristagnante, non facilmente visibile né evitabile, ma pericolosa e insidiosa. » (loc. cit., 18,4)  Dunque attualmente ritengo omerici i libri 1, 1-538,  l’episodio dell’incontro di Ettore e Andromaca nel libro 6, il 14, 159-522, e i libri dal 15 compreso fino al 24. I il poema omerico è stato ampiamente e irrimediabilmente manomesso nella prima parte.

 

Per aumentare il numero della popolazione di Roma  Romolo (che conosceva quest’uso come tradizionalmente introdotto da Mosè in Palestina)  ricorse ai luoghi di rifugio e asilo (questa pratica di dare asilo a chiunque senza approfondire se si tratti addirittura di omicida emerge anche dall’Odissea) nei luci o boschi sacri a Giano/Diano che circondavano l’antica Roma e credo di poterne rinvenire le tracce seguendo appunto templi e altari in onore di Giano fra cui il Gianicolo. Basti considerare che l’unico asilo su cui si sofferma la tradizione romana era situato fra due luci o boschi sacri proprio fra Quirinale (laddove fu costruito il primo tempio dedicato alla Triade poi detta Capitolina perché il tempio fu ricostruito sul Campidoglio) e Campidoglio, sede del re sabino Tito Tazio.  Da qui il nome di Luceri alla terza tribù della Roma primitiva « in memoria del bosco in cui molti fuggitivi avevano ricevuto asilo, ottenendo in seguito la cittadinanza » (Plutarco, Vite parallele, (Teseo e) Romolo, 20,2). 

Uno di questi boschi sacri a Diana rimase come fossile archeologico in età imperiale ed era il santuario di Diana Nemorense sul lago di Nemi.  Frazer ha ipotizzato il culto di Ippolito/Virbio e con lui dei cavalli (« L’ipotesi che, una volta all’anno, si sacrificasse un cavallo nel bosco di Aricia, come personificazione del dio del bosco, è sostenuta dall’analoga uccisione sacrificale di un cavallo, che si svolgeva una volta l’anno a Roma. Ogni anno, infatti, il 15 ottobre, si teneva una corsa dei carri in Campo Marzio. Il cavallo di destra del tiro vittorioso veniva poi trafitto con una lancia e sacrificato a Marte per implorare raccolti abbondanti; poi si troncava la testa dell’animale, ornandola con una collana di pani… Si tagliava anche  la coda del cavallo e la si portava alla casa del re… » Frazer, op. cit., p. 539), e anche nelle selve e boschi sacri i Germani allevano cavalli profetici:   « hanno pelo candido e non sono contaminati da alcun servizio fatto ad uomini; quando essi sono legati al sacro carro, sono accompagnati dal sacerdote, dal re, oppure dal primo fra i cittadini, che osservano attentamente i loro nitriti e i loro fremiti. » (Tacito, La Germania, 10) Questo passo ci ricorda che, in un passo certamente omerico, Xanto, il cavallo di Achille germanico, gli profetizza la morte (Iliade, 19, 404ss), e che nel Cippo del Foro, sistemato alla metà del VII secolo da Tullo Ostilio, si ricorda un qualche segno lanciato da una coppia di cavalli (iouxmenta) che tiravano il carro in presenza del re Tullo Ostilio che appunto procedeva ai suddetti lavori. Comportamento che fece ritrovare il luogo sacer  del Volcanal (un puntone di roccia tufacea, adattato ad altare sul quale Romolo e Tito Tazio giurarono la sacra alleanza fra i rispettivi popoli – qui si riunivano i senatori prima della morte di Romolo) nel Comizio (al cospetto degli eserciti in armi dei comizi curiati che qui si riunivano). Romolo/Osto Ostilio era stato colpito da un fulmine (secondo la tradizione che dunque sola si riterrà esatta) e  sepolto nel Volcanal, dove si trovava insieme ai patres, perché « Se il fulmine aveva ucciso un uomo, il corpo di quest’uomo non era più degno di justa funera, ma doveva venir sepolto sul luogo stesso in cui era stato ucciso. » (R. Bloch, Le origini di Roma, 2° ed. 1978, Newton Compton, p. 87).  Nell’area sovrastante questo altare Tullo fece erigere a ricordo un altare ad ante in blocchi di tufo sormontato da un monumentale leone (il leone di Giuda o comunque indicante un re di origini giudee), una colonna tronco-conica che poteva sostenere la statua di Romolo (altare e colonna poi modificati da altri nel tempo) e un cippo con scriptio continua bustrofedica in latino arcaico che  risale probabilmente a Tullo Ostilio (672-640) che appunto in prima persona diresse i lavori di sistemazione del Foro con la costruzione davanti al Comizio della Curia Hostilia, luogo di regolare riunione del rex e dei patres realizzando la prima pavimentazione del Foro alla metà del VII secolo:

 

QUOI HORTUS SAKROS ESED. SORTES VIDIASIAS REGEI HAPIOD LAEVAM QUOS REX KUM KALATOREM HAPIOD IOUXMENTA KAPT ADOTARI AM ITERINEM. QUOI HAVELOD NEQUIOD IOVESTOD QUOI LIQUIOD

 

" Questo recinto sia inviolabile. Infatti mentre gli auspici erano interpretati dal re, (a partire) dalla (HAPIOD > da ab-eo) sinistra, cioè (a partire) dal  re e dal banditore, la coppia di giumente (cavalli) ha cominciato (KAPT > cepit) a spingere fuori (ADOTARI > adhortari) intorno al percorso  (AM > am, amb, ambi, ITERINEM > itinerem). Chi lo violi non è giusto che muoia (LIQUIOD > linquo nel senso di abbandonare, venir meno, ecc., oppure liquefacio nel senso moderno di liquidare, ammazzare). "

 

Si diceva che nella tomba fosse ospitato il corpo di Osto Ostilio marito di Ersilia sabina, ma questo è sempre lo stesso Romolo. I Giudei erano consapevoli che lontano dal loro paese, sulla costa del Tirreno e nei pressi del Tevere, una grande civiltà era nata a partire da loro coloni? Nel Genesi Tamar ha due gemelli da Giuda e lo può provare mostrandogli il sigillo, il cordone e il bastone che ne aveva ricevuto come pegno. A proposito dei Beniaminiti, i guerrieri per eccellenza, celebri arcieri (come lo è Odisseo/Romolo), Giacobbe benedice oltre ogni altra tribù, come principe dei suoi fratelli, Beniamino, il lupo, emblema di Roma. Ma sulla tomba di Romolo fu posto il leone simbolo di Giuda.   Successivamente, al tempo di Silla, intorno all’80 a. C., tutto il complesso venne coperto con lastroni di pietra nera da cui il nome di Lapis Niger ad indicare luogo religiosus e interdetto, separata dalla pavimentazione della piazza da una balaustra di lastre di marmo bianco.

 

E’ evidente che verso l’inizio dell’VIII secolo la situazione in Oriente peggiora con le invasioni assire e si cercano nuove vie per l’approvvigionamento dei metalli. Così si punta all’Eldorado dell’Etruria. Questi naviganti che toccano le coste laziali sono dei semiti. Alcinoo potrebbe anche essere il celtico Alcuino, ma  Arete da Areta è senza dubbio nome semitico (Arete oltretutto gira « il fuso purpureo » Od. 6,306). La popolazione di Scheria “Scogliera” è estremamente ospitale (secondo Cesare i Germani « Giudicano un sacrilegio violare l’ospitalità; chiunque per qualunque motivo arriva fra loro è protetto dalle offese e considerato sacro, gli si apre qualsiasi casa e con lui condividono il cibo. » De bello Gallico, 6,23,9; Eurialo di Scheria che offende Odisseo, Od. 8,158ss, rappresenta sia pure per eccesso lo spaccone celtico, che mira a diminuire l’altro per farsi grande), di cultura e corporatura celtica, ha come dio sommo Hermes, ha i suoi druidi, “molto sapienti” di corte. L’alta e robusta Nausicaa, dietro i panni dei sofisticati regnanti semiti, è una semplice e ruspante sabina abituata a condividere coi suoi servi ogni lavoro manuale, una maschiaccia). Questi semiti (che genericamente possiamo chiamare fenici, anche perché gli ebrei si servivano di navi fenicie per la navigazione; quello ebraico è un popolo alieno da una vera produzione propria in generale) veicolano i prodotti orientali fino alle colonne d’Eracle e ad un certo momento trasportano a Lavinio e poi a Roma Romolo e i  suoi mercenari giudei e beniaminiti. Da ultimo è proprio di mercenari cari che si servivano i re di Giuda, oltre che di marinai fenici, come sappiamo (« L’imbarcazione lunga egea, con rematori e sperone, già completamente perfezionata, compare per la prima volta su un bassorilievo di Karatepe, zona di influenza fenicia nell’antico paese ittita, verso l’VIII secolo. » Braudel, op. cit., pp. 113-114) ma anche in precedenza s’erano serviti di Peletei e Cretei che venivano da una regione, Creta, nota per il culto di Velkhanos e per i suoi miti legati alla bronzistica. Dunque i mercenari avventurieri che controllano le vie ai metalli che dallo stretto dei Dardanelli porta al Mar Nero (ad artigiani itineranti del 4000 a.C. si può attribuire il tesoro di oggetti in metallo scoperti nella grotta di Nahal Mishmar sulle rive del Mar Nero: armi, scettri, corone, mazze di rame, dai disegni complicati e tecnicamente perfetti, certamente in anticipo su quelli della Mesopotamia dello stesso periodo. Il loro rame è fortemente mescolato con l’arsenico. Braudel, op. cit., p. 87) e di qui ai grandi fiumi e alle carovaniere strategiche sono coloro che prediligono Roma come centro strategico dei mercati occidentali e vi impiantano la loro sede.

 

Io adesso vedo la fondazione di Roma (753 a. C.) in parallelo con quella di Cartagine (814 a. C.). Si tratta in entrambi i casi di fondazioni semitiche in punti strategici al centro del Mediterraneo. Sono ben consapevole che Cartagine è data in genere dagli antichi come più antica di Roma di un settantennio, ma per via di logica considero non casuale che entrambe le città siano state fondate al centro del Mediterraneo dopo che i Fenici avevano l’esclusiva dei viaggi atlantici (per lo stagno dell’Inghilterra) e fondazioni in Spagna (per le miniere d’argento) e Marocco. E’ per questo motivo che credo che genti orientali ebbero simultaneamente l’idea di stabilire centri strategici al centro del Mediterraneo intorno alla data della fondazione di Cartagine, dunque intorno all’814.  E’ per questo che la tradizione di Timeo di Tauromenio – che tanto sorprende Dionisio d’Alicarnasso –  secondo cui Roma sarebbe stata fondata contemporaneamente a Cartagine nell’813 (Dion. Hal. 1,74,1), non mi sembra  doversi rigettare alla leggera. Di più antiche fondazioni di Roma si parla da più fonti e ne riferisce lo stesso Dionisio (1,73,3-5), per cui, per quale motivo escludere che genti fenicie (di Tiro o Sidone) abbiano simultaneamente tentato di conquistare il centro del Mediterraneo dall’una e dall’altra sponda? Centri come Punicum e il santuario di Ilizia a Pyrgi con la sua lamina d’oro in punico, per non dire di altre tradizioni come il passo della Politica di Aristotele, ci parlano di antiche relazioni fra il mondo fenicio e Roma che si sono mantenute fedelmente nel tempo fino alla lotta per la supremazia mediterranea con Cartagine.  Anche Odisseo con i suoi viaggi orientali e al centro (Sicilia delle vacche del Sole, Sardegna di Calipso e Scheria dei Feaci, tutti centri frequentati e colonizzati dai Fenici assai prima che vi giungessero i Greci) e all’occidente del Mediterraneo, forse fin oltre lo Stretto di Gibilterra nella lontana Apeira (che potrebbe essere la Spagna o un’isola atlantica), è certamente, quanto a tecniche di navigazione, un fenicio, in quanto naviga di notte e predilige attraccare presso delle isolette e promontori a distanza di sicurezza dalla terraferma come esemplificato nell’approdo all’isola dei Ciclopi. Nella prova dell’arco Odisseo fa passare la freccia attraverso le lunette di dodici asce “fenestrate” siro-ittite.  Femio, che cantava costretto dai Proci,  al momento della strage dei pretendenti è incerto se correr fuori  dalla sala e sedere presso l’altare di Zeus (Od. 22,334-335) chiedendo così a Odisseo di risparmiarlo, e, analogamente, Adonia e Ioab, al tempo di Salomone, si aggrappano ai corni dell’altare di Jahveh (1 Re,1,50; 2,28; tenere presente che si usa anche l’espressione ‘porsi a fianco dell’altare’ in 1 Re, 2,29). Le dieci concubine/vestali della reggia di Davide che si erano contaminate con Adonia, Davide  « le mise in un domicilio sorvegliato, egli somministrava loro gli alimenti, ma non si accostava loro; rimasero così recluse fino al giorno della loro morte, in stato di vedovanza perenne. » (2 Samuele, 20,3) E’ noto come la religione etrusca sia come quella ebrea una religione rivelata ed è altrettanto nota la predilezione per la divinazione degli etrusco-romani così come dei re ebrei. I Giudei del tempo di Davide portavano la barba come gli dèi che dall’alto del palazzo di Murlo guardavano la loro progenie regale. Tra i tabù del sacerdote ebreo c’era quello di non salire sull’altare di Jahveh « per mezzo di gradini, perché non si scopra la tua nudità. » (Esodo 20,26) e analogamente « Parimenti al flamine la flaminica, sua moglie,…  non doveva salire scale scoperte ai lati oltre i tre gradini, per non mostrare le gambe. » (Quilici, op. cit., p. 208)  Anche il libro  di Braccesi è una conferma della priorità fenicia sui mari tanto più evidente è il suo sforzo di farla apparire subordinata a quella greca.  Se la Roma di Romolo fu fondata intorno al 753 a. C. non è da escludere che sessant’anni prima alcuni fenici  abbiano fallito il  tentativo  di fondarla  in contemporanea con Cartagine (se Germalo fosse corruzione di Germelqart o Germelek – ger in ebraico biblico designa lo straniero integrato nella vita religiosa del paese e Melqart è Signore, Milk, della città, qariat – ne dovremmo dedurre lo stanziamento di una base  di cartaginesi, che accoglievano qui un accampamento di mercenari cari, lidi, giudei, chissà, e dunque la giustificazione del giudizio negativo dato dagli antichi sugli usi e costumi assai crudeli dei primitivi indigeni di Roma da loro paragonati a quelli dei Cartaginesi prima della distruzione della loro città; la città sarebbe sempre stata in qualche modo una fondazione semitica – Ramah e Rumah sono nomi semitici –  stavolta di origine tiria o sidonia, e Romolo sarebbe a capo di mercenari della Lidia e della Caria; le cose non cambierebbero, proprio per la contiguità fra proto-giudei e fenici: « Un servizio religioso secondo l’antica moda fenicia, che si celebrava ancora a Gades in epoca romana, è stato descritto dal “sivigliano” Silio Italico: sacerdoti a piedi nudi, con la testa rasata e vesti di lino, in un santuario nudo, senza alcuna immagine di culto, in cui ardeva un fuoco perpetuo. » Braudel, op. cit. p. 246) e che anzi dopo il fallimento Cartagine sia nata col compito di bilanciare le potenze straniere che giocavano pesante sull’altra sponda del Mediterraneo.  E’ stato più volte rilevato da qualcuno il rapporto fra la lamina aurea punica di Pyrgi e Cipro. Orbene Elissa/Didone secondo le Epitomi di Giustino (17,4-6) nel suo viaggio alla volta della futura Cartagine passa da Cipro e « fa prelevare ottanta vergini sul punto di darsi alla prostituzione sacra nel tempio di Afrodite: saranno le compagne dei Tirî. » (Gras,  Rouillard e Teixidor, op. cit., p. 246) Non voglio certo prendere come fonte storica Virgilio, che rende contemporanei Enea  e Didone, ma si può fare anche il ragionamento inverso, e cioè che se è sicura la fondazione di Roma nel 753 allora può essere (relativamente) significativo che il più antico manufatto scoperto finora a Cartagine, una coppa «a  chevron » da una tomba della collina detta di Giunone, non può esservi stata deposta dopo il 750  (cf. Gras,  Rouillard e Teixidor, op. cit., p. 264). Si noti ancora la duplicazione di Larentia prostituta sacra del tempio di Ercole/Melqart del Foro Boario (Plutarco, Vita di Romolo, 5).

Se i Sabini furono i primi ad abitare la regione dei Sette colli, certamente è a Romolo che si deve la fondazione della città di Roma. Fondare una città non significa circondarla di mura o costruirne gli edifici in muratura, bensì gettarne le istituzioni civili e religiose, l’organizzazione politica e militare  che la farà vivere in eterno o morire prematuramente. Gli antichi Romani vollero rompere il legame fra Romolo giudeo dunque fenicio (e in un qualche modo etrusco) e Roma in odio agli Etruschi e ai Punici, ma è evidente che i Romani mantennero a lungo stretti legami con i Punici e gli Etruschi contro i Greci fino a quando non dovettero lottare per la supremazia contro gli uni e gli altri.

L’arrivo di piccoli nuclei di avventurieri siro-ciprioti in Etruria e nel Lazio (il giudeo Romolo) là dove s’era spostato il traffico per la ricerca dei metalli e dei beni di consumo prezioso segna, e lo vediamo particolarmente a Roma, un immediato sviluppo dell’abitato che raggiunge dimensioni del tutto eccezionali fin dalla metà dell’VIII secolo come dimostrano le più note necropoli dell’Esquilino e del Quirinale e quelle alla Porta Salaria, al Corso d’Italia, al Portonaccio, a S. Croce in Gerusalemme, a Porta Latina, e chissà quante altre che non conosciamo affatto. (Quilici, op. cit., p. 269) Dalla metà dell’VIII secolo e soprattutto nel VII maturano le premesse della civiltà urbana di età arcaica, di quell’élite aristocratica (e quella delle rispettive clientele) che col monopolio della ricchezza e quindi delle strutture giuridiche ed istituzionali della comunità tenderanno sempre di più ad accrescere la propria posizione: queste famiglie privilegiate formano già ora, con la loro fissità, quella che in età storica sarà la classe senatoria dei patres conscripti, che impronterà di sé tutto il corso della Roma antica e caratterizzerà, con le feroci lotte di classe a cui darà luogo, l’arco della storia repubblicana. (Quilici, op. cit., pp. 268-269) Il defunto, rivestito degli abiti propri della sua condizione da vivo, ornato delle insegne e dei gioielli, veniva composto sull’alto del letto funebre, coi piedi rivolti all’ingresso, e circondato da torce, fiori, fumigazioni. (Quilici, op. cit., p. 285) Tutto ciò richiama alla mente il funerale di prova che Trimalchione si fa fare da vivo secondo la moda siriana. Gli oggetti del corredo, di uno sfarzo che rivaleggia con quello delle tombe dei faraoni di un tempo ormai tramontato,  sono in prevalenza di manifattura fenicia, siriana, cipriota e punica, etrusca, con richiami evidenti ai temi della civiltà egizia. Gli ebrei (come quelli al seguito di Romolo) non avevano un’arte particolarmente sviluppata, per cui saranno stati piuttosto i committenti di determinati oggetti pertinenti alla propria cultura, come i pettorali o i corni. Quanto all’aria di civiltà medievale che traspira dai poemi omerici e che ho già sottolineato nei precedenti lavori, come gli Ebrei costruivano torri, così  i Romani, tipo « la Turris Mamilia nella Suburra e le torri ed i propugnacoli che queste gentes potevano erigere in età orientalizzante ed arcaica all’interno dei contesti abitati, quasi così come ci si presentano le case fortificate delle città medioevali; così abbiamo parlato dell’aspetto cavalleresco delle loro corti; del fasto dei banchetti e della pompa pubblica; delle potenti fazioni che potevano formare all’interno delle comunità turbandone l’equilibrio, fino alla possibilità di poter mettere in campo, anche in guerre personali degli stessi, piccoli eserciti. » (Quilici, op. cit., p. 318)

 

Tabella cronologica dell’archeologia laziale da L. Quilici op. cit., p. 20

 

 

 

Passiamo ora ad occuparci delle istituzioni  politiche introdotte da Romolo. Queste sono complicate dal fatto che la stessa civiltà proto-ebraica di cui fu portatore Romolo era stata il frutto dell’interazione dei popoli del mare in prevalenza indeuropei  (Pelasgi di Creta, Danai di Cilicia e Achei celtici dell’Europa centrale) coi popoli cananei, e inoltre dal fatto che la civiltà proto-ebraica di Romolo era fortemente influenzata dalla permanenza in Egitto dei suoi mercenari beniaminiti e giudei cui si dovranno aggiungere eventualmente cari e  lidi, mercenari sotto i re giudei ed egizi.

Quanto alla scrittura non credo che la prima preoccupazione di  Romolo sia stata quella di scrivere, e del resto la struttura assai rozza del latino  (o piuttosto del sabino, o anche del tirrenico/lemnio)  primitivo non la richiedeva. Comunque, secondo Dionisio d’Alicarnasso, il trattato stipulato fra Romolo e Veio sarebbe stato scolpito su pietra (2,55,6). A Numa Pompilio è attribuita la disposizione secondo cui  tutte le leggi sacre di Roma fossero trascritte dai pontefici su tavole imbiancate (Livio 1,32,2). Il primo trattato tra Tullo Ostilio e Mezio Fufezio di Alba Longa fu scritto dai feziali su tavolette di legno (Livio 1,24). La scrittura esplode verso la fine del regno di Numa Pompilio quando Omero scrive (con inchiostro nero su lino, come le primitive liste dei magistrati erano conservate su rotoli di tela di lino nel tempio di Iuno Moneta, dea della memoria, sul Campidoglio, Livio 4,7,12) il Viaggio d’Odisseo intorno al 675  e poi la guerra fra Sabini e Romani o già l’Ira d’Achille nel 649 sotto Tullo Ostilio, in greco, perché i poemi pubblicitari sono rivolti ad un pubblico di politici, mercanti, investitori greci. Omero conosce eccome la scrittura. Semmai ricostruisce un tempo lontano come la guerra di Troia in cui immagina che la scrittura non fosse così all’ordine del giorno. Il suo accenno alla scrittura su tavolette come quella di Marsiliana d’Albegna (che secondo Braudel assomiglia molto alle tavolette fenicie di questo tipo trovate a Nimrud, in Assiria, accompagnate da una pisside e da un pettine inviati da un mercante di Tiro, op. cit., p. 218) è in un contesto che allude chiaramente all’età di Davide (ciò che non implica necessariamente la storicità di questo re, ma compartecipazione di tradizioni e miti già circolanti in Giudea e comunque in oriente).   La fibula d’oro a drago da una tomba di Palestrina, datata intorno al 675 in alfabeto vicino a quello ceretano, dice: Manio mi fece fare per Numerio. Numerio Suffustio  era colui che proprio a Palestrina aveva scoperto le sortes del santuario della Fortuna Primigenia, scritte con caratteri primitivi su tavolette di quercia (Cicerone de div. 2,41).  E’ soprattutto sotto Tullo Ostilio che Roma viene organizzandosi nelle sue principali strutture urbane e istituzionali, e dunque è nel VII secolo che si diffonde la scrittura, esattamente al tempo dell’acme di Omero.    

Secondo gli studi del Frazer vi sono indizi presso vari popoli antichi (anche presso i Khazari della Russia meridionale e i semiti) dell’uccisione del re quando declinavano i suoi poteri naturali. Di questa pratica che regolava la successione dei sacerdoti di Diana ad Aricia troviamo gli esempi più numerosi  e più simili in Africa (Il ramo d’oro,  Prefazione). Ma Cesare ci informa che « Alla testa di tutti i druidi se ne trova uno solo, il quale esercita la massima autorità fra di loro. Alla sua morte, se qualcuno fra i superstiti eccelle per dignità, gli succede o, in caso di parità fra molti, si procede a una votazione fra i druidi; qualche volta capita persino che si contendano il primato con le armi.  » (De bello gallico, 6,13,8-9) Se devo immaginare che il culto in questi laghi e boschi sacri laziali, il cui rito era comune a quello praticato in Tracia, risalisse ai tempi della dominazione sabina e dell’influenza lemno/tracia, è certo che Romolo lo rafforzò anche se eliminò, come in Egitto s’era da tempo eliminata, la necessità di uccidere fisicamente il re. Era questa in Egitto la festa del sed o giubileo reale. Alla  festa “sed” che « rappresentava la rigenerazione spirituale e fisica del sovrano dopo tanti anni di regno, era… destinata l’ampia zona esterna della piramide [di Zoser]. Uno dei momenti culminanti della manifestazione era la corsa rituale del sovrano che dimostrava così il proprio vigore: egli doveva compiere tre giri intorno a due costruzioni chiamate “altare a B”. Il complesso architettonico  simboleggiava in tutte le strutture i compiti regali e l’unione dell’Egitto: le cappelle, le case del Nord e del Sud e il palco reale con i padiglioni per i due troni. L’altare [i due altari a B] rappresentava i limiti meridionali e settentrionali del Paese. Il nome “sed” dato alla festa derivava dal termine con cui gli egizi indicavano la coda di animale (toro o leone) che faceva parte dell’abbigliamento regale (pendeva dalla vita del re [come si può vedere dalla figura del re Menes sulla celebre paletta omonima]) e simboleggiava la sua potenza. » (Egitto, L’età dell’oro, Fabbri Editore, pp. 54-58) Perciò io credo che la festa dei Lupercali sia la traduzione romulea della festa del “sed”, celebrata annualmente con il re vestito solo di un perizoma cui era attaccata la coda del lupo (animale totemico dei Ramnensi o Rumani del Palatino; forse poi anche la coda del cavallo) che compiva il giro rituale della Roma quadrata ma anche una corsa in quello che poi diverrà il Circo Massimo intorno a due mete rappresentanti la parte romana e quella sabina del regno unito. E’ a partire da questa corsa rituale che poi il Circo Massimo diverrà luogo di corse anche delle bighe, quadrighe ecc. Il quarto anno dalla fondazione e cioè il 749 a. C. Romolo celebrò secondo un rito sia orientale che celtico i Consualia per la “Fondazione” di Roma. Queste cerimonie erano in onore di  Dagan, antico dio del grano e dell’”Occidente”, della costa siro-palestinese (poi confuso con Conso), assimilato al greco Posidone Hippios, così come quelle dei proto-ebrei presso Silo (quando i Beniaminiti rapirono le vergini; ma i Romani non rapirono le sabine e si trattò semmai di una cerimonia nuziale con aspetto esteriore di rapimento) erano in onore di un dio assai simile se non identico a Dagan. A questo dio è dedicato un altare sotterraneo nel Circo Massimo e poiché secondo Dionisio a Posidone non è mai stato eretto un altare sotterraneo (2,31,3) mi pare probabile che ci sia qui una commistione col culto catactonio di Dis pater celtico (De bello gallico, 6,18,1).  Divinità quali Zeus Katakthonios e Seisichthon (Dion. Hal. 2,10,3 e 31,2) e Juppiter Indiges (Livio 1,2,6) paiono commistioni col dio celtico.

Il dualismo Romolo se l’è portato dietro dall’Egitto, ma in qualche modo se l’è ritrovato riprodotto nella Roma primitiva con l’unione fra Romani e Sabini. Il lupo era l’animale totemico dei Beniaminiti, ma fra i geroglifici egizi ve n’è uno che mostra il lupo (in realtà il canis familiaris o un incrocio fra cane e sciacallo egiziano: canis lupaster) sullo stendardo, col significato di Wp-w3wt “apritore di strade”, ed è comprensibile che dei soldati di ventura come i nostri Beniaminiti (e Giudei) di Romolo abbiano utilizzato questo vessillo nella loro bliz krieg alla conquista del Lazio.  Non c’è bisogno di spendere molte parole sul lupo come animale totemico romano. Dirò solo che « La pelle di lupo, usata come vestiario ed atta ad incutere paura  al nemico sopravviverà in età storica nella tipica veste militare del signifer, il portatore dell’insegna, che nella legione romana porterà quella pelle sulle spalle, usandone il teschio ferino come copricapo ed allacciandola davanti alla gola e sul ventre con le zampe. » (Quilici, op. cit., pp. 93-94)

La cerimonia, su cui è Plutarco a diffondersi maggiormente nella Vita di Romolo, prendeva avvio da una grotta ai piedi del Palatino, sul lato nord-occidentale del colle. Oltre alla statua della lupa qui sorgeva una pianta di fico, la ficus Ruminalis. A conferma dell’origine ebraica di Romolo « Secondo certi studiosi di paleobotanica, il fico non sarebbe stato una pianta di origine spontanea nell’Occidente mediterraneo, ma vi sarebbe stato importato » (Quilici, op. cit., p. 49). Al tempo di Plinio il Vecchio « accanto alla statua di Silvano ai piedi del Campidoglio è ricordato un caprifico: una pianta, cioè, di fico selvatico, che culti primordiali legavano ai riti della fecondazione ed in particolare a quelli di Giunone Caprotina. » (Quilici, op. cit., p. 83) Questo caprifico ritorna come riferimento del punto più debole delle mura di Troia/Alba Longa. Io credo che l’episodio di Filotide o Tutola che segnala  di notte ai Romani con una fiaccola presso il caprifico che i Latini erano assopiti, riferito da Plutarco al tempo successivo ai Celti e Camillo (Vita di Romolo 29), possa riferirsi alla caduta di Alba Longa e così esere confluito nel mito della caduta di Troia.  Due giovani nobili rappresentavano Romolo e Remo (in origine rappresentavano più probabilmente Romolo e Tito Tazio, perché Remo è un’invenzione greca posteriore, e dunque i due popoli del Campidoglio e del Palatino). Gli si toccava la fronte con un coltello bagnato di sangue e la si asciugava con lana imbevuta di latte. Dopo essere stati detersi dovevano ridere. Secondo me, a parte i colori rosso sangue del Basso Egitto e bianco latte dell’Alto Egitto, la cerimonia significava la morte magica del re seguita dalla sua rinascita e  vittoria sulla morte. Durante la cerimonia si sacrificava anche un cane rosso (« Secondo alcuni il sacrificio del cane poteva  essere praticato anche nei rituali di Vesta, dato che le ossa di un piccolo cane di tipo volpino sono state trovate nella favissa arcaica di quel tempio, nel Foro Romano. » Quilici, op. cit., p. 98) e il fatto viene spiegato variamente da Plutarco senza convincermi. Io ritengo che il cane sia il lupo (la Lupa) che viene ucciso perché è dalla vita del dio che viene la prosperità agli uomini e anche perché, come afferma Quilici (loc. cit.), è qui richiamata « la sua funzione proprio di animale da guardia, a difesa del campo recinto e del gregge. »

Ovviamente Romolo non è nato nei boschi del Palatino,  e men che meno ad Alba Longa. Romolo è giunto in Italia nella pienezza delle sue forze, a capo di un manipolo di soldati di ventura. Che fosse figlio di una vergine vestale non è da escludere assolutamente, anche se questo tema del re figlio del dio e abbandonato alle acque in una cesta era caro a tutti i re illegittimi dell’oriente, come Sargon, Mosè, Ciro. Bisogna ricordare che Alessandria e Memfi da cui Romolo può essere partito in cerca di ventura alla volta dell’Italia erano anche città emporiche e vi veniva probabilmente praticata la prostituzione sacra anche in quei santuari proto-ebrei, o fenici in genere, posti nei quartieri concessi in uso agli stranieri. La religione ebraica diventa tale solo a partire dal Secondo Tempio e cioè dall’editto di  Ciro II  (538 a. C.) in poi. In precedenza Jahveh non è il dio unico e quando viene venerato, fra tanti altri, lo si trova associato ad una divinità femminile della fertilità. Questo accade nel tempio di Gerusalemme prima dell’invasione babilonese e della deportazione del 597 e 586 a. C. Questo accade in tutti i centri in cui l’epigrafia ci documenta la presenza di mercenari proto-ebrei, ad esempio a Kuntillat Ajrud, un avamposto giudaita dei secoli IX-VII a. C. nel Negev, le cui iscrizioni attestano una Asherah in coppia con Jahu o Jhwh. Ora io ho appurato in seguito ai miei studi che il tempio di Jahveh aveva come elemento centrale il fuoco perenne (come quello di Vesta) e nel vestibolo antistante vivevano le vestali, che accudivano ovviamente al fuoco dandosi nel frattempo alla prostituzione sacra (in epoca verisimilmente più recente si assisterà anche alla prostituzione maschile) e alla tessitura. La prostituzione sacra era la prassi nei centri emporici. Ecco perché Romolo è stato anche detto figlio di una prostituta. Ma poiché Jahveh Sebaoth  è il dio degli eserciti, se Romolo è nato da una prostituta sacra in un santuario proto-ebraico potrà essere stato detto anche figlio di Marte. Figlio di dio, perché è il dio del santuario, per cui la prostituta agisce, il vero padre del nascituro. Ma questo fa parte dell’aura mistica che ogni condottiero (e come non potrebbe essere considerato figlio di Marte un guerriero che ha fondato una nazione di guerrieri che ha conquistato il mondo?) costruisce intorno a sé specie se si tratta di una consuetudine millenaria dei capi del suo paese d’origine. Si può star certi che Romolo era figlio di gente in carne ed ossa al di fuori del tempio, anche se si può credere che fosse il solito cadetto  discendente da un casato illustre. La data ultima della sua partenza da Gerusalemme si può collocare sotto il regno di Azaria/Ozia (781-740) che  « possedeva un esercito agguerrito e pronto per combattere…  guerrieri di grande valore, pronti per aiutare il re contro il nemico. A loro, cioè a tutto l’esercito, Ozia fornì scudi e lance, elmi, corazze, archi e pietre per le fionde. In Gerusalemme aveva fatto costruire macchine, inventate da un esperto, che collocò sulle torri e sugli angoli per scagliare frecce e grandi pietre. La fama di Ozia giunse in regioni lontane; divenne potente perché fu molto assistito. » (2 Cronache, 26,11ss). Il palazzo di Alcinoo e Arete  a Pyrgi (in realtà il palazzo è immaginato prima di tutto a Lavinio, sul fiume Numico dove approda Odisseo; lo attesta anche il riferimento ai tredici re di Scheria compreso Alcinoo, e dunque alle tredici are scoperte a Pratica di Mare – presso un cenotafio  del VII dove si venerava Enea come Giove Indigete –  idealmente rappresentative,  in origine, chissà, delle tredici tribù ebree; devo ricordare che le tribù ebraiche sono 13 e non 12 perché vi si devono aggiungere i leviti che non hanno sede territoriale propria; va inoltre detto che dopo la scissione fra regno del nord, Israele, con dieci tribù ed  esclusione dei leviti perché Israele è pagana, e Giuda al sud composta da giudei, beniaminiti e leviti, l’unico vero stato ebraico o proto-ebraico credente in Jahveh è Giuda; non esiste poi una tribù di Giuseppe ma le due dei suoi due figli, Efraim e Manasse) è certamente un palazzo con il tempio annesso né più né meno di quello di Salomone, del quale però non abbiamo traccia archeologica. Le cinquanta tessitrici di Alcinoo sono delle schiave “vestali” che praticavano la prostituzione sacra con lo straniero, tipo Odisseo/Romolo. A proposito della fondazione di Roma da parte di proto-ebrei giunti dall’Egitto sarà interessante raccogliere la tradizione plutarchea secondo cui Tarruzio, astrologo amico di Varrone, su proposta  di questo stabilì  che « il concepimento di Romolo era avvenuto nel primo anno della seconda Olimpiade all’ora terza del ventitreesimo giorno che gli Egiziani chiamano Choiax [24 giugno 772], durante un’eclissi totale di sole, e che era stato dato alla luce il ventunesimo giorno del mese di Touth [24 marzo 771] all’alba; e, infine, che Roma era stata fondata da Romolo il nono giorno del mese di Farmouthi  [4 ottobre 754] tra la seconda e la terza ora. » (Vita di Romolo, 12,3-6) Saranno di derivazione giudea e comunque orientale i simboli della regalità introdotti da Romolo, a partire dal bastone ricurvo dei pastori (divenuto lo scettro del re pastore sì, ma di uomini), il pedum, che era usato anche come arma da getto per la caccia (cf. Iliade 23,845: « quanto lontano scaglia un bovaro il vincastro che vola roteando fra le mucche del gregge »), al mantello purpureo, alla toga bordata di porpora, al trono con la spalliera ricurva. Davanti a lui camminavano dei pubblici ufficiali che usavano bastoni per allontanare la gente e cinghie di cuoio per legarla. Secondo me un richiamo a una cerimonia giudea è quello dei dodici Salii che saltando portavano gli scudi ancili ai principali santuari della città, deponendoveli e poi riprendendoli con un rituale che durava più giorni. Al tempo della sua spedizione contro Gerusalemme il faraone Shoshenk « depredò i tesori del tempio e vuotò la reggia dei suoi tesori. Prese anche gli scudi d’oro fatti da Salomone. Roboamo li sostituì con scudi di bronzo, che affidò agli ufficiali delle guardie addette alle porte della reggia. Ogni volta che il re andava nel tempio, le guardie li prendevano, poi li riportavano nella sala delle guardie. » (1 Re, 14,25ss; testo parallelo in 2 Cronache, 12,9ss)

Concludendo mi sembra che si possa confermare  l’antico giudizio di Martha di una civiltà etrusco-romana spicchio d’oriente trapiantato sulla costa tirrenica bagnata dal Tevere. Questo trapianto inizia con i piccoli nuclei di immigrati fin dall’VIII secolo, e poi si tratta solo di esplosione dell’orientalizzante quando questi si sono bene ambientati ed organizzati,  acquisendo quella ricchezza che permetteva loro di richiamare mercanti ed artigiani che riproducessero nella nuova patria e con maggiore sfarzo le cose belle dei loro ricordi tradizionali. Come Roma non sarebbe Roma senza l’ebreo Romolo, così l’Etruria non sarebbe Etruria senza i regoli siro-ciprioti che vi imposero le proprie dinastie. 

La divisione della popolazione romana in tre tribù e trenta curie è tanto indigena (celto-germanica) che  importata e creata da Romolo (su basi indeuropee). Già Saul disponeva di una legione di tremila uomini (1 Samuele 13,2) e guidata da capi di migliaia e di centinaia o centurioni (2 Samuele 18,1,4). Mi chiedo se la tripartizione non nasca nella mente di Romolo prima di tutto dalle tre tribù dei Giudei, Beniaminiti e Leviti. C’è un accenno ad una guardia del corpo di mercenari stranieri, Cretei e Peletei (2 Samuele 20,7,23; 1 Re 1,38,44) e più tardi Cari, guidate da centurioni e dunque ammontanti presumibilmente a trecento (2 Re 11,4; 2 Cronache 23,9) come i Celeri di Romolo che erano cavalieri che potevano anche combattere come fanti appiedati. Ogni tribù era dunque già divisa in dieci curie e ogni curia  dava cento fanti e dieci cavalieri per un totale di tremila fanti e trecento cavalieri. Fu Romolo ad importare questa struttura a Roma. Quanto al nome curia però c’è da credere che sia celtico e dunque della lingua del luogo in quanto degli stranieri come i mercenari di Romolo non possono aver avuto la possibilità di imporre la lingua dovendo sposare le donne del luogo le quali ovviamente hanno insegnato ai figli la propria lingua. Dunque ipotizzo che curia possa derivare dal celtico corios, plurale corii, tribù, confronta il Périgord, regione della Francia dove si stabiliscono quattro (gall. petru-) tribù in marcia con armi e bagagli (gall. -corii).   

Da Corrado Barbagallo, Roma antica 1, UTET, p. 42

 

I Sabini celto-germani della Roma primitiva sono ripartiti in tribù in cui vigono i legami di sangue e dove i guerrieri combattono per il loro capo che combatte solo per la sua gloria, la gloria di un barbaro che si può vantare di tagliare le teste al maggior numero di nemici e legarle al collo del proprio cavallo. Ma già questi primi signori di Roma conoscono un re con poteri quasi assoluti quale ci è dipinto Agamennone, un popolo in armi (gall. corios, ted. Heer; da cui curia, sede dei cittadini sovrani kyrioi/koϝíranes. La sovranità – almeno in teoria – è del popolo. Che Quirino discenda da koϝíranos o anche ebr. qiriah fen. qariah “città”, egli è il “Protettore della città” come quirite  è il “cittadino”, collegati a curia  dove vi si è convocati da addetti che suonavano il corno di bue, Dion. Hal. 2,8,4. Tali corni di bue usati dal clero e dall’esercito giudeo sono stati rinvenuti anche nelle tombe orientalizzanti come quello in avorio della tomba Barberini da Palestrina, mentre dalla tomba Bernardini sempre da Palestrina proviene un’iscrizione fenicia, cf.  Gras,  Rouillard e  Teixidor, op. cit., p. 164; e si tenga anche presente che l’assemblea curiata dell’esercito in armi era convocata attraverso i capi di mille, cento e dieci, in modo che attraverso questi tutta l’assemblea si presentava immediatamente a raccolta, Dion. Hal. 2,14,4, cf.  ebr. *qaria, e dove il popolo sovrano  proclama le sue decisioni, cf. ebr. *qeriàh) che lo elegge e che viene da lui convocato mediante gli araldi quando vi sia da deliberare su questioni di capitale importanza come la pace o la guerra, ma che poiché è troppo numeroso per potersi avere votazioni frequenti viene il più delle volte emarginato dai senatori o consiglieri (così vengono definiti nell’Iliade soprattutto il senato di Troia/Roma) del re, quali Odisseo, Nestore, Aiace Telamonio, Achille ecc., che sono i capi delle gentes e che quando muore il re fungono da interreges fino a convocazione dei comizi curiati che eleggeranno il nuovo re.  Per giunta i re sono spesso insofferenti del controllo del popolo in armi (che fa sentire la sua voce pericolosa come quella di un Tersite) e così abbiamo Odisseo che malmena l’esercito e lo disperde utilizzando lo scettro di Agamennone. Ma anche sono insofferenti degli stessi senatori consiglieri (il senato sfruttando il fatto che siede in premanenza tenderà ad assumersi quasi tutti i poteri a scapito sia del re che del popolo) e così Agamennone usa la sua prepotenza contro Achille togliendogli la schiava Briseide in cambio di Criseide che lui ha dovuto restituire al padre Crise per bocca di Calcante, aruspice (gli uccelli in questione erano ovviamente gli avvoltoi tanto presso i Palestinesi quanto presso i Romani in quanto Romolo e Remo avvisteranno degli avvoltoi, uccello di provenienza orientale di eccezionale avvistamento già all’inizio dell’impero) erede degli onnipotenti sacerdoti proto-ebrei che tanti danni avevano provocato in Giudea e Israele. Fin dalle origini si avverte la politica di Saul, Davide e Salomone, di spostare il proprio regno lontano dalle loro sedi e comunque cercare di evitarne l’infausto tentativo (vedi Samuele) di imporre la loro casta e la propria politica su quella  monarchica. Romolo e i suoi successori riusciranno ad  eliminare questa influenza nefasta (cui invece soggiacciono tranquillamente gli stati che come l’Italia non riescono a scrollarsi di dosso il potere del Vaticano) facendo dei sacerdoti dei funzionari e ricorrendo soprattutto a sacerdoti stranieri (etruschi) chiamati a vaticinare per poi tornare nella loro terra d’origine senza poter mettere radici a Roma. Per questo motivo Roma riuscirà a creare un grande impero laico distrutto solo dai cristiani di provenienza israelitica cioè di una terra che nulla aveva a che fare con Jahveh e che prima di distruggere il tempio di Giavè capitolino avevano distrutto quello di Jahveh a Gerusalemme. Ettore, dietro cui è Romolo, si presenta come capo del popolo, senza distinzioni tribali, in armi, e dunque combatte non per Priamo e per la nobiltà di Troia, bensì per la città e il suo popolo tutto. Romolo è un cittadino. Si racconta che dopo morto sia apparso in sogno ad un uomo del popolo e gli abbia raccomandato che lo si onorasse come Quirino, dunque come dio (Jahveh) della città e dunque del popolo. I tre flamini Diale (di Giove), Marziale e Quirinale sono l’unica prova di un’originaria tripartizione funzionale indeuropea ma corrotta dal dio unico portato da Romolo, Jahveh Sebaoth (così Romolo dedica le spoglie opime del re dei Cenini vinto in battaglia a Giove Feretrio sul Campidoglio con modalità che ricordano da vicino consimili dediche dei Filistei – le armi di Saul –  nel tempio di Astarte, 1 Samuele 31,10 o in quello di Dagon, 1 Cronache 10,10), e dalla storia concreta che fece sì che questa tripartizione fosse anche etnica in origine. Così il dio è sempre lo stesso Jahveh/Giovè importato da Romolo ma è venerato da flamini distinti a seconda della tribù di appartenenza e cioè dei Sabini del Quirinale e Campidoglio che hanno appunto Giove e forniscono in prevalenza re (fino ai re etruschi i re saranno tutti sabini a partire da Tito Tazio che, solo perché viene ammazzato, lascia al potere da solo Romolo che sarà l’unico re ebreo) e sacerdoti, dei Romani del Palatino che venerano Jahveh Sebaoth, “degli eserciti” dunque Marte, e forniscono in prevalenza i guerrieri, e infine della plebe dei Luceri dell’asilo sul Quirinale, che diverranno cittadini senza di solito portarsi dietro titoli nobiliari o ricchezze, tranne l’unica, di essere cittadini romani, Quiriti. Questa interpretazione spiega lo stallo avvenuto nella guerra fra Romani e Sabini e l’accordo in seguito al quale i Romani accettarono la posizione subalterna di guerrieri rispetto a quella principale di re e sacerdoti dei Sabini e che Romolo regnasse in collegialità con Tito Tazio. Poi l’uccisione di Tito lasciò tutto il potere in mano a Romolo che però non avendo dietro di sé un grande nucleo di connazionali e quel che è peggio, le donne ebree, finì coll’estinguersi il sangue ebreo a vantaggio della locale popolazione sabina, poi latina (com’è evidente questi nomi, Sabini, Latini, sono tutte etichette vuote e senza senso se si prescinde dal comprendere la realtà concreta ed in evoluzione), che ebbe il sopravvento sia pure potendosi mantenere, col tempo e grazie anche a personaggi come Tullo Ostilio, le istituzioni politiche care a Romolo.  E’ dunque già a Romolo che si deve attribuire la volontà di fondare Roma sul terzo stato dei *co-viri, sull’assemblea del popolo romano senza distinzione di classe.  Io credo che la riforma delle quattro tribù a base geografica, che spezzava i legami delle tribù di sangue, sia dovuta a Tullo Ostilio che pavimenta il Foro e costruisce la Curia Hostilia e sistema il monumento a Romolo sull’ex Volcanal (presso cui si riunivano i senatori in una parte della vecchia Curia) facendolo sormontare dal leone di Giuda e ponendovi vicino una colonna con la sua statua e un cippo che ne indicava il ritrovamento e l’interdizione al pubblico come area religiosa. Vero erede e discendente di Romolo, l’Iliade da lui commissionata è l’inno al popolo di Roma costituito dai cittadini in armi che compatti nella falange oplitica combattono disciplinatamente agli ordini di Ettore/Romolo. La falange oplitica troiana/romulea  porta nell’esercito il terzo stato dei Luceri e dunque la volontà di spezzare la tribù e legare tutti senza distinzione alla città su base regionale (che grande insegnamento quello di Romolo che, a differenza di tutti gli Italiani venuti dopo di lui, non ha voluto far pesare o ha cercato di far pesare il meno possibile i privilegi dei “fondatori”!) Non c’è più spazio per la generosa ed  esuberante improvvisazione celtica, tanto facile alle delusioni e agli scoramenti. E’ nata la disciplina dell’esercito romano e la scienza della guerra: « verso il VII secolo l’oplita comincia a imporre i suoi servizi. L’oplita è il fante con equipaggiamento pesante, corazza di bronzo, scudo, elmo, gambali (i cnamides), e nella destra una lunga lancia appuntita. Avanza verso il nemico stretto contro i suoi compagni, nella massa compatta della falange, ossia diverse file di uomini gomito a gomito, protetti dalla linea degli scudi serrati, come le placche di una corazza. Questa truppa marcia allo stesso passo. Sul vaso Chigi (circa 640), accanto agli opliti cammina un musicista che suona il flauto doppio: batte il tempo e fa avanzare allo stesso ritmo l’intera falange. » (Braudel, op. cit., p. 292) E’ Tullo Ostilio che ha iniziato la riforma delle quattro regioni poi perfezionata da Servio Tullio.

 

Fine

 

 

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