Roma fondazione giudea
(di mercenari ambientati in Egitto)
MGCorsini. 21 agosto 2007. Tutti i diritti riservati.
Quando una
decina d’anni fa scoprii che il nucleo più antico dell’Odissea,
il Viaggio d’Odisseo, fu commissionato ad Omero per celebrare il santuario di
Ino Leucothea a Pyrgi ero consapevole di aver fatto una grande scoperta, che
consentiva finalmente di gettare luce su Omero e l’ambiente in cui scrisse, ma
non immaginavo quanto lontano quella scoperta mi avrebbe portato. A distanza di
tempo ancora emergono nuovi dettagli ad arricchire la messe del raccolto. Devo
certamente dire grazie per questa intuizione, in gran
parte, alle fotocopie di un libricino
sugli scavi di Pyrgi che Francesco De Marco (specialista nel ricostruire le
regole e i giochi antichi scoperti nei diversi scavi archeologici), che sapeva
dei miei studi, con preveggenza mi donò
ben sapendo che mi sarebbero state utili. Quello che segue è un riesame
ed un approfondimento dei miei lavori su Omero e i poemi omerici, Romolo e la
fondazione di Roma, la questione dei “Pelasgi”, il Cippo del Foro,
In sintesi
credo adesso che tre stratificazioni culturali abbiano dato vita a Roma. Quella
incineratrice celto-germanica dei re e sacerdoti sabini del Campidoglio e
Quirinale, quella linguistica dei prospettori minerari e metallurgi di Lemno,
Imbro e Samotracia dell’altare di Efesto nel Foro, ancora sacerdoti, e quella
politica e istituzionale dei guerrieri giudei e beniaminiti di Romolo,
fondatore di Roma (Rumah, collina) sul Palatino. Dietro alle ultime due
stratificazioni c’è, più che altro culturalmente, l’Egitto dalla XVII dinastia tebana alla XXII libica. Roma è
la più antica e importante città etrusca ed altre importanti e antiche città
etrusche sono nel Lazio. E’ qui, nel Lazio, il cuore della civiltà etrusca,
anche dove non ne viene parlata la lingua.
« Quando non
vanno in guerra, trascorrono il tempo più nell’ozio che nella caccia, occupati
a dormire e a mangiare, mentre i più forti e i più bellicosi se ne stanno senza
far nulla… se ne stanno in ozio per uno strano contrasto della natura, questi
uomini che amano l’inerzia e nello stesso tempo odiano tanto la pace. »
(Tacito,
Prima di
tutto dobbiamo mettere bene in risalto quell’officina gentium che fu il quadrante nord-occidentale dell’ecumene
(penso soprattutto alla penisola dello Jutland con riferimento al culto della
dea Nerthus/Nortia di cui riparleremo in relazione a due luoghi di culto
strettamente legati fra loro, quelli di Artemide Taurica in Crimea e di Diana
Nemorense nei Castelli Romani), abitato secondo Erodoto dai Celti (chiamati a
volte Iperborei e confusi anche coi Germani e altri popoli slavi ad oriente,
come gli Sciti, con cui condividevano usi e costumi, come quello di tagliare le
teste dei nemici uccisi e attaccarle al collo dei propri cavalli) a nord del
Danubio e delle Alpi, dalle regioni atlantiche
di Spagna e Gallia fino alle coste settentrionali del Mar Nero (cf.
anche L. Braccesi, I Greci delle periferie, Editori Laterza, pp. 147-148).
L’ecumene di Erodoto
(da Peretti, Il Periplo)
Leggo da I
regni dei Celti di Myles Dillon e Nora K. Chadwick che « Per due secoli » dice Grenier « essi (i
Celti) furono il più grande popolo d’Europa… Attorno al
Le stesse
vie carovaniere che percorrevano
l’Europa in lungo e in largo certamente almeno fin dal II millennio
passavano per i territori dei “barbari”
ed erano da loro sottoposte ad un rigoroso controllo di polizia mercantile
(terrestre, fluviale e marittima) perché ciascun signore e ciascun popolo
indigeno aveva tutto l’interesse
affinché i prodotti locali, in
particolare l’ambra che proveniva dal Mare del Nord in un’area compresa fra lo
Jutland e l’Estonia, giungessero di mano in mano ai consumatori del
Mediterraneo, del Mar Nero e oltre, così come aveva interesse ad approvvigionarsi di mercato in
mercato dei prodotti di scambio meridionali che facevano il percorso in senso
inverso.
Ci aiutano a
comprendere questa realtà il racconto di Erodoto sulle offerte inviate da tempo
immemorabile dagli Iperborei a Delo, offerte (probabilmente di ambra) che
passano di mano in mano finché giungono a Delo (Tutto prese avvio da quando la
dea Ilizia in persona giunse a Delo per aiutare Latona nel parto di Apollo e da
quando poi gli Iperborei resero grazie a Ilizia del rapido parto: 4,35. E’
interessante notare che queste offerte « provenienti dagli Iperborei arrivano
nelle mani degli Sciti e dagli Sciti via via passano di gente in gente fino a
giungere nel lontanissimo occidente, fino all’Adriatico. Da qui vengono inviate
verso sud: i primi Greci a riceverle sono quelli di Dodona » in Epiro, e da
qui, di passaggio in passaggio arrivano a Delo: 4,33. E’ poi difficile pensare che il santuario di
Ilizia iperborea a Pyrgi fosse estraneo a questa tradizione. Forse era
collegato con il capolinea piceno (sulla
sponda adriatica) della via dell’ambra.
Possiamo pensare a Novilara, e anche qui, la stele omonima dimostra
nella lettura data da Braccesi che il signore del luogo scortava le navi che
provenendo dallo snodo della laguna veneta
vi venivano a scaricare e caricare
merci perché era un suo preciso interesse
garantire il regolare svolgimento dei commerci contro la pirateria
illirica. Ed è significativo che nella
vicina Verucchio sia attestato da Pausania, 5,12,5, un « Arìmnesto che regnò
sui Tirreni, il quale, primo fra i barbari, offrì un ex voto allo Zeus di Olimpia », un trono, donato verisimilmente in
ringraziamento di una vittoria sui pirati illirici (Braccesi, op. cit. pp.
115-116). Ancora un passo di questo
libro, citato dal De mirabilibus
auscultationibus, mi convince che l’iniziativa dei commerci non è tanto
degli stranieri che provengono dal sud per comprare, quanto degli indigeni
iperborei che intendono esportare il surplus dei loro prodotti: « Narrano che
dall’Italia fino alla Celtica, al paese dei Celto-liguri, e al paese degli
Iberi, vi sia una strada cosiddetta ‘di Eracle’ lungo la quale gli indigeni
vigilano affinché non sia recata offesa ai viaggiatori, siano essi greci o
nativi. Subiscono, infatti, una condanna quanti compiono un’ingiustizia nel
proprio territorio. » (85 = 837a) Il libro di Braccesi ricostruisce sulla base
dei dati della tradizione la via degli Argonauti che via terra soprattutto, ma
anche parzialmente via fiume, dalla Tracia europea (percorso ricco di giacimenti argentiferi poi
ricalcato via terra dalla romana via Egnazia), lungo la valle del Danubio, giungeva
fino alle lagune venete e alla foce del Po e da questo snodo nevralgico si
diramava, da una parte come via Eraclea, attraverso le valli del Po e del
Rodano, arrivando fino a Marsiglia e poi fino a Tartesso e Gades (colonia di
Tiro, al di là delle colonne di Eracle così dette dalle due grandi colonne davanti al tempio di
Melqart “Signore della città” per cui era riconoscibile a distanza dai
marinai) in Spagna (percorso poi
ricalcato dalla via Domizia), e dall’altra giù per la penisola italica, passando
gli Appennini e Cortona fino a Cere (cioè Pyrgi) e Roma nel Tirreno.
Nelle
Argonautiche, che io ritengo di tradizione etrusco-romana, i Colchi del Mar
Nero all’inseguimento di Medea giungono presso Alcinoo, ovviamente a Pyrgi, nel
Lazio, dove io l’ho collocato da un decennio. Devo ora sostituire a questa
interpretazione quella che ho elaborato di recente, in seguito a vari dubbi che
avevo già avuto, e poi abbracciato grazie al
suggerimento decisivo – cioè che per qualche tempo Pyrgi sia stata porto
di Roma, p. 254 – datomi dalla lettura
di Memorie del Mediterraneo,
Preistoria e antichità, libro postumo sui manoscritti di Fernand Braudel,
Tascabili Bompiani, 2° ed. 2005, e cioè che Omero sia volutamente vago sulla
geografia di Pyrgi, che comunque è la città di Alcinoo. Grazie a Braudel
sostengo ora che Omero faccia come una forcella fra Pyrgi a nord del Tevere e a
sud di questo il santuario delle tredici are recentemente scoperto presso
Lavinio (e presso il fiume Numico, Fosso di Pratica di Mare) che calza perfettamente col culto dei dodici sovrani di
Scheria su cui regna tredicesimo Alcinoo. Dunque è il Tevere (lo Xantos
“Biondo”, il biondo Tevere, omerico dei primissimi canti omerici, gli attuali
libri XIV: Romolo/Ettore colpito da un masso alla testa cade a terra e i Romani
fuggono inseguiti dai Sabini e XV: Zeus – si risveglia dal sonno ingannatore di
Era e secondo quanto promesso a Teti, ma questa è una riedizione omerica
successiva – comanda che Ettore/Romolo
si rialzi e assistito da Apollo respinga i Sabini fino alla Regia e al tempio
di Vesta, e il tutto si doveva concludere con l’intervento pacificatore delle
Sabine e l’unione fra i due popoli firmata al Volcanal) di Roma, il fiume sacro nelle cui acque Omero immagina
che Odisseo naufrago tocchi terra nel
magico paese dei Feaci di Scheria, ed è infatti Roma che Omero celebra dapprima
sotto Numa Pompilio il re pio – celebrando col Viaggio d’Odisseo il santuario
iperboreo di Ilizia a Pyrgi porto di Roma prima che questa fondi Ostia – e poi, sotto Tullo Ostilio il re ateo nipote
di Romolo, ad un secolo dalla
fondazione, con un poema che originariamente – l’ho scoperto adesso grazie ad
aver preso fin dall’inizio la giusta via interpretativa – celebrava proprio la guerra fra Romani
ultimamente arrivati e Sabini già stanziati sul Campidoglio e sul Quirinale. Ne
riparlerò ampiamente in seguito). So bene che Apollonio Rodio fornisce altra
ubicazione e altro percorso, ma io mi riferisco alla tradizione originaria, che
deduco da Omero (che fu il primo a inventarsi
– su solidi elementi storici
travisati per comporre una favola divertente e piacevole soprattutto pei Greci
cui era diretta – la guerra di Troia che altri si incaricarono di perfezionare
per quel poco che era loro lasciato da inventare, ognuno portando il proprio
contributo di dettaglio) e in particolare dal Viaggio d’Odisseo, che aveva
cognizione delle navigazioni nel Mar Nero (probabilmente Omero deriva il suo
mare “nebbioso” da questo mare dalle frequenti tempeste, sempre “avvolto in nebbie
e nuvole”), dove appunto, nella Colchide, era collocata Circe. A me non
interessa l’erudizione dei mitografi greci posteriori che rilessero a loro uso
e consumo, applicandola a situazioni via via nuove e diverse, la tradizione
originaria. Per me è Vangelo come lo era per Schliemann quanto racconta
Omero, mio compaesano (nato ai piedi di
Monte Cavo da padre discendente dei greci dell’Aventino, da Romolo relegati ad
Alba Longa, e da madre indigena, probabilmente etrusco-romana come sostenni
all’inizio, perché gli elementi culturali
iperborei sono al fondo anche della civiltà etrusco-romana), il più
antico testimone degli eventi di cui ci occupiamo, che poté ancora parlare con
qualche sopravvissuto delle imprese di Romolo e comunque poté udir parlare delle
sue imprese da una tradizione ancora vicinissima ai fatti. Se si pensa che
Piero Angela poté intervistare l’ultimo soldato napoleonico si capirà meglio
cosa intendo dire.
Ora è
probabilissimo che il tragitto originario di questi Argonauti di ritorno dalla
Colchide scendesse per la carovaniera “pelasgica”, ricostruita da
Braccesi, che dall’Alto Adriatico, lungo
la penisola italiana, attraverso gli Appennini,
raggiungeva Pyrgi di Alcinoo. Lo deduco dal fatto che secondo Apollonio
Rodio gli Argonauti passano per due volte presso i monti Cerauni della costa ex
jugoslava (cioè visibilmente allungano il percorso facendo tutto l’Adriatico
andata e ritorno fino al punto di partenza, allungando poi ancora il percorso
per l’Eridano e il Rodano, scendendo per il Tirreno e giungendo a Corcira, ai
monti Cerauni, attraverso lo stretto di Messina), mentre in origine dovevano
incontrare i monti Cerauni del centro Italia. Rileggendo Dionisio
d’Alicarnasso, « vicino ai monti Cerauni » c’è « Suesbula, sessanta stadi da Tribula
», antichi centri occupati dagli Aborigeni nel territorio di Rieti (1,14,1-2).
Dunque, passando presso questi monti Cerauni, si arriva alla costa laziale e a
Pyrgi/Perge monte dei Tirreni. Non è chi non veda che i Colchi alla ricerca di
Medea giunti fino alla corte di Alcinoo e rimasti ad abitare in amicizia nella
sua terra corrispondono a popoli di navigatori e mercanti che avevano
l’iniziativa del trasporto delle loro merci sulla via degli Argonauti. E’
evidente che il Lemnio della stele omonima, che si trova sulla via di queste
correnti marinare poteva essere una via di mezzo fra la lingua degli Etruschi
di Alcinoo e quella dei Colchi del Mar Nero con essi strettamente legati. Ma è
chiaro che più di Pyrgi la città predestinata ad avvantaggiarsi della sua
posizione strategica in questa via carovaniera “pelasgica” era Roma, e infatti,
come scrive nel suo ottimo libro L. Quilici,
Come si vede
chiaramente dalla cartina (che rende bene l’idea della morfologia del suolo di
Roma in età protostorica, con sulla sinistra il Tevere e l’isola Tiberina), il
Velabro, un rio che si dipartiva dal Tevere che quando straripava allagava la
pianura rendendola un pantano, divideva fisicamente la città nascente in tre
parti: nord, in mano ai Sabini
(Campidoglio, Quirinale e Viminale), centro
in mano ai Romani di Romolo (Germalo, a guardia del guado del fiume e
del Foro Boario, Palatino e Celio), sud,
stando alla ricostruzione della tradizione antica, in mano ai Greci (Aventino)
che avevano tentato la colonizzazione del Tevere (con Remo antagonista di
Romolo) ma poi erano stati vinti e confinati ad Alba Longa. I tre colli
fondamentali erano Campidoglio, Palatino e Aventino.
Da Dionisio d’Alicarnasso, Storia di Roma arcaica, Rusconi.
Già che sto riscrivendo
la storia primitiva di Roma comincio col dire che mi pare assurdo che i Sabini
possano aver conquistato di sorpresa il Campidoglio (collegato al Quirinale),
dato che questo monte costituiva la
roccaforte della città, abitato tra la fine dell’età del bronzo e l’inizio
dell’età del ferro ovviamente dai Sabini stessi. E perché non avrebbero dato
l’allarme le oche capitoline, oche che, in sogno, mandano presagi anche a
Penelope? E i Sabini avevano lingua e costumi celto-germanici, anzi, linguisticamente
germanici (anche alla base dell’etrusco, che io ho tradotto in grandissima
parte anche se non riesco più a leggere i dischetti in Wordstar4, c’è un
lessico celto-germanico). I Sabini avevano costumi celtici con quei loro
bracciali d’oro e anelli che fecero gola a Tarpea e ne determinarono la morte. Secondo
Strabone « Gli uomini [Celti della
Gallia] portano tutti monili d’oro, collari al collo e bracciali alle braccia e
ai polsi » 4, 4, 4). Un primo mercato s’era così creato presso il Foro Boario
(perché vi si mercanteggiavano i buoi) in prossimità del guado del Tevere
all’isola Tiberina. Detto in lingua celtica, qui si aveva un Oxford, un “guado
dei buoi”. E nel latino (che ha anch’esso origini celto-germaniche e d’altra
parte molto deve al sabino) io ipotizzo ora che dal celtico wər-bos (luogo dell’“attraversamento dei buoi, del bestiame”) derivi con
accento sulla vocale iniziale la parola urbs, nome della Città. E ben presto
qui si costruì (scommetto ad opera dei genieri di Romolo) il ponte di legno a
incastro, rimovibile in caso di guerra, detto Sublicio. Dunque i Sabini furono
coloro che in un primo momento il destino pose a controllo dell’importantissima
arteria commerciale lungo il Tevere. L’iniziativa degli scambi commerciali era
dei Sabini che dunque intendevano garantire la regolarità degli scambi
commerciali. Le favolistiche notizie
riguardanti la fanciullezza dei due gemelli fornite da Dionisio d’Alicarnasso
sembrano sottolineare che prima
dell’arrivo di Romolo ognuno faceva (come del resto nei regni di Odisseo e di
Nestore) quel che gli pareva ed era un continuo di faide e scontri anche
mortali connessi con l’abigeato e gli assalti alle carovane e ai viandanti che
precorrevano le direttrici commerciali che scendevano dagli Appennini seguendo
il corso del Tevere e quella congiungente
l’Etruria alla Campania e a
Capua. Inoltre era possibile una certa attività piratesca (competizione fra
fenici, greci, sabini terrieri, metallurgi traci di Lemno Imbro e Samotracia)
contro le navi che scendevano o risalivano il corso del Tevere.
Lo stato
barbarico del Lazio primitivo è sufficientemente rappresentato dal ladro di
bestiame Caco, dalla pena capitale (pena comminata dall’etrusco Tarquinio
prisco) consistente nell’ immergere qualcuno nel fango di una palude
ricoprendolo con una stuoia
(probabilmente all’origine di qualcuna delle mummie che rinveniamo nell’Europa
nord-occidentale, anche se altre possono
aver appartenuto a persone sacrificate
nei rituali connessi coi culti dei boschi e dei laghi della dea Nerthus/Northia
germanica ma anche etrusca, la madre Terra, cui si donavano le prede belliche
spesso costituenti veri tesori, come il calderone d’argento di Gundestrup, e
carri a quattro ruote che forse erano i carri stessi tirati da giovenche su cui
la dea era portata annualmente in processione poi immersi nel lago da alcuni
schiavi sacrificati a morire affogati
(vedi Tacito,
Nel suo
lavoro sul santuario di Diana Nemorense J. G. Frazer scrive: « Si narra che il
culto di Diana a Nemi fosse stato istituito da Oreste il quale, dopo aver
ucciso Toante re del Chersoneso Taurico (
La componente “iperborea” deve essere anche più antica, in Etruria, dei terramaricoli e dei villanoviani, ma è
certo che in epoca assai antica, nell’arco del buio medioevo greco, la troviamo
già fusa con una componente egea che aveva la lingua in comune con l’Etruria o
perché due isole linguistiche isolate dall’indeuropeizzazione o perché, come io
credo più probabile, perché in età preistorica metallurgi di Lemno Imbro e
Samotracia frequentarono
Trascrizione: Lato A: aker tavarsio / vanala3ial seronai morinail /
holaies naphoth / siasi / marasm av / 3ialkhveis avis / evi3tho seronaith /
sivai. Lato B: holaiesi phokiasiale seronaith evi3tho toverona[l?] / romh
aralio sivai eptesio arai tis phoke[-?] / sivai avis sialkhvis marasm avis
aomai.
Traduzione: A: Aker Tavarsio / donò
come ufficio funebre, / (A. T. il) nipote di Hylaios, / defunto, / per cinque
(e) / quaranta anni / al servizio di Efesto (il dio) / vissuto. B: Ad Hylaios
di Focea al servizio di Efesto Tiberino (Thyberonal)/ sul suolo di Roma, nel
settimo anno di residenza a Focea, / ad anni di vita quarantacinque scomparso.
Traduzione più scorrevole: A: Aker
Tavarsio donò (la stele) come ufficio funebre. (A. T. il) nipote di
Hylaios/Silvio, defunto, vissuto per quarantacinque anni al servizio del dio
Efesto. B: A Hylaios di Focea servitore di Efesto Tiberino a Roma, scomparso ad
anni quarantacinque nel settimo anno che risiedeva a Focea.
Anche Braudel è stato colpito dalle
navi senza remi dei popoli del mare con protome animale e le accosta ai più
tardi hippoi fenici delle coste
siriache, delle battute di caccia di Assurbanipal, dei tributi di Tiro, di un
gioiello fenicio in Spagna, e conclude che « Tutte queste immagini riportano a
un’unica regione:
Erodoto
(VI,138) accenna al rapimento delle Ateniesi che celebravano a Braurone una
festa in onore di Artemide da parte dei Tirreni (che lui chiama Pelasgi) di
Lemno. Dunque i Tirreni volevano integrarsi con la popolazione locale
attraverso il (finto: forse finto fu perfino il primo rapimento delle
danzatrici del tempio di Silo da parte dei Beniaminiti; tutto il resto fu poi
solo tradizione fino ai tempi romani classici) rapimento delle donne, come
comandava Afrodite Urania.
Tempo dopo
la morte del sacerdote Hylaios, nel
I Celti (e
dunque i Sabini) sono terrieri e non navigatori (la spedizione a Troia, l’unica
impresa marinara che gli si potrebbe attribuire fu una disperata emigrazione –
ai tempi delle invasioni dei popoli del mare – in cerca di nuovi sbocchi, e fu
condotta via Tracia). E’ per questo motivo che io credo che il re sabino
concesse volentieri, di più, invitò addirittura
a prestare servizio di polizia fluviale e marittima Romolo e i suoi soldati di ventura (con tutta evidenza Romolo non è a capo di
una colonia di Albalonga, composta di giovani in esubero di ambo i sessi, bensì
a capo di avventurieri mercenari che rapidamente conquistano e assoggettano
popoli per loro stranieri, e giunge dunque con le modalità di Enea, via mare,
fondando dapprima un accampamento militare presso la foce del Numico (Fosso di
Pratica) richiamando così l’attenzione del signore del Campidoglio),
concedendogli uno spazio in cui questo fondò uno stratopedon, un accampamento militare sul colle (che poi dall’ebraico i seguaci
preminenti di Romolo chiamarono Rama, Ruma) Germalo (e gli scavi effettuati nel
1907 confermano che il villaggio è dell’VIII secolo: si tratta di tre capanne
rettangolari ad angoli tondeggianti, con piancito leggermente ribassato nel
banco di tufo davanti al tempio di Mater Matuta nel Foro Boario), che prendeva
nome, nome sabino, indigeno, da una
piccola punta o sperone (sporgente nella groppa occidentale del Palatino, mentre quella orientale è il
Palatiale), cf. ted. Ger, giavellotto,
dunque “punta, sperone”; cf. Germani, gli “uomini del giavellotto”; e ted. Mal,
“segno”, “cippo”, “monumento”, dunque qualcosa come “il colle marchiato dalla
pietra a forma di punta di giavellotto”. Questo accampamento militare a guardia
del mercato boario e delle vie commerciali che facevano capo a Roma assegnato agli stranieri mercenari ebrei era
comunque in posizione subordinata e dunque controllabile – così pensava, giustamente, il re sabino
– dalla rocca.
I Sabini
erano sempre stati sui colli Quirinale e Campidoglio e nella loro lingua la
tribù in armi depositaria del potere si riuniva nella Curia (gall. corios, ted. Heer), sede
dei cittadini sovrani kyrioi/koϝíranes (in armi). Era o meglio Iuno Curitis sarà piuttosto Iuno delle Curie e il fatto di
essere armata di lancia farà appunto riferimento al popolo in armi delle tribù.
Non molto tempo fa una laureanda in archeologia mi chiese lumi per la sua tesi
sulla differenza fra Iuno italica e Hera greca. Non era un problema che m’ero
mai posto e dunque mi limitai a darle dei suggerimenti su come procedere nella
ricerca anche se non ricordo più cosa le risposi esattamente. E’ una domanda
difficile. Oggi se dovessi fare io la tesi direi che Iuno italica è una
divinità a base celto-germanica, dunque indeuropea, che fa riferimento alla
tribù in armi. E’ dunque una dea guerriera ma anche politica, che guida le
scelte politiche della curia, dell’assemblea dei guerrieri in pace e in guerra.
La si dovrebbe identificare con Athena o Afrodite guerriera o Freya e doveva
essere la compagna di un Marte guerriero appunto (senza interessi procreativi;
più una divinità spirituale e concettuale quasi generata come
Qualche
signore della guerra approdato sulle coste tirreniche si portò dietro dall’Egitto qualche oggetto
firmato col cartiglio del faraone. Se in genere questi cartigli sono o possono
essere falsi degli artigiani orientali
allo scopo di autenticare i loro oggetti, ciò non vale per il sigillo di
Bocchoris, un oscuro faraone della XXIV dinastia che regnò solo dal 720 al
Come non
credo che i Sabini abbiano assaltato la rocca dei Romani (che stavolta
stranamente non sarebbero stati avvisati dalle oche capitoline come più tardi
nel caso della scalata dei Galli), così
nemmeno credo che Romolo abbia mai
rapito le Sabine o le Latine. Egli credette che il momento era giunto per
tentare di prendere il potere (questi colpi di mano sono tipici dei soldati
mercenari) combatté e sostanzialmente perse, ma poiché anche il vincitore era
in una situazione di difficoltà (i Celti, dice Cesare, si scoraggiano presto)
Tito Tazio (si noti l’onomastica bimembre che deve essere tipicamente sabina
come è sabino anche il nome dell’ultimo re di Alba Longa, Mettius Fufetius, cf.
Quilici, op. cit., p. 239) e Romolo (alla sabina fu chiamato Osto Ostilio, lo
Straniero figlio di Straniero o qualcosa del genere) conclusero la pace e si
accordarono per unire i due popoli in uno solo. Così come sempre accade nella
storia, per suggellare le unioni fra popoli, il re sabino diede sua figlia
Ersilia (e nulla conta che fosse eventualmente già sposata o promessa ad un
altro, perché la ragion di stato passa sopra a tutto come uno schiacciasassi)
in sposa a Romolo. Laddove la tradizione
narra che le sabine si interposero fra i due contendenti invocando dai Sabini
la fine delle ostilità in quanto ormai esse avevano avuto dei figli dai Romani,
la realtà dovette essere diversa, come ho detto, sicuramente perché in un
momento di scoraggiamento o perché
ricacciati indietro dai Romani (cf. Iliade libro XV), i Sabini erano
pronti a squagliarsela, come apprendiamo dal comportamento delle donne celte
nella Gallia conquistata da Cesare. I Celti nottetempo stanno per scappare
dalla roccaforte di Avarico « quando improvvisamente le donne uscirono di corsa per le strade e si gettarono piangendo
ai piedi dei mariti, implorando con gesti e parole che non le consegnassero insieme ai loro
comuni figlioli nelle mani e ai supplizi dei nemici, dal momento che la
debolezza della natura e delle forze impediva loro di prendere la fuga. Visto
che gli uomini erano irremovibili ̶̶
di solito nei sommi pericoli la paura non lascia posto alla pietà ̶̶ , esse si diedero a gridare per
segnalare la fuga ai Romani. Sconvolti così dal timore che le strade fossero
presidiate in anticipo dalla cavalleria romana, desistettero dal loro proposito
» (De bello Gallico, 7, 26,3-5), e, più avanti:
« cominciarono a scongiurare i propri mariti, a sciogliere davanti a loro
i capelli secondo l’usanza dei Galli, e a presentare alla loro vista i figli. »
(7,48,3) Dunque, data la situazione di stallo –
che però a mio avviso lasciò ancora su una posizione di preminenza i
Sabini, dato che mantennero le loro rocche e che Romolo dovette vedersela con
il regno collegiale con Tito Tazio – i
due popoli si accordarono a vivere insieme in pace con doppia monarchia fino a
che Romolo, rimasto solo per la morte violenta di Tito Tazio, trasmise un regno unico ai successori sabini (fino all’arrivo dei re etruschi), in
quanto sono le madri ad allevare i figli nella lingua e cultura del luogo, da
qui la preminenza sabina, anche se le istituzioni giudee di Romolo riuscirono
in parte a sopravvivere. La monarchia romana (di Romolo) inoltre si
trasmetteva, come per gli Ebrei gli Etruschi e gli Egizi, per via femminile.
Procedendo
nell’approfondimento della ricerca ho scoperto che bene a ragione ritenevo
l’antico nucleo dell’Iliade scritto da Omero per celebrare il centenario della
fondazione di Roma. Infatti, fermo restando tutto quel che ho scritto
sull’argomento, è venuto fuori che i libri XIV e XV si riferiscono all’episodio
di Romolo/Ettore che nell’ultimo di molti scontri in un’arco di tempo ristretto
venne « colpito alla testa da una pietra, cadde svenuto per un attimo, incapace
di contrattaccare. Allora i Romani [Troiani] cedettero ai Sabini [Achei] e,
respinti dal pianoro, furono messi in fuga verso il Palatino. Tuttavia, poiché
la fuga dilagava tutt’attorno a lui e nessuno aveva il coraggio di tornare
indietro, alzate le mani al cielo, pregava Giove di fermare l’esercito e di non
tollerare la sconfitta che si stava preparando per i Romani, ma di raddrizzare
le sorti della battaglia. Ascoltando questa preghiera, molti provarono vergogna
nei confronti del re, e i fuggitivi improvvisamente ritrovarono il coraggio. Si
fermarono dunque inizialmente nel luogo in cui sorge il tempio di Giove Statore
(vale a dire Giove che trattiene), poi, serrate di nuovo le file, respinsero i Sabini sino alla cosiddetta Regia
e al tempio di Vesta. » (Plutarco, Vita
di Romolo, 18,7-9) Nell’Iliade la fuga cessa al momento del risveglio di Zeus
dall’inganno di Era e dell’ordine che questo impartisce secondo la promessa
fatta a Teti di dare la vittoria ai Romani/Troiani che così inseguono i
Sabini/Achei fino alle navi. C’è persino da chiedersi se Omero non abbia
inizialmente scritto per Tullo Ostilio un poema teso a celebrare unicamente il
conflitto Romani/Sabini poi inglobato in un più alto disegno riguardante un
episodio dell’ultimo anno della decennale guerra di Troia. Che di ciò si tratti
lo dimostra il nome di Xanto il “Biondo” Tevere dato all’unico fiume che nei
poemi non omerici verrà chiamato Scamandro ed affiancato dal Simoenta. Fra
l’altro « non molti giorni prima, per caso, era straripato il fiume, lasciando
depositare nei punti pianeggianti dove ora si trova il foro una melma densa,
ristagnante, non facilmente visibile né evitabile, ma pericolosa e insidiosa. »
(loc. cit., 18,4) Dunque attualmente
ritengo omerici i libri 1, 1-538,
l’episodio dell’incontro di Ettore e Andromaca nel libro 6, il 14,
159-522, e i libri dal 15 compreso fino al 24. I il poema omerico è stato
ampiamente e irrimediabilmente manomesso nella prima parte.
Per
aumentare il numero della popolazione di Roma
Romolo (che conosceva quest’uso come tradizionalmente introdotto da Mosè
in Palestina) ricorse ai luoghi di
rifugio e asilo (questa pratica di dare asilo a chiunque senza approfondire se
si tratti addirittura di omicida emerge anche dall’Odissea) nei luci o boschi
sacri a Giano/Diano che circondavano l’antica Roma e credo di poterne rinvenire
le tracce seguendo appunto templi e altari in onore di Giano fra cui il
Gianicolo. Basti considerare che l’unico asilo su cui si sofferma la tradizione
romana era situato fra due luci o
boschi sacri proprio fra Quirinale (laddove fu costruito il primo tempio
dedicato alla Triade poi detta Capitolina perché il tempio fu ricostruito sul
Campidoglio) e Campidoglio, sede del re sabino Tito Tazio. Da qui il nome di Luceri alla terza tribù della Roma primitiva « in memoria del bosco in
cui molti fuggitivi avevano ricevuto asilo, ottenendo in seguito la
cittadinanza » (Plutarco, Vite parallele, (Teseo e) Romolo, 20,2).
Uno di
questi boschi sacri a Diana rimase come fossile archeologico in età imperiale
ed era il santuario di Diana Nemorense sul lago di Nemi. Frazer ha ipotizzato il culto di
Ippolito/Virbio e con lui dei cavalli (« L’ipotesi che, una volta all’anno, si
sacrificasse un cavallo nel bosco di Aricia, come personificazione del dio del
bosco, è sostenuta dall’analoga uccisione sacrificale di un cavallo, che si
svolgeva una volta l’anno a Roma. Ogni anno, infatti, il 15 ottobre, si teneva
una corsa dei carri in Campo Marzio. Il cavallo di destra del tiro vittorioso
veniva poi trafitto con una lancia e sacrificato a Marte per implorare raccolti
abbondanti; poi si troncava la testa dell’animale, ornandola con una collana di
pani… Si tagliava anche la coda del
cavallo e la si portava alla casa del re… » Frazer, op. cit., p. 539), e anche
nelle selve e boschi sacri i Germani allevano cavalli profetici: « hanno pelo candido e non sono contaminati
da alcun servizio fatto ad uomini; quando essi sono legati al sacro carro, sono
accompagnati dal sacerdote, dal re, oppure dal primo fra i cittadini, che
osservano attentamente i loro nitriti e i loro fremiti. » (Tacito,
QUOI HORTUS SAKROS
ESED. SORTES VIDIASIAS REGEI HAPIOD LAEVAM QUOS REX KUM KALATOREM HAPIOD
IOUXMENTA KAPT ADOTARI AM ITERINEM. QUOI HAVELOD NEQUIOD IOVESTOD QUOI LIQUIOD
" Questo recinto sia inviolabile. Infatti mentre gli
auspici erano interpretati dal re, (a partire) dalla (HAPIOD > da ab-eo)
sinistra, cioè (a partire) dal re e dal
banditore, la coppia di giumente (cavalli) ha cominciato (KAPT > cepit) a
spingere fuori (ADOTARI > adhortari) intorno al percorso (AM > am, amb, ambi, ITERINEM >
itinerem). Chi lo violi non è giusto che muoia (LIQUIOD > linquo nel senso
di abbandonare, venir meno, ecc., oppure liquefacio nel senso moderno di
liquidare, ammazzare). "
Si
diceva che nella tomba fosse ospitato il corpo di Osto Ostilio marito di
Ersilia sabina, ma questo è sempre lo stesso Romolo. I Giudei erano consapevoli
che lontano dal loro paese, sulla costa del Tirreno e nei pressi del Tevere,
una grande civiltà era nata a partire da loro coloni? Nel Genesi Tamar ha due
gemelli da Giuda e lo può provare mostrandogli il sigillo, il cordone e il
bastone che ne aveva ricevuto come pegno. A proposito dei Beniaminiti, i
guerrieri per eccellenza, celebri arcieri (come lo è Odisseo/Romolo), Giacobbe
benedice oltre ogni altra tribù, come principe dei suoi fratelli, Beniamino, il
lupo, emblema di Roma. Ma sulla tomba di Romolo fu posto il leone simbolo di
Giuda. Successivamente, al tempo di
Silla, intorno all’80 a. C., tutto il complesso venne coperto con lastroni di
pietra nera da cui il nome di Lapis Niger ad indicare luogo religiosus e interdetto, separata dalla
pavimentazione della piazza da una balaustra di lastre di marmo bianco.
E’ evidente che verso l’inizio
dell’VIII secolo la situazione in Oriente peggiora con le invasioni assire e si
cercano nuove vie per l’approvvigionamento dei metalli. Così si punta
all’Eldorado dell’Etruria. Questi naviganti che toccano le coste laziali sono
dei semiti. Alcinoo potrebbe anche essere il celtico Alcuino, ma Arete da Areta è senza dubbio nome semitico
(Arete oltretutto gira « il fuso purpureo » Od. 6,306). La popolazione di
Scheria “Scogliera” è estremamente ospitale (secondo Cesare i Germani «
Giudicano un sacrilegio violare l’ospitalità; chiunque per qualunque motivo
arriva fra loro è protetto dalle offese e considerato sacro, gli si apre
qualsiasi casa e con lui condividono il cibo. » De bello Gallico, 6,23,9;
Eurialo di Scheria che offende Odisseo, Od. 8,158ss, rappresenta sia pure per
eccesso lo spaccone celtico, che mira a diminuire l’altro per farsi grande), di
cultura e corporatura celtica, ha come dio sommo Hermes, ha i suoi druidi,
“molto sapienti” di corte. L’alta e robusta Nausicaa, dietro i panni dei
sofisticati regnanti semiti, è una semplice e ruspante sabina abituata a
condividere coi suoi servi ogni lavoro manuale, una maschiaccia). Questi semiti
(che genericamente possiamo chiamare fenici, anche perché gli ebrei si
servivano di navi fenicie per la navigazione; quello ebraico è un popolo alieno
da una vera produzione propria in generale) veicolano i prodotti orientali fino
alle colonne d’Eracle e ad un certo momento trasportano a Lavinio e poi a Roma
Romolo e i suoi mercenari giudei e
beniaminiti. Da ultimo è proprio di mercenari cari che si servivano i re di
Giuda, oltre che di marinai fenici, come sappiamo (« L’imbarcazione lunga egea,
con rematori e sperone, già completamente perfezionata, compare per la prima
volta su un bassorilievo di Karatepe, zona di influenza fenicia nell’antico
paese ittita, verso l’VIII secolo. » Braudel, op. cit., pp. 113-114) ma anche
in precedenza s’erano serviti di Peletei e Cretei che venivano da una regione,
Creta, nota per il culto di Velkhanos e per i suoi miti legati alla
bronzistica. Dunque i mercenari avventurieri che controllano le vie ai metalli
che dallo stretto dei Dardanelli porta al Mar Nero (ad artigiani itineranti del
Io adesso
vedo la fondazione di Roma (
Se i Sabini furono i
primi ad abitare la regione dei Sette colli, certamente è a Romolo che si deve
la fondazione della città di Roma. Fondare una città non significa circondarla
di mura o costruirne gli edifici in muratura, bensì gettarne le istituzioni
civili e religiose, l’organizzazione politica e militare che la farà vivere in eterno o morire
prematuramente. Gli antichi Romani vollero rompere il legame fra Romolo giudeo
dunque fenicio (e in un qualche modo etrusco) e Roma in odio agli Etruschi e ai
Punici, ma è evidente che i Romani mantennero a lungo stretti legami con i
Punici e gli Etruschi contro i Greci fino a quando non dovettero lottare per la
supremazia contro gli uni e gli altri.
L’arrivo di
piccoli nuclei di avventurieri siro-ciprioti in Etruria e nel Lazio (il giudeo
Romolo) là dove s’era spostato il traffico per la ricerca dei metalli e dei
beni di consumo prezioso segna, e lo vediamo particolarmente a Roma, un
immediato sviluppo dell’abitato che raggiunge dimensioni del tutto eccezionali
fin dalla metà dell’VIII secolo come dimostrano le più note necropoli
dell’Esquilino e del Quirinale e quelle alla Porta Salaria, al Corso d’Italia,
al Portonaccio, a S. Croce in Gerusalemme, a Porta Latina, e chissà quante altre
che non conosciamo affatto. (Quilici, op. cit., p.
269) Dalla metà dell’VIII secolo e soprattutto nel VII maturano le premesse
della civiltà urbana di età arcaica, di quell’élite aristocratica (e quella delle rispettive clientele) che col
monopolio della ricchezza e quindi delle strutture giuridiche ed istituzionali
della comunità tenderanno sempre di più ad accrescere la propria posizione:
queste famiglie privilegiate formano già ora, con la loro fissità, quella che
in età storica sarà la classe senatoria dei patres
conscripti, che impronterà di sé tutto il corso della Roma antica e
caratterizzerà, con le feroci lotte di classe a cui darà luogo, l’arco della
storia repubblicana. (Quilici, op. cit., pp. 268-269) Il defunto, rivestito
degli abiti propri della sua condizione da vivo, ornato delle insegne e dei
gioielli, veniva composto sull’alto del letto funebre, coi piedi rivolti
all’ingresso, e circondato da torce, fiori, fumigazioni. (Quilici, op. cit., p.
285) Tutto ciò richiama alla mente il funerale di prova che Trimalchione si fa
fare da vivo secondo la moda siriana. Gli oggetti del corredo, di uno sfarzo
che rivaleggia con quello delle tombe dei faraoni di un tempo ormai
tramontato, sono in prevalenza di manifattura
fenicia, siriana, cipriota e punica, etrusca, con richiami evidenti ai temi
della civiltà egizia. Gli ebrei (come quelli al seguito di Romolo) non avevano
un’arte particolarmente sviluppata, per cui saranno stati piuttosto i
committenti di determinati oggetti pertinenti alla propria cultura, come i
pettorali o i corni. Quanto all’aria di civiltà medievale che traspira dai
poemi omerici e che ho già sottolineato nei precedenti lavori, come gli Ebrei
costruivano torri, così i Romani, tipo «
Tabella cronologica
dell’archeologia laziale da L. Quilici op. cit., p. 20
Passiamo ora
ad occuparci delle istituzioni politiche
introdotte da Romolo. Queste sono complicate dal fatto che la stessa civiltà proto-ebraica di cui fu portatore Romolo era stata
il frutto dell’interazione dei popoli del mare in prevalenza indeuropei (Pelasgi di Creta, Danai di Cilicia e Achei
celtici dell’Europa centrale) coi popoli cananei, e inoltre dal fatto che la
civiltà proto-ebraica di Romolo era fortemente influenzata dalla permanenza in
Egitto dei suoi mercenari beniaminiti e giudei cui si dovranno aggiungere
eventualmente cari e lidi, mercenari
sotto i re giudei ed egizi.
Quanto alla
scrittura non credo che la prima preoccupazione di Romolo sia stata quella di scrivere, e del
resto la struttura assai rozza del latino
(o piuttosto del sabino, o anche del tirrenico/lemnio) primitivo non la richiedeva. Comunque,
secondo Dionisio d’Alicarnasso, il trattato stipulato fra Romolo e Veio sarebbe
stato scolpito su pietra (2,55,6). A Numa Pompilio è attribuita la disposizione
secondo cui tutte le leggi sacre di Roma
fossero trascritte dai pontefici su tavole imbiancate (Livio 1,32,2). Il primo
trattato tra Tullo Ostilio e Mezio Fufezio di Alba Longa fu scritto dai feziali
su tavolette di legno (Livio 1,24). La scrittura esplode verso la fine del
regno di Numa Pompilio quando Omero scrive (con
inchiostro nero su lino, come le primitive liste dei magistrati erano
conservate su rotoli di tela di lino nel tempio di Iuno Moneta, dea della
memoria, sul Campidoglio, Livio 4,7,12) il Viaggio d’Odisseo intorno al 675 e poi la guerra fra Sabini e Romani o già
l’Ira d’Achille nel 649 sotto Tullo Ostilio, in greco, perché i poemi
pubblicitari sono rivolti ad un pubblico di politici, mercanti, investitori
greci. Omero conosce eccome la scrittura. Semmai ricostruisce un tempo lontano
come la guerra di Troia in cui immagina che la scrittura non fosse così
all’ordine del giorno. Il suo accenno alla scrittura su tavolette come quella
di Marsiliana d’Albegna (che secondo Braudel assomiglia molto alle tavolette
fenicie di questo tipo trovate a Nimrud, in Assiria, accompagnate da una
pisside e da un pettine inviati da un mercante di Tiro, op. cit., p. 218) è in
un contesto che allude chiaramente all’età di Davide (ciò che non implica
necessariamente la storicità di questo re, ma compartecipazione di tradizioni e
miti già circolanti in Giudea e comunque in oriente). La fibula d’oro a drago da una tomba di
Palestrina, datata intorno al
Secondo gli
studi del Frazer vi sono indizi presso vari popoli antichi (anche presso i
Khazari della Russia meridionale e i semiti) dell’uccisione del re quando
declinavano i suoi poteri naturali. Di questa pratica che regolava la
successione dei sacerdoti di Diana ad Aricia troviamo gli esempi più numerosi e più simili in Africa (Il ramo d’oro, Prefazione). Ma Cesare ci informa che « Alla
testa di tutti i druidi se ne trova uno solo, il quale esercita la massima
autorità fra di loro. Alla sua morte, se qualcuno fra i superstiti eccelle per
dignità, gli succede o, in caso di parità fra molti, si procede a una votazione
fra i druidi; qualche volta capita persino che si contendano il primato con le
armi. » (De bello gallico, 6,13,8-9) Se
devo immaginare che il culto in questi laghi e boschi sacri laziali, il cui
rito era comune a quello praticato in Tracia, risalisse ai tempi della
dominazione sabina e dell’influenza lemno/tracia, è certo che Romolo lo
rafforzò anche se eliminò, come in Egitto s’era da tempo eliminata, la
necessità di uccidere fisicamente il re. Era questa in Egitto la festa del sed
o giubileo reale. Alla festa “sed” che «
rappresentava la rigenerazione spirituale e fisica del sovrano dopo tanti anni
di regno, era… destinata l’ampia zona esterna della piramide [di Zoser]. Uno
dei momenti culminanti della manifestazione era la corsa rituale del sovrano
che dimostrava così il proprio vigore: egli doveva compiere tre giri intorno a
due costruzioni chiamate “altare a B”. Il complesso architettonico simboleggiava in tutte le strutture i compiti
regali e l’unione dell’Egitto: le cappelle, le case del Nord e del Sud e il
palco reale con i padiglioni per i due troni. L’altare [i due altari a B]
rappresentava i limiti meridionali e settentrionali del Paese. Il nome “sed”
dato alla festa derivava dal termine con cui gli egizi indicavano la coda di
animale (toro o leone) che faceva parte dell’abbigliamento regale (pendeva
dalla vita del re [come si può vedere dalla figura del re Menes sulla celebre
paletta omonima]) e simboleggiava la sua potenza. » (Egitto, L’età dell’oro,
Fabbri Editore, pp. 54-58) Perciò io credo che la festa dei Lupercali sia la
traduzione romulea della festa del “sed”, celebrata annualmente con il re
vestito solo di un perizoma cui era attaccata la coda del lupo (animale
totemico dei Ramnensi o Rumani del Palatino; forse poi anche la coda del
cavallo) che compiva il giro rituale della Roma quadrata ma anche una corsa in
quello che poi diverrà il Circo Massimo intorno a due mete rappresentanti la
parte romana e quella sabina del regno unito. E’ a partire da questa corsa
rituale che poi il Circo Massimo diverrà luogo di corse anche delle bighe,
quadrighe ecc. Il quarto anno dalla fondazione e cioè il
Il dualismo
Romolo se l’è portato dietro dall’Egitto, ma in qualche modo se l’è ritrovato
riprodotto nella Roma primitiva con l’unione fra Romani e Sabini. Il lupo era
l’animale totemico dei Beniaminiti, ma fra i geroglifici egizi ve n’è uno che
mostra il lupo (in realtà il canis
familiaris o un incrocio fra cane e sciacallo egiziano: canis lupaster) sullo stendardo, col
significato di Wp-w3wt “apritore di strade”, ed è comprensibile che dei soldati
di ventura come i nostri Beniaminiti (e Giudei) di Romolo abbiano utilizzato
questo vessillo nella loro bliz krieg alla conquista del Lazio. Non c’è bisogno di spendere molte parole sul
lupo come animale totemico romano. Dirò solo che « La pelle di lupo, usata come
vestiario ed atta ad incutere paura al
nemico sopravviverà in età storica nella tipica veste militare del signifer, il portatore dell’insegna, che
nella legione romana porterà quella pelle sulle spalle, usandone il teschio
ferino come copricapo ed allacciandola davanti alla gola e sul ventre con le
zampe. » (Quilici, op. cit., pp. 93-94)
La
cerimonia, su cui è Plutarco a diffondersi maggiormente nella Vita di Romolo,
prendeva avvio da una grotta ai piedi del Palatino, sul lato nord-occidentale
del colle. Oltre alla statua della lupa qui sorgeva una pianta di fico, la ficus Ruminalis. A conferma dell’origine
ebraica di Romolo « Secondo certi studiosi di paleobotanica, il fico non
sarebbe stato una pianta di origine spontanea nell’Occidente mediterraneo, ma
vi sarebbe stato importato » (Quilici, op. cit., p. 49). Al tempo di Plinio il
Vecchio « accanto alla statua di Silvano ai piedi del Campidoglio è ricordato
un caprifico: una pianta, cioè, di fico selvatico, che culti primordiali
legavano ai riti della fecondazione ed in particolare a quelli di Giunone
Caprotina. » (Quilici, op. cit., p. 83) Questo caprifico ritorna come
riferimento del punto più debole delle mura di Troia/Alba Longa. Io credo che
l’episodio di Filotide o Tutola che segnala di notte ai Romani con una fiaccola
presso il caprifico che i Latini erano assopiti, riferito da Plutarco al tempo
successivo ai Celti e Camillo (Vita di Romolo 29), possa riferirsi alla caduta
di Alba Longa e così esere confluito nel mito della caduta di Troia. Due giovani nobili rappresentavano Romolo e
Remo (in origine rappresentavano più probabilmente Romolo e Tito Tazio, perché
Remo è un’invenzione greca posteriore, e dunque i due popoli del Campidoglio e
del Palatino). Gli si toccava la fronte con un coltello bagnato di sangue e la
si asciugava con lana imbevuta di latte. Dopo essere stati detersi dovevano
ridere. Secondo me, a parte i colori rosso sangue del Basso Egitto e bianco
latte dell’Alto Egitto, la cerimonia significava la morte magica del re seguita
dalla sua rinascita e vittoria sulla
morte. Durante la cerimonia si sacrificava anche un cane rosso (« Secondo
alcuni il sacrificio del cane poteva
essere praticato anche nei rituali di Vesta, dato che le ossa di un
piccolo cane di tipo volpino sono state trovate nella favissa arcaica di quel
tempio, nel Foro Romano. » Quilici, op. cit., p. 98) e
il fatto viene spiegato variamente da Plutarco senza convincermi. Io ritengo
che il cane sia il lupo (
Ovviamente
Romolo non è nato nei boschi del Palatino,
e men che meno ad Alba Longa. Romolo è giunto in Italia nella pienezza
delle sue forze, a capo di un manipolo di soldati di ventura. Che fosse figlio
di una vergine vestale non è da escludere assolutamente, anche se questo tema
del re figlio del dio e abbandonato alle acque in una cesta era caro a tutti i
re illegittimi dell’oriente, come Sargon, Mosè, Ciro. Bisogna ricordare che
Alessandria e Memfi da cui Romolo può essere partito in cerca di ventura alla
volta dell’Italia erano anche città emporiche e vi veniva probabilmente
praticata la prostituzione sacra anche in quei santuari proto-ebrei, o fenici
in genere, posti nei quartieri concessi in uso agli stranieri. La religione
ebraica diventa tale solo a partire dal Secondo Tempio e cioè dall’editto
di Ciro II (
Concludendo
mi sembra che si possa confermare
l’antico giudizio di Martha di una civiltà etrusco-romana spicchio
d’oriente trapiantato sulla costa tirrenica bagnata dal Tevere. Questo
trapianto inizia con i piccoli nuclei di immigrati fin dall’VIII secolo, e poi
si tratta solo di esplosione dell’orientalizzante quando questi si sono bene ambientati
ed organizzati, acquisendo quella
ricchezza che permetteva loro di richiamare mercanti ed artigiani che
riproducessero nella nuova patria e con maggiore sfarzo le cose belle dei loro
ricordi tradizionali. Come Roma non sarebbe Roma senza l’ebreo Romolo, così
l’Etruria non sarebbe Etruria senza i regoli siro-ciprioti che vi imposero le
proprie dinastie.
La divisione
della popolazione romana in tre tribù e trenta curie è tanto indigena
(celto-germanica) che importata e creata
da Romolo (su basi indeuropee). Già Saul disponeva di una legione di tremila
uomini (1 Samuele 13,2) e guidata da capi di migliaia e di centinaia o
centurioni (2 Samuele 18,1,4). Mi chiedo se la tripartizione non nasca nella
mente di Romolo prima di tutto dalle tre tribù dei Giudei, Beniaminiti e
Leviti. C’è un accenno ad una guardia del corpo di mercenari stranieri, Cretei
e Peletei (2 Samuele 20,7,23; 1 Re 1,38,44) e più tardi Cari, guidate da
centurioni e dunque ammontanti presumibilmente a trecento (2 Re 11,4; 2 Cronache
23,9) come i Celeri di Romolo che erano cavalieri che potevano anche combattere
come fanti appiedati. Ogni tribù era dunque già divisa in dieci curie e ogni
curia dava cento fanti e dieci cavalieri
per un totale di tremila fanti e trecento cavalieri. Fu Romolo ad importare
questa struttura a Roma. Quanto al nome curia però c’è da credere che sia
celtico e dunque della lingua del luogo in quanto degli stranieri come i
mercenari di Romolo non possono aver avuto la possibilità di imporre la lingua
dovendo sposare le donne del luogo le quali ovviamente hanno insegnato ai figli
la propria lingua. Dunque ipotizzo che curia possa derivare dal celtico corios, plurale corii, tribù, confronta il Périgord, regione della Francia dove si
stabiliscono quattro (gall. petru-)
tribù in marcia con armi e bagagli (gall. -corii).
Da Corrado Barbagallo, Roma antica
1, UTET, p. 42
I Sabini
celto-germani della Roma primitiva sono ripartiti in tribù in cui vigono i
legami di sangue e dove i guerrieri combattono per il loro capo che combatte solo per la sua gloria, la gloria di un barbaro che
si può vantare di tagliare le teste al maggior numero di nemici e legarle al
collo del proprio cavallo. Ma già questi primi signori di Roma conoscono un re
con poteri quasi assoluti quale ci è dipinto Agamennone, un popolo in armi
(gall. corios, ted. Heer; da cui curia, sede dei cittadini sovrani kyrioi/koϝíranes. La sovranità – almeno in teoria –
è del popolo. Che Quirino discenda da
koϝíranos o
anche ebr. qiriah fen. qariah “città”, egli è il “Protettore
della città” come quirite è il “cittadino”, collegati a curia
dove vi si è convocati da
addetti che suonavano il corno di bue, Dion. Hal. 2,8,4. Tali corni di bue
usati dal clero e dall’esercito giudeo sono stati rinvenuti anche nelle tombe
orientalizzanti come quello in avorio della tomba Barberini da Palestrina,
mentre dalla tomba Bernardini sempre da Palestrina proviene un’iscrizione
fenicia, cf. Gras, Rouillard e
Teixidor, op. cit., p. 164; e si tenga anche presente che l’assemblea
curiata dell’esercito in armi era convocata attraverso i capi di mille, cento e
dieci, in modo che attraverso questi tutta l’assemblea si presentava
immediatamente a raccolta, Dion. Hal. 2,14,4, cf. ebr. *qaria,
e dove il popolo sovrano proclama le sue decisioni, cf. ebr. *qeriàh) che lo elegge e che viene da lui
convocato mediante gli araldi quando vi sia da deliberare su questioni di capitale
importanza come la pace o la guerra, ma che poiché è troppo numeroso per
potersi avere votazioni frequenti viene il più delle volte emarginato dai
senatori o consiglieri (così vengono definiti nell’Iliade soprattutto il senato
di Troia/Roma) del re, quali Odisseo, Nestore, Aiace Telamonio, Achille ecc.,
che sono i capi delle gentes e che
quando muore il re fungono da interreges fino a convocazione dei comizi curiati
che eleggeranno il nuovo re. Per giunta
i re sono spesso insofferenti del controllo del popolo in armi (che fa sentire
la sua voce pericolosa come quella di un Tersite) e così abbiamo Odisseo che
malmena l’esercito e lo disperde utilizzando lo scettro di Agamennone. Ma anche
sono insofferenti degli stessi senatori consiglieri (il senato sfruttando il
fatto che siede in premanenza tenderà ad assumersi quasi tutti i poteri a
scapito sia del re che del popolo) e così Agamennone usa la sua prepotenza
contro Achille togliendogli la schiava Briseide in cambio di Criseide che lui
ha dovuto restituire al padre Crise per bocca di Calcante, aruspice (gli
uccelli in questione erano ovviamente gli avvoltoi tanto presso i Palestinesi
quanto presso i Romani in quanto Romolo e Remo avvisteranno degli avvoltoi,
uccello di provenienza orientale di eccezionale avvistamento già all’inizio
dell’impero) erede degli onnipotenti sacerdoti proto-ebrei che tanti danni
avevano provocato in Giudea e Israele. Fin dalle origini si avverte la politica
di Saul, Davide e Salomone, di spostare il proprio regno lontano dalle loro
sedi e comunque cercare di evitarne l’infausto tentativo (vedi Samuele) di
imporre la loro casta e la propria politica su quella monarchica. Romolo e i suoi successori
riusciranno ad eliminare
questa influenza nefasta (cui invece soggiacciono tranquillamente gli stati che
come l’Italia non riescono a scrollarsi di dosso il potere del Vaticano)
facendo dei sacerdoti dei funzionari e ricorrendo soprattutto a sacerdoti
stranieri (etruschi) chiamati a vaticinare per poi tornare nella loro terra
d’origine senza poter mettere radici a Roma. Per questo motivo Roma riuscirà a
creare un grande impero laico distrutto solo dai cristiani di provenienza
israelitica cioè di una terra che nulla aveva a che fare con Jahveh e che prima
di distruggere il tempio di Giavè capitolino avevano distrutto quello di Jahveh
a Gerusalemme. Ettore, dietro cui è Romolo, si presenta come capo del popolo, senza
distinzioni tribali, in armi, e dunque combatte non per Priamo e per la nobiltà
di Troia, bensì per la città e il suo popolo tutto. Romolo è un cittadino. Si
racconta che dopo morto sia apparso in sogno ad un uomo del popolo e gli abbia
raccomandato che lo si onorasse come Quirino, dunque come dio (Jahveh) della
città e dunque del popolo. I tre flamini Diale (di Giove), Marziale e Quirinale
sono l’unica prova di un’originaria tripartizione funzionale indeuropea ma
corrotta dal dio unico portato da Romolo, Jahveh Sebaoth (così Romolo dedica le
spoglie opime del re dei Cenini vinto in battaglia a Giove Feretrio sul
Campidoglio con modalità che ricordano da vicino consimili dediche dei Filistei
– le armi di Saul – nel tempio di
Astarte, 1 Samuele 31,10 o in quello di Dagon, 1 Cronache 10,10), e dalla
storia concreta che fece sì che questa tripartizione fosse anche etnica in
origine. Così il dio è sempre lo stesso Jahveh/Giovè importato da Romolo ma è venerato da flamini distinti a seconda della
tribù di appartenenza e cioè dei Sabini del Quirinale e Campidoglio che hanno
appunto Giove e forniscono in prevalenza re (fino ai re etruschi i re saranno
tutti sabini a partire da Tito Tazio che, solo perché viene ammazzato, lascia
al potere da solo Romolo che sarà l’unico re ebreo) e sacerdoti, dei Romani del
Palatino che venerano Jahveh Sebaoth, “degli eserciti” dunque Marte, e
forniscono in prevalenza i guerrieri, e infine della plebe dei Luceri
dell’asilo sul Quirinale, che diverranno cittadini senza di solito portarsi
dietro titoli nobiliari o ricchezze, tranne l’unica, di essere cittadini
romani, Quiriti. Questa interpretazione spiega lo stallo avvenuto nella guerra
fra Romani e Sabini e l’accordo in seguito al quale i Romani accettarono la
posizione subalterna di guerrieri rispetto a quella principale di re e
sacerdoti dei Sabini e che Romolo regnasse in collegialità con Tito Tazio. Poi
l’uccisione di Tito lasciò tutto il potere in mano a Romolo che però non avendo
dietro di sé un grande nucleo di connazionali e quel che è peggio, le donne
ebree, finì coll’estinguersi il sangue ebreo a vantaggio della locale
popolazione sabina, poi latina (com’è evidente questi nomi, Sabini, Latini,
sono tutte etichette vuote e senza senso se si prescinde dal comprendere la
realtà concreta ed in evoluzione), che ebbe il sopravvento sia pure potendosi
mantenere, col tempo e grazie anche a personaggi come Tullo Ostilio, le
istituzioni politiche care a Romolo. E’
dunque già a Romolo che si deve attribuire la volontà di fondare Roma sul terzo
stato dei *co-viri, sull’assemblea del popolo romano senza distinzione di
classe. Io credo che la riforma delle
quattro tribù a base geografica, che spezzava i legami delle tribù di sangue,
sia dovuta a Tullo Ostilio che pavimenta il Foro e costruisce
Fine