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La nascita del nuovo dio Sole Radamanto dal pianoro dell’Antro dell’Ida alla metà del XIV secolo a. C.

MGCorsini, 28 gennaio 2007. Tutti i diritti riservati.

 

E’ la primavera di un anno intorno al 1348 a. C., e una processione di autorità egizie (in testa il faraone Amenofi IV, il futuro Akhenaton, e sua moglie Nefertiti) e  locali, militari, civili e religiose, di cittadini eminenti, di mattina presto, prima dell’alba,  si avvia dal pianoro dell’Ida verso il celebre Antro in  cui la ninfa capra Amalthea allattò Zeus nella sua infanzia mentre i sacerdoti Dattili battevano  le lance sui loro scudi di bronzo facendo un baccano del diavolo per coprire i vagiti del piccolo, ma dio, e dunque esagerato in tutto, così impedendo a Crono (questa era la loro intenzione che pare abbia comunque funzionato) suo padre di udirlo, scovarlo e mangiarselo, come aveva già fatto con tutti gli altri figli avuti da Rhea. Il giorno prima i militari hanno scortato e reso più agevole l’ascesa al pianoro portando a spalla in portantina la coppia reale e i maggiorenti dell’isola.  Tutti hanno dormito la notte attendati con tutti i comfort possibili in un accampamento predisposto dall’efficiente  reggimento del genio navale di Sua Maestà, di stanza a Kommos. La coppia reale, sbarcata a Kommos da una decina di giorni, s’è recata prima a soggiornare al Palazzo di Haghia Triada e ha avuto modo  di  visitare anche il Palazzo di Festo, poi, a  tappe brevi, sulla carrozza reale (ma la regina, ottima cavallerizza, ha voluto anche sellare il miglior cavallo delle scuderie reali fattole portare appositamente, mentre Sua Maestà ha preferito ascoltare poesie scelte stando comodamente sdraiato in portantina) s’è avvicinata all’Ida dalle doppie cime aggirandola in senso antiorario per trovarsi, dalla parte di nord, di fronte all’Antro Ideo.  Nonostante la popolazione locale non sia tutta e necessariamente contro il dominio egizio sull’isola, il sistema di sicurezza ha tenuto a debita distanza chiunque tentasse di  avvicinarsi troppo al corteo, anche se era per manifestare giubilo  per la visita delle loro Maestà all’isola e  soprattutto per l’imminente  cerimonia dopo la quale il defunto faraone Neb-maet-Ra, che è stato sicuramente il migliore re di Creta col nome di  Rhadamanthys,  diverrà tutt’uno col Sole Iperione,  ma anche con Dioniso/Osiride, il dio dalla fronte di Toro, e dall’alto del cielo e dagli abissi degli inferi vedrà e saprà tutte le cose e si servirà della sua onniscienza per proteggere  Creta e   dare prosperità e benessere in eterno ai vivi e  legiferare e giudicare  imparzialmente sui morti. Il vecchio sultano  pieno di acciacchi è morto da mesi e riposa sepolto in mezzo ai suoi tesori nel deserto a occidente  della favolosa  Tebe dalle cento porte. Il corteo si avvia all’Antro Ideo. Otto ieroduli neri, per mezzo di due lunghe pertiche assicuratevi con funi, sorreggono, quattro da un lato e quattro dall’altro,  la cassa di calcare (lunga appena un metro e 37 centimetri) dipinta sui quattro lati, e anche sul coperchio, coi momenti salienti della cerimonia di divinizzazione. Altri ieroduli neri e ierodule dalla pelle colore del latte portano i doni da inserire nella cassa (coi cartigli del faraone defunto, Amenofi III, di sua moglie Teye, del loro figlio e successore Amenofi IV e della bellissima Nefertiti) e corone funerarie da deporre intorno e sopra la stessa. Sacerdotesse col petto scoperto e gonne a volant  fanno risuonare  sistri e crotali e cantano inni alla dea madre dell’Ida chiamandola Amalthea, Europa (‘”Occidentale”) e Eidomene (“Colei che appare”), e a sua figlia dea dell’aurora, delle nascite,  dei morti e delle messi  (Leucothea, Lucina, Artemide, Ilizia, Mater Matuta), chiamandola Tarania, la dea “Nave” dei Campi Elisi e anche la dea del “Trono” su cui siede negli inferi (Core/Persefone). Ieroduli neri seguono traendo suoni da una lira a sette corde e da doppi flauti. Quattro sacerdoti dei Dattili dell’Ida con la veste candida e lunga fino ai piedi portano sulla spalla scuri fenestrate siro-ittite d’acciaio calibo. In mezzo a loro cammina come ipnotizzato e con le mani legate dietro la schiena un uomo alto e seminudo, con la testa coperta da una grande e impressionante testa taurina. E’ un uomo pericoloso, da tenere bene in vista, se alcuni soldati  minoici armati di picca gli stanno discretamente di guardia. Dai commenti di alcuni partecipanti al corteo si capisce che fino alla morte del faraone era il boia delle prigioni reali, colui che si occupava dell’esecuzione delle sentenze capitali sia personalmente, mangiandosi i colpevoli, sia ideando e mettendo in pratica le più raffinate procedure di morte con marchingegni che a suo tempo aveva creato un certo Dedalo ateniese che lavorava per il boia suo predecessore, ormai celebre come Minotauro, quando a Creta regnava il potente visir Yuya,  che si faceva chiamare Minosse, e che poi era il padre di Teye moglie di Amenofi III e madre di Amenofi IV.  Il corteo è ormai in vista dei due alti pali simboleggianti le due grandi dee nutrici, madre e figlia, sormontati ciascuno da due doppie asce,    e dietro si scorge una grande quercia che spunta da una base parallelepipeda sormontata tutt’intorno da doppie corna, e ancora un grande altare di pietra per sacrifici.

Viene dissigillato da ieroduli e sacerdoti il portale di pietra che chiude l’antro, decorato con volute a spirale, simbolo di morte e rinascita. Vengono portate all’interno lucerne e accese le torce appese alla pareti trasudanti acqua. Viene  introdotta  e collocata nella parte più interna del Labirinto, nel ναΐδιῳ, la cassa di calcare dipinto e vi viene collocato il corredo. Viene sovrapposta e sigillata la lastra di calcare  e deposte intorno e sopra le corone di fiori. Poi la bella moglie greca (il suo vero nome è Megara ed è figlia di Creonte di Tebe beota fondata da Cadmo zio di Radamanto) di Amenofi IV viene aiutata dai due più eminenti Dattili dell’Ida, i sacerdoti del santuario, ad entrare per l’angusto passaggio, ritrovandosi all’interno della spaziosa caverna cui la luce tremolante di torce e  lucerne dà un aspetto tanto sinistro da confermare la tradizione del Labirinto della leggenda di Teseo e del Minotauro antropofago, anche se deriva il nome di “tempio delle doppie asce” (le abbiamo viste fuori dell’antro) da questo attrezzo che nella terra di origine dei Dattili Idei, abili fabbri, si chiama  λάβρυς. Megara/Nefertiti viene accompagnata fino al punto più interno della caverna dove consacra il morto (rappresentato fisicamente dalla vuota cassa dipinta) alla signora del Labirinto e dei Beati, alla dea Europa/Amalthea-Nida,  capra madre e nutrice del dio Sole (in altre tradizioni nota  come  Rhea o Demetra o Latona la Notte, il buio profondo di questa caverna a 1.540 metri s.l.m.) detta anche Iasionia perché s’è unita col Dattilo Iasione e i Dattili sono appunto i sacerdoti dell’Ida o Nida, che è il nome più antico.  La cassa di calcare viene calata in un ipogeo insieme ad altre tutte rigorosamente vuote collocate una a fianco all’altra e che rappresentano altrettanti faraoni divenuti Bacchi od Osiride che dir si voglia. I due Dattili dell’Ida scortano nuovamente alla luce la bella Nefertiti che, uscendo all’aperto, ha la sensazione di rinascere a nuova vita dopo essere rientrata nel ventre di sua madre. Si accorge che tutti guardano verso l’orizzonte ad oriente. L’Aurora sta colorando di rosa il cielo a chiazze di luce, come miriadi di fuochi che divampano qua e là, si fanno via via più compatte e unite fra loro e alla fine formano come una piramide di fuoco terminante a cupola che  ascende in cielo.

Il Dattilo più anziano che l’ha scortata all’interno dell’Antro, si chiama Phaniaures (“Splende al mattino” e probabilmente si riferisce più all’Aurora signora dei Campi Elisi che non al Sole suo fratello),  fa un cenno a Nefertiti che distende in avanti le braccia sull’uomo-toro che nel frattempo è stato legato sull’altare dei sacrifici. E’ il segnale, e l’altro  Dattilo porge la scure d’acciaio calibo a Phaniaures che la solleva in alto e la cala d’un colpo deciso,  troncando di netto la testa all’uomo-toro. La maschera rotola a terra, ma la testa rimane all’interno. Si trattava evidentemente di un marchingegno che impediva all’uomo, antropofago, di mordere e uccidere a morsi qualcuno. La scena (barbara solo per metà  di noi moderni, mentre per gli altri, barbari filoangloamericani, è indifferente come impiccare Saddam Hussein) ha distolto per alcuni lunghi minuti l’attenzione dal fenomeno naturale che si sta svolgendo sotto gli occhi estasiati degli eletti presenti. Nel momento quasi esatto dell’uccisione dell’uomo-toro, le fiammelle di luce che avevano formato quasi una  piramide in ascesa, ora hanno da poco abbandonato la loro forma di grande fungo e appare grande e rosso vibrante nel cielo il disco del Sole. L’Aurora ha appena partorito il Sole.  Radamanto è ora, finalmente, ciò che il  nome greco che a suo tempo s’è scelto  rappresenta (“Ra è il Signore”, da Ῥὰ δαμαντήρ, poi ῾ΡαδάμανJυς), e splende  in cielo in  una delle tante fiammelle che hanno contribuito nel tempo a rendere il Sole più grande. Sono gli uomini buoni e saggi di ogni dove che fanno grande il progresso della civiltà umana. Questo i saggi egizi, come quelli greci e minoici, lo sanno bene. E lo sapevano bene anche i Romani, ma vennero i cristiani, falsi ed ipocriti e ladri. L’uomo-toro  sarà in eterno la divina cavalcatura di Radamanto nel suo instancabile percorso sopra e sotto la terra ad illuminare con la sua saggezza i vivi e i morti. Phaniaures riceve ora dalle mani del suo assistente la lira a sette corde e intona un inno sacro riguardante  la nave del dio Ra che, secondo un’altra tradizione (che l’artista ha ricordato sul sarcofago di Radamanto  come offerta al medesimo apparso come un’ombra  davanti alla sua tomba dell’Ida) di pari importanza, veicola il Sole al posto del Toro celeste, e questa nave è Tarania, la dea dei Campi Elisi, Ilizia, la signora lunare dalle doppie corna. La cerimonia è conclusa e l’animo dei presenti, soprattutto quello della bellissima Nefertiti, è affollato da mille e contrastanti sentimenti, tutti violenti, nessuno di poco conto. Non dimenticherà mai questa sua visita a Creta, dove non voleva nemmeno venire, tanto se ne stava bene a non far nulla, fra musici danzatrici acrobate e nani buffoni, in Egitto, al caldo, mentre qui l’aria pizzica, circondata per ogni sua più piccola esigenza da mille servi e serve. Phaniaures si avvicina all’ingresso dell’Antro. Un Dattilo Ideo bibliotecario, διjJεραjόρος, gli porge un dischetto d’argilla cotta del colore dorato del sole. Ha appena sedici centimetri di diametro e nemmeno due di spessore. Phaniaures lo prende compiaciuto e lo depone all’interno. Poi dà l’ordine ad acuni suoi colleghi di ricollocare al suo posto la finta porta di pietra all’ingresso della caverna dove fu allevato prima di tutti i sovrani di Creta e da allora in poi viene ritualmente  sepolto ogni anno per poi risorgere il dio Sole/Apollo (specie nella capitale Festo/Haghia Triada, chi lo chiama Talo, chi Asterio, chi ancora Velkhanos, chi ancora lo confonde col Minotauro sua cavalcatura). Di nuovo il Dattilo bibliotecario si avvicina a Phaniaures tirando fuori da una tasca alcuni sigilli mentre un altro ha in mano due palle d’argilla umida e le comprime da un lato e dall’altro della porta a garantirne la chiusura. Che si sappia, se qualcuno ha osato profanare il luogo santo. Phaniaures imprime sull’argilla fresca i sigilli che portano i segni della sovrannaturale potenza della doppia dea dell’Ida, sia la madre, sia la figlia, che sono tutt’una. 

Ovviamente la dea dell’Ida è la nutrice del sovrano e dunque anche di Amenofi IV, per i Cretesi Idomeneo. E la cosa non è del tutto fantasiosa, in quanto i sovrani egizi da un bel po’ di tempo, fin dalla XVII dinastia tebana (imparentati con gli Hyksos), hanno origini parzialmente indeuropee se non addirittura greche, per cui, almeno per via di discendenza, Amenofi IV si sarà potuto ritenere, anche solo parzialmente, cretese o greco (il che, data la sua figura esile e malaticcia, perfino repellente, non è lusinghiero per il popolo che ha inventato le Olimpiadi, per cui preferiscono chiamarlo Eracle, il prototipo di tutti i supereroi). Del resto l’arte amarniana riceve una grande influenza dal naturalismo cretese così come è da tempo (almeno dall’inizio della XVIII dinastia) che l’Egitto subisce il fascino di Creta. Certamente Amenofi IV amò Creta e ne subì  il fascino del monoteismo (il disco solare di Aton o Adone/Adonai, che, abbiamo visto, corrisponde esattamente al culto di Dioniso, l’egizio Osiride, introdotto da Melampo o Melampode figlio di Eidomene, un personaggio che se apparentemente va identificato con Amenofi IV più probabilmente     la tradizione greca è anche più confusionaria di quella ebraica –  va identificato con lo stesso Giuseppe/Minosse) del visir di suo padre e di suo nonno Minosse/Yuya  e poi del figlio di questo Ay, suo visir (e faraone, dopo Tutankhamon, col nome greco di Deucalione, figlio appunto di Minosse), rimasto a reggere l’Egitto insieme alla volitiva e ambiziosa regina madre Teye. La deificazione di Amenofi III, il re Sole d’Egitto, segna l’apice della fortuna di Creta. Amenofi IV, il faraone precursore del dio giudeo-cristiano, portò la disgrazia sull’isola e su tutto il mondo antico (così il trionfo del cristianesimo  causò la fine del mondo civile, che da tempo era avviato sulla linea della modernità, piombandolo nel medioevo, che fu, con strascichi fino e oltre la strabenedetta Rivoluzione Francese, il Sabba dei mostri  generati dall’eclisse della ragione). L’eruzione del Thera e i terremoti, i maremoti e le alluvioni che ne fecero corona (circa  vent’anni dopo questa cerimonia di divinizzazione) furono visti dalle popolazioni  del tempo come una punizione divina dei vecchi dèi messi da parte e ignorati. Ed è infatti a questo punto che si colloca la cacciata xenofoba dall’Egitto degli iettatori  seguaci del culto di Aton e dunque dei primi proto-ebrei e nomadi pastori del delta orientale propagatori di epidemie. Prima del culto del Sole/Adone, che in Egitto muove i primi timidi passi già con Teye figlia di Yuya/Minosse e moglie di Amenofi III,  a Creta v’era il culto di Velkhanos,  assimilabile al Posidone Uranio/Dagan, metà pesce metà uomo con la corona solare in testa e il pastorale in mano da me identificato e più volte pubblicato col n° 50 del sillabario festio. E anche in Omero è evidente come un tempo tutto il potere era nelle mani di Posidone. E Posidone sembrò ribellarsi all’impostura e scuotere la terra ed eruttare il fuoco dalle sue viscere e agitare le acque e far piovere l’abisso sulla terra annullando in pochi attimi la splendida civiltà di Akrotiri nelle Cicladi, ma rovinando anche l’economia per un raggio molto più grande nel Mediterraneo orientale e per diverso tempo. E la flotta al comando degli Egizi, che teneva Creta e la Grecia sotto controllo, fu affondata e qualche pirata miceneo ne approfittò per impadronirsi di Cnosso e da qui dominare l’isola e sfruttarne le risorse, e profanare l’Antro Ideo e depredare i tesori deposti presso la finta tomba di Amenofi III portandoli ad Haghia Triada col sarcofago, poi alla fine riutilizzato come sepoltura da un eminente personaggio locale. L’occupazione durò  il tempo di consentire che qualche incendio cuocesse qualche centinaio di tavolette in Lineare B, ma era la fine del mondo antico (di cui  ogni uomo civile deve rallegrarsi, anche se è uno storico appassionato di civiltà antiche) e l’inizio di quello nuovo, che avrebbe parlato una lingua già comprensibile da noi moderni, quella della democrazia portata dalle classi mercantili greche e fenicie prima di tutto, propagatrici dell’alfabeto democratizzante e della globalizzazione che nega qualsiasi divisione fra gli uomini e abbatte i poteri antiumani dei latifondisti razzisti schiavisti clericali. Il medioevo fu una lunga parentesi, ma una parentesi, e sta all’uomo civile di oggi, che non deve e non può più cadere nell’errore come quello antico (anche se il cattolicesimo furbo e intrigante e gli angloamericani fuorilegge di Bush e Blair stanno a ricordarci che il pericolo è sempre in agguato), impedire nuovi medioevi, perché la strada della modernità, il cui primo cantore con tanto di nome e cognome è Omero, è tracciata, e durerà finché durerà l’uomo. 

 

 

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