MARCO G. CORSINI
Atlantide
Atlantide nell'Oceano Atlantico?
Al di là delle Colonne d'Eracle era un'isola più
grande di Libia e Asia messe insieme, regno di Posidone e dei suoi discendenti.
In quest'isola di Atlantide vi era una
grande e meravigliosa dinastia regale che dominava tutta l'isola e molte altre
isole e parti del continente: inoltre governava la Libia al di quà dello
stretto fino all'Egitto e l'Europa fino alla Tirrenia. Questa grande potenza,
riunita in un solo stato, tentò improvvisamente di colonizzare il
vostro e nostro paese e tutta la regione al di qua dello stretto.
Atene, prima alla testa degli Elleni, poi da sola, sconfisse gli invasori. Ma
poi vi furono "violenti terremoti e inondazioni" e l'isola di
Atlantide scomparve nelle profondità marine. Per questa ragione il mare in quei
luoghi è impraticabile e inesplorato poiché lo impedisce l'enorme deposito di
fango che vi è sul fondo formato
dall'isola quando si adagiò sul fondale. Ciò avrebbero detto nella prima metà del
VI secolo a Solone legislatore ateniese i sacerdoti di Sais in Egitto, secondo
la loro tradizione scritta: "dicono infatti le scritture" (Platone,
Timeo 24e-25d).
Atlandide in Arcadia nel Peloponneso?
Dionisio d'Alicarnasso sostiene che l'origine del
popolo troiano è genuinamente greca e deriva da Atlante, che regnava
sull'Arcadia nel Peloponneso ed aveva sette figlie. Elettra generò Dardano, che
generò a sua volta Ideo e Dimante. Costoro ereditarono il regno di Atlante. In
seguito "si verificò un gigantesco diluvio" e gli abitanti si
divisero in due gruppi. Gli uni restarono in Arcadia, gli altri abbandonarono
il Peloponneso e si diressero sulla costa tracia, in un'isola chiamata
Samotracia. Da qui, sotto la guida di Dardano, si diressero nell'Ellesponto,
dove Dardano fondò in Troade la città di Dardano (I, 61-62). Secondo la stessa
tradizione, allorché gli Arcadi per sfuggire al diluvio abbandonarono il
Peloponneso e si stabilirono in Samotracia, Dardano vi eresse un tempio ai Palladii, dote di sua moglie
Crisa figlia di Pallante, e se li portò dietro insieme alle effigi degli
dèi quando andò in Troade, collocandoli
nella città di Dardano. Quando poi fu costruita Ilio i suoi discendenti ve li
trasferirono (I, 68, 3-4). Certo, questa tradizione, potrebbe riferirsi
– in ogni caso in mala fede – alla colonizzazione tarda della Troade da parte dei Greci, quando, invece di Pergamo/Troia, si parla appunto di Ilio (in
età greco-romana), che in ogni caso non è stata fondata dai Greci, semmai
ricostruita, dopo gli ultimi terremoti e gli incendi della dark age.
A chi credere?
L’originaria Atlantide non è né l’una né l’altra
viste sopra. Le mie indagini mi hanno portato alla conclusione che una
catastrofe naturale – mai registrata
prima nella storia millenaria dell'umanità –
avvenne nella seconda metà del XIII secolo, e causò l'esodo dei popoli
del mare traci. La catastrofe naturale non fu da sola in grado di sprofondare
l'umanità in un buio medioevo, letteralmente yahweista, quanto lo fu la catastrofe
umana. Se la catastrofe naturale fosse stata da sola sufficiente e necessaria,
il buio si sarebbe registrato nella seconda metà del XIII secolo e
immediatamente dopo. Invece dobbiamo prima attendere le scorrerie dei popoli
del mare yahweisti di XII secolo e la loro sconfitta ad Afèq intorno al 1178
(non 1076 o 1050 come sostengono le Bibbie delle edizioni Paoline e Dehoniane di Bologna, e più in
generale tutti), e ancora la paura che si riaccendano focolai di destabilizzazione,
palpabile fino all’inizio dell’XI secolo. Ma a questo punto il danno è fatto e
il mondo antico sprofonda nei secoli bui
XI-VIII. Non bisogna prendere la dark age alla lettera, ma solo come un
modo sintetico per richiamare il declino,
a volte la pura e semplice mancanza di fonti, che caratterizzano
un’epoca generalmente critica della storia del Mediterraneo.
Tuttavia, alla luce di quanto emergerà dalla mia
indagine, e anche sulla base delle due testimonianze che ho citato sopra (di
Platone e Dionisio d'Alicarnasso), non si può credere che l’umanità abbia perso
del tutto il ricordo della splendida civiltà di Atlantide come se un’enorme
voragine al fondo del bacino orientale del Mediterraneo l’avesse risucchiata
via senza lasciare alcun relitto superstite. Qualcuno sapeva, ma, per i motivi
più diversi, tacque. I Greci, discendenti
dei Traci popoli del mare, allo stesso tempo vittime della catastrofe e
carnefici distruttori della civiltà del mondo antico, quando imparano a leggere
e scrivere e si ritrovano a dominare su gran parte del mondo antico, riscrivono
la storia per far apparire la Grecia come culla della civiltà. I Giudei loro
confratelli (perché il culto apollineo-dionisiaco in origine è la stessa
identica cosa del culto yahweista) riscrivono le guerre di Palestina cancellando i Romani e sostituendoli coi Beniaminiti e i
Filistei. Anche i Romani sanno, è logico, prima di tutti lo sanno, lo devono
sapere, ma poiché la monarchia di Romolo è nata grazie all’apporto
insostituibile dei mercenari yahweisti shardana, sono costretti a censurare
ogni riferimento alla prima vita di
Roma nel II millennio e al ruolo esercitatovi di sterminatrice dei yahweisti
anche e soprattutto shardana, perché, come vedremo, sono il nocciolo duro degli
Ebrei. E’ vero che Roma, dopo la
vittoria greca nel Tirreno, sparisce di scena insieme agli Etruschi, e deve
ricominciare tutto daccapo come città agricolo-pastorale e latifondista da
marinara ed industriale che era. Deve accettare la versione ufficiale greca dei
vincitori, secondo la quale Roma è stata fondata da due bonaccioni pastori
albani cui piaceva menare le mani alla
Bud Spencer e Terence Hill, lontani discendenti di Enea fuggito da Troia in
fiamme distrutta dai Greci. E tuttavia l’aristocrazia romana conosceva la
verità dietro alle fregnacce di una propaganda ufficiale al ribasso (al
contrario di quella greca e giudaica al rialzo). Roma era stata al centro di un
impero che aveva sterminato i yahweisti superstiti ad Afèq nei campi di
concentramento della Palestina sparsi da Bet-Shean a Roma seconda, la “Rama” di
Samuele presso Gerusalemme. Nel frattempo Ciro II ha conquistato un vasto
impero, e Siria, Fenicia e Palestina vengono unite alla Babilonia a costituire la satrapia di
Babilonia e Ebir-nari (“Al di là del fiume”, la Transeufratene). Gli Ebrei di
poi prendono nome da questa satrapia, sono appunto quelli che vivono “al di là”
(dal nostro punto di vista, al di qua)
dell’Eufrate. Ciro II è liberale verso tutti i paesi assoggettati e rispettoso
delle divinità locali, per cui il “decreto” con cui nel 538 secondo Ezra (6,
3-5) ordina la ricostruzione del tempio
di Gerusalemme e la restituzione degli arredi sacri non sarebbe di per sé
inverosimile, se non fosse che la notizia (palesemente poco trasparente) ci
viene solo dalla fonte interessata, e non dai documenti ufficiali di Ciro
II. Per la verità, stando a Ezra, su relazione di Tattenai, governatore della
Transeufratene, il suo diretto
superiore Istane satrapo di Babilonia
dispose ricerche e non si trovò alcun decreto. Poi finalmente a Ecbatana
spunta fuori l’estratto del decreto che disponeva circa il tempio di
Gerusalemme nell’ambito più ampio del restauro di vari templi. Sì, va bene, ma
ora regnava Dario I, che non era certo vincolato da un estratto di un decreto
volatilizzato e finora non attuato, perché nel frattempo il tempio non era
stato ricostruito. Analoghe ambiguità e contraddizioni riguardano l’astuzia con
cui Neemia sarebbe riuscito a ricostruire le mura di Gerusalemme. Non ce la
raccontano giusta. Ma in ogni caso la raccontano solo loro. I Persiani e tutti
gli altri popoli intorno ignorano perfino l’esistenza dei Giudei. I lavori per
la ricostruzione del tempio iniziano, secondo il profeta Aggeo (1, 12-15), solo
il 21 settembre 520, e il fatto si potrebbe spiegare (ma ne dubito) con
l’interesse di Dario I a riconquistare l’Egitto in rivolta (Albert. T.
Olmstead, L’Impero persiano, Newton Compton, pp. 79ss). Occorreva controllare
saldamente il territorio sulla strada e alle sue spalle, Gerusalemme compresa,
per cui si doveva avere l’appoggio del clero e degli scatenati yahweisti
concedendogli un tempio. E’ più facile pensare all’interesse preciso di creare
una testa di ponte a Gerusalemme in vista dell’attacco all’Europa, alla Grecia.
Dunque da questo momento entrano a Gerusalemme, da vincitori, i yahweisti che
i Romani hanno sterminato tanto da non
poterne trovare, biblicamente parlando, due insieme, e il primo e unico tempio
di Yahweh viene inaugurato nel 515
sotto Dario I. Non è igienico che Roma
si vanti di essere stata la diga contro il yahweismo, fondamentalismo religioso di estrema pericolosità (altro che
fondamentalismo islamico!). E così anche quando Roma tornerà ad essere la padrona del mondo, la verità, che
qualcuno ancora conosce, non verrà
proclamata. Certo non per riguardo ai discendenti dei mercenari shardana
seguaci di Romolo, essendo passato così tanto tempo. Percepisco delle vaghe
allusioni, anche a Gerusalemme (ad esempio la previsione, cui accenna Svetonio, degli astrologi a
Nerone, che se avesse perso il trono di Roma sarebbe diventato re di
Gerusalemme; o l’opposizione, del tutto teorica, e dunque sospetta, degli
intellettuali augustei allo spostamento della capitale a Troia – cosa che poi
farà praticamente Costantino –, laddove evidentemente si alludeva, come
vedremo, a Roma seconda, e dunque a Gerusalemme, che ne era l’erede), e, curiosamente, tutte le
monografie promesse o scritte sui Tirreni – ora intesi come Etruschi, ma la cui
storia più antica interferisce con quella della Roma più antica, ed entrambe
coi yahweisti shardana e dunque col yahweismo – non ci arrivano, smarrite per
via; censurate a posteriori dallo stesso regime imperiale, che provvede a
distruggere con discrezione le copie in circolazione?). Mi si consenta un
esempio sulla base della nostra storia moderna e contemporanea. Se il
governo della Roma che tutti conoscono
fosse stato a stelle e strisce, si sarebbe sempre vantato di aver combattuto
contro il fondamentalismo yahweista (come gli USA combattono il fondamentalismo
islamico; per la verità cercano il petrolio e le vie strategiche, e la guerra
al fondamentalismo islamico, che prima attizzano, è la scusa per arrivare ai
loro sporchi obiettivi economico-politici). Viceversa questa stessa Roma si comporta analogamente ai
governi tedeschi che fanno di tutto per farsi perdonare le deportazioni e lo
sterminio degli ebrei al tempo di Hitler.
Dunque, se ho ragione, questi Romani fecero una scelta di opportunità,
ma sbagliata (diciamo, per capirci, alla tedesca), mentre avrebbero dovuto
proclamare a gran voce che erano stati coloro che avevano sterminato il
fondamentalismo yahweista (diciamo, alla statunitense) e che intendevano con
ogni mezzo continuare su questa via, impegnandocisi però per bene. Quel che
accadde poi mi da ragione. Era inutile cercare di blandire il yahweismo facendo
finta di nulla, perché i Romani non potevano non conoscerne la pericolosità
quanto meno sotto la dinastia macedone, e infatti questo aveva già deciso di
rimettere a ferro e fuoco l’impero fin dal tempo di Pompeo. E’ evidente il
complotto continuo, dietro le quinte, nell’ombra, fino al trionfo del
cristianesimo (S. Mazzarino, L’Impero romano, Laterza). La morale è che coi
fondamentalismi non si deve venire mai a patti perché incompatibili con
il consorzio umano.
Prima di affrontare l’argomento di questo lavoro
voglio insistere sulla furbizia congenita dei Greci (dei yahweisti), di cui il
mondo antico ha sempre diffidato fino ai tempi moderni: E' un impostore, e per giunta
greco; temo i Greci anche quando portano doni; chi si fida di greco, non ha il
cervello seco. "La Grecia non conosce nulla che sia degno di fede"
scrive Euripide nell'Ifigenia in Tauride (v. 1205). Sembrerebbe curioso che dei yahweisti d’origine, dei credenti in
dio, non tengano in alcun conto la verità, se non fosse che, appunto in quanto
yahweisti d’origine, sanno perfettamente bene che la “religione” è solo uno
strumento del potere, il più tremendo, e la “verità” un optional. La loro
strategia si fonda sulla loro tradizione, che è Bibbia, e dunque non si discute
(anche gli scienziati e filosofi greci devono stare attenti a non finire sul
rogo come Giordano Bruno o segregati come Galileo), poi su genealogie
complicate, moltiplicate, con nomi di persone e luoghi riportati in modo
variato e alterato. E' la medesima strategia dei loro confratelli yahweisti di
Gerusalemme ed Evangelisti. "La loro [dei Cristiani] dottrina è,
all'origine, barbara. In effetti i barbari sono abili a scoprire dottrine, ma
per quanto riguarda la loro valutazione, il consolidamento e l'esercizio, in
vista del conseguimento della virtù, di quanto i barbari hanno scoperto, i
Greci sono certo più capaci." (Celso, Contro i Cristiani, I, 2) La
dottrina barbara dei cristiani avrebbe avuto le gambe corte se i Greci non
l'avessero presa tra le mani e con la loro astuzia non l'avessero resa
inattaccabile, perché sono, o piuttosto si credono, furbi. E' una guerra che
credono vinta in partenza perché chiunque cerchi di venire a capo del filo di
Arianna delle loro storie trova sul percorso mille grovigli da sciogliere, se
non addirittura capi spezzati come binari morti, che non vanno da nessuna
parte, e si arrende, prima o poi si arrende, e si arrabbia e getta tutto nella
pattumiera. Si tratta soprattutto degli archeologi, che più di tutti hanno
contribuito a distruggere l’idea stessa di Storia. Gli altri, specie i
classicisti, di formazione, di fede ellenocentrica, si arrendono ma non si
arrabbiano, o piuttosto non si sono mai posti il problema, perché hanno sempre
creduto per fede (non rendendosi nemmeno conto dei grovigli, dei binari
morti). Così, fra gli uni e gli altri,
fra mentitori greci, archeologi e classicisti
moderni, la storia, fino alla mia scesa in campo, la scesa in campo di un
laureato in legge, è rimasta nel regno delle menzogne propalate dagli antichi
Greci e stancamente seguite o inutilmente moltiplicate dai moderni.
A onor del vero, va detto che se i Greci antichi nel
complesso sono imbroglioni, soprattutto i loro antenati traci yahweisti, alcuni
greci fanno eccezione, cercano di giungere alla verità in piena buona fede, e
proprio per ciò ci forniscono informazioni utilissime. Se non vi riescono è
perché non hanno gli strumenti critici in mano e perché le carte sono state rimescolate
tanto tanto tempo fa e ora è difficile raccapezzarcisi.
Vorrei ancora citare due aneddoti che rendono l’idea
dell’abisso che intercorre fra i Greci e le civiltà veramente antiche del
passato (prendo l’Egitto ad esempio) da essi spudoratamente sfidate. Ecateo di
Mileto, che vive intorno al 500 a. C., alla greca, cerca di impressionare i “barbari” sacerdoti egizi vantando un
antenato divino sedici generazioni prima di lui, e cioè (contando, alla greca,
tre generazioni ogni secolo), appena nell’XI secolo a. C. Questi allora lo
conducono nel tempio tebano dove erano le 345 statue in legno dei sommi
sacerdoti succedutisi di padre in figlio fino al più antico di essi anche lui
figlio di esseri umani (Erodoto II 143). Inutile dire che contando anche qui,
per par condicio, tre generazioni ogni secolo, si supera l’età attribuita da
Platone allo sprofondamento della sua Atlantide. Invitato a Sais dal re Amasi, Solone, presuntuoso quanto Ecateo,
espose con orgoglio la cosmogonia greca. Uno dei sacerdoti, però, seppe
umiliare il barbaro come più tardi avrebbero fatto i suoi colleghi di Tebe. Il
suo unico commento fu questo: “Solone, Solone! Voi Greci siete sempre bambini,
e non c’è un solo Greco vecchio! … Non avete una sola fede antica, né una
scienza antica. ” (Platone, Timeo 21e-22b).
I Greci sono dunque ignoranti e presuntuosi, quando va bene, ed è evidente
che lo storico ha vita difficile a verificare la loro testimonianza. Dunque,
nella contraffazione cominciata durante i secoli bui, le antichissime civiltà
di Atlantide e d'Egitto trasmigrano nel Peloponneso. E' da qui, dal
Peloponneso, dalla Grecia, che vengono fatte nascere dai Greci. Atlandide era così in Arcadia al centro del
Peloponneso, e da Inaco, re dell'Argolide e del Peloponneso, nasce Io che da
Zeus ha Epafo, dal quale nasce Libia, che genera Belo, che genera Egitto
(pseudo Apollodoro II, 1).
Non ho nulla contro pseudo Apollodoro. Al contrario.
Questo tardo compilatore d’età imperiale, se non addirittura alto-medievale,
raccoglie la tradizione greca sparsa in numerosi autori (molti perduti nel
frattempo), mettendo ordine e riconducendo tutto a sistema, facilitando l'opera
dei testardi, che vogliono venire a capo delle menzogne greche. Non è vero che
ignora l'esistenza di Roma e dell'impero romano, visto che è contemporaneo
e perfino posteriore all’impero romano d’Occidente. Gli Eolidi sono i
Tirreni occidentali e Roma è Calidone, in Etolia/Italia. Grazie anche a pseudo
Apollodoro si può venire a capo della verità storica.
Alla fine, prima di tutto superando l'ostacolo dei
depistaggi dei Greci e dei moderni, poi raccogliendo e mettendo insieme i pochi
cocci superstiti, sono riuscito a risolvere il più importante fra i misteri
della storia antica e a riportare a galla la meravigliosa storia di Atlantide,
che è anche la meravigliosa storia di Roma, la città dalle due vite. Nel corso
della risoluzione di questo, altri misteri hanno trovato la loro spiegazione
alla fine di questa mia lunga indagine, in particolare l'origine degli Etruschi
e degli Ebrei.
La vera Atlantide, anatolico-pontica.
Pseudo Apollodoro, trattando dell'undicesima fatica
di Eracle, con la quale doveva riportare ad Euristeo di Micene i pomi d'oro del
giardino delle Esperidi, sostiene che "questo non si trovava, come alcuni
hanno detto, in Libia, bensì sul monte di Atlante, nel paese degli
Iperborei". E più oltre, venendo al sodo, "Giunto alle montagne del
Caucaso... Eracle... liberò... Prometeo. Prometeo aveva consigliato a Eracle di
non cogliere le mele con le sue mani, ma di sollevare Atlante dal peso del
cielo, e di inviare lui; giunto nel paese degli Iperborei, quindi, l'eroe
convinse Atlante, e sostenne il cielo al suo posto. Atlante colse tre mele dal
giardino delle Esperidi, e le portò a Eracle." (II, 5) Da Atlante via Elettra,
discendono i Dardanidi e Troiani (pseudo Apollodoro III, 12), i Tirreni
orientali.
La vera Atlantide che assalì Atene e l'Occidente è
quella anatolico-pontica. L'Atlantide di Dionisio d'Alicarnasso (che è
l'Atlantide della tradizione greca raccolta anche da pseudo Apollodoro III, 10
e 12) è con tutta evidenza il rovesciamento della realtà, dal Peloponneso a
Troia, che sappiamo esistente prima del III millennio a. C. e nell'epicentro
dei terremoti e alluvioni (è inverosimile che invece di fuggire da Atlantide
gli Arcadi vi vadano in seguito agli stessi terremoti e alluvioni). L'Atlantide
di Platone, che per la parte storica deriva dalla vera Atlantide
anatolico-pontica, per il resto si riferisce alle Americhe. Sull'Atlantide
2/Americhe vedi l'appendice a questo lavoro. In sintesi i marinai di Atlantide,
al di là delle colonne cui avevano dato il nome di Atlante scoprirono il
Messico che gli indigeni chiamavano
ancora Aztlan al tempo dei conquistatori spagnoli.
A partire dal 1240 ca. (che per me corrisponde alla
fine di Troia, VI o VIIa che sia, a causa di un sisma e conseguente incendio)
una serie di terremoti e fenomeni vulcanici colpì l'Atlantide, cioè la
Kaftor/Anatolia/Cappadocia della Vulgata di S. Girolamo, causando l'allagamento
della Scizia con la Palude Meotide (odierno Mare d'Azov), "di dimensioni non molto
inferiori" al Mar Nero (Erodoto, IV, 86); la comparsa di 32 sorgenti
d'acqua fredda e calda del Tearo, prima tappa in Tracia di Dario, superato il
ponte di barche del Bosforo (Erodoto IV, 90) e delle rupi Cianee o Simplegadi,
le rocce ancora vaganti (Erodoto IV, 85) presso il Bosforo incontrate dopo la
dark age dagli Argonauti nel viaggio da Pyrgi alla Colchide. Anche Shliemann
descrive il paesaggio paludoso della Troade, le curiose 40 fonti (Kirk Giös, i
Quaranta Occhi) del torrente Bunarbaschi-Su, tutte alla temperatura di 17 gradi
e mezzo, e a smentire la localizzazione della Troia omerica con lo squallido
villaggio di Bunarbaschi ricorda il passo omerico delle due fonti una calda una
fredda dello Scamandro dove le troiane solevano lavare i panni prima della
guerra (Il. XXII, 147ss). Secondo Shliemann " Le due sorgenti, quella
calda e quella fredda, si trovavano senza dubbio nella palude che è
immediatamente sotto Ilio dal lato nord, nella stessa palude in cui Odisseo e
Menelao si disposero all'agguato [Od. XIV, 472ss]. Alla scomparsa di queste due
sorgenti non si può attribuire alcuna importanza, perché le sorgenti, calde e
fredde, sono sempre fenomeni naturali accidentali che nella Troade, paese
quanto mai vulcanico e ricco di sorgenti calde, appaiono e scompaiono
all'improvviso in seguito ai frequenti terremoti. Frank Calvert ha osservato
che in tempi moderni sono scomparse e poi riapparse parecchie di queste
sorgenti calde. Ciò è accaduto anche tre o quattro anni fa alle fonti calde e
salate di Tongla, che ricomparvero solo a distanza di diversi mesi. La sorgente
più calda della piana di Troia si trova ora a due chilometri dal villaggio di
Akchi-Kevi e ha una temperatura costante di 22 gradi." (La scoperta di
Troia, Einaudi, p. 119)
Secondo Deuteronomio 2, 23 "Anche gli Avviti, che
dimoravano in villaggi fino a Gaza, furono distrutti dai Kaftoriti usciti da
Kaftor". "Eveos quoque qui
habitabant in Aserim usque Gazam Cappadoces expulerunt qui egressi de
Cappadocia..." Secondo Geremia 47, 4 "il Signore infatti
distruge i Filistei, il resto dell'isola di Kaftor." "depopulatus est enim Dominus Palestinos, reliquias
insulae Cappadociae." Secondo Amos 9,7 "Non ho io fatto uscire
Israele dal paese d'Egitto, i Filistei da Kaftor e gli Aramei da Qir?" "numquid non Israhel ascendere feci de terra
Aegypti, et Palestinos de Cappadocia, et Syros de Cyrene?" Purtroppo
non posseggo la versione greca dei settanta, ma è evidente che San Girolamo,
traducendo Cappadocia, aveva le sue buone ragioni.
La Palude Meotide (poi Mar d’Azov) al tempo di Erodoto, V sec.
Io credo che l'esondazione del Mar Nero sia il vero Diluvio della
tradizione dei Traco-Illiri di Elleno
(figlio di Deucalione) e di Noè. La nascente civiltà greca e giudaica (nonché
fenicia) ha un deciso connotato tracio sia nel yahweismo/dionisismo connesso al
vino (Noè che scopre il vino, Dioniso legato al vino), sia nei sacrifici umani
(legati allo stesso culto di Yahweh/Dioniso nipote di Cadmo; Ifigenia in
Aulide; la figlia del "giudice" Iefte/Deucalione; Pelope ucciso e cucinato nel banchetto degli
dèi; Atreo che fa a pezzi e cucina i figli dell'ignaro Tieste e glie li dà a mangiare) e in special
modo dei primogeniti (Abramo e Isacco; il sacrificio mòlek fenicio per
combustione dei primogeniti nel tòfet). Figli del Diluvio che il buon Yahweh ha
evidentemente inviato sulla Terra (alla Tertulliano) per punire l'umanità che
se la passa troppo bene, in vizi e stravizi, mentre i poveri Traci vivono come
bestie, di stenti. Figli del Diluvio dicevo, i Traci, perché l'hanno
sperimentato sulla loro pelle, elaborano il concetto di catastrofe universale
che millenariamente Yahweh invia sulla Terra per purificarla, e dunque lasciano
ai cristiani loro discendenti il testimone per la proclamazione di una nuova
Fine del Mondo con Giudizio Universale, che tutti abbiamo atteso, invano, alla
fine del primo e del secondo millennio.
Il vero Mar Rosso da cui partono Fenici ed Ebrei per colonizzare la
Palestina non può essere quello comunemente noto dalla tradizione, bensì un
altro Mar Rosso, che secondo me è quello che oggi viene chiamato Mar Nero (ma
nel medioevo Mar Russo/Rosso), da cui partono Danai e Shar-danai yahweisti
antenati dell'Eracle ebreo Sansone della tribù "greca" di Dan. E
infatti i popoli del mare giungono in Palestina da nord e dal mare, dalla piana
di Israel, magari anche via terra, dall’Anatolia orientale, via Transgiordania,
ma non dall'Egitto, da sud, come
pretende la Bibbia. Del Mar Nero/Mar
Rosso parlo approfonditamente in appendice. Qui anticipo che evidentemente
l’originario Mar Rosso era il Mar Nero, poi chiamato Mar Nero (dopo il
Medioevo, evidentemente) per distinguerlo dal Mar Rosso, nome che i yahweisti
nel frattempo avevano trasferito al mare prossimo all’Egitto da cui con metastoria di età tarda pretendevano essere giunti (e in effetti dopo la conquista
dell’Egitto e di Dafne pelusica da parte di Cambise II (figlio e successore di
Ciro II) erano giunti a Gerusalemme; questo fu l’Esodo degli shardana-ebrei
dall’Egitto!).
Poiché il Diluvio della Palude
Meotide nella seconda metà del XIII secolo è il diluvio di Noè con epicentro l’Ararat su cui si arena l’arca, è
ovvio poi che il mito "di fondazione" del diluvio di Noè non sia anteriore all'età neo-babilonese,
come sostiene M. Liverani (Oltre la
Bibbia, Laterza, pp. 257-259).
La mia ipotesi è che in seguito a
terremoti, fenomeni vulcanici e alluvioni l'Anatolia/Cappadocia/Kaftor divenne
praticamente isolata, o considerata tale. Col tempo tornò ad essere collegata
alla terraferma e pertanto, dopo i '"secoli bui", non essendo più
ritrovata, l'isola si considerò "sparita", "inabissata"; o,
in ogni caso, tutta la vicenda suggerì a Platone l’idea dell’inabissamento
della sua (realmente esistente 2a) Atlantide nell’Atlantico.
Il regno anatolico e pontico di Atlantide/Iperborea
con capitale Troia, era realmente situato al di là delle colonne che Sesostris
I/Eracle aveva posto al Bosforo ("attraversò l'intero continente, poi
passò dall'Asia in Europa e assoggettò gli Sciti e i Traci. Queste mi sembrano
le regioni estreme toccate dall'esercito egiziano: in effetti nel paese degli
Sciti e dei Traci si vedono ancora erette delle stele commemorative, che
spingendosi oltre non si vedono più. " Erodoto II, 103), al confine fra
Asia ed Europa, meta ultima della sua spedizione. Secondo Erodoto la Colchide,
che io ritengo abbia ereditato nella tradizione il ruolo di culla della civiltà
dei Tirreni, sarebbe stata colonizzata dai soldati egizi di Sesostri I durante
la sua spedizione conquistatrice fino in Tracia (Erodoto, 103), ciò che è ora
confermato da una grande stele ritrovata a Mit-Rahina (Medio Egitto) nel 1974.
Sesostris (che Erodoto, II,
111-113ss, colloca erroneamente – ma ciò corrispondeva o poteva corrispondere
anche a quel che i Greci stessi ritenevano, e cioè l'esistenza di un
Sesostris/Eracle anteriore alla guerra di Troia – appena prima di Ferone e di Proteo sotto cui avvenne la guerra
di Troia) entrò certo a formare la leggenda di Eracle e della sua spedizione
fino all'estremità occidentale dell'Europa con le sue Colonne passate alla
storia. Il nome egizio è S-n-Wsr-t e si traduce "uomo (della dea) Wsret
(con terminazione femminile)", laddove wsr significa "forte,
potente". Non è dunque difficile comprendere come l'"uomo forte"
Eracle/Sesostris, figlio di Wosret/Hera, possa essere diventato l'eroe
conquistatore del mondo descritto da Erodoto e Diodoro fino a pseudo
Apollodoro. Dario eresse al Bosforo due colonne in marmo bianco con l'elenco in
persiano e greco dei popoli che lo seguivano nella spedizione contro la Grecia
(Erodoto, IV, 87). I re persiani conoscono molto bene la storia più antica, non
solo, ma tengono a rinviarvi in ogni
loro gesto, per cui è del tutto plausibile che prima delle due colonne di Dario
al Bosforo siano state poste altre colonne o stele da parte di Eracle/Sesostris
I, incline a dar fuoco ai suoi congiunti (Erodoto II, 107; pseudo Apollodoro
II, 4).
L'Ellesponto è definito da Serse "fiume melmoso
e salmastro" (Erodoto VII, 35). Strabone ricorda un grande terremoto che
sotto il regno di Tantalo " colpì la Lidia e la Ionia, estendendosi fino
alla Troade. Interi villaggi furono inghiottiti ed il Monte Sipilo rimase
deserto... Le paludi si tramutarono in laghi ed un'onda di maremoto inondò la
regione attorno a Troia. " (I, 58). "I testi hittiti e quelli di
Ugarit segnalano carestie e importazioni di grano dalla Siria verso l'Anatolia,
e Merenptah si vanta di aver inviato grano dall'Egitto "per mantenere in
vita il paese di Khatti" (ARE III 580). Qualcosa del genere deve essersi
verificato anche nella penisola balcanica." (Liverani, p. 40). Anche
quelli che poi saranno noti come Fenici furono costretti ad abbandonare il loro
territorio a causa di un terremoto, secondo Giustino. Si tenga presente che i
Fenici non sono i Cananei e non si può parlare di Fenici prima del movimento
dei popoli del mare, anche se abitano città che mantengono lo stesso nome di
quando erano cananee.
Si tengano anche presenti le tre satrapie persiane
di “Quelli del Mare”/Dascilio, a sud del Mar Nero (e confinante con il versante
occidentale della Cappadocia), Sardi e Ionia (Olmstead, pp. 70 e 92), da cui
potrebbe evincere un ricordo del fatto che i popoli del mare erano proprio
quelli provenienti dal Mar Nero. Tanto più che “Quelli al di là del mare” sono
i Saci (Olmstead, p. 156).
L'impero dei Tirreni orientali, sulla scorta di pseudo
Apollodoro (II, 5, l'11a fatica di Eracle, e III, 10 e 12), avrebbe potuto
chiamarsi di Atlantide, abitata dagli Iperborei. Qui risiedeva Atlante
(sull'Ararat armeno), vicino a suo fratello Prometeo (legato dal tracio Zeus ad
una delle colonne del Sole nascente del Caucaso), figli dei titani
Giapeto/Iafet (antenato degli Europei) e Asia. Fra Europa e Asia. Qui
risiedevano gli innumerevoli figli e figlie di
Atlante, da cui provenivano i Dardanidi e Troiani. In Colchide era localizzato il giardino/paradiso
del Sole (raffigurato nella tradizione slava e indiana come una ruota coi raggi
che gira su se stessa) con al centro l'albero della vita dai pomi d'oro,
produttore di ogni semente. Vi era a guardia l'uccello-cane, il grifone
Simar'gl, anch'egli simbolo del Sole come uccello di fuoco. Nella settimana del
solstizio d'estate le giovani sacerdotesse celebranti vestivano abiti dalle
lunghe maniche che lasciavano scivolare fino a terra. Allargando allora le
braccia – le ali del sacro grifone –, scandivano movimenti rituali al suono
delle cetre e dei triangoli (F. Conte, Gli Slavi, Einaudi Tascabili, p. 325). Era un impero eurasiatico
sull'acqua che aveva come sbocco Troia, fondata da Dardano, figlio di Elettra,
figlia di Atlante (si noti che i Greci hanno tolto ad Atlante tutti i figli
lasciandogli solo figlie – oltretutto
trasferendole in Arcadia, pseudo
Apollodoro III, 10 – ma erano le donne
a trasferire la regalità tanto presso gli Egizi e i Tirreni quanto presso gli
Slavi, che hanno ereditato le tradizioni
dei Tirreni). Se Taruisa/Troia (la
"città bassa") logicamente può essere un mercato, un crocevia di
scambi, potrebbe essere connesso allo slavo (torg, trg/targi) targowisko
(polacco) "mercato", il mercato dell'Ellesponto sull'Egeo. Pergamo,
la Rocca, la "città alta", è connesso col germanico burg/berg, la
"Fortezza, Castello", da cui Hissarlik turco. E' solo dopo la
catastrofe della seconda metà del XIII secolo che l'insenatura s'è insabbiata
isolando la Rocca dal mare. L'impero
degli Atlantidi era fondato sull'acqua, sul Mar Nero e Caspio, sull'Egeo, sul
Mediterraneo fino a Creta, e poi sui fiumi che sfociano nel Mar Nero
(Danubio-Istros, Dnestr-Tiras, Dnepr-Borysthenes, Don-Tanais) e nel Mar Caspio
(Volga). La ricchezza di questo impero era il grano (la Scizia granaio del
Mediterraneo), il pesce, le pelli, il rinomato miele della Scizia e gli
schiavi, l'oro custodito dai grifoni di Erodoto (III, 116). Gli Atlantidi, con
le loro lunghe navi monossili dal fondo piatto, importavano l'ambra e le pellicce del Mar Baltico lungo le vie
fluviali navigabili come il Dnestr-Vistola o Dnepr-Dvina, lo stagno boemo e
l'argento tracio lungo una carovaniera, la via argonautica, su cui poi si
sovrappose la via Egnazia romana. Dal terminale di Adria si diramavano poi
altre due vie dei Tirreni, quella pelasgica fino a Roma e quella eraclea fino
alle colonne di Atlante e al Tartesso.
Troia esisteva dall'inizio di tempi. Esisteva da
prima della prima dinastia egizia, da prima dei palazzi minoici a Creta, divisa
fra città alta e bassa, a controllo dei traffici (e poteva dunque esigere un
pedaggio) sull'Ellesponto, la porta sull'Egeo dell'immenso impero commerciale
euroasiatico degli Atlantidi. Troia prima di tutto era sulla via dello stagno
boemo e dunque il pedaggio sullo stagno e il suo commercio costituiva la sua
principale fonte di ricchezza nell'età del bronzo, e cioè già a partire da
Troia I agli inizi del III millennio. Già Troia II aveva le sue mura, spesse
tre metri con zoccolo obliquo sul lato esterno in funzione di stabilità e
difesa. Erano state costruite dagli stessi dèi, da Posidone (il Posidone
Uranio/Dagan del Disco di Festo), dio del mare e dei terremoti, cui la regione
è soggetta, e da Apollo, il Sole. Troia
II ha grandi pithoi di terracotta per conservare le provviste. Allo strato
finale di Troia II (2400 a. C.) appartiene il cosiddetto Tesoro di Priamo (1538
pezzi in oro, argento e pietre preziose divisi fra il museo Puškin di Mosca e
l'Ermitage di San Pietroburgo).
Mi immagino che i Tirreni orientali fossero al
centro di un'avanzata metallurgia segnalata dai tesori di Alaca Hüyük (2200
a.C.), in Anatolia centro-settentrionale, di Maikop (2200 a. C.), nel Caucaso
settentrionale, poi quelli che provano una relazione con la Mesopotamia
(secondo alcuni i tesori di Ur ci arrivano portati da una dinastia del nord) e
l'Egitto (il tesoro di Dorak, nei pressi della Troade, contiene un frammento in
oro col cartiglio del faraone Sahura, 2500 ca.) Gli Akkadi hanno carovane che
giungono in Anatolia per procurarsi i metalli. Dopo gli Akkadi le stesse vie
carovaniere sono percorse dagli Assiri che, a Kanesh in Anatolia centrale,
hanno un loro quartiere commerciale e acquistano argento, oro e rame, in cambio
pare, fra l'altro, di stagno. Quando gli Hurriti si interposero su questa via
carovaniera una seconda via dello stagno collegò Kanesh alla Cilicia, e
attraverso l'Eufrate (archivi di Mari sul medio Eufrate) in direzione della
Mesopotamia meridionale.
F. Braudel menziona il tesoro scoperto sulle rive
del Mar Nero nella grotta di Nahal Mishmar e oggi datati al 4000 a. C.: armi,
scettri, corone, mazze di rame dai disegni complicati e tecnicamente perfetti
"certamente in anticipo su quelli della Mesopotamia dello stesso periodo.
" (Memorie del Mediterraneo, Tascabili Bompiani, p. 87)
Troia II era già una città opulenta che esportava i
metalli dell'entroterra eurasiatico degli Atlantidi in cambio di prodotti
lavorati e di lusso dal resto del mondo. Troia III durò poco, fino al 2200, ma
costituisce un progresso rispetto alle precedenti. Troia VI (1700-1300) fu la
città più grande e importante. La cittadella aveva un diametro di 220 metri su
una superficie di 20.000 metri quadri e mura lunghe 550 metri. In questo
periodo vi fu la costante preoccupazione di dare alla città una protezione da
attacchi esterni con ben tre cinte murarie, l'ultima di cinque metri di
spessore, sempre con parete esterna obliqua ma ancor più inclinata e alzato di
4 metri in mattoni d'argilla cotti al sole, disposti accortamente in funzione
antisismica. Sulla parte superiore delle mura, dietro un parapetto, correva il
camminamento per le guardie. Vi erano poi grandi torri sporgenti e quattro
porte di accesso, la più grande (Scee, a sud) larga tre metri e 25 cm. con a
fianco una torre del 1300 davanti alla quale furono collocate quattro stele ed
altre stele simili sul lato destro della porta davanti a un megaron parallelo
alle mura al cui interno sono stati rinvenuti resti di sacrifici. Dunque la
porta sud aveva valore di rappresentanza. Da qui passavano le delegazioni
straniere che prima sacrificavano alle divinità locali e poi entravano sui loro
carri lungo la strada lastricata che li conduceva al cuore della cittadella, al
palazzo reale oggi perduto perché spianato nel IV secolo per costruirvi il tempio
di Atena Iliaca. Troia era un centro nevralgico del commercio via mare e via
terra. Smerciava i metalli, soprattutto lo stagno, poi l'ambra dei Balcani e la
corniola.
In quanto popolo marinaro e guerriero che regnava su
Creta e le isole, oltre che sul Mar Nero, i Tirreni erano i soli a poter
affrontare adeguatamente l'occupazione da parte degli Hyksos del delta egizio
alla fine del XVIII secolo. Come avviene di solito, l'alleanza militare fu
ratificata dai matrimoni dinastici, con la differenza che in questo caso la
potenza egemone era quella dei Tirreni, i quali davano le loro figlie (in
Egitto le donne sono portatrici della regalità) come grandi spose reali ai
faraoni. E' evidente che ad un certo momento la doppia corona verrà portata da
faraoni tirreni, figli di altri faraoni tirreni. Siamo allo scontro finale fra
Egitto della XVII dinastia tebana e Hyksos del delta. La vittoria sugli Hyksos
della marineria tirrenica di Ahmose
fondatore della XVIII dinastia coincise però anche con la prima eruzione del Thera
(Stele della Tempesta e verso del papiro Rhind) con cui alla metà del XVI
secolo termina il periodo d'oro della
talassocrazia dei Tirreni. Poi fra l'eruzione parossistica del Thera (1330
circa sotto il regno di Amenofi IV) e il terremoto disastroso che deve aver
abbattuto (con conseguente incendio) –
ipotesi mia – Troia VIIa verso il 1240, abbiamo la fine di
Atlantide e del suo vasto impero. E tuttavia, per quanto notevolmente
ridimensionati, i Tirreni rimangono
signori del mare (in Oriente e Occidente) almeno fino all'iniziale XI secolo in
cui l'asse Roma-Troia mantiene l'ordine in Siria-Palestina.
E' possibile che i popoli che si affacciano
sull'Egeo parlassero nel III millennio una lingua indeuropea (proto-luvico). Ma
a Troia VI si parlava greco. Dopo la dark age, l'eolico è parlato a
settentrione, seguito a sud dallo ionico e dal
dorico ancora più a sud. Secondo Dionisio e gli antichi filologi
greco-romani i Romani, coloni di Troia, parlano una lingua di ascendenza eolica
(Dionisio I, 90; in particolare è stata notata la presenza del digamma che si
riscontra anche nell'Apoteosi di Radamanto sul Disco di Festo, che io ora
attribuisco ai Tirreni orientali, che a mio avviso dominano anche su Creta e
sulle isole al posto degli obsoleti "Minoici" di Evans). Quando Dionisio d'Alicarnasso si sforza in
ogni modo di dimostrare che i Romani sono Greci autentici non lo fa per
piaggeria nei confronti della superpotenza dell'Occidente, né per rendere più
tollerabile ai Greci la loro soggezione ad un impero straniero, ma perché ci
crede realmente.
Ancora sotto Sesostri I uno scriba si vantava di
leggere il cretese: "Il mio calamo comprende gli Haunebu". Per me gli
Haunebu sono appunto i Tirreni orientali, gli Atlantidi, che dominarono sulle
isole dell'Egeo e su Creta. Sulle loro navi signore dei sette mari sventolava
il grifone, simbolo del Sole. Ho motivo di sospettare che il termine Haunebu sia stato esteso poi ai Tirreni occidentali coloni
di quelli orientali, che abitavano le "isole sacre" dei Tirreni
secondo l'espressione di Esiodo, alla fine della Teogonia, come se la civiltà
dei Tirreni fosse l'ultima propaggine della primaria civiltà greca fondata
dagli dèi (mentre era vero l'opposto, che Troia era stata fondata dagli dèi e i
Greci erano i distruttori, discendenti
a loro volta dei barbari che avevano distrutto la civiltà degli dèi). Hau-nebu diventa perciò l'Ausonia, il più
antico nome dell'Italia (prima che fosse chiamata Tirrenia, Dionisio, I,
11, 4), per metatesi da un originario *Au-nisoi, le "Isole sacre" dei
Tirreni. Secondo Erodoto i Colchi sono frutto della mescolanza fra soldati
egizi e donne indigene e per questo hanno costumi di derivazione egizia. La
data di nascita di questa nazione sarebbe dunque il 1971-1926, regno di Sesostri
I. Siamo dunque all’inizio del II millennio. Nello stesso periodo è in piedi
Troia IV-V.
Gli Atlantidi
dominavano realmente sulla Tirrenia e sull’Egitto.
Prima della catastrofe, l'Atlantide iperborea, con
capitale Troia, dominava realmente (come afferma Platone attribuendolo alla sua
Atlantide oltre Gibilterra, Timeo 25a-b) sulla Tirrenia occidentale, sua
colonia, e dominava anche sull'Egitto, poiché il faraone, a partire dalla
guerra contro gli Hyksos (XVII dinastia) sposava la figlia di dinasti tirreni orientali,
la quale diventava la sua grande sposa reale (e in Egitto è questa a
trasmettere a suo marito il titolo di faraone). In questa fase della storia
erano in sostanza i Tirreni a dominare sull'Egitto. Seqenenra Tao I e Tetisheri
("Teti la piccola") generano Seqenenra Tao II e Ahhotep (dunque
entrambi sicuramente tirreni, se Ahhotep era ritenuta originaria di Haunebu,
come scrive M. Bernal, e io ho ragione) che si sposano fra loro e generano
Ahmose (tirrenico anche lui, ovviamente), il faraone che cacciò gli Hyksos
dall'Egitto e fondò la XVIII dinastia. Ahmose ha una speciale relazione con i
Tirreni, dato che le sue armi sono decorate col grifone iperboreo, che
ricompare negli affreschi del palazzo di Cnosso e di Pilo, fino a quelli delle
necropoli etrusche come Tarquinia. Scrive A. Gardiner che l'intera famiglia
dinastica, a partire dai due Tao, chiamati "Signori dell'Occidente"
(il che ha un riferimento prima di tutto al mondo dei morti, collocati a
Occidente), fu oggetto di adorazione nel villaggio di Deir al-Medina che alcuni
secoli dopo ospitava gli operai delle tombe reali. A queste divinità molto
amate dal popolo, si rivolgevano preghiere nei momenti difficili, o si
chiedevano responsi ai loro oracoli in caso di controversie legali (La civiltà
egizia, Einaudi, p. 160). Un oracolo di Teti in ambito ceretano (E. Fiesel, s.
v. Tethys, in RE VIa, Stuttgart 1936, coll. 204-204; G. Capdeville, Volcanus,
in "BEFAR" 288, Roma 1995, pp. 65-66 n. 7; T. P. Wiseman, Remus, pp.
57-62) trova riscontro nella tradizione che ruota attorno ai fondatori di Roma
(Promathion, autore di una Storia d'Italia in Plutarco, Vita di Romolo, 2,
4-8), di Cures sabina (Dionisio, II, 48), a Servio Tullio (Dionisio, IV, 2), ed
aveva come centro il focolare del tempio annesso alla reggia, plausibilmente da
riconnettersi al dio dei metallurgi Efesto/Vulcano. Ovviamente Teti era una
divinità dei Tirreni e in Iliade vive nelle profondità marine tra Imbro, Lemno
e Samotracia (Il. XXIV, 78). Anche Peleo figlio di Eaco, che da Teti ebbe Achille
è personaggio della tradizione tirrenica (addirittura occidentale, di Pyrgi e
Roma, colonia di Troia). Ha partecipato alla caccia del cinghiale Calidonio, a
Roma, ai giochi in onore di Pelia (fratello di Neleo di Pilo, anch'esso legato
a Roma), alla spedizione degli Argonauti (Romani e partiti da Pyrgi) e, con
Giasone e i Dioscuri (Romani), al saccheggio di Iolco! (pseudo Apollodoro, III,
13) Anche Telamone suo fratello sposa una troiana, Esione. Più tardi
incontriamo una nazione che ha gemmato verisimilmente dai Tirreni, quella dei
Mitanni, che continuano a dare le loro spose reali ai faraoni. Mutemuya/Europa
da Tuthmosis IV ha Amenofis III/Radamanto e questo, da Tiye, figlia del sommo
visir Minehud/Minosse e di sua moglie Tuya/Pasifae, ha Amenofis IV che sposa
Nefertiti/Megara. (Che i Mitanni siano ancora tirreni orientali lo dimostra la
tradizione che lega Pasifae alla Colchide e al giardino del Sole degli
Iperborei Atlantidi). E' significativo che il villaggio di Deir al-Medina sorge
"sulle alture del deserto sovrastanti il grande tempio funerario di
Amenophis III" (Gardiner, p. 249) il Radamanto celeberrimo fra tutti i
sovrani tirrenici, che da morto è il legislatore dei defunti nel Campi
Elisi/Ausonia (Od. IV, 564-565).
L’esodo dall’Anatolia a partire dal 1240 ca.
In seguito a questo disastro del 1240 ca.,
certamente, Teucri (Troiani) e Misi, prima della “guerra di Troia”, superato il
Bosforo, sottomisero, con un'impresa di dimensioni paragonabili alla stessa
guerra di Troia, tutti i Traci, scesero verso l'Adriatico e si spinsero verso
sud fino al fiume Peneo in Tessaglia (Erodoto VII, 20), cacciando davanti a sé
i Traci dello Strimone (Erodoto VII, 75). E' evidente che Erodoto considera le
due “guerre” come separate, mentre si trattava verisimilmente del medesimo
fenomeno di più ondate di esodo. In ogni caso ritengo che l'esodo primario
segua alla catastrofe avvenuta intorno al 1240 a. C. (fase finale del regno di
Ramses II) con successive ondate d'esodo documentate alla fine del XIII-XII
secolo da Merenptah a Ramses III. E' lo stesso fenomeno che secondo i Lidi
provoca la carestia in Lidia e determina l'esodo di Tirreno che giungerà, via
mare (presumibilmente; ma il testo erodoteo non è perspicuo su questo punto, e
potrebbe combaciare con la teoria dei Pelasgi dall’Epiro per la via pelasgica
Spina-Cortona-Cere e Roma; teoria che vedremo falsa e sulla quale si fonda la
teoria dell’etrusco come lingua periferica ad una indeuropeizzazione Est-Ovest
che si infiltra nel e al contempo respinge a Occidente lo strato anindeuropeo
precedente) sulle coste che da lui si
diranno tirreniche (Erodoto, I, 94).
Stessa causa ha la partenza delle Amazzoni dal Termodonte (sulle coste
meridionali del Mar Nero) e la loro invasione dell'Attica e di Atene (Erodoto
IX, 27) al tempo di Teseo e dunque prima della guerra di Troia. Atene richiama
la leggenda dell'Atlantide di Platone, che
trae spunto dall'assalto di Teucri/Troiani, Misi e Amazzoni del
Termodonte, cioè Atlantidi, contro l'Europa e Atene. Atene non resistette all'attacco
degli Atlantidi (o, esprimendomi biblicamente, all'attacco del "resto
dell'isola di Atlantide"), come fra l'altro suggerisce l'impresa delle
Amazzoni, e infatti io sono certo che gli Shardana (i Pelagi "popoli del
mare", i Pelasgi di lingua lemnia poi cacciati dagli Ateniesi) si
stabilirono sull'acropoli di Atene come si stabilirono sull'acropoli di Micene
(cratere degli opliti shardana, 1200 ca.) e altrove, essendo fin dall'inizio i
più temibili e bellicosi fra i popoli del mare, tanto che tutti i potenti di
allora se li accaparrano come mercenari (compaiono già sulle tavolette di
Amarna nella seconda metà del XIV secolo come truppe mercenarie al servizio del
principe Rib-Adda di Biblo, fino al XII secolo come truppe mercenarie di Ramses
III; i Tanaja/Danai sono menzionati come stabiliti in Grecia e Creta già su una
base di statua di Amenofi II nel tempio funerario di Amenofi III).
I popoli terremotati e alluvionati hanno dovuto
scegliere fra essere ammazzati mentre
cercavano un nuovo Lebensraum, una Terra Promessa da Yahweh, a scapito dei paesi ricchi, oppure morire di fame rimanendo dov'erano o facendosi travolgere
dalla fiumana dell'esodo. E hanno fatto la loro scelta. Dobbiamo immaginare che se il disastro
avviene intorno al 1240, ci deve essere stato un effetto dominio di terremoti
successivi e un effetto valanga di
emigrazione. Sicuramente qualcosa è avvenuto già nella fase finale del regno di
Ramses II, anche se non ha investito l’Egitto.
I testi di Ugarit parlano di invasione dal mare anche
se non specificano da parte di chi (Shardana?): Il re di Cipro scrive a quello
di Ugarit: “ Riguardo a quanto mi hai scritto ‘ Si sono viste navi nemiche in
mare?’, è vero, si sono viste delle navi, e tu rafforzati: le tue truppe e i
tuoi carri dove stanno? Non stanno lì con te? Se no, chi ti ha spinto appresso
ai nemici? Cingi di mura le tue città, facci entrare truppe e carri, e aspetta
il nemico a pie’ fermo! “ Risponde il
re di Ugarit, “Padre mio, le navi nemiche sono arrivate e hanno dato alle fiamme
alcune mie città, e causato danni nel paese. Mio padre non sa forse che tutte
le mie truppe stanno nel paese di Khatti, e tutte le mie navi nel paese di
Lukka? Non sono ancora tornate e il paese è abbandonato così. Ora sono venute
sette navi nemiche a fare parecchi danni: se si avvistano altre navi nemiche
fammelo sapere! “ (Ug. V, pp. 85-89), Liverani, p. 42. Da testi come questo si
evince che i popoli del mare hanno
approfittato della “guerra mondiale” in corso per trovare scampo al
Diluvio della Palude Meotide.
Sappiamo comunque che agli inizi del regno di Ramses
II (1279-1212; ma è proprio sicuro che si tratti degli inizi del regno?
Purtroppo non posso accertarlo personalmente) gli Shardana giungono dal mare
aperto con le loro navi da guerra e nessuno è in grado di fronteggiarli (stele
da Tanis). Di lì a poco gli Shardana (elmi cornuti scudi rotondi e lunghe
spade) entrano a far parte delle guardie del corpo del faraone impiegate nella
guerra contro gli Ittiti (Gardiner, p. 236).
Da qui la fiumana che si abbatte sull'Egitto l'anno
5 di Merenptah (figlio e successore di Ramses II), nel 1208. I testi egizi
parlano di una coalizione, dunque di una premeditazione, di un complotto,
teoria faraonica che viene riproposta ancor più decisamente per l'assalto
dell'anno 8 di Ramses III.
Io non lo credo. L'esodo in massa di tanti popoli
tutti insieme può aver ingenerato l'idea di un'azione concertata e premeditata.
L'unica sarebbe pensare all'attività promotrice dei santuari oracolari
yahweisti di Dodona e dell'oasi di Siwa, emanazione dell'oracolo di Ammone di
Tebe (secondo Erodoto II, 54-57) che tanto era stato e inutilmente avversato da
Amenofi III e IV. L'aggressione alla Palestina dell'anno 8 di Ramses III è
sicuramente di stampo yahweista. Tuttavia non vedo quale interesse potesse
avere l'oracolo di Ammone a Tebe ad attirare una tale calamità
sull'Egitto, e, quanto all'oracolo di
Dodona, è troppo distante dal teatro dell'esodo da essere fuori discussione,
anche perché, come vedremo, va assolutamente esclusa un'aggressione partita
dall'Adriatico e dalla Sicilia (e a maggior ragione dalla Sardegna, ignorata da
Dionisio e colonizzata dagli Shardana solo nella fase dei "ritorni").
L'oracolo di Siwa potrebbe interessare l'esodo libico dell'anno 5 di Merenptah, ma i Libu sono gli unici
incirconcisi fra gli aggressori (Gardiner, p. 245) e le iscrizioni del tempio
di Karnak sottolineano che sono davvero
affamati. Essi sono venuti in Egitto con mogli figli bestiame e un'enorme
quantità di armi (forse queste hanno ingenerato il sospetto; l'infantile arabo
che si fa sorprendere ad agitare il fucile e tirare sassi, e gli Americani gli
tirano contro bombe all'uranio arricchito) e utensili che furono catturati
dagli Egizi (Gardiner, p. 246). La causa dell'esodo degli Anatolici è
indipendente e pertanto è solo per un preconcetto nei confronti dei Libici che
gli Egizi immaginano il loro zampino dietro quanto è accaduto. Il rapporto
(1210 ca.) di un ufficiale di frontiera egizio dice "Abbiamo finito per
concedere alle tribù beduine di Edom il permesso di passare oltre la fortezza
di Merenptah nel Golfo di Suez per recarsi agli stagni di Pi-Tom che sono nel
Golfo di Suez, onde mantenerle in vita e mantenere in vita il loro bestiame
grazie alla generosità del faraone... " (Gardiner, p. 248; Liverani, p.
29) Ramses III sterminò i beduini Seiriti di Edom (Gardiner, p. 262). Yahweh
(dio della guerra e della tempesta " il cui simbolo era una sorta di
motivo a croce che queste genti portavano impresso sulla fronte, in prosieguo
noto con l'espressione 'il segno di Jahvè' " Knight e Lomas, La chiave di
Hiram, Oscar Mondadori, p. 171), introdotto dai popoli del mare traci (si
consideri il sicuramente tardo oracolo yahweista di Dodona in Tesprozia), forse
attraverso l'oracolo yahweista dell'oasi di Siwa, attecchisce fra i Seiriti
(del monte Se'ir/Edom) delle tribù dei Shosu/beduini a sud del Mar Morto, ed è
qui (non sull'Oreb dei Midianiti/Keniti di Ietro) che il fantamitico Mosè viene
contattato da Yahweh (Giudici 5,4; Liverani p. 156). Quando gli Ebrei
scriveranno la loro storia nel tempio di Yahweh inaugurato nel 515,
utilizzeranno le note a loro, come a noi oggi, vicende dei beduini edomiti per fingere un esodo dal
Golfo di Suez, cioè dal Mar Rosso, dove si trovano gli stagni di Pi-Aton, e una
penetrazione via interna dalla Transgiordania al mare. E questa ricostruzione
sarà tanto ambiguamente collocata nel tempo da suggerire a Flavio Giuseppe che
esodo degli Ebrei e esodo degli Hyksos abbiano coinciso. E del resto vicino a
Dafne pelusica, dove sono rifugiati da Gerusalemme gli shardana yahweisti
insieme a Geremia e ai gerosolimitani ex filo-babilonesi, sorge la Tanis/Avaris
della XXI dinastia (tornata in auge sotto Ramses II), che raccoglie le memorie
dell’antico passato hyksos. I Fenici pretenderanno di essere anche più antichi
e di essere partiti dal Mar Rosso agli inizi del III millennio,
confondendo i cervelli degli storici
della civiltà fenicia.
L’esodo dei popoli del mare ha per epicentro
l’Anatolia.
L'evidenza è che i cinque popoli del mare: Dardani,
Luka, Aqaiwasha, Sheklesh e Tursha (Tirash? dal fiume Tiras/Dnestr) hanno
origine anatolica. Tutti praticavano la circoncisione (circoncisione dei popoli
Traci, evidentemente, poi fatta propria dagli Ebrei, yahweisti) da tempo immemorabile,
come gli Egizi, tranne i Libi, che
vengono accusati di aver capeggiato la coalizione (Gardiner, p. 245). E
l'attacco dell'anno 8 di Ramses III (1178) ancora una volta ha come
origine l'Anatolia: " I paesi stranieri ordirono un complotto nelle loro
isole. La guerra si diffuse contemporaneamente in tutti i paesi e li sconvolse,
e nessuno poté resistere alle loro armi, a incominciare da Hatti, Cilicia,
Karchemish, Arzawa e Cipro... Un attendamento fu posto in una località di Amor [Siria, il che ci riporta alla piana di
Israel e al quartier generale di Silo] ed essi devastarono e spopolarono quel
paese come se non fosse mai esistito."
I popoli del mare vengono tutti dalla Tracia e dall'Anatolia, dal bacino
orientale del Mediterraneo.
Gli Sheklesh
dell'attacco di Merenptah possono in
teoria, ma solo in teoria, essere
Siculi provenienti dalla Sicilia parallelamente ai Libu che vengono, questi è certo, dalla
Libia. Si potrebbe ricorrere alla tradizione
(che ho omesso, motivatamente, di
menzionare sopra a supporto
dell'esodo dall'Anatolia) di
Dionisio d'Alicarnasso, e cioè dei Pelasgi (partiti dalla Tessaglia; per
ipotesi ulteriore spinti in avanti dall'esodo dei Teucri e Misi) giunti in
Italia dall’alto Adriatico (attraverso Dodona in Epiro) e dalla valle del Po,
fondandovi Spina, e usciti dall'Italia a cavallo della guerra di Troia (I,
26,1), sospingendo davanti a sé i Siculi, che però vanno in Sicilia, e non
dalla Sicilia emigrano verso il Levante (I, 22). Ma nell'anno 5 di Merenptah
non si parla di Pelasgi. Solo
nell'attacco dell'anno 8 di Ramses III sono citati sia i Peleset/Pelasgi che
gli Sheklesh, ma stavolta non ci sono più i Libu, e dunque, poiché l'attacco
viene indubbiamente da nord est a sud, si tratta di Pelasgi dell'area tracica e
Sheklesh che non hanno mai avuto a che fare con l'Italia. Poiché è indubbio che
gli Shardana nella fase dei "ritorni" colonizzeranno la Sardegna, non
è escluso che anche gli Sheklesh abbiano nella stessa fase colonizzato la
Sicilia, ma non vi sono riscontri documentali.
Si potrebbe obiettare che i Pelasgi e Siculi di cui
parla Dionisio si fondano sulla sua tradizione (che è poi la tradizione anche
di Ellanico di Lesbo in Dionisio I, 28,
3), a prescindere dall'evidenza egizia. In altre parole, questi Pelasgi e
Siculi potrebbero essere stati stanziati in Italia pur non coincidendo con
quelli che assalirono il Levante e
l'Egitto, il che non escluderebbe che
anche loro siano realmente esistiti. I
Siculi autoctoni di Dionisio sanno di artificio, dipendendo dal nome Siculi con
cui vennero dapprima indicati dai Greci i popoli italici con cui vennero in
contatto. Lo stesso dicasi dei Pelasgi. Si tenga inoltre presente che, come
li fa apparire in Italia, così
Dionisio li fa sparire, e il
tutto sa di artificio. Ci ritorneremo.
Riflettendoci, poiché abbiamo ipotizzato che alla
fine del movimento dei popoli del mare gli Sheklesh/Siculi possono essersi
stabiliti in Sicilia, così come gli Shardana/Sardi in Sardegna, si potrebbe
considerare la testimonianza/ricostruzione di Dionisio come valida nella
fase successiva di questo arrivo da oriente di XII-XI secolo.
La situazione complessiva sarebbe la seguente (la
riprendo avanti più analiticamente). Prima la colonizzazione tirrenico-egizia del
XV secolo che dà il nome Ausonia, da Haunebu, all'Italia che si bagna sul
Tirreno, e costruisce torri da cui il
successivo nome di Tirrenia. In questa fase in Italia centrale ci sono gli
Umbri e dagli Appennini scendono nell'area della futura Roma i Sabini/Aborigeni.
Roma e Pyrgi vengono fondate stabilmente sotto Amenofi III/Eracle (tradizione
di Evandro ed Eracle). Città come Agilla, Pisa, Saurnia, Alsio (Dionisio I, 20,
5) sarebbero state tolte ai Siculi dai Tirreni nel corso dei tempi. Dionisio afferma
giustamente che i Tirreni sono autoctoni (sempre relativamente
"autoctoni", e infatti sono i primi colonizzatori dell'Italia) ma
curiosamente nega a Roma origine tirrenica ("Molti storici hanno scambiato
Roma stessa per città tirrenica", I, 29, 2). Evidentemente è fuorviato dall'identificazione Etruschi =
Tirreni. Per non correre il rischio di fraintendimenti suggerisco di
considerare i Siculi di Dionisio come “Autoctoni” in senso ampio. Peucezi ed
Enotri peloponnesiaci dallo Ionio non
devono aver minimamente interessato Roma, bensì l'Italia meridionale. Poi
arrivano i Pelasgi/Shardana, dal Tirreno, e colonizzano la Sardegna e fanno
decollare la civiltà etrusca in Etruria e Campania, accerchiando
l'Ausonia/Lazio dal Tevere al Volturno, più stabilmente in mano dei Tirreni
(fra cui primeggia l'elemento indigeno sabino, gli “Aborigeni” di Dionisio).
Infine Enea troiano coi suoi romani e
troiani reduci dalle guerre di Palestina.
Shardana e Pelasgi.
L'attacco via mare dell'anno 8 di Ramses III è
accompagnato via terra da carri trainati da buoi gibbosi (di una razza
chiaramente asiatica) con sopra donne e bambini (Gardiner, p. 258). Sono i
carri che contengono le mogli e i figli degli Shar-danai e dei Peleset/Pelasgi, le punte avanzate
dell'esodo dalla regione della palude Meotide a nord del Mar Nero. Secondo
Erodoto i Greci chiamano Siri i Cappadoci (V,49), che, essendo a sud del Mar
Nero e portando sul capo un'acconciatura di penne (il Sirio del Disco di Festo)
ben possono essere i Pelasgi/Filistei in questione (da Creta potevano venire
solo sulle navi, e invece coi carri tirati da buoi gibbosi con sopra mogli e
figli possono venire dalla Cappadocia/Anatolia, da Oriente, e dunque dalla
Cappadocia via Ellesponto sono giunti anche sulle navi; la stessa cosa accade
agli Shardana, che provengono dalla
palude Meotide a nord del Mar Nero, dove quasi tutti i fiumi hanno la radice dan-).
Ne " I Greci delle periferie ", Laterza,
L. Braccesi, analizzando la tradizione e i dati materiali riguardo alla
"via pelasgica" rileva come la tradizione di Strabone faccia
riferimento ad una Spina II dell'età classica (che Strabone definisce pólis
hellenís) e ad una Spina III della decadenza in epoca romana (5, 214). Spina è definita città greca perché possiede
un thesaurós a Delfi e anche perché mèta del commercio di Atene che vi dispone
di un suo spazio commerciale, ma la Spina classica di Strabone, di V secolo, è
etrusca. Dionisio (1,18,4), il quale
pure definisce i Pelasgi fondatori di
Spina come stirpe ellenica (è uno dei
furbeschi accomodamenti greci, che normalmente considerano i Pelasgi
anellenici), aggiunge una Spina I, appunto di fase pelasgica (di XIII-XII
secolo) immediatamente prima della Spina II di V secolo, il che ovviamente
porta alla conclusione che " la Spina pelasgica di Dionigi è esattamente, con i medesimi attributi
caratterizzanti, la Spina etrusco/ateniese di Strabone. " (pp. 75-80)
Esattamente allo stesso modo Agylla/Cere, al terminale della "via pelasgica"
(che passa per Cortona, come rileva Braccesi) è considerata fondazione
"pelasgica" perché ha un suo
thesaurós (meglio, lo hanno i Greci che vi commerciano) a Delfi (Strabone IX,
3,8 e V,2,3). L'evidenza dei commerci
micenei documentati in area alto-adriatica
non ha nulla a che vedere con i Pelasgi di Dionisio che "Erano
passati attraverso numerose vicissitudini di varia natura e particolarmente per
il loro modo di vita girovago, senza fissa dimora e senza poter fare
riferimento ad un luogo sicuro... Ma nel corso della sesta generazione essi lasciarono
il Peloponneso... Ma nella sesta
generazione furono a loro volta cacciati dalla Tessaglia... I Pelasgi si
dispersero nella fuga... La maggior parte di essi trovò rifugio nell'interno
presso gli abitanti di Dodona, loro consanguinei... la terra non era in grado
di nutrire tutti quanti, lasciarono la regione accogliendo l'ordine
dell'oracolo di navigare alla volta dell'Italia... si diressero verso lo Ionio,
mettendo cura di raggiungere le regioni più prossime dell'Italia ma... furono portati oltre e ormeggiarono
presso una delle foci del Po, di nome Spina." (I, 17-18) Se si nota bene,
l'esodo pelasgico (che non è ovviamente
commercio miceneo), per ciò che la testimonianza di Dionisio può valere, immaginandolo come punta avanzata spinta in
avanti da Teucri e Misi nel XIII-XII secolo, rimane realisticamente contenuto
in Epiro e in area Ionica (ciò che è confermato dalla tradizione greca
riguardante l'Elide e i Tafii di pseudo Apollodoro Epitome, 2 e II, 4).
Tutto il resto, il viaggio dallo Ionio fino alle foci del Po è un evidente
tentativo maldestro dei Greci di età
classica di proporsi quali fondatori di
città etrusche come Spina e Cere, solo perché vi erano autorizzati a
commerciare e inviavano oggetti di valore a Delfi. La loro pretesa di frequentare
l'alto Adriatico fin da età micenea si basava solo sull'evidenza archeologica
disponibile ieri come oggi, sulla pretesa di essere i continuatori della
civiltà micenea, mentre essi erano i discendenti dei distruttori di quella
civiltà. I Greci nulla hanno a che vedere coi Micenei, così come gli Ebrei di
Gerusalemme e i Fenici coi
Cananei.
Il movimento dei popoli del mare ebbe come obiettivo
la Palestina, non la Troade. L'attacco principale dell'anno 8 di Ramses III
(1178), così viene descritto dal faraone in persona: " I paesi stranieri
ordirono un complotto nelle loro isole. La guerra si diffuse contemporaneamente
in tutti i paesi e li sconvolse, e nessuno poté resistere alle loro armi, a
incominciare da Hatti, Cilicia, Karchemish, Arzawa e Cipro... Un attendamento
fu posto in una località di Amor
[Siria, il che ci riporta alla piana di Israel e al quartier generale di Silo]
ed essi devastarono e spopolarono quel paese come se non fosse mai
esistito." Hatti è al centro
dell'Anatolia e dunque la Troade nemmeno viene menzionata (del resto è stata
devastata dai terremoti e dalle alluvioni), così come non viene menzionata la
Grecia micenea e l'Anatolia colonizzata dai micenei. Eppure dobbiamo immaginare
che i popoli del mare (soprattutto
Peleset/Pelasgi/Pelagi, "popoli del mare" e Shar-danai) distruggano o finiscano di distruggere e predare da
nord a sud tutto quel che incontrano sulla loro strada, i centri micenei, Troia
(già abbattuta dal terremoto), Hatti ecc. L'Egitto diventa una "canna
rotta", ma è evidente dal discorso di Ramses III che proprio la Siria, la
Palestina, è, non solo la sede del quartier generale dei popoli del mare, ma
anche il principale territorio di operazioni, tanto che qui i popoli del mare
yahweisti traci si accaniscono coi loro olocausti (l'olocausto lo hanno
inventato i yahweisti, e ne fa l'apologia, apologia di reato, la Bibbia, assai prima di Hitler), come del
resto viene confermato dal racconto biblico della sedicente "conquista"
della Palestina da Giosuè a
"Giudici", in realtà profeti druidici e capi guerrieri. I
giudici (col che si traduce
l'ebraico suffeti), sono i pretori
romani che hanno il comando delle legioni e dei maryannu, i signori della guerra dotati di carri e armi di ferro
di cui detengono il monopolio. I Romani sconfissero i yahweisti che, per vedere
Gerusalemme, dovettero attendere di esserci portati sugli scudi dell'esercito
persiano a partire dal VI secolo (538, editto di Ciro II, padre di Cambise II,
530-522, conquistatore dell’Egitto). Nel testo egizio di Ramses III si parla di
premeditazione fiduciosa del successo, e la spedizione achea a Troia (dietro la
quale dobbiamo vedere la Palestina) presuppone l’adempimento di un giuramento
(del cavallo o asino squartato) fatto a
suo tempo dai pretendenti a tutela di Elena e di quello tra loro eletto come
suo marito (pseudo Apollodoro, III, 10; C. McCullough, Il Canto di Troia, BUR,
p. 68). Chi viola il patto finirà fatto a pezzi come il cavallo.
L’età del ferro.
L'età
del ferro fa da spartiacque fra mondo antico degli eroi che combattevano con
armi di bronzo e mondo moderno, che sarà guidato da Roma. L'età del ferro viene
collocata normalmente intorno al 1050, così come la battaglia di Afèq, in cui i
Filistei avrebbero vinto definitivamente sui yahweisti e distrutto tanto l'arca
puzzolente portata in giro dagli Shardana quanto il quartier generale di Silo.
Oggi non sono più d'accordo in toto con questa ricostruzione. Così come avevo
scoperto che ai Beniaminiti (popolo originario del medio Eufrate e che dunque
nulla poteva avere a che fare con l'invasione dei popoli del mare yahweisti,
dal mare; e dunque nulla poteva avere a che fare con le sedicenti tribù
d'Israele guidate dai fantamitici Mosè e Giosuè in Palestina dall’Egitto e
dalla Transgiordania) erano state attribuite dai sacerdoti di Gerusalemme le
caratteristiche DOC dei Romani, alla
fine mi sono reso conto che lo stesso avevano fatto attribuendole anche ai
Filistei/Pelasgi, i quali, provenendo dalla Tracia, yahweisti, non veneravano Dagon e nemmeno parlavano
indeuropeo, bensì una lingua lemnia. I signori della guerra romani Tideo e
Diomede, Saul e Enea guidavano, incitate al combattimento da signiferi coperti
capo e schiena da pelli di lupo,
legioni di tremila uomini divisi in centurie, e squadroni di trecento
carristi. Era impossibile che i Romani,
i più celebri guerrieri di ogni tempo, prendessero ordini da Filistei qualsiasi. I Romani introducono per la prima
volta i carri e le armi di ferro di cui
hanno il monopolio (1 Samuele 13, 19-21, "affinché gli Ebrei non
fabbrichino spade o lance"). Il ferro viene da Occidente e gli Ittiti, fin dal fondatore Hattusilis
(1650 ca.), cercarono sempre e solo la via dello stagno a Occidente e del rame
a Oriente per le loro armi di bronzo, causa prima della "guerra
mondiale" che dissanguò le grandi potenze del Levante prima della mazzata
finale della catastrofe di Atlantide. L'età del ferro ha per epicentro l'Europa
centrale. Dobbiamo dunque immaginare che a Roma il ferro arrivasse per la
cosiddetta via pelasgica, dall'alto Adriatico, da Adria e attraverso Cortona
fino a Cere e Roma, il capolinea
tirrenico di Braccesi (p. 76). Ovvia l'interferenza dei Sabini (gli
"Aborigeni" di Dionisio) che si trovavano su questa via. Adria era il
terminale della via argonautica che partiva da Troia e dall'entroterra (dal
Bosforo e dal Danubio). Ad Adria facevano capo " due importantissime
carovaniere, attive già dal II millennio, che collegavano l'alto Adriatico ai
mercati del settentrione di Europa. Donde affluivano materie preziose come
l'ambra greggia, o metalli rari come lo stagno e l'argento, ovvero prodotti
grezzi per la metallurgia... L'una proveniva dal Baltico... L'altra nasceva in
area danubiana. E', questa seconda, la grande via 'argonautica', che consente
di raggiungere il Mar Nero" (Braccesi, pp. 73-74 ). I primi approdi
troiani in area veneta (pseudo Antenore) e laziale (pseudo Enea) non a caso
portano il nome di Troia.
La guardia di Davide e Salomone, discendenti dei
signori della guerra romani, è composta da Ceriti e Peliti.
Le sorprese non sono finite. Da tempo sospettavo che
i Ceretei della Bibbia delle Paoline fossero i Ceriti provenienti da Cere. Ma era un'intuizione che non poteva reggere in un contesto che ancora
non mi era chiaro come adesso. Del resto venivano associati ai Feletei/Peletei
di cui non ero mai riuscito a rinvenire traccia. Davide è un capobanda semitizzato erede dei generali romani. La guardia attribuitagli sarà composta di legionari romani e comunque
italici, non certo cretesi, composta da Cretei e Peletei/Filistei; a parte il
fatto che quando i testi biblici parlano di Filistei, così li scrivono, e non
alternativamente Filistei e Peletei, che sono altra cosa. La traduzione latina
curata da S. Girolamo ha sempre Cherethi (una volta Cerethi) e Felethi. Se S. Girolamo avesse voluto tradurre
Cretesi avrebbe scritto Cretenses. Viceversa Cherethi/Cerethi richiama lat.
Caerites e Caeretes, i Ceriti di Cere,
da lat. Caere, gr. Kaire, Kairea; Chaire (M. Pallottino, Etruscologia, Hoepli, p. 269). Essendo costoro
imparentati coi Filistei (dietro i quali ritengo si celino i Romani) c'è la
riprova che sono Romani, tanto più che Pyrgi in età etrusca (cioè tarda,
rispetto alla storia che riporto alla luce) è in relazione con Cere. Dunque ha ragione
Virgilio a sostenere che appunto ad Agylla, cioè Cere, " un dì lidia (cioè
troiana/tirrena) gente in guerra
illustre si stabilì sui vertici
d'Etruria " (Eneide, VIII, 479-480). Già dal XIV secolo i Romani hanno un
accampamento militare a Beth-Shean e Beth-Pelet/Fara (i Peleti che cercavamo,
anche se con una grafia e vocalizzazione diversa; ma già altre volte ho potuto
verificare che anche in questo modo gli scribi yahweisti alterano la storia; un
esempio è la piana di Israel che essi scrivono Yzre’el).
L’età del bronzo, e la “guerra mondiale”.
La
storia è fatta prima di tutto dall'offerta limitata e dalla domanda illimitata
delle materie prime, dunque (in mancanza d'altro) dalla guerra come mezzo
estremo di accaparramento. La storia è al fondo l'espressione delle relazioni
economiche degli Stati fra loro fino all'estremo della guerra. C'è un primo
protagonista nella fine di Atlantide, e sono gli Ittiti. Il primo re ittita,
Hattusilis (1650 a. C.), fondò la politica di Hatti (al centro dell'attuale Turchia)
sull'accaparramento del rame lungo la carovaniera di sud-est e l'accaparramento
dello stagno boemo lungo la carovaniera di nord-ovest. Fino alla sua
scomparsa ad opera dei popoli dalle
lunghe spade di bronzo, Hatti cercò sempre e solo di approvvigionarsi di stagno
e rame per le sue armi di bronzo, all'occorrenza deviando la via
carovaniera di approvvigionamento e cambiando alleanze quando ostacolata da
nemici esterni (Assiri a sud-est,
Tirreni a nord-ovest ed Egizi a
sud-ovest). Sulla via dello stagno Hattusilis conquista Arzawa (Lidia) e
Wilusa (che non ha niente a che fare con Ilio/Troia), più all'interno della
Troade, nella regione del fiume Sangari. " Se ci domandiamo quale
importanza avesse Wilusa, basterà dare un'occhiata alla carta geografica,
perché questa città incrociava proprio un'altra arteria commerciale, quella che
andava dalla terra di Hatti all'Anatolia nord-occidentale e, attraverso gli
stretti, all'Europa. Si è recentemente pensato che anche questa fosse una via
dello stagno, che conducesse infine alle ricche miniere della Boemia.
Certamente l'Europa centrale aveva relazioni commerciali tanto lontano da
raggiungere la Siria non molto tempo dopo il secondo millennio... L'Anatolia
occidentale è poco più ricca di stagno della zona centrale e possiamo forse
ritenere la Boemia sorgente fondamentale di stagno usato dai re di Arzawa.
Allora è ragionevole supporre che conquistando Arzawa e creando un legame con
Wilusa, che sarebbe durato quasi intatto per centinaia di anni, Hattusilis pensasse
alla stessa ragione di quando aveva attaccato Alalah e la via sud-orientale. In
ogni caso lo stagno era l'oggetto della sua campagna." (J. G. Macqueen,
Gli Ittiti, un impero sugli altipiani, Newton Compton, p. 45) All'epoca di
Hattusilis, secondo me, Troia, capitale della Tirrenia orientale, doveva essere
aggirata, perché aveva la sua via per
il commercio dello stagno. Veniamo ai tempi finali. Al tempo di Tudhaliyas Ahhiyawa compare per la prima volta nei
testi ittiti con Attarsiyas che attaccò due volte il vassallo ittita
Madduwattas. Tudhaliyas non riuscì a
raggiungere un controllo duraturo dell'itinerario nord-occidentale (Macqueen, p. 48). Dopo la morte di
Suppiluliumas, verso il 1346, Mursilis poté occuparsi della via
nord-occidentale. Debellò Millawanda (sulla costa sud del Mar di Marmara),
attaccò con successo Arzawa, assegnata ad un membro della sua famiglia reale,
rese vassalle Mira, Hapalla e le terre del fiume Seha (grosso modo la Misia, a
sud della Troade). Arzawa fu isolata, anche dalla via dello stagno.
(Macqueen, p. 50) Dunque, in prossimità
della fine di Troia VI, Mursilis accerchia Troia e la Troade ma Troia continua
il suo commercio dello stagno. Sotto Muwatallis (1306-1294) Arzawa era
irrequieta e Piyamaradus di Millawanda continuava ad essere un vassallo
insubordinato, per cui con una rapida campagna si rinsaldò l'alleanza degli
stati vassalli, compreso Arzawa, e "la terra del fiume Seha, vitale
cuscinetto tra Arzawa e la via dello stagno, fu legata ancora più strettamente
al regno ittita." Ma l'ovest era comunque inaffidabile (Macqueen, pp. 51-52). Muwatallis vince a Qadesh ma
l'Assiria rende nel frattempo vassalla Mitanni. Alla morte di Muwatallis l'impero ittito è lacerato dal conflitto fra
Mursilis III e suo zio Hattusilis che rimane vincente. Le terre occidentali
scompaiono dai documenti ittiti, segno solo del fatto che Hatti non ne ha il
controllo. Solo a nord-ovest, lungo la vitale via dello stagno, gli Ittiti si
impegnarono a mantenere il controllo. Intanto a sud Salmanassar di Assiria
strappò agli Ittiti il controllo delle miniere di rame di Isuwa, vicino a
Malatya, alto Eufrate. Tudhaliyas invase Cipro (per il rame) e firmò un
trattato con Amurru che interdiceva qualsiasi relazione commerciale con
l'Assiria. A nord-ovest Ahhiyawa si stava rafforzando e procurò problemi nella
terra del fiume Seha. Verso il 1240 Tukulti-Ninurta attraversò l'Eufrate e
deportò migliaia di sudditi ittiti. Suppiluliumas II consolidò il potere su
Cipro che s'era ribellata e riprese le miniere di rame di Isuwa (Macqueen, pp. 52-54). Si noti, ai fini della
tradizione romana sugli antenati greci dei Romani, di cui diremo, che dopo il 1240, epoca del catastrofico
terremoto di Atlantide, appare plausibile che gli Ahhiyawa/Achei si siano stabiliti
in Troade, dandole il nome di Acaia, della tradizione romana, poi confusa dai
Greci con l'Acaia greca nel Peloponneso.
La colonizzazione tirrenica
dell’Occidente di XV secolo.
Alla metà del XVI secolo con
l'eruzione del Thera (Stele della Tempesta sotto Ahmose e verso del papiro
Rhind) e della cacciata degli Hyksos dall'Egitto da parte del tirreno Ahmose e
della marineria tirrenica, si dovrà
datare l'inizio del declino della potenza tirrenica orientale e dunque a
partire da questo momento l'interesse dei Tirreni orientali per la
colonizzazione dell'Occidente fino alle colonne di Atlante (" il quale...
regge le grandi colonne, che terra e cielo sostengono da una parte e dall'altra
" Od. I, 52ss, e cioè ad Oriente e Occidente, le colonne del Caucaso, la
porta del Sole nascente, e le colonne dello stretto di Gibilterra, la porta del
Sole calante) e oltre nel Tartesso
(Tarshis è il nome di un capo casato della famiglia di Beniamino – 1 Cronache, 7,10 – dunque dei Romani, celati dietro ai Beniaminiti) e in Africa
(Ahiram di Biblo, succedendo nelle navigazioni atlantiche ai Tirreni, avrà ben
potuto importare non solo da Tartesso, bensì anche dall'Africa – ma
addirittura dalle Americhe – oltre le colonne, oro, argento, avorio
scimmie e pavoni, cf. 1 Re, 10, 22), e poi in Sardegna (Nora, la sua prima
città, secondo Timeo e Pausania, fu fondata da Tartesso), dove si cominciano a
costruire i nuraghi dal XV secolo, e
sulla costa tirrenica della penisola italiana che si viene popolando di
analoghe torri in materiale non altrettanto durevole. Costruttori di torri sono
i Tirreni, secondo un'etimologia in
apparenza semplicistica (etimologia
popolare o paretimologia) e tuttavia corretta ricordata da Dionisio (I, 26, 2).
Tanto i Tirreni orientali, i Mossineci a sud-est del Mar Nero (che costruiscono
case coniche di legno) che quelli occidentali della Sardegna (nuraghe) e del
Lazio (Pyrgi, Pirgo, ecc.) sul Tirreno. Ciò che interessa soprattutto ai
Tirreni occidentali, come ai Tirreni orientali, come agli Ittiti, in questo
periodo, è l'approvvigionamento dello stagno (Iberi e Occidentali forniscono
stagno in cambio di uova di struzzo o di avorio di ippopotamo secondo Louis
Siret, in L'universo fenicio di M. Gras, P. Rouillard e J. Teixidor, Einaudi
Tascabili, p. 10) e del rame per realizzare armi e strumenti di bronzo. L'argento è in gran parte nelle mani dei
tirreni sia orientali (sulla carovaniera che precedentemente alla la via
Egnazia romana dall'Adriatico alla
Propontide correva a ridosso del
litorale tracio, lungo regioni ricche di giacimenti argentiferi, al fine di
congiungere le molte articolazioni intermedie che da essa si dipartivano in
direzione dei ricchi distretti minerari dell'entroterra tracico: Braccesi,
pp. 49 e 50) che occidentali (Tartesso, Sardegna). Prima di tutto il porto di Pyrgi le "Torri" (dove è attestato un
centro fusorio dell'età del bronzo) è già utilizzato come scalo e da questo
momento comincia ad essere strutturato e attrezzato con il suo santuario non
ancora dedicato a Ino Leucothea bensì
ad una divinità egizio-tirrenica quale Hathor di Biblo, Afrodite Urania (la
madre di Enea), Astarte Celeste. Quanto ad Ilizia iperborea (perché originaria
dell'Atlantide Iperborea anatolica-pontica) è possibile che già ci si
rivolgesse alla dea con questo vocativo di (tu sia) "Propizia" (cf.
Od. III, 380) o anche come Ilizia nel senso di dea dei Campi Elisi, o anche
come Ausonia. E' evidente che il Tevere è stato presto risalito fino all'isola
Tiberina e ne è stata individuata la posizione strategica per un mercato.
Questo mercato era il capolinea della via pelasgica che attraversava
l'Appennino e seguiva fino alla foce il corso del Tevere. Analogamente si può
supporre che Roma fosse anche sulla via
di transito fra quelle che poi conosciamo come Etruria propria e campana. Dunque, escluso nel modo più
assoluto che allora si potesse parlare di Etruschi, Roma (e l'intera Ausonia/Lazio)
dominava anche su questi territori pre-etruschi, tirrenici, o comunque non ne
temeva interferenze.
Il Lazio fra il Tevere (un tempo chiamato Volturno)
e il Volturno, i fiumi che prendevano
nome da Vertumno che a sua volta era derivazione del Posidone troiano e romano,
era l'originaria Ausonia dell'Apoteosi, colonizzata dai Tirreni orientali, di
lingua greca. Infatti sulla base di Dionisio possiamo affermare che Ausonia è
il nome più antico, sostituito poi da Tirrenia
(I, 11, 4). Dunque i Troiani/Tirreni che colonizzarono la regione sotto
egida egizia (Amenofi III/Eracle dietro alla tradizione di Evandro ed Eracle)
avvalendosi della collaborazione degli indigeni Sabini scesi dagli Appennini
(gli Aborigeni di Dionisio), " fondarono fortificazioni e attuarono la sottomissione di tutta l'area compresa
tra i due fiumi Liri e Tevere, che hanno origine ai piedi degli Appennini
" (Dionisio I, 9, 2). Io preferisco dire fra Tevere e Volturno. Non
possiamo sapere se originariamente l'Ausonia fosse più estesa, magari a
comprendere l'Etruria propria e l'Etruria campana successive. In assenza di
fonti credo dovremmo attenerci al semplice Lazio. In questo caso dovremmo
immaginare un'aggressione al precedente popolo preetrusco, dato che più in là
del Tevere non si va, e del resto nemmeno oltre il Liri o il Volturno, dov'è
l'Etruria campana. Il rischio così facendo è di cadere nell'orizzonte etrusco
il che potrebbe essere errato. Comunque
Romos figlio di Enea avrebbe fondato il Gianicolo prima ancora di Roma (a difesa
dai pre-etruschi) e Capua (con evidente
interferenza sui pre-etruschi dell'Etruria campana), Dionisio I, 73, 3.
L'Ausonia doveva estendersi al territorio Falisco poi sotto influenza etrusca (Dionisio I, 21,1). D'altra parte, poiché
Roma era capolinea della via pelasgica da cui suppongo provenisse il ferro al
tempo delle guerre in Palestina, e che sempre via terra la via eraclea giungeva
fino a Tartesso, posso immaginare che se attraverso queste vie a Roma giungeva
tutto quel che le bisognava non doveva avere interesse al ferro di Populonia.
Sarà solo quando gli Etruschi arriveranno all'alto Adriatico che si
interromperanno queste vie (e poi gli stessi Etruschi se la dovranno vedere con
la concorrenza greca), ma per allora Roma sarà già caduta in declino.
La tradizione romana su Roma.
Secondo Dionisio " i più
dotti degli storici romani, fra i quali Porcio Catone... G. Sempronio e molti altri dicono che questi
primi abitatori erano Greci, di quelli che un tempo occupavano l'Acaia, ed erano
emigrati molte generazioni prima della guerra di Troia. Ma in realtà non
distinguono né la stirpe greca della quale facevano parte, né la città dalla
quale si mossero, né l'epoca, né il condottiero di tale fondazione e neppure
per quali circostanze lasciarono la madre patria. D'altro canto essendosi
avvalsi di leggende greche non si basano sull'autorità di alcuno storico greco.
E' difficile stabilire quale sia la verità. " (I, 11, 1) E a questo
punto Dionisio prova a ricostruire chi possano essere questi greci di Acaia
sulla base delle sue fonti greche e delle sue congetture. A noi interessa
restare a Roma e vedremo nell'Acaia dell'antica tradizione romana la Troade occupata dagli
Ahhiyawa/Achei (mi riallaccio ada quanto ho scritto in fondo al paragrafo
relativo all’economia e guerre per lo stagno e rame degli Ittiti). E'
ovvio che la presenza di "Achei" in Troade serve solo per localizzare
la regione, per darle un nome a quei tempi per ipotesi diffuso in ambiente romano, non anche per definire
"Achei" gli antenati di stirpe greca (Troiana appunto) dei Romani
che " erano emigrati molte
generazioni prima della guerra di Troia " dalla Troade.
Anche Sardi ed Etruschi, fratelli
di sangue, Shardana, si scambiano fra loro fra XI e VIII secolo oggetti di bronzo,
mentre il ferro ancora per poco o da poco non è più in mano a fabbri ferrai
romani. Dopo la vittoria schiacciante ad Afèq (che deve datare intorno all'anno
8 di Ramses e dunque 1178; se si vede bene siamo grosso modo al 1182 della
guerra di Troia, che è in realtà la guerra di Palestina) nella quale hanno catturato l'arca
puzzolente degli Shardana, raso al suolo e dato alle fiamme il quartier
generale di Silo, i Romani si danno alla caccia all'uomo, agli ultimi
sopravvissuti alla carneficina e alla pestilenza, e allora istituiscono campi
di concentramento chiamati eufemisticamente luoghi d'asilo o di rifugio, in cui
gli ultimi yahweisti/terroristi latitanti, catturati, vengono processati ed
eliminati, e ciò vale anche per gli indigeni che commettano atti di banditismo e sciacallaggio e cioè mettano in pericolo l'ordine pubblico.
Dunque l'età del ferro nel bacino occidentale del Mediterraneo è cosa fatta già
nel XII secolo, quando a partire da Merenptah e Ramses III e fino all'iniziale
XI secolo le legioni romane si imbarcano a Pyrgi per raggiungere e
presidiare il Levante. Non a caso i
Greci solo agli inizi della seconda
metà dell'VIII secolo, quando non solo in Oriente hanno cominciato a
colonizzare ed espropriare i Tirreni orientali e occidentali, ma anche in
Occidente riescono a vincere la superiorità navale tirrenica, si affacciano nel
Tirreno per approvvigionarsi in primo luogo di ferro, da Populonia. Se la
devono vedere con gli Etruschi, non più coi Romani.
Il porto di Pyrgi è in mano euboico-calcidese fino a
che intorno al 675 passa in mano diretta di Cere con una partecipazione della
Roma di Numa Pompilio, non è escluso dopo una battaglia navale, la stessa
celebrata sul cratere di Aristonothos da Cere insieme all'episodio di Polifemo
accecato, e dunque realizzato poco dopo il "Viaggio di Odisseo"
omerico che celebrava la stessa vittoria e il santuario di Ilizia di antiche
origini tirreniche, iperboree (dove Iperborei sono i Tirreni non perché vengano
dal nord ma perché discendenti degli Atlantidi, detti anche Iperborei, da
pseudo Apollodoro, cioè dei Tirreni orientali, intorno al Mar Nero).
Riprendiamo il filo della
tradizione greca sull'origine di Roma e delle congetture di Dionisio. Prima ci
sarebbero i 1) barbari Siculi (cacciati
dai Pelasgi della Tessaglia e dagli
Aborigeni, I, 22; ma secondo Tucidide VI, 2, i Siculi furono cacciati dagli
Opici molto tempo dopo i fatti di Troia, Dionisio I, 22), poi gli 2) Aborigeni
(I, 1-2), autoctoni, indigeni, cui
Dionisio vorrebbe attribuire un'origine dagli 3) Arcadi di Enotro, che
sarebbe la prima immigrazione straniera
in Italia (erano di stirpe enotria, cioè arcade II, 89, 1; Greci peloponnesiaci
emigrati dall'Arcadia con Enotro " e questa è la mia convinzione ",
I, 60,3; "Gli Aborigeni dopo averli scacciati occuparono a loro volta il
luogo degli Enotri; essi erano i discendenti degli abitanti della fascia
costiera che va da Taranto fino a Posidonia. Si trattava di quella gioventù
consacrata agli dèi secondo la legge locale, che era stata mandata dai padri ad
abitare la regione che avrebbe loro destinato il loro genio. " II, 1,1; in
realtà gli Aborigeni avevano cacciato i precedenti Umbri, I, 16, 1), ma vi
trova il mare occidentale già chiamato Ausonio dalle coste Ausonie dell'Italia
(I, 11, 4). Poi i 4) Pelasgi della Tessaglia.
Ma pseudo Apollodoro conosce una
tradizione in parte diversa da come la presenta Dionisio. Foroneo figlio di
Inaco regna sul Peloponneso; Apis, figlio di Foroneo dà il nome Apia al
Peloponneso; Argo e Pelasgo nascono da Niobe figlia di Foroneo (pseudo
Apollodoro II, 1). Secondo pseudo Apollodoro il fratello di Foroneo è Egialeo
che morì senza figli (II, 1). Dionisio
vaneggia di un Ezeio come fratello di Foroneo e sostiene che Enotro sarebbe
figlio di Licaone figlio di Pelasgo e Deianira figlia di Licaone figlio di
Ezeio (I, 11, 2). Pseudo Apollodoro, inutile dirlo, è all'oscuro da Ezeio fino
ad Enotro compreso. L'unico che conosce è il Licaone re degli Arcadi (figlio di
Pelasgo, figlio di Niobe) che generò cinquanta figli, di cui dà i nomi (III,
8), ma ovviamente nessun Enotro. Se si
considera che in ogni caso Enotro sarebbe figlio di Licaone che è figlio di
Pelasgo, il fatto del richiamo al capostipite dei Pelasgi ci deve far escludere
l'attendibilità della tradizione di Dionisio. Primo perché il movimento dei
Pelasgi avverrà dall'area nord-orientale del Mediterraneo e secondo perché la
tradizione sui Pelasgi in blocco di Dionisio è inattendibile.
Facendo il punto della
situazione, dei Pelasgi di Dionisio ho già dimostrato l'inconsistenza della
tradizione avvalendomi delle acute osservazioni di Braccesi. Solo di
frequentazione commerciale micenea (in realtà prima di tutto tirrenica) è
lecito parlare, con tutto quel che ne può derivare, ma in assenza di una
"documentazione" della tradizione. Nel medesimo contesto va
rilevata l'assoluta inconsistenza della
tradizione dionisia circa l'emigrazione di Siculi dall'Italia in Sicilia,
cacciati da Aborigeni o Pelasgi che sia. Oltretutto Tucidide la pone molto
tempo dopo la guerra di Troia; e ancora
l'inconsistenza della tradizione di Dionisio circa una precedente
immigrazione in territorio poi romano di Enotri da cui gli Aborigeni.
Poi abbiamo la spedizione dell'arcade 5) Evandro (I, 31-33),
quella di 6) Eracle (I, 35-44) e di 7)
Enea troiano (I, 45-60).
La tradizione attendibile sulle
origini di Roma.
Rimangono le tradizioni di cui si
può discutere, degli Aborigeni ovvero gli indigeni calati dalle montagne
appenniniche e cioè i Sabini della tradizione romana, di Evandro ed Eracle
dietro cui vi sono i colonizzatori troiani insieme agli egizi di Amenofi III,
ed infine Enea troiano. Quando Dionisio parla delle città degli Aborigeni dice
che sono nel reatino (I, 14-15): "Si dice che gli Aborigeni avessero
stabilito in questi luoghi il loro primitivo stanziamento dopo averne cacciato
gli Umbri." (I, 16, 1) "Zenodoto di Trezene, uno storico... riferisce
che gli Umbri, una popolazione indigena, dapprima abitarono nel territorio
detto reatino; cacciati di là dai Pelasgi vennero in questa terra dove ora
abitano e, cambiando assieme al luogo di residenza anche il nome, si chiamano
Sabini in luogo di Umbri. " (II, 49, 1; vedi anche II, 49, 2-3
sull'occupazione del territorio reatino) Dunque, facendo piazza pulita di
Aborigeni e Pelasgi, parliamo più realisticamente di Sabini nel reatino e di
Pelasgi/Shardana nel Tirreno provenienti via mare. I Sabini furono i primi
abitanti dei luoghi su cui poi sorse Roma, a fianco dei tirreni ed egizi
colonizzatori.
Tutti
sanno che Roma è colonia di Troia. Quel che si crede in base alla tradizione
acriticamente e stancamente ripetuta (alla Tito Livio) è che Roma sia stata
fondata da un lontano discendente albano di
Enea riparato nel Lazio dopo l'olocausto di Troia. Vi sono indizi
importanti che la città eterna (ma chi per primo l'ha chiamata eterna? Un
motivo ci sarà pure) fu fondata dai Troiani molto, molto tempo prima.
Amenofi III/Eracle patrono di Roma sul Campidoglio.
Le tracce mi portano con sicurezza al tempo di
Amenofi III/Eracle. L'Apoteosi
di Radamanto/Amenofi III sul Disco di Festo attribuisce a costui
l'apoteosi come la tradizione
l'attribuisce al solo Eracle. I due, grazie alla mia decifrazione, si
identificano in quanto mariti di Nefertiti/Megara, che poi Amenofi III passò
come grande sposa reale a suo figlio Amenofi IV, così come Eracle la passò a
Iolao (pseudo Apollodoro II, 6). Perché una città esista non è necessario che
sia circondata da mura o da un fossato, bensì che sia organizzata con un potere
e regolata da leggi. Del resto i Sabini
erano molti e bellicosi e vivevano in villaggi privi di mura di difesa
(Plutarco, Vita di Romolo, 16, 1). La tradizione dice in pratica che Eracle
fondò Roma sul Campidoglio ed eresse un'ara (l'Ara Massima, al Foro Boario, il
nucleo di tufo databile al II secolo a. C. nella parte posteriore della chiesa
di S. Maria di Cosmedin entro il quale è ricavata la cripta) per il suo culto
come dio del commercio ai piedi delle pendici meridionali del Palatino, nei
pressi dell'ingresso del Circo Massimo. Se Troia è il "Mercato" sui
Dardanelli, è coerente che lo sia anche la sua colonia di Roma, l’Urbs, il
“guado dei buoi” (ẃər-bos) strategicamente sul guado del
Tevere. Al seguito di Eracle erano una donna di origine iperborea, dunque
tirrenica orientale, da cui ebbe Latino re del luogo (Dionisio I, 43), e i
Troiani fatti prigionieri quando egli prese Troia di Laomedonte (Dionisio I,
34, 2). Questa tradizione serve a confermarci
la partecipazione di Troiani ed
Atlantidi iperborei alla fondazione di Roma. A occuparsi della cerimonia e del
banchetto sacrificale furono preposti i Potizi e i Pinari fino al 312 a. C. La
dualità del clero di Eracle all'Ara Massima, insieme all'identificazione
Amenofi III/Eracle del Disco di Festo è decisiva per attribuire la fondazione
di Roma ai Troiani strettamente legati ad Amenofi III nella prima metà del XIV
secolo. Leggo su Atena nera di Martin Bernal, EST, che " Gli antichi cronografi... convenivano in genere che i
culti di Demetra e Dioniso erano giunti in Attica nella seconda metà del XV
secolo... Poiché a Micene si sono ritrovate placche di maiolica del tipo di
quelle che venivano poste sotto gli angoli dei templi, databili al regno di
Amenophis III (1405-1367), non ho alcuna difficoltà ad accettare la possibilità
che il culto eleusino della Grecia arcaica fosse il discendente di un culto
fondatovi dagli Egizi 700 anni prima. Una delle molte ragioni, infatti, per cui
questo culto era assolutamente unico in Grecia era che – come avveniva nei templi egizi – esso
disponeva di un clero ufficiale, costituito da due clan i cui membri, in epoca
ellenistica, ritenevano per certo di avere ascendenze egizie. " (pp.
85-86)
A proposito dei Potiti e dei Pinari appare evidente
che si tratta di un sacerdozio preminente e di uno inferiore. Se teniamo
presente che la tribù romana dei Tities o Titienses richiama i Po-titi, anche
sulla base dell’egizio si può pensare all’elemento dominante e al suo
sacerdozio che fa riferimento alla rocca del Campidoglio (dove risiedeva, nella
tradizione da me rimessa sui suoi piedi, il re di Roma Tito Tazio). Quanto ai
Pinari si penserà al sacerdozio della rimanente popolazione della città bassa,
a valle. Che i Luceres siano i naturalizzati Romani che fanno ingresso dal
lucus sul Campidoglio ce lo dice indirettamente Plutarco (Vita di Romolo, 20,
2). Dall’egizio potremmo inferire (ma la cosa va verificata) che il r-ṯrt
è l’area sacra in un bosco di “salici”.
I Ramnes o Ramnenses, in base anche all’egizio, potrebbero essere gli abitanti
della parte bassa. E in fondo i seguaci di Romolo, gli Shardana, erano preposti
alla guardia del porto e della navigazione fluviale dalla “Roma quadrata”, il
castrum del Germalo.
E' evidente che la tradizione locale conserva sia
pure in modo sbiadito anche in epoche tarde quelle che sono state le origini
del sito, e appunto il santuario di Ino Leucothea a Pyrgi ha fino ad epoca
tarda conservato la sua relazione col fondatore Amenofi III/Eracle. Le lastre
fittili (510-500 a. C.) decorative delle testate dei travi maggiori del tetto
del tempio più antico B, celebrano episodi delle fatiche d'Eracle e sempre
Eracle è figurato fra immagini di
tipo cleste e uranico in una delle antefisse che decoravano la
struttura del tetto (M. Cristofani, Gli Etruschi del mare, Longanesi & C.,
p. 120).
Ben presto sul Campidoglio (nell'area del Palazzo
senatorio, non lontano dal tempio di Veiove), fu fondato il luogo d’asilo fra
due luci o al centro di un lucus che godeva di extraterritorialità e dove uno
entrava straniero e ne usciva romano. Credo che questo luogo d'asilo sia stato creato soprattutto come base per il reclutamento di
guerrieri indigeni da addestrare per la legione straniera tirrenica ed egizia.
La legione romana nasce adesso, così come la
divisione della popolazione tirrenica occidentale in tribù e in curie. "Le
tribù furono originariamente divisioni militari, e presumibilmente anche le
fratrie (forse il vecchio termine per le schiere di hetairoi). Le fratrie
sembrano essere state diffuse per designare una suddivisione più piccola della
tribù." (O. Murray, La Grecia delle origini, Il Mulino, p. 72) Secondo
Dionisio " i membri di ogni fratria celebravano con i sacerdoti i riti
loro assegnati, e nei giorni di festa mangiavano insieme nei conviti comuni... Mi sembra che questa
istituzione Romolo l'abbia dedotta dall'usanza lacedemone allora relativa alle
phiditia, che pare essere stata introdotta da Licurgo, il quale l'aveva presa
dai Cretesi." (II, 23, 2-3)
Dopo che si interrompono i legami fra Roma e Troia
(distrutta dal terremoto e incendio conseguente) e che i Sabini restano soli
a dominare sulla regione continuando a
chiamarsi Romani, ecco che le curie assumono nomi sabini, Vita di Romolo, 20, 3
(o, detto, in altri termini, i Romani discendenti dei Troiani e dell'elemento
indigeno costituito da Sabini, si evolvono
tanto da essere definibili come linguisticamente sabini, da qui il nome
delle curie). C’è probabilmente una differenza fra curia tirrenica e cureti/quiriti lancieri
shardana. Le tribù dei Titienses del Campidoglio, dei Luceres sempre sul Campidoglio, e infine da quella dei
Ramnenses della parte bassa, del fiume, erano ripartite ciascuna in curie, in
unità di “esercito” (gall. corios, ted. Heer), e dunque capeggiate dai comandanti kowiranes/kyrioi delle medesime (da qui la Curia come sede dei capi
delle curie). Questi capi militari sono diventati i seranim “filistei”
della Bibbia. Hera, o meglio Iuno
Curitis, Juno Quiris, Juno Regina , sarà piuttosto Iuno delle
curie, e il fatto di essere armata di lancia farà appunto riferimento al popolo
in armi delle curie che compongono le tribù. Più tardi gli Ebrei di
Gerusalemme ci defrauderanno di questa invenzione dei luoghi di rifugio
attribuendola ad un Mosè altrettanto inventato. In realtà i Romani nella fase
di stabilizzazione della regione palestinese di XII-XI secolo devono aver
impiantato dei campi di concentramento
soggetti all'asse Troia-Roma. Queste sedi garantivano un processo giusto
tanto all’accusato di terrorismo
yahweista, ricercato e
catturato, quanto all'indigeno accusato di omicidio per i motivi più svariati
(possiamo immaginare il regolamento di vecchi
conti, casi di sciacallaggio, ecc.), in modo da assicurare l'ordine
pubblico. Due cose sono a denominazione d'origine controllata e garantita
romana, e perciò impossibili da contraffare: la disciplina militare e la
sottomissione alle leggi. Nessun Mosè, nessun Beniaminita, nessun Filisteo
poteva alla lunga usurpare queste
peculiarità romane. La legione di
tremila uomini è posta sotto il comando di un atamàn (vocabolo russo e più in
generale slavo, ricalcato probabilmente
sul corrispondente vocabolo tirrenico
orientale; Atamante è il re di Calidone/Roma in Etolia/Italia sotto la cui
reggenza dopo la dark age vengono riallacciati i contatti con la Colchide culla
d'origine: vedi tradizione di Frisso e il Vello d'Oro, nonché santuario di Ino
Leucothea a Pyrgi, porto d'imbarco degli Argonauti; già al tempo dei Sette
contro Tebe e degli Epigoni – traduci movimento dei popoli del mare contro
l’Egitto e il Levante – a Pyrgi si imbarcano per la Palestina i legionari
comandati dai Tideo, vedi frontone fittile del tempio A, 480-470 a.
C., e dai Diomede di Calidone/Roma in
Etolia/Italia; si badi che la tradizione greca tende ad escludere Tideo dai
Sette, pseudo Apollodoro, 3, 6, e ciò evidentemente perché combatteva sul
fronte opposto;.anche il messaggio sul frontone del tempio A di Pyrgi con Tideo
che morde il cranio di Melanippo va inteso in senso filogreco né più né meno
dei poemi omerici – col Viaggio d'Odisseo che ha per centro proprio questo
santuario – e cioè, al di là della
propaganda filogreca, che ha i suoi fini economici e politici, gli etruschi di
questo santuario, che custodisce le più antiche tradizioni dei Tirreni, sanno
bene come stavano realmente le cose e che i Romani si sono sempre battuti per
la legalità e la stabilità della regione siro-palestinese contro i terroristi
popoli del mare) e divisa in centurie, ciascuna sotto il comando di un
capitano, l'esaùl (anche questo vocabolo russo e slavo deve conservare
l'origine tirrenica orientale), da cui verisimilmente il nome di Saul, signore
della guerra romano che, non molto dopo la fine della guerra palestinese,
diciamo intorno al 1175, si ribella a Roma per crearsi un dominio personale e,
accerchiato, muore, come coloro che lo seguono, romanamente, gettandosi sulla propria spada. Il generale
romano ("filisteo") che ne ebbe ragione, ovviamente non celebrò alcun trionfo. I yahweisti sperimentarono
sulla loro pelle i trionfi romani, costituiti dalla processione delle armi e
della testa mozzata del capo terrorista abbattuto fino al loro deposito in un tempio di Posidone troiano e romano
(artatamente poi confuso dai sacerdoti
di Gerusalemme con Dagon) nel quartier generale di Bet-Shean, che non è una città
della dodecapoli filistea, ma si trova nell'entroterra grosso modo all'altezza
di Dor, dov'è la flotta dei Tjekker, al centro della Palestina. Qui verranno
collocate le armi e inchiodata la testa del comandante ucciso (1 Cronache, 10, 9-10; non è da escludere la
possibilità del deposito in un tempio di Hathor/Astarte Celeste/Afrodite Urania
filiazione di quello di Pyrgi o di Troia, nella versione parallela di 1
Samuele, 31, 9-10). Dunque il trionfo non è stato inventato da Romolo. Fa parte di Roma da molto più tempo.
La seconda Roma (la “Rama” dello pseudo Samuele).
Con la battaglia di Afèq del 1178 ca., e la morte dei figli di Eli e di Eli stesso,
l'ultimo druida yahweista shardana, i Romani hanno
disperso la casta sacerdotale
discendente da Aronne fratello del
fantamitico Mosè, in quanto non se ne riescono a trovare due insieme. E'
l'"adempimento della parola che Yahweh aveva pronunziato in Silo riguardo
alla casa di Eli" (1 Samuele
2, 27ss). Nella profezia contro Eli e i
suoi figli Yahweh si riferisce all’avvento di un nuovo sacerdote, di un homo
novus, a lui fedele (Samuele I, 2, 35),
di Samuele, ovviamente, che però disgraziatamente è una patacca, come tutti i
suoi successori. Per tutta la sua vita fino al tempio di Yahweh sotto i Persiani, Gerusalemme è tutto fuorché yahweista. Certo
è possibile, e documentato, che in tutta la Palestina qua e là continua le
venerazione di Yahweh da parte di yahweisti sopravvissuti e dispersi, ma si
tratta di convivenza con altre divinità, e in ogni caso a Gerusalemme è da
escludere il culto in esclusiva di Yahweh, perfino al tempo della
sedicente “riforma” di Giosia, alle
soglie della fine di Gerusalemme. Se ho ragione, è evidente uno iato
incolmabile fra il prima (dei popoli del mare disfatti ad Afèq) e il poi (del
culto yahweista postesilico a Gerusalemme). La ierocrazia che si impone a
Gerusalemme grazie ai Persiani nulla ha a che vedere con quella fino ad Afèq.
Certo possiamo immaginare che i sopravvissuti di Afèq abbiano conservato nella
latitanza le tradizioni religiose. Più difficile è credere che abbiano
conservato liste genealogiche scritte, fedelmente riconducibili agli ultimi
sacerdoti della casa di Eli, oltretutto sconfessati e condannati da Yahweh. Il
sacerdozio postesilico si proclama di origine levita tanto per quel che
riguarda il sacerdozio maggiore sadocita (che farebbe capo ad un sedicente Sadòq sommo sacerdote di Davide, e che
comunque sarebbe un altro homo novus, per di più connesso ad un culto estraneo
a Yahweh, eventualmente Posidone troiano-romano) che per quanto riguarda la
sottocasta degli ausiliari leviti (1 Cronache 5, 38; 6, 38). Ne consegue
appunto che, essendo estinta la casta sacerdotale druidica dei popoli del mare,
ora la scalata al potere è fatta da un clero nuovo, dal basso (dai civili del
popolo ebreo), che viene autenticato dai Persiani, con la forza. Fu dunque una
presa del potere da parte dei leviti
“reduci” con accordi e compromessi
all’interno degli esuli ebrei, al fine di spartirsi il potere sacerdotale di serie
A e B, col beneplacito dei Persiani.
Dunque, dal punto di vista
sostanziale, possiamo definire realizzata
la sentenza che Yahweh ha pronunciato contro il clero discendente da
Aronne (il clero druidico shardana sterminato ad Afèq). Tuttavia i
leviti postesilici dovevano giustificare la loro ascesa al potere di fronte alla corte in esilio, costituita
dalla famiglia reale e dai nobili di discendenza davidica, che viceversa non
dovevano perdere la faccia. Così furono
costretti a proclamare formalmente la loro legittimazione dalla
monarchia davidica e dal suo sacerdozio, addirittura risalendo nuovamente fino
ad Aronne. Da qui le manipolazioni
testuali che fanno sopravvivere il clero yahweista di Aronne a Nob (proprio in
bocca ai Romani acquartierati a Roma seconda/Rama, che davano la caccia agli
ultimi yahweisti per giustiziarli), e poi Ebiatar, figlio di Achimelec (figlio
di Achitob; e Sadòq è detto figlio di Achitob, per cui viene ricondotto alla
stessa casta sacerdotale discendente da Aronne) unico sopravvissuto allo sterminio di Nob (1 Samuele 22, 20) e
poi il licenziamento di Ebiatar da parte di Salomone all’inizio del suo regno
(nonostante che già Davide avesse nominato come unico sacerdote Sadòq), e poi
la resurrezione di un Achimelec figlio di Ebiatar come sacerdote sotto lo
stesso Davide (2 Samuele 8, 17 e 1 Cronache 24, 6) e addirittura un Abimelech
figlio di Ebiatar (1 Cronache 18, 16; confermato nel corrispondente testo
ebraico, che è evidentemente una
revisione più tarda dei Settanta e di Girolamo). La Bibbia delle Paoline
s’è accorta del pasticcio e “corregge”
in tutti i casi Ebiatar figlio di Achimelec; e tuttavia non si tratta di
svista, bensì di manipolazione mirata, nel senso che se anche Salomone licenzia
Ebiatar, rimane in carica suo “figlio” Achimelec o Abimelech). Tutto al fine di
far carte false per mantenere, contro l’evidenza, un clero discendente da Aronne e dal regno di Davide (attraverso Sadòq, nome fittizio per
indicare semplicemente il sacerdote
“Giusto”, o meglio, ’”Autentico”, ’”Autenticato”, da cui pretende
derivare l’alto clero levita).
Saul non è stato unto re da Samuele, perché era un
generale romano soggetto solo alla duplice magistratura del Campidoglio (re) e
Palatino (augure). Non ha sterminato il
clero yahweista di Nob, perché questo era già stato sterminato ad Afèq. Sarebbe
curioso che, una volta sterminato, il clero yahweista si riunisse a Nob proprio
in bocca al quartier generale di Roma/Rama! I yahweisti hanno una gran bella
faccia di bronzo!
Saul ha sempre venerato Posidone romano, e infatti
egli consulta la veggente di En-Dor (I Samuele, 28, 7ss), più all’interno,
all’altezza della Dor dei
Tjekker/Teucri/Troiani. Molto tempo dopo, all’altro capo della storia di
Gerusalemme (622 a. C.), re Giosia, dopo che il sedicente sommo sacerdote Elkia
aveva “ritrovato” il libro della legge (II Cronache, 34,
14ss), manda a consultare “il Signore per me, e per quelli che son rimasti in
Israele e in Giuda, a riguardo delle prescrizioni contenute in questo libro,
che è stato trovato…” (II Cronache 34, 21ss) E cosa ti fanno i messi? Vanno da
un sacerdote, da un profeta di Yahweh? Niente affatto. Vanno tranquillamente
dalla veggente Ulda/Culda, la quale, se fosse stata (ammesso e non concesso)
yahweista, si sarebbe certo felicitata
del ritrovamento della legge di Yahweh e della volontà di Giosia di
rimetterla in vigore, dopo tanti re che avevano o, meglio, avrebbero in precedenza deviato dal
yahweismo, adorando i Baal e le Ascere. Invece, e comprensibilmente, è adirata,
e profetizza la sciagura su Gerusalemme, evidentemente proprio a causa
dell’abbandono della vecchia religione da parte di Giosia e della sua corte.
Unico riguardo nei confronti del re, proprio perché l’ha interpellata e
attraverso lei ha interpellato il dio o gli dèi originari, sarà che morirà prima dei tempi della fine di
Gerusalemme e così gli sarà risparmiato questo dolore (II Cronache 34, 23ss).
Se il campione della sedicente
restaurazione yahweista Giosia si comporta così poco da yahweista consultando
un’indovina, è evidente che Gerusalemme non è mai stata yahweista fino alla
conquista persiana, non tanto di Babilonia, quanto dell’Egitto, con Cambise II,
perché io credo che è all’Egitto più che a Babilonia che dobbiamo puntare
l’attenzione. Il tempio di Yahweh a Gerusalemme fu costruito regnante (anche
sull’Egitto, 525-522) Cambise II e
dedicato nel 515 regnante (anche sull’Egitto, 521-486) Dario I. Alla
luce di quel che avverrà poi percepisco che l’ebraismo(dei
farisei)/cristianesimo proceda più dagli “ebrei” greci d’Egitto che non dagli
“ebrei” aramaici di Babilonia.
Stando al racconto biblico, Gerusalemme viene
conquistata e distrutta dai Babilonesi proprio a causa della riforma di Giosia
o, comunque, proprio in coincidenza con la riforma di Giosia, a riprova che il
culto di Yahweh – finora mai praticato in Gerusalemme, o almeno non in
esclusiva né con Yahweh come divinità principale – porta sfiga soprattutto a
chi lo pratica. Non a caso gli esuli
pre-ebrei a Dafne pelusica ribattono a quel tafano di Geremia che li ha
seguiti e che alla fine morrà, com’era prevedibile, lapidato, “ A riguardo delle parole che tu ci hai
dette nel nome di Yahweh, noi non ti vogliamo ascoltare, ma faremo esattamente
quello che abbiamo detto: continueremo a offrire incenso, a fare libagioni alla
regina del cielo, come abbiamo fatto e come fecero i nostri padri, i nostri re
e i nostri principi nelle città di Giuda e nelle piazze di Gerusalemme: allora
ci saziavamo di pane in abbondanza e si era felici e non vedemmo sventure. Ma
dal tempo in cui abbiamo lasciato di offrire incenso e di fare libagioni alla
regina del cielo, manchiamo di tutto e siamo sterminati dalla spada e dalla
fame. E se noi – soggiunsero le donne –
offriamo incenso e libagioni alla regina del cielo, è forse senza il
consenso dei nostri mariti che le abbiamo fatto schiacciate simili alla sua
immagine e le abbiamo offerto libagioni? ” (Geremia 44, 16ss)
Samuele è un'evidente patacca, oltretutto perché
pretende di eleggere re un signore della guerra romano come Saul. Autentica è
invece Rama (sede di Samuele) come fonte della sovranità dei signori della
guerra che gli Ebrei nella metastoria posteriore considereranno loro re. Rama
prende nome da Roma, che già esiste almeno dalla prima metà del XIV secolo sul
Campidoglio, il "Colle". Si trovano in ebraico biblico anche Ruma e
Roma, sempre con significato di altura, luogo elevato. Ma non è escluso che
sulla base dell’egizio si possa tradurre qualcosa come la città sulla riva del
fiume o alla foce del fiume. Questi nomi sono stati importati e derivati da
Roma e non viceversa. I generali romani
man mano che vincevano (e le suonavano di brutto agli Iefte/Deucalione e
ai Sansone/Eracle) si spingevano a sud verso Gerusalemme. E' dunque nella fase
finale della guerra che viene impiantato il quartier generale nella
seconda Roma, a nord di Gerusalemme. Davide inchiodò la testa
del “filisteo” Golia in un santuario
della seconda Roma (non a Gerusalemme –
1 Samuele 17, 54 – che lo stesso
Davide avrebbe conquistato poi) e depose la sua armatura compresa la spada
nello stesso santuario (non a Nob, città sacerdotale yahweista che non poteva
esistere dopo lo sterminio di Afèq e la caccia al yahweista scatenata dai
Romani, oltretutto a poca distanza dal loro quartier generale di Roma seconda;
ma il clero era stato sterminato, e tutti lo sapevano, e dunque se ne sposta lo
sterminio sotto Saul e da parte di Saul, per collusione con Davide, col che si
riesce a far “sopravvivere” il clero
yahweista fino a questa data: 1 Samuele 22, 11ss).
Negli studi precedenti ho evidenziato i punti di
contatto fra elohismo e allahismo (che ora ritengo connessi al culto di
Posidone troiano/romano poi assimilato a Dagon) in comunità ebraiche dell’esilio distanti come la Persia di
Daniele (il libro di Daniele è di poco
posteriore al 164 a. C., ma ricostruisce il periodo della dominazione
tardo-babilonese e persiana) e la Dafne pelusica di Geremia in Egitto. Appunto
perché senza relazione l’una con l’altra, queste comunità “ebraiche” non
avrebbero potuto sviluppare un’identica evoluzione elohista/allahista
(concordanza fra libro di Daniele e Salmo 55, di derivazione da Geremia, nel
documentare le tre prostrazioni
giornaliere in direzione del tempio di Gerusalemme, comuni alla pratica di
Maometto prima della sua riforma nel senso delle cinque prostrazioni in
direzione della Mecca) se questa non fosse stata appunto originaria del culto a Gerusalemme. Ma ora
ritengo piuttosto che si tratti di attribuzione ad età preesilica di una pratica assunta dagli “ebrei” in esilio
a contatto coi Caldei di Gerusalemme e perfino cogli Arabi.
Tirreni e Pelasgi.
La tradizione greca di pseudo Apollodoro è per metà
greca, per metà tirrenica occidentale (gli Eolidi) e orientale (gli Atlantidi,
Dardanidi e Troiani). Erodoto chiama Elleni (cioè Greci) i soli Dori. Ioni e
Dori sono i due fondamentali ethnoi greci dopo la dark age. Secondo la
tradizione greca i figli di Elleno sarebbero gli Eolidi, i Dori, e, attraverso
Xuto gli Ioni ed Achei. Io ritengo che gli Eolidi siano i Tirreni occidentali
(pseudo Apollodoro, I, 7-9) che ovviamente non derivano da Elleno, bensì dai
Tirreni orientali, dagli Atlantidi/Iperborei Dardanidi e Troiani (pseudo
Apollodoro III, 10 e 12). Stranamente solo di Eolo è data una dettagliata
discendenza, e praticamente nulla vien detto della discendenza di Ione, Acheo e
Doro. Ritengo che gli Achei della tradizione greca, i discendenti di Tantalo e
Pelope (pseudo Apollodoro, Epitome, 2), rientrino come gli Elleno-Dori nell'ambito
dei popoli del mare scesi dalla Tracia con costumi barbari e
yahweisti/dionisiaci. I Dori si ritengono Eraclidi (pseudo Apollodoro II, 8) ed
Eraclidi sono pure gli Shardana colonizzatori della Sardegna nell'età dei
"ritorni" sotto la guida di Iolao (pseudo Apollodoro II, 7). Nonostante la confusione fatta dagli antichi
io ritengo che si debba distinguere fra
Pelasgi di lingua lemnia e
Tirreni di lingua greca. Il
ragionamento di Erodoto sui Pelasgi non fa una grinza. Essi sono anindeuropei
ed anelleni. Adesso sono pronto a riconoscerlo perché nel frattempo ho scoperto
che i Tirreni sono i primi parlanti
greco a partire diciamo dal XVIII secolo. I Pelasgi sono, come generalmente si
ammette, anindeuropei ed anelleni. E' vero che dalla lettura del testo biblico
si deduce che i Filistei in origine parlavano una lingua greca o comunque
indeuropea, ma nel corso del mio lavoro ho dovuto dedurre che dietro ai
Filistei biblici ci sono i Romani.
Infatti sarebbe curioso che i Romani, i più celebri guerrieri di tutti i tempi,
combattenti in Palestina fianco a fianco dei Tjekker Troiani, fino a poco tempo
prima signori perfino dell'Egitto, dovessero prendere ordini dai
Pelasgi/Filistei! I yahweisti amano da
sempre la contraffazione, specie quando si tratta di sostituire i loro, i
Pelasgi popoli del mare, ai loro peggiori nemici, ai Romani. Dunque quelli che
al tempo delle guerre in Palestina chiamiamo Filistei, una corruzione del
nome Pelasgi/Peleset, non sono affatto
derivati dai Pelasgi traci. Non ne hanno né i costumi né la lingua originaria,
ma appunto la presenza di Pelasgi in Palestina poteva a posteriori (una volta
che i discendenti dei Romani ed indeuropei in loco erano stati assorbiti
etnicamente linguisticamente e culturalmente,
semitizzati) occultare la dominazione romana. Da qui i Filistei. Poiché
i Romani veneravano Posidone Uranio
troiano e romano (scritura troiana del Disco di Festo) comune all'Alta Siria
fin dal III millennio sotto il nome di
Dagan, questa divinità fu associata ai
Filistei (cioè ai Romani e loro discendenti) confusi coi Pelasgi.
Erodoto mette a confronto Crestona/Cortona etrusca
con Placia e Scilace. Cortona poteva
ben apparire una antica città pelasgica, il lemnio essendo simile all'etrusco.
Tuttavia abbiamo veduto che la migrazione pelasgica da nord a sud della
penisola è solo una ricostruzione ipotetica a posteriori e infondata. Tuttavia le conclusioni cui
giunge Erodoto sono ineccepibili. I Pelasgi non parlano affatto greco. Personalmente
immagino una differente ondata pelasgica,
via Mar Tirreno, quella decisiva per il decollo della civiltà etrusca. I Pelasgi avevano occupato l'Attica (Erodoto
VI, 137; Tucidide, IV, 109) e, una volta cacciati dagli Ateniesi, avevano
ancora colonie a Lemno, Placia e Scilace nel mar di Marmara, Imbro e
Samotracia, Antandro sulla costa anatolica. E' evidente che tutti costoro
parlavano una lingua affine al lemnio, si trovavano sulla via del movimento dei
Teucri e Misi e sono stati sospinti in
avanti, nell'Egeo e lungo le coste anatoliche. Si tratta di Shardana
anindeuropei confusi anche coi Tirreni "costruttori di torri" perché
poi si stabiliranno in Sardegna, cui daranno il nome (ma le torri/nuraghi erano
già state costruite dai Tirreni fin dal 1500 ca.; i yahweisti Shardana, stabilitisi in Sardegna – i figli di Tespio guidati da Iolao alla fine
del movimento dei popoli del mare – conservano il ricordo del Diluvio
attraverso le navicelle votive simili ad arche di Noè o cariche di carri
guidati da buoi). Gli Shardana o
comunque i Pelasgi di Lemno un tempo
furono anche ad Atene, ma solo
nell'ambito del movimento dei popoli del mare, e cioè nel XIII-XII secolo.
Dunque gli Ateniesi non sono realmente discendenti dei Pelasgi, se la
dominazione pelasgica fu di breve durata.
Ad Atene si parla ionico, che verisimilmente deve risalire più indietro
nel tempo dell'ellenico dei Dori. Secondo Erodoto "Se dunque i Pelasgi
erano di lingua barbara, allora gli Attici, Pelasgi di stirpe, una volta
divenuti Greci dovettero anche cambiare il modo di esprimersi." (I, 57)
Secondo Erodoto pertanto, o non è vero che gli Attici discendono dai Pelasgi, e
allora si spiega perché parlano ionico, discendendo da greci (si tratterà di
stabilire quali), oppure è vero che discendono da anelleni e allora devono essere
stati ellenizzati posteriormnente, nella stessa ondata degli Elleni-Dori, solo
che questa ondata ha dato luogo per differenze linguistiche e geografiche allo
Ionico invece che al Dorico. La seconda ipotesi mi pare inverosimile. Dovremmo
ammettere che tanto il dorico che lo ionico derivino dall’incontro
dell’indeuropeo tracio con un substrato
anellenico. Nessun substrato anellenico per i Dori, e a maggior ragione per gli
Attici (nonostante una breve
occupazione pelasgica). Tucidide chiama
Tirreni e non Pelasgi quelli che un tempo avevano occupato Atene e l'isola di
Lemno (IV, 109). Ma Tucidide non vede le cose diversamente da Erodoto. Ha in
mente i Pelasgi e non gente di lingua greca, per cui quando li chiama Tirreni
ha in mente gli Shardana che, avendo occupato la Sardegna, rimandano ai
nuraghi, alle torri. Tucidide ha in mente gli Shardana che parlano lemnio. Io credo
più verisimile che gli Attici
siano "autoctoni" (il termine va preso sempre in senso
relativo), Tirreni di lingua greca, che
subirono una breve occupazione pelasgica da parte degli Shardana. La tradizione
degli Ioni dell'Attica (pseudo Apollodoro III, 14ss) deve avere qualche base
autentica se fa riferimento all'"autoctono" Cecrope primo re
dell'Attica, metà uomo, metà serpente, e all'iniziale dominio sull'Attica di
Posidone.
Vero è che gli Ateniesi conservano tradizioni religiose di origine tracia che non possono
riferirsi altro che agli stessi yahweisti Shardana o Pelasgi di lingua lemnia
che hanno dominato sull'Attica al tempo dei popoli del mare, e in ciò sono
affini agli elleno-dori di Sparta che si dicevano discendenti degli
Eraclidi, e gli Spartani ritenevano
ancora nel 300 a. C. di avere origini comuni con gli Ebrei di Gerusalemme. A
Braurone (e analogamente ad Ale in Attica) si celebra una festa in onore di
Artemide Taurica (Erodoto IV, 103 e VI, 138) E ad Atene un serpente fa da
guardiano al tempio sull'acropoli (Erodoto VIII, 41), traccia di yahweismo come
la pitonessa dell'Apollo di Delphi (che ha ucciso Delphine la dragonessa
preesistente). I yahweisti uccidono dovunque si stabiliscono il drago di Dagon
(Posidone troiano) e vi sostituiscono il viscido serpente dell'Eden biblico.
Addirittura, mentre gli Arcadi si
vantano di aver ucciso Illo (sic!) alla testa degli Eraclidi scongiurandone per
cento anni l'ingresso nel Peloponneso, proprio gli Ateniesi si vantano
addirittura: " fummo noi i soli ad accoglierli (gli Eraclidi), mentre
prima venivano respinti da tutti i Greci presso cui cercavano riparo fuggendo
la schiavitù micenea, i soli a stroncare la potenza di Euristeo, vincendo in
guerra assieme ad essi le genti che allora dominavano il Peloponneso. "
(Erodoto, IX, 27) Si direbbe che gli Ateniesi vantino un'ascendenza indeuropea
tracia comune agli Spartani. Ciò è parzialmente vero in base alla dominazione
pelasgica sull'Attica di XIII-XII secolo, ma molto gioca la propaganda
politica. A causa della prepotenza dei Dori gli altri Greci dovevano cercare di
apparire più Dori di loro.
L'ignoranza dei Greci sulla storia della Grecia
prima dei popoli del mare è pressoché
totale. Motivo di più per avvalorare la mia ipotesi che gli Eolidi siano in
effetti i Tirreni occidentali. E' illuminante quanto scrive Erodoto a proposito
dei giochi organizzati da Clistene di Sicione
per trovare marito a sua figlia. I competitori vennero dall'Italia
(Sibari e Siri, fondata dai Troiani), dall'Adriatico (Durazzo), "
dall'Etolia arrivò Malete, fratello di Titormo, di quel Titormo, l'uomo
fisicamente più robusto di tutta la Grecia, che aveva fuggito la comunanza con
gli uomini andando a vivere nelle estreme contrade dell'Etolia. E dal
Peloponneso Leocede, figlio di Fidone, il tiranno di Argo... " (VI,
127). Secondo Tucidide (I, 5, 2 e III,
94) gli Etoli "parlano un dialetto indecifrabile". Mi rendo conto che
qualcosa non va, che gli stessi Greci hanno le idee confuse sulla Grecia,
figuriamoci sul resto del mondo... Eppure poiché io sono certo che gli Eolidi
di pseudo Apollodoro siano in primo luogo Romani, ne risulta rafforzato il
sospetto che i Greci delle origini, i Traci elleno-dori, fecero dapprima le
carte false per prenderseli come Greci trasferendone le tradizioni nel
territorio più occidentale della Grecia che al contempo avesse un substrato
linguistico estraneo alla Grecia stessa, così da rendere plausibile questo
trasferimento. "Parlano un dialetto indecifrabile" giustifica tanto
l'etrusco che il romano più antico (troiano) di cui non abbiamo più
testimonianza. Avendo già menzionato la pianta dello Stivale come Italia e
Durazzo che è meno ad Occidente, come è possibile affermare che il greco
Titormo "aveva fuggito la comunanza con gli uomini andando a vivere nelle
estreme contrade dell'Etolia"? Gli Eolidi sono gli unici figli di Elleno
di cui pseudo Apollodoro fornisca una dettagliata discendenza (tacendo del tutto sulla discendenza di Ione, Acheo e
Doro). La verità è che gli Eolidi non sono discendenti di Elleno, sono i
Tirreni occidentali di Etolia/Italia e Calidone/Roma, discendenti degli
Atlantidi, Iperborei, Dardanidi e Troiani, dei Tirreni orientali. Come l'Etolia
sia potuta rimanere ancora nel V secolo una delle meno civilizzate e più
arretrate economicamente e culturalmente del mondo greco con un retroterra
mitologico come quello del libro I (da 7 in poi) di pseudo Apollodoro sarebbe
un mistero se non si trattasse invece di un furto greco alla Tirrenia (eolide,
di lingua greca) dominata da Roma, città greca (ma da diversi secoli prima dei
popoli del mare) secondo Dionisio.
Cadmo è palesemente un trace veneratore di suo nipote Dioniso. Attraverso
la Tracia giunge a Tebe beota dove, lui yahweista, uccide il Posidone/Dagon
(Eloah/Allah) tirrenico, e non a caso finisce i suoi giorni fra gli Illiri
traci (dov'è il santuario oracolare yahweista di Dodona). Cadmo è evidentemente
una costruzione posteriore alla Tebe egizia della Sfinge di Edipo attaccata dai
Sette e poi dagli Epigoni al tempo dei popoli del mare, poi artificiosamente
trasferita in Beozia. Anche Cadmo
rientra nel movimento degli analfabeti traci a cavallo della guerra di
Troia. E' stato fittiziamente collegato a Mutemuya/Europa mitannica e a suo
padre Artatama I/Agenore, e questi sono stati alla greca, superficialmente,
confusamente (perché nella confusione si può far passare tutto), definiti
fenici. Una volta collegato con Tebe beota Cadmo è servito per spiegarvi
l'introduzione della scrittura alfabetica fenicia, che in quanto tale doveva
per forza risalire al fenicio Cadmo fratello della fenicia Europa, figli del
fenicio Agenore. Come Cadmo, anche Minosse, dai tratti fisici caucasici, fu
sicuramente yahweista (Ehudu-Ya in uno scarabeo del matrimonio di Amenofi III).
La sua mummia (coi capelli biondi come quella di Tuya che però ha tratti
somatici egizi) presenta forti anomalie compositive rispetto a quelle egizie,
tipo le mani unite in preghiera sotto il mento. Il sacrificio umano gli doveva
essere noto come suggeriscono il Sarcofago di Haghia Triada del cenotafio di
Amenofi III/Radamanto, e le nefandezze del Minotauro. E' un signore della
guerra tracio, ma come visir d'Egitto non può venerare il suo Yahweh altro che
sotto l'aspetto di Min, il toro guerriero (da qui il nome di Ehud-Min
sull'Apoteosi), e di Aton, il sole alato di Mitanni. Poiché Ehuduya (lo Yuya
degli egittologi) e Tuya furono sacerdoti di Min (Ehud-Min) ad Akhmim gli egittologi
ne deducono semplicisticamente l'origine alto egizia ovvero nubiana dei
medesimi, mentre i yahweisti colsero l'occasione per cercare di dimostrare che
Min era corrispondente a Yahweh. Erodoto parla di un tempio di Perseo
(fantadiscendente del yahweista Danao eponimo dei Danai del Mar Nero e antenato
del yahweista Eracle, che non ha nulla a che vedere con l'Egitto) che in realtà
è un tempio di Min. E poiché il yahweista Minosse era sacerdote di Min ad
Akhmim/Chemmi automaticamente Min diventa Perseo (Erodoto II, 91).
L'unico legame dei yahweisti (celebrati non solo ma anche nell'intero II
libro della Biblioteca di pseudo Apollodoro, una Bibbia greca) con l'Egitto è quello
del visir yahweista Minosse sacerdote
di Min ad Akhmim. Sua moglie Pasifae/Tuya continua ad essere collegata con la
Colchide del dio Sole, l'Apollo troiano. A Creta Minosse non ci si sarà recato
neppure una volta in tutta la sua vita. Ci avrà inviato, come altrove, i suoi
plenipotenziari. Aveva cose ben più importanti da fare come visir in Egitto, la
regia di controllo del mondo antico insieme a quella dei Tirreni e dei Mitanni.
Erano i Tirreni a regnare a Creta e nell'Egeo, e altrove, e sui loro bastimenti
era issato il grifone del Sole
tirrenico.
Le legioni romane, costituite da Tirreni impiantati
a Roma, si imbarcano a Pyrgi con destinazione il Levante almeno dal tempo del
movimento dei popoli del mare, da Merenptah a Ramses III (fine XIII-XII
secolo), quando è di importanza vitale sconfiggerli, e i Romani vi riusciranno.
Abbiamo qui i primi Argonauti partiti da Pyrgi sulle lunghe navi da guerra dei
Tirreni e che avevano di fronte a sé due vie, attraverso Scilla e
Cariddi/Stretto di Messina come Odisseo, oppure, loro che erano più abili
marinai del loro stesso discendente (perché anche Odisseo, figlio di Sisifo
eolide è tirrenico occidentale e nel poema originario "Viaggio
d'Odisseo" parte da Pyrgi e vi torna), passano dalle Plancte/Stretto di
Sicilia all'andata e ritorno. Solo i
Tirreni argonauti erano ritenuti capaci di fare questa via. Secondo Dionisio
" I Pelasgi erano divenuti migliori di molti popoli nel fare la guerra
perché, vivendo tra genti bellicose, erano abituati ad imprese rischiose ed
ancor più essi erano esperti nella navigazione per aver vissuto coi Tirreni.
" (I, 25, 1, 1)
Dopo la dark age il santuario oracolare di Pyrgi è
dedicato a Ino Leucothea. La sua ipostasi Nausikáa è detta da Omero leukólenos,
“braccio bianco”, e questo è epiteto anche di Hera, che ha protetto il viaggio
che dopo la dark age gli Argonauti compiono riallacciando i contatti con la
terra madre Colchde. In realtà non Hera
è stata la dea tutelare del viaggio di Giasone bensì la stessa Ino, dea locale,
dietro alla quale dobbiamo vedere la romana Juno, etrusca Uni delle lamine.
Dunque dietro a Ino Leucothea si cela Juno Leucothea, assimilata dai Greci nel
caso del tempio portuale di Pyrgi ad
una divinità quale Afrodite Urania, Astarte fenicia (Juno Coelestis). Uni
(moglie di Tinia; Juno era la controparte femminile del dio Jovino), era divinità
folgoratrice, nutrice e madre di Eracle. Dai Romani era assimilata a Juno e dai
Greci a Hera. Avendo per attributo la lancia (Juno Curitis/Quiris sarà prima di
tutto la dea delle curie, elementi costitutivi della tribù in armi, e dunque
armata di lancia) ed essendo cinta alla vita da una pelle di capra, richiamava
anche la dea Atena “libica” di Erodoto (Anath di Gaza, Astarte/Hathor). Juno
Lucina è Ilizia (cf. anche le sette o nove dee Hathor, confrontabili con le
Ilizie). E’ evidente il rapporto fra la dea Ino o Juno Leucothea di Pyrgi e
quella importata dai Romani nella “Filistea”, Anath di Gaza e Afrodite Urania
di Ascalona (che è la bella Elena tirrena, Afrodite Straniera, venerata nel
campo dei Tiri a Menfi di cui parla Erodoto).
Atena Ilia, statua fittile dal
santuario orientale di Lavinio, V secolo.
Dopo
la Dark Age, i Greci tentano di
accreditare origini tirrenico orientali per il santuario di Delo prima e Delfi
poi. Se non che l'Apollo greco è troppo una goccia d'acqua con quello di
Gerusalemme (Yahweh) per ingannarci. Vero è che col tempo s'è calmato e
civilizzato, come del resto anche quello di Gerusalemme. Il fatto è che il
marcio delle origini non si cancella con un colpo di spugna. Rimane nel DNA
pronto a riemergere alla prima occasione. E' un Sole razzista e nazionalista.
Del resto gli Iperborei tirreni citati parallelamente nell'Inno (VII) a Dioniso
avevano già il loro tempio a Pyrgi almeno dagli inizi del XIV secolo, dove
veneravano Ilizia, la dea iperborea (cioè venerata già dai Tirreni orientali)
che aveva aiutato Latona a partorire il Sole, da molto più tempo, e non avevano
certo bisogno di crearne un secondo a Delo o Delphi. Semmai si trattava di
gemellaggi. Io porto i miei denari sotto la protezione della tua banca, tu li
porti sotto la protezione della mia e facciamo scambi commerciali. Le rotte e
le carovaniere per l'Occidente erano in mano ai Tirreni dal XV-XIV secolo,
prima che vi venissero a commerciare "Micenei", Fenici e Greci. Erano
proprio gli Italiani ad avere in mano le rotte, e non solo del Mediterraneo, e
a sapersi orientare e a saper navigare, non come i Greci fai da te che non sono
mai stati in grado di orizzontarsi e navigare davvero, pretendendo poi di aver
precorso tutti, sì, con la fantasia e l'impostura! Dunque con gli accenni agli
Iperborei tirreni i Greci di Delo e Delphi cercano, sia pure indirettamente e
vagamente, di accreditare ai loro santuari il prestigio di un'origine tirrenica
che però non hanno. Dovunque vadano i traci yahweisti/dionisiaci uccidono il
dragone troiano, Posidone/Dagon/Tifone, e così Apollo, insediatosi a Delphi
uccide il serpente Pitone/dragonessa Delphine (pseudo Apollodoro, I, 4, Inno ad
Apollo, vv. 300-301). Dunque semmai è il nemico giurato del Sole dei Tirreni
orientali. Però in età tarda sono i Greci ad avere le leve del potere e così la
loro tradizione finisce per affermarsi come unica e autentica.
Anno 1349 a. C. celebrazione della fondazione di
Roma.
Al tempo dell'Apoteosi di Radamanto/Amenofi III, nel
1349 a. C. la Tirrenia è chiamata Ausonia ed è trattata come Campi Elisi, gli
stessi dove Radamanto secondo la tradizione regna da morto. Il che giustifica
l'ipotesi che presso il tempio di Hathor/Afrodite Urania/Astarte Celeste a Pyrgi e la stessa venerata tardi come Mater Matuta
al Foro Boario a Roma, si tengano delle
cerimonie di apoteosi di Amenofi III similari a quelle documentate a Creta fra
palazzo di Festo e antro dell'Ida. Queste potrebbero coincidere con quelle
della stessa fondazione di Roma.
Secondo la tradizione Eracle giunse a Roma pochi
anni dopo l'arcade Evandro, al quale sono attribuite istituzioni che io
considero di origine egizia, per cui devono risalire ugualmente ad Amenofi III.
Il lituo, il pastorale, con cui Romolo traguarda il cielo, e gli avvoltoi che
avvista, rimandano all'Egitto. Erodoro Pontico narra che anche Eracle esultava
se, in occasione di un'impresa, poteva scrutare un avvoltoio... La loro
comparsa, rara ed eccezionale, ha persino indotto qualcuno ad avanzare la
strana ipotesi che essi siano calati qui da lontano, da qualche altra terra
(Plutarco, Vita di Romolo, 9, 6-7). E
soprattutto all'Egitto rimanda la festa dei Lupercali istituita secondo la
tradizione da Evandro, perché si tratta a mio avviso di derivazione dalla festa
sed ("coda") egizia. La tradizione rende plausibile che questi si
celebrassero nell'area del Circo Massimo, fra Palatino e Aventino, e qui il re romano
(come il faraone egizio al suo trentesimo anno di regno) correndo per tre volte
attorno alle mete dimostrava di aver intatto il vigore che lo legittimava a
regnare. Poiché è il lupo l'animale totemico romano, il re nudo era cinto da un
perizoma da cui posteriormente scendeva la coda del lupo (o forse quella del
cavallo), anziché quella del toro o del leone del faraone egizio. Evidentemente
i Romani tardi non avevano più idea delle origini egizie di questa festa, ma
all'egittologo non possono sfuggire i richiami all'Egitto come il rosso sangue
e il bianco latte, colori dell'Alto e Basso Egitto, con cui vengono bagnate le
fronti dei Luperci (Plutarco, Vita di Romolo, 21, 6) che partecipano in età
tarda alla corsa divisi in due squadre che rappresentano Romolo e Tito Tazio,
gli ultimi successori dei due Penati fondatori (dei Potizi e Pinari), e poi tre
squadre che rappresentano verisimilmente le tre tribù. Le stesse due mete del
Circo rappresentano in origine l'Alto e Basso Egitto uniti sotto il faraone
(poi avranno potuto rappresentare l'unione fra Romani di Tito Tazio e Shardana
di Romolo).
Anche
i Consualia (da condere, fondare), le feste per la celebrazione della
fondazione della città, sarebbero state istituite da Evandro al Circo Massimo,
ma questa volta al centro del Circo Massimo è un altare sotterraneo a Posidone
scotitore della terra, e cioè alla divinità che aveva costruito le mura di
Troia, la massima divinità di Troia. Lo ritroviamo sotto forma di
Dagan/Posidone Uranio fra i segni del sillabario troiano di Festo. (Dagan è
anche dio del grano, da cui Conso dei
Romani che avevano perduto la conoscenza delle loro origini). I Troiani, i
Tirreni orientali, parlavano greco.
Poiché il Disco di Vladikavkaz scoperto in Ossezia del nord, cioè nel Caucaso,
presso la Colchide, fra Mar Nero e Mar Caspio, è simile al Disco di Festo,
conferma l'origine tirrenica di questa scrittura e lingua. Minosse fu il visir
yahweista di Tuthmosis IV e Amenofi III e il marito di Tuya/Pasife che la
tradizione lega alla Colchide e dunque agli Iperborei. I giochi gladiatori e i
supplizzi fantasiosamente congegnati nel circo o nell'anfiteatro dai Romani
devono avere come archetipo i giochi pericolosi e mortali, dalle taurocatapsie
al pugilato, alle vittime del Minotauro, offerti al pubblico cretese da
Minosse. La tradizione attribuisce ad Evandro l'introduzione in Italia
dell'alfabeto greco e della musica ricavata da strumenti quali la lira, il
trigone, il flauto (Dionisio I, 33, 4). E' evidente che a Roma la lingua greca
fu introdotta da subito, con la fondazione che risale almeno al tempo e sotto
il patronato di Amenofi III/Eracle, per
cui insieme alla lingua fu introdotto anche il sistema di scrittura
pittografico di Troia (Disco di Festo).
Con questa scrittura deve essere stato introdotto in Italia, a Roma, il
poema epico. In onore di Posidone, dio dei cavalli e del grano (Dagan) si
tengono al Circo Massimo corse di bighe e quadrighe. Io credo che almeno fino
all'età dei re i Consualia abbiano coinciso coi Giochi Secolari. Nei Consualia si celebrano matrimoni e così
anche in quelli indetti da Romolo nel 749, si celebrarono matrimoni fra le
romane ("sabine") e i lancieri (curiti/quiriti, i "romani")
shardana. I matrimoni dei tirreni (come degli slavi che ne hanno preso il
posto) avevano per tradizione la forma esteriore del ratto.
Il sistema dualistico egizio-troiano: Potiti e
Pinari, Penati, rex e augur.
Nel momento in cui i Troiani fondarono Roma, vi
portarono ovviamente le loro istituzioni. Una volta stabilita la sede del potere
politico e religioso sul Campidoglio (dove poi fu costruito il tempio di
Giunone Moneta, i cui resti sono visibili nel giardino dell'Ara Coeli) questa
rimase sempre la sede del re, fino a Tito Tazio. A Troia al potere monarchico
di un Priamo e suo figlio Ettore al comando dell'esercito si contrappone
un'autorità profetica come quella di Polidámante figlio di uno degli anziani
della città, Pántoo. I penati (due giovinetti seduti che impugnano lance, opera
di antica fattura) che Dionisio poteva osservare personalmente fra l'altro in
un tempio della Velia, non lontano dal Foro, lungo una viuzza che conduceva
alle Carine, erano la rappresentazione dei due reggenti troiani, che poi la
tradizione ha perpetuato con una paretimologia nelle figure mitiche di Romolo e
Remo. Fin dalle origini Roma doveva reggersi su una magistratura dualistica in
cui al re vero e proprio (Amulio, Tito Tazio) faceva da contrappeso la carica
di peso politico di un augure o pontefice massimo (Numitore, Romolo, che
secondo Plutarco "era esperto in sacrifici e in arte divinatoria"),
che poteva opporre divieti a che si compisse il tale atto politico (o
dichiararlo nullo) nel tal giorno dichiarato "nefasto". Nella
tradizione della fondazione di una città dobbiamo vedere la coppia augure-re
agire insieme, il primo col lituo ha traguardato il templum e tratto il
responso favorevole alla fondazione, il secondo alla guida di una coppia di
buoi traccia il pomerio. Sul cippo del
Lapis Niger del tempo di Tullo Ostilio sono menzionati il rex e il kalator, e
questo deve essere il sacerdote augure. E' evidente che i Troiani che fondarono
Roma sul Campidoglio e sui colli circostanti vi portarono il culto di
Posidone/Dagon scuotitore della terra (Dionisio II, 31) cioè lo stesso dio che
aveva fondato le mura di Troia veniva preso a protettore anche della colonia di
cui gli ecisti tracciavano il fossato.
Anche se Polidámante ha ragione e Ettore torto, e
proprio per espiare il suo torto resterà fuori delle mura di Troia in balìa di
Achille, è evidente che l'augure poteva
far passare per volontà degli dèi i suoi propri interessi politici. Così
Romolo, che agognava al potere (aveva le sue buone ragioni, in quanto si
accorgeva, da Focea in Ionia asiatica, da cui proveniva secondo la Stele di
Lemno, che l'impero dei Tirreni si veniva liquefacendo sempre più ad opera dei
Greci che si espandevano in tutto l'Oriente un tempo sotto i Tirreni orientali,
ed occorreva dunque un comando unico, deciso a sostenere guerre continue, per
arginare la situazione almeno in Italia), arrivò a suscitare la rivolta delle
truppe mercenarie shardana, yahweiste (affini alle truppe "tirie"
acquartierate presso Menfi di cui parla Erodoto), impiegate in azioni di
polizia fluviale e a guidarle contro Tito Tazio riuscendo alla fine a diventare
re a suo fianco per cinque anni e poi, ucciso da stranieri latini Tito
Tazio, fondando la monarchia. Romolo
come pontefice massimo o augure aveva la sua residenza sul Palatino (presso le
scalae Caci, nelle vicinanze della discesa che conduce dal Palatino al Circo
Massimo; si tende a identificarle col tratto terminale della salita che dava
accesso all'aedes Victoriae), mentre sulla groppa occidentale (il Germalo), che controllava il Tevere, erano
stanziate le truppe di polizia fluviale shardana. Io credo che la cosiddetta
Roma quadrata altro non sia che il castrum del Germalo (R. Bloch, Le origini di
Roma, Newton Compton, pp. 49 e 53) dove
erano acquartierate le truppe shardana. Ritengo che Germalo derivi da gerim-al
(dall'aramaico – perché a questa data i futuri ebrei parlavano aramaico –
plurale con terminazione aggettivale indigena etrusco-latina) che significa il
luogo degli "stranieri" (con una sfumatura anche di "convertito
al, seguace del yahweismo" che non guasta dato che gli Shardana sono yahweisti),
dove sono acquartierate le truppe straniere shardana.
I
poemi epici sulle guerre contro i popoli del mare in Egitto e in Palestina e la
“guerra di Troia” omerica.
Certamente
in tutto il Vicino Oriente e nella stessa Ausonia d'età micenea esistevano
poeti di corte che celebravano le imprese cavalleresche dell'aristocrazia
guerriera e dei singoli eroi immediatamente dopo che erano state compiute
" perché quel canto più lodano gli uomini, che agli uditori suona
intorno più nuovo " come afferma Telemaco (Od. I, 351-352). Circolarono
sicuramente poemi epici sulla guerra di
contrasto all’invasione dei popoli del mare dell’Egitto (Sette contro Tebe ed
Epigoni, incentrati sulle gesta di Tideo e Diomede) e sulle gesta della guerra
di Palestina dalla piana di Israel a Bet-Shean, a Rama (Roma seconda), sulle
fasi finali in cui venivano sonoramente battuti gli Iefte/Deucalione e i
Sansone, sull'epica battaglia finale di Afèq, sui postumi della guerra fino
alla ribellione di un Saul, al ritorno a Roma di un Enea, fino all’affermazione
del potere di un romano ormai solo di lontane origini come Davide, brigante
mafioso e poligamo come suo figlio Salomone. Ovvio che il centro privilegiato
di questa epica sia stata la stessa Roma dove i signori della guerra tornando facevano la loro relazione alla
duplice magistratura e i reduci narravano le imprese cui avevano partecipato ai
familiari e conoscenti.
A
Roma e nei suo circondario, dovunque sia una sede reale o un palazzo
aristocratico, risuonano le gesta degli eroi cantate dalla casta di maestri di
palazzo, i cortigiani letterati
tradizionali nella civiltà italica. La poesia epica è il codice delle belle maniere, del Galateo, dei valori morali e
cavallereschi della civiltà aristocratica ed è rivolta non tanto agli uomini
d’arme quanto ad intrattenere le dame
la cui vita è limitata al palazzo o poco più.
Omero
è solo l’ultimo, certo assai grande (non abbiamo basi per affermare che sia
stato il più grande), esponente di questa casta, ed ha cantato alla corte di
Numa Pompilio e Tullo Ostilio, quando il cippo del Lapis Niger ormai in latino
mostra che la stagione della lingua greca a Roma è finita.
Non c’è mai stata una guerra di Troia (la città è
stata distrutta intorno al 1240 da un violento terremoto e da un incendio
divampato accidentalmente per conseguenza; e l’esodo degli sfollati non ebbe nulla di epico).
Enea
giunse a Roma, direttamente, (alla fine delle guerre di Palestina contro i
popoli del mare) imbarcandosi nel porto di Dor, in mano ai Tjekker/Teucri. Se fosse davvero avvenuta una guerra
di Troia come quella narrata da Omero conclusasi con l’incendio della città e
la sua depredazione da parte degli Achei,
la tradizione ci parlerebbe
dell'arrivo sulle coste laziali, con Enea, di vecchi, donne e bambini scampati
all’olocausto, analogamente alle scene dell'esodo dei popoli del mare sui
monumenti egizi, che su carri tirati da buoi si portano dietro le famiglie.
Viceversa nella tradizione di Livio e Dionisio è evidente che sulle coste
laziali giungono guerrieri di professione su veloci navi da guerra. Se " I
Romani tutti sono sicurissimi della venuta di Enea e dei Troiani e lo
testimoniano le loro celebrazioni con sacrifici e festività, i libri sibillini
e gli oracoli pitici e molti altri elementi che nessuno potrebbe disprezzare
come se escogitati a scopo di convenienza. Anche presso i Greci sussistono
tracce significative, ancor oggi... " (Dionisio I, 49, 3), allora possiamo
solo immaginare che Enea signore della
guerra tjekker/romano in Palestina, finita la guerra, abbia guidato a Roma i suoi reduci marinai e fanti di
marina troiani e romani. Dunque le cinquanta famiglie romane che vantavano
origine troiana (Varrone, De Familiis Troianis; Dionisio d'Alicarnasso, I, 85,
3) potevano essere quelle dei reduci dalla guerra palestinese o, ancor più logicamente, quelle che avevano
fondato la città sotto Amenofi III/Eracle.
Al fine di
intensificare i rapporti commerciali col mondo greco Omero è chiamato
dai re di Roma a comporre poemi in greco che celebrino l’invasione dei popoli
del mare (e dunque la “guerra di Troia”) del 1178 anno 8 di Ramses III (siamo
praticamente al 1182 o 1184 della datazione tradizionale della “guerra di
Troia”) come anello di congiunzione fra colonizzazione micenea e colonizzazione
greca. I Greci sono contenti perché se ne fa una magnificazione epica
ricollegandoli ai Micenei, e i Romani altrettanto, perché nelle banche di Ino
Leucothea a Pyrgi e Mater Matuta al Foro Boario affluiscono i quattrini. I
Greci non hanno nulla a che fare coi Micenei, se non per il fatto che i loro
antenati traci hanno distrutto la civiltà micenea. Ma il cantore di palazzo ai massimi livelli come Omero è anche
maestro di diplomazia, cioè di menzogna. E così i Greci omerici sono di
tendenza belli, forti, leali, eroici, furbi, mentre i Troiani, meno belli, meno forti, perfino sleali (Teucro
che colpisce Menelao con una freccia ed interrompe il duello che da solo
deciderebbe sulla restituzione o meno di Elena e scongiurerebbe la guerra di
Troia), codardi, stupidi (bisogna essere veramente stupidi per buttar giù le
mura di Troia e portarvi dentro un enorme cavallo di legno cavo – regalo degli infidi Greci – senza averci prima guardato dentro).
Dunque Omero crea o perfeziona una leggenda artificiosa
già circolante sulla guerra di Troia e per darle sapore di realtà si ispira ad
un poema sulla battaglia di Afèq (scritto da un suo collega o perfino antenato
romano), in cui la coalizione degli aggressori popoli del mare yahweisti traci
(Achei, Pelasgi, Danai) fu sbaragliata dalle
legioni romane guidate da generali passati alla tradizione col nome di
Tideo, Diomede, Saul, Enea. Essi rapirono l'arca/Criseide degli Shardana e
distrussero il quartier generale di Silo, la peste inviata dal dio della peste
Yahweh fece il resto.
L'epopea omerica
è l'apoteosi del mondo antico, il mondo degli eroi, sparito come
un'Atlantide, cui è seguita la difficile età del ferro che Omero non ama (né più né meno di Esiodo) ma
che comunque nel Lazio ha dato vita all’esplosiva civiltà orientalizzante che
rinnova i fasti dell’età eroica. Dunque Omero cala la sua guerra di Troia nel
tempo d’oro della civiltà micenea e di Troia VI. E’ l'epoca degli Ahhiyawa/Achei che, come abbiamo già
veduto, partendo da attacchi esterni (non dalla Grecia e nemmeno con una
spedizione navale da invincibile armata) alla fine si stabiliscono nella
Troade. Nei poemi omerici, sia pure marginalmente, vi sono accenni tanto agli
Egizi che agli Ittiti come grandi potenze lontane. Achei e Troiani partecipano
di una stessa civiltà progredita, cavalleresca, che unisce fra loro i
rappresentanti dell'aristocrazia. Al tempo di Mursilis II (1345-1315 ca.) i principi ahhiyawa, con
quelli ittiti, imparano la nuova arte della guerra coi carri di Kikkuli, alla
corte di Hattusas (J. Lehman, Gli Ittiti, Garzanti, p. 220). I nomi dei
protagonisti principali e secondari della guerra di Troia sono piluccati a
destra e a manca e non hanno nulla di storico, se non appartenere genericamente al tempo finale di Troia VI. Un
Attarsiyas ahhiyawa/Atreo acheo o un Alaksandus di Wilusa/Alessandro Paride di
Ilio o un Piyamaradus di Millawanda/Priamo di Mileto sono solo generici e falsi
riscontri di una guerra di Troia omerica. Generici perché suggeriscono, questo
sì, l'esistenza di genti “achee” nella Troade. Falsi perché nessuno di questi
personaggi è legato a Troia. Che Omero possa aver piluccato anche fra i nomi di
costoro per intessere la sua favola è possibile e anche probabile, ma si tratta
appunto di collage artificiale. E' logico che la critica antica si sia
cimentata a verificare la storicità all'interno dei poemi omerici, e non deve
sorprendere l'affermazione del dotto del VI secolo Stefano di Bisanzio che
Elena e Paride nel viaggio verso Troia si incontrano in Caria con Motylos. Ed
era re degli ittiti, in quell'epoca, Mutalli, cioè Muwatallis appunto sul
finire di Troia VI.
E'
Omero a contrapporre artificialmente, per la loro assonanza coi Greci
posteriori, Ahhiyawa/Achei e
Troiani/Ittiti, che invece erano un’aristocrazia cavalleresca in rapporti
amichevoli. E' un dato di fatto che
letterati e studiosi di varia estrazione,
interpretando Omero alla lettera, ne traggono il convincimento che i poemi rievocano la civiltà micenea, e
questa può rientrare solo nell'orizzonte
di Troia VI di Dörpfeld o anche VIIa di Blegen prima del terremoto e
dell'incendio. E' una storia di pura fantasia, irrazionale, com'è tipico delle
favole per bambini. Dov'era la flotta della città signora dei mari? Dove le sue sentinelle in mare, le sue spie,
quando l'invincibile armata greca sarebbe piombata a Troia portandovi la Grecia
micenea in armi? E poi, una guerra per una donna, fosse anche la più bella del
mondo! Ma proprio la dama contesa era il tema più scontato di tutta la poesia curtense
che aveva al centro la donna, per ottenere la quale, nel caso della bellissima
e infedele Elena, valeva la pena non un duello all’ultimo sangue, bensì lo
sterminio di popoli interi, l’olocausto
dell’intero mondo antico, perché non è solo la città più antica e ricca del
mondo a sparire, ma gli stessi Greci che l’hanno distrutta, che se non sono
morti a Troia sono morti sul mare nella via del ritorno, o tornati a casa,
uccisi a tradimento dalla moglie infedele, o sono stati costretti a riprendere il
mare per altri lidi. Tutto ciò perché non valeva la pena sopravvivere alla fine
di Troia e dell’età degli eroi. La Roma omerica e orientalizzante è medievale
ante litteram nel senso buono della poesia dei trovatori.
Secondo Omero "nemmeno il banchetto splendido
darà più gioia, quando il peggio la vinca " (575-576). Tucidide ricava la falsa impressione che
Omero non abbia mai avuto alcuna concezione degli Elleni (cioè dei Dori e
compagnia bella) come popolo in sé (I, 3, 2). Ne ha avuto concezione (nell'Odissea
parla dei Dori come uno dei cinque popoli di Creta), ma proprio per questo li
rigetta perché barbari, perché anche se non sono stati causa della fine non cavalleresca di Troia
(bruciata in seguito ad un incendio causato da uno spaventoso terremoto) sono
stati causa con le loro incursioni e spedizioni della fine del mondo civile e dell'inizio dei secoli bui. Hanno precipitato il mondo nel buio del
medioevo (medioevo anche inteso nel senso di buio della ragione che genera
mostri; di yahweismo).
La scrittura alfabetica da Biblo.
E’
evidente che a Roma i cantori di corte anteriori ad Omero di XIV-XII secolo
hanno potuto scrivere i loro poemi nella versione corsiva della geroglifica
troiana attestata dal Disco di Festo. Ho evidenziato come la catastrofe naturale
ed umana che inizia nella seconda metà del XIII secolo segni una rottura col
mondo antico, rottura che porta alla ribalta l’età del ferro, arma decisiva
insieme all’organizzazione e disciplina delle legioni romane per la sconfitta
dei yahweisti. Ma insieme al ferro è la scrittura alfabetica a venire alla
ribalta. La scrittura alfabetica è solo uno strumento democratico per
trascrivere una cultura, qualsiasi
cultura; non si porta necessariamente dietro una determinata cultura. Il poema
epico è già stato importato a Roma dai Tirreni orientali (troiano del Disco di
Festo) col patrocinio di Amenofi III/Eracle. I Romani dell’élite aristocratica
hanno la loro formazione completa, militare e letteraria.
La tradizione ci dice che Romolo
(con lo spurio Remo) fu educato a Gabii, alla greca (Dionisio include
nell'istruzione certo anche il canto di componimenti in versi: "si
insegnarono loro le lettere, la musica e l'uso delle armi greche finché non
divennero uomini"), e a Osteria dell'Osa, necropoli di Gabii, sulla via
per Preneste, è stata rinvenuta (tomba 482, del 770 circa) una fiaschetta con
cinque lettere incise di un tipo greco. I kléa andrôn (le clarorum hominum
virtutes) cantati da Achille tirreno allietarono i Romani delle origini nei
banchetti, accompagnati dal flauto, come tramanda Catone nelle Origini
(Cicerone, Tuscolane, I, 2).
L'educazione di Davide signore della guerra di
pretese ascendenze romane, è la stessa attestata per Romolo. Davide è
"ottimo citaredo, forte e valoroso, abile nelle armi, buon parlatore...
Saul... lo fece anche suo scudiero. " (1 Samuele, 16, 18 e 21)
Disgraziatamente Davide non mi pare contemporaneo di Saul, che deve essere
vissuto a cavallo della battaglia di Afèq (1178 ca.). Se i Romani fossero stati
ancora in Palestina al tempo di Davide, voglio dire al pieno delle loro forze
come dovevano essere ancora al tempo del Viaggio di Unamon, all'inizio dell'XI
secolo, Davide avrebbe fatto una fine peggiore di Saul, e questa volta il
trionfo i Romani lo avrebbero celebrato, e volentieri. E tuttavia, poiché
sarebbe irrealistico attribuire ad un
Davide di X secolo (plebeo semita e poligamo, sicuramente poco acculturato se
non nell’uso delle armi) una qualsiasi formazione umanistica come quella invece
attribuitagli, questa formazione doveva corrispondere a quella di gente come
Tideo, Diomede, Saul, Enea, quando ancora i signori della guerra arrivavano via
Pyrgi da Roma. Se il ragionamento è corretto, nel XII secolo un Tideo, un
Diomede, un Saul, un Enea, scrivevano la scrittura troiana del Disco di Festo e
conoscevano l’epica tirrenica.
I Tjekker, “pirati” tirreni.
Ancora
nel 1080 ca. (Viaggio di Unamon), con le loro imponenti squadre navali (su cui
certo è issato il glorioso grifone
iperboreo degli Atlantidi tirreni) i "pirati" (così chiamati dalle
fonti egizie) Tjekker/Teucri, Troiani, pattugliano la Fenicia tenendola in soggezione. Ma certamente anche
la Palestina, se la loro base navale è, strategicamente, a Dor, al centro della
loro area di influenza fenicia a nord e palestinese a sud. Se sulla terraferma
ci sono i Fenici a nord (però è curioso che il principe di Biblo si chiami
Tjekker-baal), al sud ci sono i Romani (alias Filistei biblici). Continuano
a pattugliare la regione nell'iniziale
XI secolo con i nervi a fior di pelle preoccupati che dall'incendio domato non si riaccendano focolai di ribellione yahweista
(è Erodoto stesso ad informarci che i santuari oracolari yahweisti di Dodona e
dell'oasi di Siwa derivano da quello di Ammone a Tebe di cui è sacerdote Unamon;
e anche Amenofi III e suo figlio Amenofi IV combatterono inutilmente contro la
strapotenza malefica del clero di Ammone, che poi l'ebbe vinta). Al sud i
problemi li creano capitani romani
ribelli all'asse Troia-Roma, come Saul. Come accade a tutti i sistemi di
governo, alla lunga degenerano. Questi generali cui è stata data l'autonomia
operativa indispensabile e troppo potere in mano, alla fine si sono resi conto
delle loro potenzialità e sono divenuti un potere nel potere (è l'età
paragonabile ai Mario e ai Cesare). Finita la guerra, Saul non fa come Enea che
se ne va a Roma coi suoi reduci (Troia è distrutta e vale la pena rifarsi una
vita nella città che ora è diventata la più importante fra quelle dei tirreni),
bensì ritengono, spinti certo anche dal sollevamento delle milizie, che a Roma
hanno sempre avuto il loro peso, di crearsi un proprio feudo indipendente in
Palestina. Saul rientra perfettamente in questo schema, tuttavia rimane nell'ambito di una dignità romana,
vecchio stampo, fino alla morte,
ciò che è le mille miglia lontano da Davide a proposito del quale il meglio che
si possa dire è che incarna a meraviglia
il Principe di Machiavelli.
Entrambi rimangono
anti-yahweisti e veneratori
di Posidone troiano e romano (Saul interroga la pitonessa di En-Dor, 1 Samuele,
28, 7ss; dietro a questa tradizione va visto il culto di Posidone/Dagon, non
certo quello dell'Apollo di Delfi; Davide non porterà mai l'arca, del resto
distrutta ad Afèq, sotto una tenda a Gerusalemme, bensì nominerà sommo sacerdote
Sadòq – 2 Samuele 20, 25 – probabile
veneratore, se è mai esistito, del Posidone romano).
Saul cerca di costruire uno stato. Davide scorrazza
per la Palestina depredando come un brigante senza guardare in faccia nessuno,
se si tratti di nemici o di amici. I Romani di Enea se ne sono andati già via
dalla Palestina, altrimenti avrebbe fatto la stessa fine di Saul. Davide deve essere vissuto alquanto dopo Saul e
dunque rimane nella sua cronologia
tradizionale. Salomone sarebbe
finalmente riuscito a creare uno stato stabile ed esteso (ne dubito ma in ogni caso questa è la
tradizione di Gerusalemme) divisosi in due (Israele a nord e Giuda a sud) dopo
la sua morte. Dalla seconda Roma/Rama di Samuele, dai signori della guerra
romani o di discendenza romana che la metastoria giudaica ha ricordato come re
di Israele nasce lo stretto legame fra Roma e Giuda, fra Roma tutrice e
Gerusalemme tutelata. Si noti la curiosa storia di gemellaggio Roma/Giuda. Giuda,
capostipite dell'omonima tribù,
vivendo lontano dai suoi fratelli, s'è alleato coi Cananei (e infatti i
Romani protessero Canaan dalle devastazioni dei popoli del mare), e dalla
"prostituta" Tamar (/Ramat, cioè Roma) ha due gemelli, Perez e Zerach
(Genesi, 38; i figli di Perez sono Chezron e Amul/Camul; i figli di Zerach in 1
Cr. 2,6). Perez è l'antenato del lontano discendente dei signori della guerra
romani Davide, la cui genealogia è: Perez, Chezron, Ram, Amminadab, Nacson,
Salmon, Booz (che da Tamar genera),
Obed, Iesse, Davide (Rut, 4). E che dire del falso Mosè
tratto da una cesta arenatasi fra i giunchi del Nilo come nella falsa storia
del realissimo Romolo re di Roma? Ma Roma non venera Yahweh, anzi gli dà la
caccia, bensì Posidone troiano e romano (raffigurato nel segno 50 del sillabario
troiano), e lo tutela anche a Gerusalemme, o piuttosto a Rama/Roma, tanto che i
sacerdoti yahweisti dovranno contraffare la storia chiamandolo Dagon (del resto
si tratta di una divinità ambientata in Siria dal III millennio e dunque fin
dagli inizi nota anche a Troia) e attribuendolo ai Filistei/Pelasgi che nel
frattempo i Greci, come abbiamo veduto, consideravano ambiguamente elleni di
stirpe (mentre Erodoto li considera giustamente anelleni e di lingua lemnia).
Dunque dietro ai Tjekker/Troiani ma anche Romani
riaffiorano alla storia i pirati Tirreni che la tradizione greca aveva lasciato
vaganti in un nebbioso e mitico Egeo
per servirsene – ora che i Romani avevano perduto la
coscienza di quanto grandi erano stati – contro Etruschi e Romani tutte le volte
che occorreva per farli sentire in
soggezione, mentre i predoni erano loro che via via cacciavano dalle loro sedi
i Tirreni dall'Oriente del Mar Nero fino all'Occidente tirrenico (depredando – danno incalcolabile per la storia di Roma
– il santuario di Pyrgi nel 348 a. C.),
tanto che Roma per sopravvivere e ricominciare daccapo il suo secondo impero
(l'unico universalmente noto di Roma) dovette farsi repubblicana e latifondista
da monarchica e industriale che era.
La faccia tosta dei
Greci (in questo caso per la verità Macedoni) raggiunge il culmine nella tradizione di Strabone (5,3,5). Gli
Anziati, soggetti a Roma, compivano azioni di pirateria di concerto con i
Tirreni (qui ovviamente intesi come Etruschi). Prima Alessandro aveva inviato a
Roma le sue rimostranze, poi Demetrio Poliorcete, consegnando ai Romani i
pirati che aveva catturato, " fece
presente che se li favoriva, per
l'affinità che vi era fra Greci e Romani, riconsegnando i colpevoli, d'altro
canto non riteneva giusto che essi
avessero il comando in Italia e, nello stesso tempo, mandassero fuori del loro
ambito politico spedizioni piratesche, o che, avendo costruito un tempio nel
Foro dedicato ai Dioscuri, che tutti chiamano salvatori, vi praticassero i
culti ma, contemporaneamente, mandassero uomini a compiere predonerie proprio
in Grecia, la patria di quelle divinità. " Ne riparleremo quando dirò
anche dei Dioscuri.
Enea troiano, dunque di lingua greca, reduce dalla
Palestina, potrebbe aver introdotto a Roma nel XII-XI secolo l'alfabeto, da
poco derivato da quello fenicio di Biblo. Il sacerdote Unamon si reca a Biblo nel 1080 ca. per procurarsi il legno di cedro per la
barca processionale di Ammone a Tebe. Analogamente secondo 1 Re 5,15 Hiram di
Tiro era in rapporti con Salomone e lo era stato pure con suo padre Davide, e
Salomone richiese appunto a Hiram di Tiro il legname di cedro e i carpentieri
per la costruzione del suo tempio a Yahweh (1 Re, 5, 20 e 32). Senonché
era Biblo, non Tiro, la città da cui
provenivano i carpentieri (1 Re, 5,32) e anche
Ezechiele (27,9) conferma che i carpentieri navali venivano da Biblo.
Dal testo romanzesco del viaggio dii Unamon si evince che per tradizione il
legno di cedro per la barca di Ammone veniva fornito dal principe di Biblo, il
quale conservava registrazione (da almeno un secolo certo in alfabeto fenicio)
delle consegne fatte dai precedenti principi di Biblo ai predecessori di
Unamon. Se Davide fu davvero in
rapporti con un re fenicio, doveva essere il re di Biblo. Forse Saul può essere
stato contemporaneo di Ahiram di Biblo, di cui abbiamo il sarcofago con il più
antico alfabeto fenicio. A quest'epoca,
inizi del XII secolo, deve risalire la tradizione fenicia, di Biblo.
Nestore di Pilo a Roma.
Più o meno al tempo di Enea alcuni Neleidi di
Pilo, attaccata via mare e distrutta da
pirati shardana sulla via verso la Sardegna cui daranno nome, si rifugiano essi
pure a Roma in quanto Pilo è città tirrenica (nel palazzo sono affrescati i
grifoni). Trovo scritto che il palazzo di Pilo è stato distrutto nel 1200.
Azzardo una datazione più adatta non solo alla mia ricostruzione ma anche alla
tradizione, e dunque 1150. La tradizione colloca l'assalto piratesco di Eracle
a Pilo verso la fine della vita di questo personaggio e dunque sul finire del
movimento dei popoli del mare (pseudo Apollodoro, Biblioteca II, 7; Iliade XI,
689-693). Se non i Tjekker, i Troiani greci di Enea reduci dalla Palestina,
almeno i Neleidi di Pilo (secondo Marinatos originari di Creta orientale, Gurnia
e Kato Zakros, abbandonate dopo l'eruzione del Thera) possono aver introdotto a
Roma l'alfabeto (ipotizzando che questo fosse stato da poco introdotto a Pilo e
trascritto su materiale papiraceo o
ligneo andato in fumo con l'incendio, mentre le tavolette contabili in Lineare
B su argilla si sono conservate) e la poesia curtense “micenea” modellata su una lingua artificiale che
contiene tutte le sfumature che noi a
posteriori individuiamo come dialetto ionico, con forti eolismi e perfino
atticismi. Non è certo casuale che alcuni documenti epigrafici (coppa "di
Nestore" da Pitecusa, cioè Italia, datata 735-720, e cioè assai prima
dell'Ira di Achille, che è del 649 a. C.) ed iconografici (il
"cantore" affrescato nel palazzo di Pilo) legati alla poesia omerica
rinviino a Pilo (fra le sette città che si contendevano d'aver dato i natali a
Omero), e nello stesso tempo a Roma, all'Italia.
Nestore di Pilo da tempo mi
appare personaggio chiave della tradizione omerica. Innanzitutto quello di Pilo
mi appare archeologicamente come regno tirrenico (nel palazzo di Nestore sono
dipinti dei grifoni, come a Cnosso e a Tarquinia). Nestore è la memoria storica
dei micenei alla guerra di Troia (/battaglia di Afèq, motivo per cui l'ho
ribattezzato agli inizi Nestore di Silo). Nelle sue rievocazioni di scontri
armati egli ricorda gli Etoli di Etolia/Italia (Iliade 23, 633) ed è attraverso
questa citazione che lo ricollego alla storia italica, anzi, romana (perché
dietro Calidone c'è Roma), narrata da Fenice nel libro IX dell'Iliade. Non
Fenice, bensì Nestore, in altre circostanze, sarebbe stato il candidato ideale
a narrare questa storia, dato che Fenice non ha alcun legame apparente con
l'Etolia/Italia (a parte il fatto di essere precettore di Achille che a sua
volta è tirrenico, come ho già detto). Dunque Fenice, in luogo del più
appropriato Nestore, nostalgico laudatore dei tempi passati, ricorda l'assedio
dei Cureti, ovviamente di Cures sabina (non i Cureti o Coribanti di Rhea/Cibele
a Creta), a Calidone/Roma al tempo di Meleagro di Etolia/Italia. Meleagro
assomiglia molto a Coriolano, che però è
troppo tardo. Più realisticamente si può trattare di una variante della
tradizione dell'attacco dei Quiriti/Cureti, ovvero dei lancieri shardana al
seguito di Romolo contro il Campidoglio di Tito Tazio. Così si spiegherebbe
perché qualche autore antico (il poeta
Similo in Plutarco, vita di Romolo, 17,6) abbia potuto associare gli elmi
cornuti degli Shardana a quelli dei Celti, attribuendo a questi ultimi la presa
del Campidoglio.
Ho fatto l’ipotesi della
scrittura alfabetica importata da Enea o da Nestore di Pilo (secondo Dionisio
d’Alicarnasso la scrittura alfabetica sarebbe stata introdotta nella seconda
metà del XIII secolo dall’arcade Evandro, I, 31, 1 e 33, 4). In realtà il declino
del mondo antico fra seconda metà del XIII secolo e inizi dell’XI male si confà
all’introduzione della scrittura alfabetica
nel bacino occidentale del Mediterraneo in un contesto di riduzione dei
traffici dei metalli e di economia in regresso, di legami interrotti fra Roma da una parte e l'Egitto e Troia dall’altra. I
commerci via mare e i centri costieri sono resi insicuri dalle incursioni piratiche. I centri abitati si spostano
su alture difendibili, si dotano
di mura e torri di avvistamento. La vita a Roma continua, con un'economia agricolo pastorale che prevale su
quella metallurgica che ormai non ha
più un mercato. Arroccata sul
Campidoglio Roma può difendersi dalle
incursioni piratiche che risalgono il Tevere e dalla malaria effetto dell'abbandono. Detto con le parole di Dionisio,
" Gli uomini che [Eracle] aveva lasciato ad occupare l'Italia e si erano
stanziati sul colle saturnio [Campidoglio] per qualche tempo si
governarono da soli, ma non molto tempo
dopo adattarono a quelli degli Aborigeni [Sabini] modi di vita, leggi e
cerimonie sacre, così come gli Arcadi, e ancor prima i Pelasgi, avevano messo
in comune con gli Aborigeni la loro patria al punto di essere considerati lo
stesso popolo. " (I, 44,2) Difficile immaginare l’uso della scrittura
troiana o alfabetica in questo contesto. Pertanto in questa fase sarà più
realistico pensare ad una poesia di modeste dimensioni esclusivamente orale.
Pertanto tutto quel che ho detto riguardo a Enea e Nestore di Pilo a Roma potrà
continuare a valere oralmente anche senza l’importazione di una scrittura di
cui in questo momento non si saprebbe cosa fare. Ovvio che nel frattempo si
perde l’uso di qualsiasi scrittura eventualmente introdotta in precedenza,
compresa quella sillabica (troiana del Disco di Festo) introdotta
presumibilmente nel XIV secolo se non prima.
L’alfabeto da Pithecusa.
Posteriormente alla dark age,
quando la civiltà ricomincia a fiorire nel Mediterraneo anche e soprattutto
occidentale, e il mercato dei metalli, specie del ferro, a Roma riprende ad
avere la sua importanza, la scrittura alfabetica viene introdotta per la prima volta da
Ischia-Pithecusa, fondata nel 775 a. C. per lavorare il ferro etrusco, e dove
fu rinvenuta la coppa inscritta, in versi, di "Nestore", del 730-20.
La tradizione di Romolo riporta significativi riferimenti alla relazione fra
Roma e siti (come Cenina) sulla direttrice commerciale congiungente l'Etruria
alla Campania e a Capua, in prossimità di Cuma, fondata intorno al 750 dalla
stessa Pithecusa.
L'alfabeto a Osteria dell'Osa
deve essere stato introdotto da
Pithecusa, semplificando la scrittura senza portarsi dietro, cosa del
resto inverosimile per assenza di substrato, anche la poesia epica. L'epica era già ampiamente coltivata a Roma. Si
tenga presente che verisimilmente la scrittura più arcaica etrusca e romana con
punteggiatura sillabica è il retaggio di pratica scrittoria di tipo sillabico,
cioè marca il graduale passaggio dalla mentalità sillabica alla nuova pratica
della scrittura alfabetica.
Holayes/Romolo della Stele di Lemno e l’asse
metallurgico Romano-Focese.
Fino al tempo di Romolo i Tirreni orientali, ancora per poco in contatto coi Tirreni
occidentali di Roma, hanno mantenuto il
controllo del vecchio asse metallurgico Troia-Roma, che poi, dopo la fine di
Troia, è diventato (lo desumo dalla Stele di Lemno) l'asse Focea-Roma. Ora possiamo spiegarci ciò che altrimenti
sarebbe inspiegabile, e cioè perché Erodoto sostiene che i " Focei furono i primi Greci a compiere
lunghe navigazioni: furono loro a scoprire l'Adriatico, la Tirrenia, l'Iberia e
la regione di Tartesso: non navigavano con grandi navi da carico ma con delle
penteconteri. " (I, 163) I Focei o Focesi ereditano la tradizione dei
Troiani/Tirreni orientali di lingua greca e dunque si attribuisce loro (in
malafede) quello che hanno compiuto i Tirreni orientali. Si noti che anche
Omero, rivolgendosi ai Greci (per lusingarli), impiega il termine di
Feaci/Focei alludendo allo stesso fenomeno. I Focei sono greci di lingua ma
eredi dei Troiani. Anche se parlano in greco con Odisseo senza per bisogno di
interpreti, i Feaci/Focei non sono Greci nel comune senso della parola, bensì
di stirpe tirrenica, troiana, sono assai più antichi e più autenticamente greci
dei Greci. La Stele di Lemno su cui ritengo sia effigiato Holayes/Romolo come
penate, con scudo e lancia, è in lemnio (Lemno è isola sacra al culto di Efesto
metallurgico). Holayes, cioè Silvio (che riecheggia come gentilizio nella falsa
tradizione dei re di Alba Longa: Dionisio I, 70, 3; Livio, I, 3), cioè Romolo
– dice la stele dedicatagli da un
lontano discendente – originava da Focea ed
era stato sacerdote di Efesto Tiiberino a Roma, dove era morto all’età di
55 anni (secondo la tradizione di Dionisio d’Alicarnasso, II, 56, 7; e Plutarco,
Numa 2, 1), per cui se ho ragione a identificare Romolo col personaggio della
Stele, il lemnio marasm av 3ialkhveis avis (cinque da sessanta anni)
e sialkhvis marasm avis (sessanta
meno cinque anni) dovrà confermare questa età.
Trascrizione: Lato A: aker tavarsio / vanala3ial seronai morinail /
holaies naphoth / siasi / marasm av /
3ialkhveis avis / evi3tho seronaith / sivai. Lato B:
holaiesi phokiasiale seronaith evi3tho toverona[l?] / romh aralio sivai eptesio
arai tis phoke[s?] / sivai avis sialkhvis marasm avis ṛomai.
Traduzione A: Aker Tavarsio donò
(questa stele di Lemno) come ufficio funebre. (A. T. il) nipote di
Hylaios/Silvio, defunto, morto a cinquantacinque anni, al servizio di Efesto.
B: A Hylaios di Focea, servitore di Efesto Tiberino, morto a Roma, sacerdote
efestio in rappresentanza dello stato di Focea, morto ad anni cinquantacinque a
Roma.
Dunque,
se ho ragione, Romolo aveva una carica sacerdotale che affiancava e faceva da
contrappeso a quella propriamente regale di Tito Tazio, intorno al dio del
Volcanal, il dio principale di Roma, un dio metallurgico. Efesto deve essere la
stessa cosa di Posidone troiano e romano, noto anche come Vertumno a Roma
stessa e Velkhanos, signore dei terremoti e delle eruzioni vulcaniche e dunque
della metallurgia. Il fatto che
Romolo proveniva da Focea prova che
esisteva una stretta relazione fra colonia
"madre" (ruolo che Focea in Ionia deve aver ereditato da
Troia) e "figlia" (Roma), tanto che poteva essere chiamato da Focea a
reggere Roma un focese, nel ruolo di sommo sacerdote, come contrappeso al re
vero e proprio. Esisteva ancora dunque un'internazionale dei metalli, un'asse
Roma-Focea. Romolo non ha fondato Roma,
bensì la monarchia. Provenendo da Focea, si rendeva ben conto dell'aggressione
greca ai residui del mondo tirrenico orientale, e che presto, senza
contromisure, la talassocrazia tirrenica sarebbe finita per sempre. Pertanto
decise il colpo di stato contro Tito Tazio per rendere Roma una potenza
guerriera di primo piano, in mano ad un solo uomo, capace di decidere tutto da
solo, in tempi brevissimi (da qui anche l'introduzione di quello che anche gli
Americani si inventarono nella guerra di rivoluzione, il minute man), salvando la situazione almeno sul versante
occidentale.
Ho già dimostrato l'esistenza di un autore
precedente a Omero che nei Consualia del 749 a. C., presieduti da Romolo (ormai re unico) al
Circo Massimo, celebrò in esametri (che sono dunque di origine tirrenica) i
"kléa Rhomúlou" che narravano il colpo di stato dell'augure Romolo e l'assalto dei suoi contro il
Campidoglio dove risiedeva il re Tito Tazio (la vicenda che poi la metastoria
creataci sopra nei secoli successivi ci ha lasciato sotto il nome di “ratto
delle Sabine”). L'aderenza della tradizione al testo, utilizzato da Omero per la realizzazione
della fine del XIV (Ettore colpito dal sasso nella battaglia presso le navi) e
inizio del XV libro (contrattacco alle navi), è una prova della correttezza
dell'opinione secondo cui la storiografia successiva si basò su poemi epici ed
eroici che venivano composti subito dopo i fatti " perché quel canto più lodano gli uomini, che agli uditori
suona intorno più nuovo " come afferma Telemaco (Od. I, 351-352).
Naturalmente, basandosi su un componimento doppiamente falso, perché propaganda
del signore al potere e perché abbellito da esigenze letterarie e poetiche, la
storiografia successiva, già di per sé asservita al potere e priva di strumenti
critici, non poteva che finire col narrare favole di cui sarebbe poi toccato
allo storico capace rintracciare il nocciolo di verità.
L’autore dei "kléa Rhōmúlou" potrebbe
essere il nonno o il bisnonno paterno, perfino di stirpe pilia, di Omero. Pilo
era fra le sette città greche che si contendevano d'aver dato i natali a Omero.
Non resta che verificare se un poema in esametri o
comunque in versi sulle gesta di Romolo del 749 circa sia compatibile coi dati
non solo della tradizione ma anche archeologici di questo centro. E la risposta
è affermativa, in quanto alla metà dell'VIII secolo l'abitato raggiunge
"dimensioni del tutto eccezionali" di cui abbiamo traccia dalle
necropoli dell'Esquilino, Quirinale, Porta Salaria, Corso d'Italia,
Portonaccio, S. Croce in Gerusalemme, Porta Latina, e chissà quante altre che
potranno un giorno venire alla luce (L. Quilici, Roma primitiva e le origini
della civiltà laziale, Newton Compton,
p. 269). Le tombe di questo periodo "non hanno nulla a che fare con le
fasi precedenti e denunciano uno sfarzo eccezionale, con la mostra di veri
tesori di oreficeria, di argenti, di oggetti di bronzo in quantità ed a volte
di eccezionali dimensioni, avori ed ambre che spesso vengono importati dalle
più lontane regioni del mediterraneo... non solo dalla Campania e dall'Etruria
ma in gran copia anche direttamente dal mondo greco e fenicio. L'inventario
degli oggetti costituenti questi corredi non pone dubbio che i defunti e le
loro famiglie detenessero nel contesto della società del tempo un eccezionale
potere economico... Prende ora decisa consistenza nel Lazio quell'élite
aristocratica (e quella delle rispettive clientele) che col monopolio della
ricchezza e quindi delle strutture giuridiche ed istituzionali della comunità
tenderanno sempre di più ad accrescere la propria posizione: queste famiglie
privilegiate formano già ora, con la loro fissità, quella che in età storica
sarà la classe senatoria dei patres conscripti... " (Quilici, pp. 268-269)
Il poema epico di Omero, poeta di corte di Numa Pompilio (713-670) e Tullo
Ostilio (670-638), secondo e terzo re di Roma, è perfettamente calato nella
cornice culturale etrusco-laziale orientalizzante, che rievoca i fasti
dell'Oriente egizio coi suoi tumuli più piccoli delle piramidi ma non meno
pieni di tesori, coi suoi palazzi più piccoli di Festo e Cnosso, ma non meno
pieni di vita, coi suoi cantori e poeti, feste, matrimoni, di un'aristocrazia
che aveva i suoi antenati divinizzati che la guardavano dall'alto dei palazzi
di Murlo o Acquarossa come gli dèi omerici dell'Olimpo guardano i propri figli
e protetti che si scannano davanti alle mura di Troia, alla fin fine impotenti,
dèi di cui si ha ben poca paura e rispetto (al contrario del povero e dunque
superstizioso Esiodo), perché qui dèi sono gli uomini che hanno inventato le
istituzioni civiche e il diritto. Come afferma Alcínoo, " sempre, infatti,
gli dèi ci si mostran visibili, quando per loro facciamo elette ecatombi,
banchettano in mezzo a noi, sedendo dove noi siamo; e se un viandante, anche
solo, li incontra, non si nascondono, perché siamo prossimi a loro... "
(Od. VII, 201ss) Altro che capanna di Romolo sul Palatino! Tito Tazio doveva
già risiedere in una Regia, con tutta l'amministrazione che vi ruotava intorno
di documenti d'archivio, leggi, trattati, ordinanze, ecc. Per lo più si parla
di tavolette di quercia imbiancate come supporto del corpus delle leggi sacre
trascritte dai Pontefici per disposizione di Numa Pompilio (Livio I, 32,2) del
trattato tra Roma e Alba Longa al tempo di Tullo Ostilio e Mezio Fufezio
trascritto dai Feziali (Livio I, 24), mentre Dionisio d'Alicarnasso vide coi
suoi occhi il trattato stipulato tra Roma e la lega latina al tempo di Servio
Tullio su una tavola di rame conservata nel tempio di Diana sull'Aventino (IV,
26,4-5). Così si ricordano le primitive liste dei magistrati romani conservate
su rotoli di tela di lino nel tempio di Iuno Moneta (la dea della memoria) sul
Campidoglio (Livio, IV, 7,12) Secondo Dionisio d'Alicarnasso il trattato fra
Romolo e i Veienti sarebbe stato scolpito su pietra (II, 55,6). Ricordiamo
anche il Cippo sotto il Lapis Niger, verisimilmente fatto collocare in origine
da Tullo Ostilio (nipote di Osto Ostilio, cioè Romolo) in occasione di
rinvenimenti relativi alla tomba o monumento di Romolo nella fase della
costruzione della Curia e della risistemazione del Foro per i Consualia del
649.
Della produzione precedente a Omero nulla più ci
rimane dall'originale, salvo frammenti come la battaglia fra “Romani e Sabini”
ed altri che magari un giorno saranno individuati. Omero, l'abbiamo visto, non
è l'unico poeta di lingua greca cui l'Italia abbia dato i natali fino al VII
secolo, ma è certamente l'ultimo e di grandezza incomparabile. L’esametro era
connesso con l’epica troiana, tirrenica. Nemmeno possiamo asserire che sia
stato Omero a creare il poema di grandi dimensioni. In ogni caso i suoi primi poemi (Viaggio di Odisseo e Ira
d'Achille), nati per celebrare il santuario di Ino Leucothea a Pyrgi e mitigare
la crudezza dell'annessione degli Albani a Roma, erano di dimensioni
relativamente modeste prima che lui stesso li ampliasse portandoli alle dimensioni dell'Odissea (con
poche alterazioni degli Omerici greci successivi) e dell'Iliade (con serie
devastazioni degli Omeridi, oltre a numerose aggiunte).
E' significativo che la lingua dei Romani (possiamo
pensare alle sue più antiche origini) veniva considerata affine all'eolico dai
filologi greco-romani. E' eolica la Troade dopo la dark age. Non solo è
inevitabile localizzare fra Pyrgi e Roma le "prime" dei poemi omerici
e il loro autore, ma è assai illuminante, perché deve essere passato un certo
periodo di tempo fra queste "prime" e la richiesta di repliche in altre città greche, e poi di copie dei
manoscritti, anche queste richieste da privati e città. Le copie dei
manoscritti possono risultare alterate in vario modo attraverso il tempo, ma
c'è un certo tipo di anomalie linguistiche di Omero stesso, o fraintendimenti
degli Omeridi greci che lo hanno copiato o imitato, che si spiegano meglio
proprio come diversità lessicali, anche attribuibili ai precursori tirrenici
cui Omero s’è ispirato. Diversità
lessicali fra l'isola linguistica tirrenica (parlante un greco più puro e
arcaico ma in via d’estinzione al tempo di Omero) e la Grecia tutta. Se i
poemi, in particolare l'Iliade (dove si riscontrano soprattutto queste
anomalie), fosse stata scritta nella Ionia d'Asia o in qualsiasi altro ambiente
greco DOC, di tali incomprensioni e refusi certo non ne avrebbe mai presentati.
Mi rifiuto categoricamente di pensare che un Greco (qualsiasi fosse il suo
dialetto materno) non riuscisse a comprendere un altro Greco a distanza di
pochi anni o decenni o a distanza di poche miglia. Diverso è invece il caso se
Omero fu l'ultimo discendente di una famiglia di cantori di Pilo messena o
comunque un tirrenico la cui conoscenza
linguistica del greco fosse limitata pressoché alla poesia epica arcaica ed
artificiale scritta, in via
d'estinzione orale a Roma e dintorni, emergendo ormai il latino (con tratti
eolici) come lingua nazionale e di corte. Come dice Nausikáa di Pyrgi, che parla
in greco a Odisseo senza bisogno di interpreti, " Viviamo in disparte, nel
mare flutti infiniti, lontani... " (Od. VI, 204-205) I poemi omerici,
scritti in greco per un pubblico ellenofono, solo in Grecia potevano avere un
futuro. Raccolti e cantati nelle varie corti greche, essi subirono, in un'epoca
in cui non c'era il rispetto per l'edizione canonica, dei rimaneggiamenti per
immortalare questa o quella dinastia, questo o quel re, questo o quell'Omerida
"virtuoso", o anche solo per successiva non voluta ma fatale
alterazione delle copie manoscritte. Ulteriori manipolazioni possono essere
avvenute anche oltre l'età pisistratide, quando raccolta l'edizione principe,
si delegò il canto dei differenti libri a differenti cantori. Le due opere nonostante tutto rimangono testimonianza immortale del genio che le ha
prodotte.
Il Viaggio d'Odisseo ricalca il viaggio e dunque un
poema epico sugli Argonauti (fra cui i Dioscuri/Tinasclenar figli di Leda di
Etolia/Italia, e Meleagro di Calidone/Roma) partiti da Pyrgi (santuario di Ino
Leucothea) alla ricerca del Vello d'oro della Colchide, terra d'origine, che a
sua volta presuppone la tradizione di Atamante, capo locale, che, sulla base di
un oracolo, ovviamente del santuario di Pyrgi (sicuramente tirrenico e non una
patacca come quello di Delfi), falsamente riferito dagli inviati, corrotti
dalla sua nuova moglie Ino, vuole sacrificare Frisso e Elle, figli della precedente moglie Nefele. Questa mette
i figli in groppa ad un ariete fatato
dal vello d'oro e mentre Elle disgraziatamente
cade nell'Ellesponto, Frisso giunge sano e salvo in Colchide,
sacrificando l'ariete e donandone il vello al re Eeta, che lo fa inchiodare
all'albero del paradiso del Sole dei
Tirreni. La dea Hera, irata, fa impazzire
Atamante, che uccide Learco, figlio suo e di Ino. Allora Ino si getta in
mare, nelle acque di Pyrgi, insieme all'altro figlio Melicerte, divenendo Leucothea protettrice dei naviganti e
Palemone protettore dei porti. Il santuario di Pyrgi era la memoria storica della
tradizione dei Tirreni. Da qui partivano i legionari romani al comando dei
signori della guerra Tideo, Diomede (Sette contro Tebe e Epigoni), Saul, Enea,
che difesero la Palestina dagli assalti dei popoli del mare yahweisti. Oltre a
quelli accennati, una serie di racconti appartenenti agli Eolidi, cioè ai
Tirreni occidentali, ai Romani di Etolia/Italia, erano stati cantati da aedi
locali, in greco: L'Ira di Meleagro e il Cinghiale Calidonio, riassunta da
Fenice nel canto IX dell'Iliade; Leda, Dioscuri, Elena e Clitennestra; Eeta
Circe e Pasife di Colchide; Sisifo Bellerofonte e Chimera; Eolidi sono pure,
via Periere, Tindareo sposo di Leda e Icario padre di Penelope, nonché Odisseo
figlio di Sisifo, ecc., tutti poemi e tradizioni conservati gelosamente negli
archivi del santuario di Ino Leucothea (depredato da Dionisio di Siracusa) che
Omero è chiamato a celebrare col "Viaggio d'Odisseo" dal secondo re
di Roma, il "sabino" Numa Pompilio al momento del suo passaggio sotto
controllo etrusco-romano intorno al 675 a. C.
I Dioscuri devono essere in origine i piloti della
barca solare del mattino e della notte, ed è per questo che si alternano fra
mondo dei vivi e dei morti. Pertanto più che figli di Zeus dovevano essere
figli del Sole. Il loro culto, legato al mare e alla navigazione, a Sparta deve
essere d’importazione. Viceversa a Roma
e dintorni deve essere stato praticato almeno dal tempo di Amenofi III. Il
fatto che le attestazioni documentali siano tarde non vuol dir nulla. Sono
attestati i Tinasclenar della kylix attica da Tarquinia del 500 a. C. e i Dioscuri su lamina di bronzo coeva dai
tredici altari di Lavinio/Pratica di Mare.
Ora mi è evidente l'origine tirrenica della tradizione di Davide machiavellico bastardo signore della guerra di
ascendenze romane che ordina (tramite una lettera sigillata affidata allo
stesso Uria ittito cioè troiano; dunque la lettera fu scritta in geroglifica
troiana) al generale Ioab di inviare
Uria in prima linea affinché muoia, ciò che avverrà regolarmente.
La tradizione tirrenica manipolata dai Greci narra come sia stato Preto a incaricare Bellerofonte di consegnare la missiva che lo
condannava a morte a Iobate di Licia (tramite la Licia siamo ricondotti ai
tirreni, ai troiani). Poi i Greci su questa base hanno elaborato una tradizione
tutta loro incentrata su Perseo che, in groppa al Pegaso di Bellerofonte uccide
la Medusa invece della Chimera. Uria l'ittito vuol dire semplicemente Uria il
tirreno, il troiano. Insomma, Davide è un tardo signore della guerra di
ascendenza o pretesa ascendenza romana che da capitano di ventura senza
scrupoli taglieggia e violenta quella
Palestina che i suoi antenati avevano difeso, pronto a far ammazzare un buon
soldato per sottrargli la moglie e
aggiungerla alle sue molte concubine, e appunto dalla moglie di questo troiano
o romano nascerà Salomone anche lui pieno di concubine e tutto fuorché
yahweista.
Dopo la dark age e la ripresa dei commerci, a
Roma si rende necessaria la polizia
fluviale e marittima a difesa dei traffici sull'acqua, oltre che delle vie terrestri (dagli Appennini al mare
e dall'Etruria propria a quella campana) ancora infestate da pirati e briganti
(i briganti connessi ad Eracle del Campidoglio e ai giovani Romolo e Remo cui
piacciono le risse). Roma non disponeva
più delle legioni che l'avevano resa celebre in precedenza. I Tirreni
orientali, i Tjekker, ora non erano che
un lontano ricordo, e l'Egitto da un pezzo, sotto dinastie libiche, non era più
nemmeno la "canna rotta" che era stato. Roma aveva bisogno di una
milizia esperta come quella ricordata da Erodoto, acquartierata
nell'accampamento dei Tirii presso Menfi al tempo di Amasi, 569-526 a. C.
(Erodoto 2, 112 e 152-154). Ed è assai probabile che si trattasse di yahweisti
shardana, che ancora si guadagnavano da vivere come mercenari, anche ad
Elefantina, fine VI secolo, e in Palestina dall'estremo nord della Samaria all'estremo sud di Kuntillat Ajrud,
IX-VII secolo, nel Negev. Dalla documentazione epigrafica e archeologica
sappiamo che nell’orientalizzante i signori della guerra presenti in Etruria
hanno avuto rapporti con l’Egitto, come il proprietario tarquiniate della
Situla di Bocchoris, un oscuro faraone della XXIV dinastia che
regnò solo dal 720 al
Dunque gli Shardana sono già qui e non c’è bisogno
di andarli a cercare lontano. I bronzetti shardana della Sardegna risalgono
all’VIII secolo e gli Shardana acquartierati al Germalo nello stesso periodo
possono essere scambiati per Galli dagli elmi cornuti. I due magistrati di Roma, già prima di Tito Tazio e Romolo,
devono aver assoldato truppe shardana in loco
dalla vicina Sardegna o anche dalla stessa Etruria, da Vulci, da
Vetulonia (dalla cui tomba del Duce
proviene la nota “Arca di Noè” sarda da me pubblicata su un lavoro
precedente) o da Cere. Fu certamente l’accampamento militare del Germalo (la
groppa occidentale del Palatino) che la tradizione ricorda in modo alterato
come la Roma quadrata di Romolo (Bloch, Le origini di Roma, Newton Compton, pp.
51 e 53).
La storia è non solo il campo
della menzogna politico-religiosa ma anche quello delle metastorie che si
creano nel tempo anche ingenuamente per il troppo passare del tempo e per la
sintesi che alla fine bisogna pur fare,
soprattutto quando la scrittura non è accessibile a tutti come oggi. Il colpo di stato del pontefice Romolo ha avuto come premessa la presa della
rocca capitolina con la complicità, secondo la tradizione, di Tarpea (figlia
del comandante della guardia), che vi fece entrare le truppe shardana scambiate
poi da qualcuno per Galli a causa degli elmi cornuti. Senza la presa della
rocca, Romolo avrebbe perso probabilmente la guerra, considerato che, pur avendola presa, vinse solo per la situazione
di stallo venutasi a creare. La tradizione è nel vero quando dice che
Tarpea tradì Roma (la reggenza di Tito
Tazio), infatti complottò con Romolo (Dionisio II, 39,1) che alla fine riuscì a
diventare signore di Roma sia pure a
parità di diritti con Tito Tazio. Ma appunto per questo, Romolo non l'avrebbe
mai potuta bollare come traditrice.
"Infatti la ragazza fu onorata dove cadde con un monumento funebre e fu sepolta
proprio sul colle più sacro della città; inoltre ogni anno i Romani compiono
libazioni in suo onore (riferisco ciò che scrive Pisone) " (Dionisio, II,
40, 2-3) Il colpo di stato di
Romolo (più male che bene si può
definire una guerra civile, perché gli Shardana erano truppe straniere come lo
sarebbero gli Svizzeri del Papa) si
sviluppò in due battaglie campali di
cui si ricordava soprattutto la seconda
col Biondo Tevere (Xantos dell'Iliade) che era straripato pochi giorni
prima. Romolo/Ettore attaccava le
Carine/navi achee, cioè l'area paludosa del Velabro (che era una diramazione
del Tevere quando straripava; cf.
Plutarco, Vita di Romolo, 5, 4: "Il posto è ora denominato Velabro, poiché
quando il fiume straripava i Romani lo attraversavano proprio in quel punto con
le imbarcazioni per recarsi al mercato.") che separa il Palatino dal
Campidoglio. Avanzava dunque in direzione del Campidoglio (occupato dalle
truppe shardana e dunque prendendo i Romani/”Sabini” nel mezzo), quando è
tramortito da un sasso in testa, perde i sensi e viene portato nelle retrovie.
I "Sabini" (in realtà Romani di Roma) ne approfittano per ricacciare
gli insorti fino al Palatino. Romolo, riavutosi dal colpo, gridando, invoca l'ausilio di Giove (il
Yahweh delle truppe mercenarie Shardana), promettendo di erigergli un tempio a
Giove Statore (che "Ferma", blocca la ritirata e nello stesso tempo
l'avanzata dei nemici). " Al termine della preghiera, come se avesse avuto
la sensazione di essere stato esaudito, disse: "Qui, o Romani, Giove
ottimo massimo vi ordina di fermarvi e di ricominciare a combattere. " E i
Romani si fermarono, proprio come se stessero obbedendo a un ordine piovuto dal
cielo. " (Livio I, 12) A questo punto, i seguaci di Romolo, " serrate
di nuovo le file, respinsero i Sabini sino alla cosiddetta Regia e al tempio di
Vesta. " (Plutarco, Vita di Romolo, 18, 9; Regia e tempio di Vesta nel
Foro Romano). Questa battaglia fatidica, nella situazione di stallo che ne
seguì, si concluse con la celebre interposizione delle “Sabine”/Romane che
separarono i due contendenti, costringendoli a trattare la pace e l'alleanza,
fra Romani di Tito Tazio e Quiriti "Lancieri" shardana di Romolo. Questo, dopo morto, avrà l'apoteosi come Quirino, dio guerriero armato di
lancia (da qui la raffigurazione dei due Penati – in ricordo anche della doppia
monarchia nel quinquennio di Tito Tazio
e Romolo – armati di lancia). A garanzia
del patto di fusione fra Romani e Quiriti stretto con Tito Tazio al Volcanal (sede delle riunioni dei
senatori) presso il Comizio (dove si riunivano le 30 curie che avevano nomi
"sabini", cioè tirreni, romani, cf. Plutarco, Vita di Romolo, 14,7 e
20,3; secondo Tacito – 12,24 – il
Comizio sarebbe stato realizzato da Tito Tazio, artefice dell'unione fra
Palatino e Campidoglio) Osto Ostilio
(detto Romolo) prese in moglie la
romana Ersilia.
L'esortazione (piena di fede
yahweista, che dà per scontato di essere esaudita) di Romolo agli Shardana
"Qui, o Romani, Giove ottimo massimo vi ordina di fermarvi e di
ricominciare a combattere. " viene messa da Omero – che la riprende da un
poema epico precedente – in bocca allo stesso Zeus che si risveglia dal sonno
ingannatore procuratogli con frode da Era, ed ordina: " Ettore alla
battaglia Febo Apollo ridesti, gli infonda ancora vigore, gli faccia scordare
gli spasimi che ora nel petto lo straziano: e invece gli Achei respinga ancora,
susciti fuga codarda; e fuggendo si gettino sopra le navi multiremi... "
(XV, 59ss) " E i Troiani irruppero in folla: Ettore li guidava movendo a
gran passi, e dietro a lui Febo Apollo... " (XV, 306-307)
Dopo quanto ho messo in luce sul
debito che Omero ha nei riguardi dell'autore delle gesta di Romolo è presumibile che Nestore, così legato (tramite Fenice) ai fatti dei Cureti di
Calidone/Roma, fosse già un personaggio delle
gesta di Romolo, risalendo dunque
al 749 circa, motivo per cui la coppa di Nestore da Ischia si
riferirebbe non ad un personaggio dell'Iliade scritta da Omero, bensì
dell'epica romulea o altra comunque anteriore attribuibile ad un suo antenato.
E' evidente che a partire dal
colpo di stato di Romolo gli Shardana fanno sentire il loro peso sulle
istituzioni di Roma, tanto che si parla di Romani e Quiriti (Shardana opliti,
lancieri). I Romani d’ora in poi si chiamano Quiriti all’interno di Roma,
mentre nelle relazioni con l’esterno Romani. Dunque gli Shardana di Romolo
hanno “vinto” senza toccare il nome di Roma che rimane intatto qual era. Le
istituzioni rimangono in prevalenza quelle fondate da Tirreni ed Egizi. Sostanzialmente, a parte la
monarchia unica, solo Yahweh zebaoth/Giove degli eserciti viene introdotto come
divinità superiore a tutte le altre, ma convivente con tutte le altre.
Druidi shardana con trecce e cappello a punta da Teti (Nuoro) e Vulci; e aruspice etrusco (Museo Gregoriano Etrusco)
I tre flamini portano il cappello
a punta dei sacerdoti shardana (bronzetti daVulci e da Teti, Nuoro) e sono
tutti e tre al servizio di divinità guerriere Dialis, Martialis e Quirinalis. Il dio è sempre lo stesso
Jahveh/Giovè importato dagli shardana di Romolo ma è venerato diversamente a
seconda della tribù e cioè dai Sabini del Quirinale e Campidoglio che hanno
appunto Giove e forniscono re (fino ai
re etruschi, ed eccetto Romolo, i re da Tito Tazio in poi saranno sabini e
perciò romani) e sacerdoti latifondisti; dai Shardana del Palatino che venerano
Jahveh zebaoth, “degli eserciti” dunque Marte, e forniscono in prevalenza i
guerrieri; e infine della restante
massa dei Luceri dell’asilo sul
Quirinale, che sono la plebs che fornisce la manodopera sia come braccianti e
mezzadri nei latifondi, sia come artigiani, mercanti, ecc.
Secondo Cicerone (De divinatione,
1, 17) il lituo di Romolo era custodito nella sede dei Salii sul Palatino. I
Salii romani (dodici sacerdoti di Marte che sorvegliavano gli scudi sacri e
nelle loro feste li portavano in processione attraverso la città eseguendo una
danza sacra, la saltatio, e cantando un inno rituale) ricordano le guardie
gerosolimitane che portavano in processione gli scudi di bronzo dal palazzo
(secondo 2 Re, 11, 10 e 2 Cronache 23, 9 erano depositati nel tempio di Yahweh
"lance, scudi grandi e piccoli, già appartenenti al re Davide") al
tempio di Yahweh e viceversa (1 Re, 14, 28 e 2 Cronache 12, 11). I Salii
dovevano essere i sacerdoti e guerrieri shardana veneratori di Yahweh zebaoth
(equivalente a Marte e ad Apollo smintèo, arciere portatore della pestilenza).
Sono tipici dei Saka o Saci dal cappello a punta (Sciti orientali, Massageti)
e del substrato tracio-slavo e
protobulgaro i copricapi conici e due trecce (queste presso gli Avari e i
Celti), che ritroviamo nei due bronzetti di druidi shardana da Nuoro e Vulci.
Così ne parla Dionisio: "
dodici giovani di nobilissimo aspetto; essi conservano i loro sacri arredi sul
Palatio e sono detti perciò palatini... Tutti questi salii danzano e cantano
inni in onore degli dèi della guerra. La loro festa è sul tipo delle nostre
Panatenee, nel mese denominato Marzio, ed è celebrata a spese pubbliche per più
giorni, durante i quali danzano attraverso la città fino al foro e al
Campidoglio e in molti altri luoghi pubblici e privati; essi indossano tuniche
variopinte strette da cinture di bronzo e sopra portano toghe, allacciate con
fibbie, adorne di strisce ed orli di porpora, che chiamano trabee (questa è una
veste tipica dei Romani, tenuta in gran pregio). Sul capo portano i cosiddetti
apici, alti copricapi a forma di cono, che i Greci chiamano kyrbasie. Ciascuno
di loro è cinto da una spada e nella mano destra stringe una lancia o un
bastone o qualcosa del genere, con la sinistra regge uno scudo tracico; questo
è simile a un grande scudo romboidale con i lati piuttosto stretti... prendono
nome dal loro intenso movimento. Essi dicono infatti salire lo spiccar balzi e
il saltare. Per questo motivo, derivandone il nome dai salii, chiamano tutti
gli altri danzatori saltatores, poiché anche le danze di costoro sono
caratterizzate da molti balzi e salti... Si muovono infatti ritmicamente al
suono del flauto, con indosso le armi, ora tutti insieme ora a turno, e mentre
danzano cantano degli inni tradizionali. " (II, 70)
Dopo la sua morte Romolo, legato
ai Quiriti/Lancieri shardana, ottiene l'apoteosi come Quirino. Anche in Etruria
l'arrivo dei signori della guerra Shardana pelagi, popoli del mare (come Aulo
Pelasgo/Feluske a Vetulonia), è tardo, e solo da questo momento si può parlare
di formazione della lingua e civiltà etrusca come cosa a sé differente dalla
precedente civiltà greca di quelli che io chiamo i Tirreni orientali ed
occidentali di Roma.
La tomba di Osto Ostilio detto
Romolo sotto il Lapis Niger.
La tomba di
Romolo al Volcanal appartiene al solo Romolo/Osto Ostilio (Dionisio III, 1, 3)
e non anche a Faustolo o altri. Secondo la vox populi che si sparse in giro,
Romolo sarebbe stato vittima di un
attentato dei senatori di più antica nomina, dunque di "sabini". La
diceria è apparentemente plausibile perché
i re di Roma a partire da Tito Tazio possono finire morti ammazzati e perché il successore di Romolo, Numa Pompilio, non solo è sabino come Tito
Tazio (mentre Romolo viene da Focea), ma anche ufficialmente pacifista e dunque
sulla linea di Tito Tazio e comunque contro la politica bellicista di
Romolo. Tuttavia, se Romolo fosse stato
ammazzato dai senatori, non credo che questi lo avrebbero seppellito –
contribuendo con una tomba meta di pellegrinaggio a immortalare il loro gesto sacrilego – proprio al Volcanal dove si riunivano.
D'altra parte non dobbiamo credere che a questa data il senato fosse composto
da centinaia di persone. Si trattava di quattro gatti che facevano da
consiglieri al tempo di Tito Tazio, mentre al tempo di Romolo erano stati
esautorati. Romolo fu un tiranno, costantemente protetto da una guardia del corpo (come del resto
Davide e Salomone) analoga agli odierni Corazzieri e da specie di vigili o
polizia (non a caso chiamati anche Celeri, da cui il moderno celerini) quali i
littori che respingevano la folla a manganellate. Solo un pronunciamento della guardia avrebbe
potuto toglierlo di mezzo, ed è assolutamente improbabile. Viceversa Romolo sarebbe stato doverosamente seppellito secondo la legge
nel Volcanal qualora vi fosse stato
colpito da un fulmine (secondo l'altra tradizione, quella della tempesta, dopo
la quale, rapito in cielo come la Madonna, non sarebbe stato più visto) e
dunque contaminato insieme al punto stesso in cui il fulmine era caduto. Il
cippo (con iscrizione bustrofedica e
punteggiatura sillabica) del Lapis Niger ricorda come il luogo, di cui
evidentemente s'era persa memoria, sia stato ritrovato da Tullo Ostilio (nei
lavori di rifacimento del Foro, in occasione della costruzione della Curia, 549
ca.), e che la coppia di bianchi cavalli sacri (profetici come quelli presso i
Germani di Tacito; aggiogati al carro sacro) cominciò a deviare dal percorso
(in latino normalizzato: iumenta coepit adhortari ab itinere). Se Tullo Ostilio
e il suo augure avessero semplicemente ritrovato i resti di un monumento a
Romolo la cosa non avrebbe suscitato tanto scalpore. Ed è appunto perché furono
ritrovati i resti mortali di Romolo che
il cippo proclama il divieto di oltrepassare la zona interdetta. Se
dunque ho ragione ad interpretare così l'iscrizione, Romolo fu realmente
colpito dal fulmine e la sistemazione e proclamazione del luogo come
infausto nei secoli successivi conferma
questa versione. Del resto quando la tradizione ci parla dei re di Roma morti
ammazzati lo fa senza reticenze. Allora perché avrebbero dovuto esservi
reticenze riguardo alla morte di Romolo, che oltretutto era giunto al potere
con un colpo di stato e s'era mantenuto al potere violando la Costituzione?
Dagli Shardana gli Ebrei, i Sardi, gli Etruschi e i Romani di Romolo.
Agli inizi del regno di Ramses II
(1279-1212) gli Shardana giungono dal
mare aperto con le loro navi da guerra e nessuno è in grado di fronteggiarli
(stele da Tanis). Di lì a poco gli Shardana (elmi cornuti scudi rotondi e
lunghe spade) entrano a far parte delle guardie del corpo del faraone, impiegate
nella guerra contro gli Ittiti (Gardiner, p. 236).
Dato che gli Shardana costituiscono la legione straniera dei faraoni e che le truppe
mercenarie egizie hanno come dio protettore Reshef zbah "il
combattente", dio della guerra, della morte e della pestilenza, ne deriva
che sono proprio loro gli "Ebrei" che si portano dietro in battaglia
l'arca puzzolente di Yahweh zebahot, signore "degli eserciti". "Due testi di Ugarit (PRU III, pp. 109
e 131) segnalano già nel XIII secolo una località detta "la quercia di
Sherdanu" nel territorio dei villaggi di Ili-ishtama e di Mati-Ilu, unici
toponimi teoforici della zona: il primo, "Dio ha ascoltato" (come nel
toponimo biblico Eshtemoah), doveva essere un luogo di consultazione oracolare
o di manifestazione divina." (Liverani, p. 28)
Gli Shardana non hanno fatto mordi e fuggi con
l’Egitto (motivo per cui Braudel, come
tutti coloro che credono, giustamente, nell’origine orientale degli Etruschi,
sono costretti a chiedersi dove abbiano sostato nel frattempo – per cinque
secoli – i Tursha pseudo-Tirreni cacciati dal delta egizio da Ramses III prima
di ricomparire come Etruschi con le tombe orientalizzanti di VII secolo, pp.
251-252). Dopo le guerre contro i popoli del mare, ai Libici come agli Shardana
(che hanno combattuto da una parte, come aggressori, e dall’altra, come
difensori) e alle loro famiglie vengono assegnati appezzamenti di terra in
Egitto e diventano coloni (Gardiner, pp. 236 e 269), ciò che richiama in
soprappiù l’ospitalità concessa dai faraoni ai patriarchi Ebrei (proto-Ebrei)
che vengono a stabilirsi entro il confine egizio. Ma queste popolazioni servono, per tutta la
storia dell’Egitto indipendente, anche
come guerrieri, con guarnigioni
che, al tempo di Psammetico I (664-610), sono
a Elefantina [presso Aswan, in Alto Egitto; vi sono acquartierati mercenari ebrei] contro gli Etiopi, a Dafne
Pelusica contro Arabi e Siri, a Marea contro i Libici (Erodoto II, 30; Gardiner
p. 322).
Nei miei lavori su internet ho
seguito le tracce delle comunità mercenarie riconosciute come ebree dall’Egitto
(Elefantina) alla Samaria e al Negev (Kuntillat Ajrud). Adesso mi interessa
focalizzare sulla guarnigione di Dafne pelusica, sul ramo più orientale del
Nilo.
Psammetico
I (664-610) acquartiera in due
accampamenti sulla costa da un lato e dall’altro della foce del ramo pelusico del Nilo (stiamo parlando
della guarnigione di Dafne, anche se Erodoto non lo dice; perché tutta questa
omertà?) i mercenari Ioni e Cari: “ancora all’epoca della mia visita erano
rimasti gli scivoli per calare in acqua le imbarcazioni e i ruderi delle
abitazioni.” (Erodoto, II, 154) Sulla base della documentazione assira,
Gardiner dubita, a ragione, che si tratti di Ioni e Cari. Infatti sappiamo che
Ashurbanipal aveva aiutato Gige di Lidia a respingere le orde dei Cimmeri, ma
poi Gige s’era alleato con l’Egitto, perdendo
il sostegno di Ashurbanipal, per
cui i Cimmeri invasero e occuparono tutta la Lidia. Così Gige, secondo come si
esprime Ashurbanipal nel sigillo di Rassam, “mandò le sue truppe a Tushamilki,
re dell’Egitto, che aveva scosso il giogo della mia sovranità”. Perciò Gardiner
sospetta che queste fossero le truppe
inviate a Psammetico I da Gige (p. 319). Anche in Egitto, 3° vol., Fabbri Editori
(supervisione scientifica di Maurizio Damiano-Appia), costoro sono i mercenari inviati a Psammetico I dal re di
Lidia Gige (p. 189). E poiché venivano dalla Lidia, venivano da Sardi, ed erano probabilissimamente mercenari shardana, che sono tutt’altro di
Ioni e Cari.
Però i Cari come mercenari sono documentati al tempo
delle guerre Persiane e anche al tempo di Atalia e Gioas (IX sec.) a
Gerusalemme sono attestati centurioni dei Carii (2 Re 11,4). Dunque rimane il dubbio, ma poco rilevante, dato che i Cari avevano a
Labraunda un bosco di platani sacro allo Zeus degli Eserciti (Erodoto V, 119: “
i Cari sono i soli, a mia conoscenza, a sacrificare in nome dello Zeus degli
Eserciti “ che è Yahweh Zebahot) con ciò dimostrando di essere strettamente affini
agli Shardana.
Tornerò su Dafne pelusica. Adesso mi interessa focalizzare sulle truppe shardana di Gige di
Lidia. Non mi risulta che sia stata data l’importanza che merita alla
testimonianza di Plutarco della Vita di
Romolo (25, 7), secondo cui gli Etruschi
sono ritenuti coloni degli abitanti di Sardi (forse perché questa tradizione
viene considerata erroneamente come un semplice doppione della tradizione
erodotea dell’origine degli Etruschi dalla Lidia; ma, a parte tutto ciò, è
davvero sottinteso Sardi in Lidia?).
Marco Bettalli, nella nota 150 curata per l’edizione della BUR, scrive
che “Festo (s. v. Sardi venales, 428-430 L.) riferisce la medesima versione
riportata da Plutarco, ma aggiunge anche una tradizione più recente, nella
quale i Sardi appaiono in realtà come abitanti della Sardegna…” Dunque, stando
a quel che scrive Bettalli, si può intendere che Festo prende i Sardi di Plutarco (Sardianoi; in Erodoto I, 22,
Sardiinoi) come Sardi di Sardegna? Forse perché, come dice Plutarco nel passo citato,
quando i Romani celebrano i trionfi l’araldo proclama che i Sardi sono in
vendita? e Festo pensa ai Sardi della Sardegna messi in vendita dai consoli
Tiberio Gracco e Publio Valerio che li avevano catturati? O Festo pensa agli
Shardana (immigrati in Sardegna, cui hanno dato il nome) che sono anche i mercenari di Gige provenienti da
Sardi in Lidia?
In ogni caso vedremo che il nesso
c’è, ed è proprio pèr questo motivo che Festo, su questo passo di Plutarco,
deve aver pensato ai Sardi/Shardana della Sardegna. La parola chiave non è la
Lidia (anche se la Lidia/Anatolia, come ho già detto, è l'epicentro dell'esodo degli Shardana dalla seconda metà del
XIII secolo), che infatti Plutarco non menziona. La parola chiave è Sardi di
Lidia, che rimanda a tutti i toponimi Shardana disseminati in Anatolia sulla
via degli Shardana. Sono proprio gli Shardana, in seconda lettura, la "lidia" gente in guerra
illustre che si stabilì sui monti
etruschi (Eneide, VIII, 479-480), impossessandosi delle miniere. Con i yahweisti
shardana sale in primo piano l'arte mantica e aruspicina, che, parafrasando il
greco, si direbbe hieroscopina
(Dionisio II, 22, 3), cioè l'arte di individuare e interpretare i messaggi
inviati dagli dèi sotto qualsiasi forma, volo degli uccelli, anomalie del
fegato, direzione dei fulmini e così via.
Sardi
è in Lidia, ma Dionisio (I, 30, 1), che si basa anche su fonti di storici lidi,
ci dice che gli Etruschi differiscono più dai Lidi che non dai Pelasgi. La
differenza è tanto più marcata se si considera che secondo Erodoto Lidi e Greci
hanno usanze molto simili, tranne il fatto che i primi prostituiscono le loro
figlie (I, 94). Dunque, come dice testualmente Plutarco, gli Etruschi non sono
coloni dei Lidi, bensì degli abitanti di Sardi, cioè Shardana, che hanno
disseminato Tracia e Anatolia di toponimi che denunciano il loro passaggio, e
che dal tempo dei bronzetti shardana (databili dall’VIII secolo) abitano in
Sardegna.
Fra le truppe dell'esercito di Serse contro la
Grecia ci sono guerrieri (di un popolo di cui una lacuna s'è portato via il
nome – tutto sembra congiurare contro la soluzione dell’enigma –; è menzionato fra i Traci e i Cabali Meoni;
poiché la Meonia è la Lidia, questi guerrieri originano fra la Tracia e la
Lidia come gli Etruschi coloni di Sardi di Plutarco) che portano piccoli scudi
di pelle non conciata e due picche di fabbricazione licia, elmi bronzei con
applicate orecchie e corna bovine di bronzo (dunque come gli Shardana), e un
cimiero. Le gambe sono avvolte da fasce di porpora e nel loro paese sorge un
oracolo di Ares, dio della guerra (Erodoto VII, 76). Questa tipologia di
guerriero shardana è esattamente attestata anche dall’etrusca Chiusi nel 650 a. C. Ne riparleremo.
L'unico
elmo noto di questo tipo proviene da una tomba tracia di VI-V secolo nei
dintorni di Garlo vicino a Sardica/Sofia in Bulgaria. Gli Shardana scavano
pozzi sacri sotterranei, che ritroviamo
nei pressi di Garlo, nell'area dello Strimone (il cui nome antico era
Palaistînos/Filisteo) e producono barchette con carri tirati da buoi o
contenenti animali (arche di Noè), quelli che i popoli traci (Shardana e
Filistei) si portarono dietro nella loro diaspora per terra e per mare dalla
Tracia, fino in Palestina (Giordano) e in area greca occidentale (Iardano presso
Festo e in Elide; ciò che rinvia a Pelasgi nello Ionio: vedi la tradizione di
Pelope presso Enomao di Pisa in Elide, pseudo Apollodoro, Epitome, 2, e la
tradizione del pelopide per via di madre
Anfitrione che non viene affatto
dall'Egitto come ritiene Erodoto, ed infatti è connesso con la conquista delle
isole dei Tafi di fronte all'Acarnania – terra dei Teleboi – nel Mar Ionio, pseudo Apollodoro II, 4; A
Epidamnos in Illiria terminava la carovaniera argonautica in mano ai Tirreni,
ed è evidente che qui si svolgesse la pirateria dei popoli del mare Pelasgi,
nello Ionio) e infine in Sardegna (Campidano) con gli Eraclidi yahweisti figli
di Tespio, guidati da Iolao. Dunque, il cosiddetto movimento "delle lunghe
spade" alla fine del II millennio dalla Tracia fino alla Palestina, va
imputato ai Pelasgi/Filistei e agli Shardana in primo luogo.
Torniamo
a Dafne. Il re Amasi (569-526) trasferì
da Dafne a Menfi i mercenari (shardana)
di Gige, facendosene un corpo di
guardia personale in luogo degli Egiziani (Erodoto II, 154). E’ lo stratopedon, l’accampamento militare dei
Tirii a Menfi, di cui Erodoto parla in II, 112. Tenendo conto che fenicio ed
ebraico sono la stessa lingua e che nessuno parla di Ebrei (semmai di Arabi) al
tempo di Erodoto, bensì di Fenici (cf. Erodoto VII, 89, dove i Fenici
attraversato il Mar Rosso si stabiliscono in Palestina), è evidente che gli
shardana mercenari yahweisti di Menfi passano tranquillamente per Tirii, cioè a dire Fenici. Ma questo accampamento
è servito probabilmente in più antica data ad acquartierare le truppe
romane/”filistee” che qui veneravano una Afrodite Straniera (Ashera, Anat
guerriera). Sostengo che gli Shardana passassero per fenici dal punto di vista
culturale, in quanto veneratori di Yahweh (insieme ad Ashera e Anat guerriere
anche loro), ma, a quest’epoca, anche linguistico, essendosi ambientati in
Palestina per ben cinque secoli. La loro lingua ovunque è l’aramaico. A Menfi
Amasi trasferisce i mercenari shardana di Gige che potrebbero non essere
semitizzati linguisticamente (ma lo sono dal punto della religione yahweista
che è di origine tracia), ma li riunisce certamente ad altri contingenti
shardana qui stabiliti e semitizzati da antica data (in Alto Egitto ci sono gli
shardana/“protoebrei” di Elefantina; e altri yahweisti mercenari sono in
Samaria e nel Negev).
Gardiner lo tace, ma quando Nabucodonosor II attuò
la prima deportazione da Gerusalemme,
il faraone Apries (559-570) ospitò a
Daphne (Tell Dafna) i gerosolimiti scampati (Egitto, vol. 3°, Mondatori, p.
194). Mentre alcuni giudei (i non collaborazionisti filoegiziani) furono
deportati a Babilonia, gli altri rimasero a Gerusalemme perché filobabilonesi.
Geremia era un palese filo-babilonese e dunque rimase a Gerusalemme (con quelli
del partito di Shafan, lo scriba di Giosia, cui si potrebbe ricondurre la
redazione del libro della Legge “ritrovato” – 2 Re 22, 8ss – se non si
trattasse invece di velata attribuzione a posteriori, per far credere che
almeno prima della sua caduta Gerusalemme era stata città yahweista; invece
Gerusalemme fu una città cananea non
dissimile da tante altre fino alla dominazione persiana), sotto il governatore
Godolia, ex prefetto di palazzo dell’ultimo (e vassallo) re di Gerusalemme Sedecia,
figlio di Giosia. Ma Godolia fu assassinato e, temendo di essere implicati
nella congiura, i giudei di Gerusalemme
riparano in Egitto. E infatti proprio qui a Dafne (nelle traduzioni e
note bibliche Tafne e simili,
dall’ebraico), sul ramo pelusico, coi rifugiati giudei, ritroviamo Geremia (col
fedele discepolo Baruc, che poi raggiunge gli esiliati a Babilonia) che
“seguitò a profetare contro i Giudei idolatri, e sembra che vi fosse lapidato
per i suoi continui rimproveri” scrive (p. 841) la Bibbia delle edizioni
Paoline. L’ironia della sorte è
che Geremia trova rifugio in Egitto
dopo essersi sempre battuto contro l’alleanza con l’Egitto, contro ogni
tentativo di Gerusalemme di difendersi dai Babilonesi. Dunque a Dafne rimaneva una guarnigione di
mercenari shardana/”ebrei”, ed è per questo che Apries vi fa confluire gli
ultimi esuli di Gerusalemme.
Ma
chi sono questi esuli giudei che riparano a Dafne? Nella traduzione della
Bibbia CEI sono “Giovanni figlio di
Kareca e tutti i capi delle bande armate” con
“tutti i superstiti di Giuda” (Geremia 43, 5). Capi (delle bande armate)
nel testo ebraico sono i “Sari”, per cui è abbastanza verisimile che i
Sar(i)-dani siano i capi, gli ufficiali dei Danai/Daniti biblici (che sono
provenienti dalla Scizia, dalla Palude Meotide, a nord del Mar Nero), gli
Shardana dei testi egizi (o anche, detto altrimenti, i “Signori del o dei
fiumi”, dalla radice dan- in tutta l’area
a nord del Mar Nero, potremmo chiamarli i “Signori del Don”, come i
posteriori Cosacchi, che, non a caso, erano comandati da Atamani/Atamante
ed Esauli/Saul).
Se
i yahweisti più sfegatati erano i filo-babilonesi della famiglia di Shafan
(intorno al cui partito ruotano Geremia ed Ezechiele) riparati in Egitto,
specie a Dafne pelusica, mentre quelli deportati a Babilonia erano della cerchia
reale e comunque ostili a Babilonia, non è lecito credere che la ierocrazia che
si impone a Gerusalemme contro il partito realista derivi soprattutto dagli
esuli d’Egitto? E’ sempre stata la comunità giudaica in Egitto quella più
turbolenta e dalla mentalità diabolica, capace di ideare e portare a compimento
i progetti più allucinanti. Il cristianesimo ed il fariseismo derivano assai
più dalla comunità giudea in Egitto che non da quella in Babilonia. Quanto agli
“ebrei” delle dieci tribù di Israele, dopo la dominazione assira e la loro
deportazione non ne rimane traccia etnico-culturale. Gli Ebrei come popolo
cominciano da Gerusaslemme, intorno al tempio di Yahweh inaugurato il 515 a.
C. E, se ho ragione, sono figli dei mercenari shardana stabiliti
in Egitto dai tre secoli precedenti. “ Ed è chiaro che l’Egitto accoglieva
volentieri gruppi che potessero fungere da manodopera agricola, e ancor più
volentieri gruppi agguerriti che potessero fungere da truppe mercenarie sia in
operazioni belliche sia come guarnigioni stabili. La “Lettera di Aristea” allude ai Giudei andati in Egitto come
truppe ausiliarie di Psammetico contro gli Etiopi. Geremia (44:1; 46:14) cerca
di richiamare in patria le guarnigioni giudaiche stanziate a Migdol (nel Delta
orientale), a Menfi, a Tahpanes [cioè Dafne pelusica, sul ramo estremo
orientale del Nilo] e nel paese di Patros (l’Alto Egitto); il Proto-Isaia
(11:11) auspica il ritorno dei gruppi ebraici residenti in Egitto, in Patros e
in Kush (Nubia), accanto a quello dei deportati assiri [quali? E da dove?]. E’
chiaro che truppe e guarnigioni giudaiche erano abitualmente presenti in Egitto
già dal VII secolo, e poi soprattutto
nel VI. “ (Liverani, p. 241)
Alla
fin fine la “tavola dei popoli” mi appare
redatta da parte di qualcuno che veniva dall’Egitto. Così si spiegano le
“ incomprensibili stranezze, che fanno sospettare qualche faticoso percorso
redazionale… [come] la Babilonia [che] è chiamata Shine’ar (Gen. 10:10, e poi
anche in 11:2), che è designazione egiziana, e Nimrod, grande cacciatore e
fondatore di città mesopotamiche [che] è messo tra i « figli di Kush » [cioè
l’Etiopia/Nubia, Gen. 10, 8]. I Caldei sembrano a prima lettura clamorosamente
assenti… “ (Liverani, p. 266) Ora io credo che la tradizione giudaica essendo
stata elaborata a partire dal tempio di Yahweh parte da epoca tarda (515 a. C.)
e vede le cose da un’ottica tarda, come appunto la stele della vittoria di Piye
a Gebel Barkal (seonda metà dell’VIII secolo). Leggendo quel che Genesi dice a
proposito di Nimrod si è portati a collocarlo in un passato remoto che si
sperde nelle nebbie del III se non del IV millennio. Tuttavia Nimrod è
posteriore al Diluvio, dunque posteriore al XIII secolo, e lo conosciamo bene,
in quanto si tratta del principe Nemrod di Hermopoli (amante dei cavalli)
passato dalla parte del re di Sais Tefnakht (XXIV din.) poi sconfitto dal re di
Nubia Piankhy/Piye (XXV din.). E’ evidente che se la Bibbia è scritta con
questo spirito “storico” c’è molto da lavorarvi sopra al fine di ristabilire tutta
la verità. Certamente, una volta ambientata a Gerusalemme, questa tradizione fu
sempre più rivista e corretta in senso mesopotamico da egitto-centrica che era.
Lo scenario che mi si presenta davanti è del tutto nuovo e inaspettato. A
ricerche future dedicherò il consolidamento ma, a futura memoria registro anche
il caso del capo dei Libici Sheshonq (futuro faraone) che chiese a Psusennes II
(959-945) il permesso di esercitare il culto funerario di suo padre ottenendone
il consenso. Tutto ciò ricorda il caso di Giuseppe che ottiene dal faraone il
permesso di compiere i funerali di Giacobbe uscendo dall’Egitto. Così se si
vuole cercare un corrispondente egizio del Vitello d’Oro di Mosè questo va
cercato nel toro Apis. Ora è chiaro, credo, l’equivoco in cui sono incorsi i
sostenitori della New Chronology, i Velikovsky e i Rohl, a causa della loro
fede nella verità della parola biblica.
La cronologia egizia tiene perfettamente, mentre è la parola biblica
falsa. Il racconto delle scritture
aramaico-ebraiche è elaborato in età tarda, mentre si giura su dio che risalga
ad epoche antichissime, fino alla creazione. Bene o male suggestionati da ciò,
tutti, me compreso, hanno cercato di trovare riscontri in epoche antiche e
antichissime (perfino, i sostenitori della New Chronology, compiendo
devastazioni e ribaltamenti nell’unica cosa buona che abbiamo, la cronologia egizia, in nome della fede nella
parola di dio, che invece non ha alcuna
credibilità), essendo fuorviati anche
dalla genericità e vaghezza dei detti testi, che piluccano a destra e a
manca fra gli episodi più disparati della storia del Levante.
I
reduci “ Avevano una determinazione fanatica, avevano dei capi e una struttura
para-militare, avevano una classe colta (gli scribi rientrati da Babilonia introdussero
in Palestina la scrittura aramaica in sostituzione di quella fenicia usata fino
allora), avevano mezzi finanziari, avevano l’appoggio della corte imperiale. “
(Liverani, p. 282) Questo quadro si adatta meglio ai reduci dall’Egitto che non
a quelli da Babilonia. La determinazione fanatica dei yahweisti shardana
organizzati su base militare. La classe colta e fanaticamente determinata degli
scribi e sacerdoti yahweisti in Egitto. L’introduzione dell’aramaico vuol dire
che la Bibbia fu scritta dapprima in aramaico, e infatti alcuni testi rimangono
in aramaico nonostante la riscrittura tarda complessiva nell’ebraico popolare
gerosolimita. Io credo che la traduzione dei Settanta si fondò su testi
aramaici e le incongruenze fra la traduzione latina di san Girolamo (che si
fonda su quella greca dei Settanta) e Bibbia ebraica si spiegano con le
tarde redazioni e manipolazioni della seconda.
L’ebraico è una lingua tarda formatasi nella Gerusalemme postesilica.
Guerriero shardana alla
guida di una processione sacrificale di stampo yahweista su secchiello da
Chiusi della metà del VII secolo.
Sotto
Ardi (678-629 ca.; in età omerica!), figlio di Gige, i Cimmeri, incalzati dagli Sciti, si spostarono in Asia e occuparono
Sardi eccetto l’acropoli (Erodoto I, 15). In realtà Fulvio Barberis, a nota
dell’edizione Garzanti, dice che fu sempre sotto il regno di Ardi che cadde
la capitale lidia, forse nel 657 a. C. (p. 411). Dunque da questo momento
indubitabilmente (comunque i bronzetti sardi stanno a dire che gli Shardana in
Sardegna ci stanno almeno dall’VIII secolo; e la tradizione degli Shardana di
Romolo che gli Shardana a Roma ci
stanno dalla prima metà dell’VIII secolo) gli abitanti di Sardi raggiungono
l’Etruria in massa, come dimostra il guerriero shardana raffigurato sul
secchiello da Chiusi (650 ca.; vedi particolare nella foto sopra). Se aggiungiamo
che le iscrizioni etrusche non sono anteriori
al VII secolo (dove è documentata la presenza di signori della guerra in
tutta l’Etruria), e se aggiungiamo ancora che in una prima fase, almeno io,
avverto un processo sperimentale, formativo, in cui non abbiamo ancora una vera
e propria lingua etrusca, ritengo più cauto collocare la nascita dell’etrusco
come lingua generalizzata e dunque della nazione etrusca nell’orientalizzante,
in VIII-VII secolo, l’età di Omero (nato nell’VIII secolo, anche se il suo acme
è la metà del VII). Forse non tutti sanno che anche se la scrittura in Etruria
è attestata dal VII secolo, i testi etruschi di una certa ampiezza (non solo
uno o due nomi, dai quali non si dimostra affatto l’esistenza di una lingua) di
cui siamo in possesso, sono per la stragrande maggioranza tardi, posteriori al
500 a. C., dalle lamine di Pyrgi in poi, del tempo in cui la civiltà etrusca
era già entrata nella fase di declino o addirittura da tempo sottomessa a Roma.
Stele di Aule Feluske da
Vetulonia, armato di ascia bipenne, attestata presso gli Sciti (Olmstead, p.
149)
Credo
pertanto che l’esplosione
dell’immigrazione shardana di lingua lemnia in Etruria (estesa a tutta
l’Etruria) è nell’orientalizzante. Certo non si può escludere a priori
un’immigrazione iniziata anteriormente, soprattutto a Populonia, vetulonia,
Vulci, Cere o Roma.
Secondo tradizioni romane che certo traggono dalle
tradizioni etrusche, la storia degli Etruschi inizia nell’XI-X secolo, quando nasce la nazione etrusca (tradizioni di
Varrone e Augusto in Censorino, de die natali 17,5 e Servio ad Aen. VIII, 526 e
ad Ecl. IX, 46). E’ questo l’orizzonte protovillanoviano e villanoviano. Ma si
badi che questa tradizione potrebbe essere infondata esattamente come quella
dei tardi logografi greci, che fanno partire
gli Etruschi dalla Lidia nel
XIII secolo e li fanno giungere in Italia in tempi brevi. Ammesso che questa
tradizione sia autentica, nondimeno dovrà essere dimostrato che già nell’XI-X
secolo in Etruria (in tutta l’Etruria) si parlava etrusco. La nascita di
città-stato organizzate ed eventualmente confederate non implica niente di
più e men che meno che la lingua etrusca fosse già
compiutamente formata e diffusa ovunque in Etruria, mentre è solo quando esiste
la lingua etrusca sull’Etruria intera, che esiste anche il popolo etrusco.
Da Gli Etruschi del mare di M. Cristofani, Longanesi
& C., pp. 12 e 15-18 ricavo che le navigazioni "micenee",
sporadiche, si protraggono in Etruria meridionale dal 1300 al 1025 ca. e in
questo orizzonte del bronzo finale
abbiamo armi di bronzo di produzione nuragica rinvenute in Etruria marittima. Poi dalla seconda metà del IX-prima metà
dell'VIII secolo si assiste a intense relazioni fra Sardegna ed Etruria che
devono avere una base culturale comune (Shardana di lingua lemnia, la lidia
gente in guerra illustre che a partire da Cere s'è collocata sui monti
etruschi, cioè ha preso in mano l'estrazione metallurgica). Nei siti
metallurgici dell'Etruria si rinvengono pugnali, bottoni, faretrine votive
nuragiche in bronzo. Da una tomba femminile da Vulci della fine IX-inizi VIII
secolo provengono un bronzetto di
“guerriero” (il druida shardana che riporto in foto), un cesto in miniatura e
la sommità frammentaria di uno "scettro". Nello stesso periodo, seconda metà del IX-prima metà dell'VIII secolo,
si rinvengono in Sardegna asce, rasoi, fibule di produzione populoniese e
vetuloniese o comunque il cui commercio è mediato dai centri dell'Etruria
settentrionale (spade ad antenne). Con le fibule sono gli Etruschi che giungono
in Sardegna. La diffusione di lucerne a navicella di produzione nuragica, fra
la metà dell'VIII e la metà del VII secolo, ci mostra la priorità o addirittura
esclusività della navigazione autoctona. Nell'Etruria meridionale, da Vulci
all'Etruria tiberina, a Veio e a Capena appaiono alla fine del IX-inizi VIII
secolo esemplari di ceramica geometrica "enotria" (Lucania e
retroterra del Salernitano, lungo il Vallo di Diano). L'occupazione o
frequentazione del fertile territorio picentino segnava l'estremo confine
meridionale della regione tirrenica sotto influenza etrusca. Al centro di
questa si trovava, a controllo del Golfo di Napoli, Cuma (abitata da una
popolazione ausone od opicia), la cui
necropoli di tipo Fossakultur ha restituito bronzi collegabili con la
metallurgica villanoviana. Concludendo, prima ci sono i Tirreni fino all’inizio
della seconda metà dell’VIII secolo, poi ci sono gli Etruschi, soprattutto dal
VII secolo. L’orientalizzante non è solo una moda ma il segnale manifesto del
popolo etrusco già formato e in espansione.
Comunque
la tradizione di Strabone (5, 2, 7) e l’archeologia ci dicono che nella fase
dei “ritorni” gli Shardana giuidati da Iolao abitano in Sardegna insieme ai Tirreni che già
possedevano l’isola. La documentazione archeologica ci parla di
Shardana in Sardegna dall’VIII secolo (bronzetti di guerrieri Shardana). La tradizione romana letta criticamente (non
ultimo il poeta Similo in Plutarco, Vita di Romolo, 17, 6-7) e la
documentazione archeologica (castrum del Germalo sul Palatino) ci parlano di
Shardana a Roma nella prima metà dell’VIII secolo. La documentazione
archeologica ed epigrafica confermano nel VII secolo la presenza in Etruria di
signori della guerra stranieri, che richiamano ai Pelasgi (Aule Feluske da
Vetulonia) o hanno frequentato l’Egitto (proprietario della situla di Bocchoris
da Tarquinia), ma, soprattutto, sono Shardana da Sardi in Lidia, come il
guerriero (con due picche ed elmo con applicate orecchie e corna bovine di
bronzo) raffigurato su un secchiello
d’argento dorato da Chiusi (650 ca., Firenze, Museo Archeologico) in una scena
di sacrificio del montone e del porco o cinghiale, sacrificio
quest’ultimo, che rinvia al culto dei
mercenari yahweisti shardana, e in particolare a quello attestato a Kuntillat
Ajrud (IX-VII secolo) nel Negev (di cui
ho parlato, commentando le foto dei graffiti, in altri miei lavori pubblicati
sui miei siti).
Dunque dopo la fondazione del primo e unico tempio di Yahweh a
Gerusalemme, inaugurato nel 515 regnante (anche sull’Egitto, 521-486) Dario
I, i sacerdoti si pongono il problema di
ricostruire una storia degli Ebrei fin dalle origini, e ovviamente hanno
in mente i loro antenati Shardana
emigrati dalla Scizia dopo il Diluvio
della Palude Meotide/Mar Nero (che però al tempo localmente si chiama Mar Rosso
fino al medioevo) e dunque il loro Passaggio del Mar Rosso/Mar
Nero con mogli e figli al seguito via
terra fino al delta egizio, dove, dopo aver combattuto contro gli Egizi fino a Ramses III, al tempo
di Ramses V (1146-1143) li troviamo stabiliti come coloni-guerrieri in Egitto,
da cui poi saranno portati, dal tempo della conquista dell’Egitto sotto Cambise
II (525-522), a Gerusalemme, come guerrieri e profeti intorno al tempio di
Yahweh (dunque questa volta provenendo davvero dall’Egitto, ma non sotto la
guida di Mosè). L’ethnos ebraico si
formerà a Gerusalemme, intorno
al tempio di Yahweh, dopo il rientro da Babilonia (e si tratta delle sole tribù
di Giuda e Beniamino, perché le altre dieci di Israele si sono disperse in
altre etnie con la deportazione assira) a partire da Ciro II. All’epoca del
rientro, se tutto va bene, costoro parlano aramaico, e certo in aramaico
saranno redatti i testi biblici, col tempo sostituiti da nuove redazioni in
ebraico (ma alcuni testi vengono lasciati in aramaico), man mano che si forma,
e si deve parlare di secoli, questa lingua del popolo trapiantato o
ritrapiantato in ambiente fenicio. In ogni caso il popolo ebreo nasce dopo la
riforma di Ezra, ispirata ad un nazionalismo e razzismo estremo. Immaginiamoci
una scena in sintonia con l’idea che
abbiamo degli Ebrei come popolo perseguitato dalla sfiga, alla Fantozzi, ma in
chiave più tragica. Di fronte alla comunità raccolta in piazza e tremante più
per quello udiva che per la pioggia invernale scrosciante, Ezra (10, 9ss)
proclama il divieto dei matrimoni
misti, cioè con donne straniere, per cui gli uomini di Gerusalemme sono invitati ad abbandonare le mogli straniere e
i figli eventualmente avuti da esse, pena l’esclusione dalla comunità ebraica e
l’olocausto dei beni. Ci immagineremmo bene un Hitler tutto incazzato
ad arringare la folla in tal modo.
Invece si tratta di un prete giudeo.
Comunque non c’è da credere che si siano rifiutati solo in due (si sono
rifiutati tutti quelli che se la
passavano molto meglio a Babilonia o in Egitto, e che erano venuti a Gerusalemme solo per le insistenze dei
nazionalisti, e sono tornati a
Babilonia e in Egitto, alla faccia di Yahweh e dei suoi fanatici). Non c’è unanimità sull’epoca della riforma
di Ezra. Può essere avvenuta sotto Artaserse I (465-423), al tempo di Pericle,
o sotto Artaserse II (404-358), al tempo di Platone. Poiché secondo me la
Repubblica di Platone è debitrice dell’ideologia nazionalista da inculcare
nelle giovani generazioni ateniesi, reputo più plausibile la datazione più
antica (che infatti è quella che va per la maggiore), per dar tempo a Platone
di venire a conoscenza dello stato di Gerusalemme e delle sue leggi
nazionaliste e razziste.
Il discorso è analogo per quanto
riguarda la storia degli Etruschi. Gli Shardana, di lingua lemnia (Pelasgi), si
impongono relativamente tardi in Etruria, forse già nel IX secolo (a Populonia,
a Cere, a Roma), ma sicuramente e massicciamente nell’orientalizzante (dobbiamo
immaginare fin dall’VIII secolo dei bronzetti sardi e degli shardana di Romolo).
La loro storia si farà iniziare dalla loro diaspora dall’Anatolia, anche se
avranno vissuto per moltissimo tempo in Egitto come agricoltori (nel delta e
nel Faiyum; da qui poi la loro abilità nella bonifica delle pianure laziali e
toscane) guerrieri, prima di arrivare, di propria iniziativa o richiesti,
nell’Eldorado tirrenico (in Etruria e a Roma) come guardie giurate a protezione
dei convogli di valori, dei santuari-banche, come polizia mineraria, fluviale,
terreste. Non è assolutamente necessario, anzi è errato, immaginare una navigazione shardana e pelasgica in
generale fino alle coste tirreniche già dal XIII-XII secolo. Questa è solo
un’illazione dei tardi logografi. Analogamente la tradizione ebraica di un esodo
degli Ebrei/Shardana dall’Egitto, anche se possibile già dal tempo di Ramses II di cui erano mercenari, è più
realistica dal XII secolo in poi, quando erano anche coloni, ed ancor più da
quando la comunità shardana/”ebraica” di Dafne pelusica (dove si sono rifugiati
i mercenari shardana con parte dei profughi di Gerusalemme) cade sotto
dominazione persiana, con Cambise II,
signore d’Egitto dal 525 al 522. Solo
se inquadrata in questo contesto dei yahweisti shardana coloni guerrieri in
Egitto dal XII secolo fino alla
conquista persiana, la metastoria
dell’Esodo degli Ebrei dall’Egitto
appare verisimile e fondata sui fatti documentali, che altrimenti mancano nel
modo più assoluto.
Secondo l’isolata testimonianza
di Dionisio gli Etruschi si davano il
nome di Rasenna (I, 30, 3) da uno che era stato fra i loro capi. Nonostante
rasna/rasena compaia sulle iscrizioni etrusche
il discorso rimane aperto fino a che non si dimostri che si tratta di
nome di popolo (per me no). A puro titolo indicativo per eventuali ricerche
future su questa pista di Rasenna = nome di popolo, si potrà notare che Tiras, forse connesso con Tursha, è il nome
greco del Dnestr, da qui la possibilità di un popolo stanziato lungo il fiume
Tiras da cui il nome di Tursha. Analogamente
Rasenna/Rasna potrebbe essere nome di popolo stanziato lungo il Ros’, affluente del Dnepr/Borysthenes.
Quando nella seconda metà dell'VIII secolo i Fenici e i Greci
dell'Eubea si affacciano nel Tirreno, in cerca di metalli e di ferro, gli Etruschi e Romani sono già in sede a
controllare il territorio. Se i Romani
non hanno già dimenticato l'illustre passato della città eterna, lo
dimenticheranno presto (tranne qualcuno dell’aristocrazia). Si faranno fregare
come bambini, come “addetti ai lavori” degli studi classici greco-romani
ed etruschi, e riacquisteranno dai
Greci, pagando con oro colato,
i loro Tideo e Diomede, i Dioscuri (i Tinasclenar della kylix attica da
Tarquinia del 500 a. C. e i Dioscuri,
su lamina di bronzo del 500 a. C., dai
tredici altari di Lavinio/Pratica di Mare), gli Argonauti, i Meleagro, le
Deianira e Atalanta, le Ino Leucothea, i Bellerofonte, Pegaso (Cavalli alati dall’Ara della Regina
a Tarquinia) e Chimere (d’Arezzo), la più bella infedele del mondo Elena, la
moglie più fedele Penelope, il più
furbo dei furbi Odisseo, e tanti altri.
Ringrazio Roberto Boni per la
scannerizzazione delle immagini di questo lavoro.
Aztlan, la seconda Atlantide, il continente
americano.
I primi marinai che
giunsero allo Stretto di Gibilterra furono, non c'è bisogno di dirlo, i Tirreni
orientali o occidentali (originari dell'Atlantide degli Iperborei, cf. pseudo
Apollodoro II, 5, 11a fatica di Eracle e giardino delle Esperidi/Colchide/Eden
biblico), che posero qui le Colonne di Atlante (Od. I, 52-54) o Atlantide,
dalla madrepatria dell'Atlantide anatolica pontica. Da qui prese il nome il
versante Atlantico del "fiume" Oceano che circonda la terra. Ma non è
escluso che avventurosi marinai tirreni occidentali abbiano varcato l'Atlantico
giungendo alle Americhe prima di Colombo, chiamandole Atlantide. Poi i Fenici
subentrati ai Tirreni ripeterono certo l'impresa. E' intuibile che le correnti
spingano i vascelli normalmente in direzione dell'America Centrale ed in ogni
caso gli esempi a me noti qui convergono. Quando il capitano della prima nave
tirrenica a sbarcare in America Centrale battezzò Atlantide il Nuovo Mondo gli
indigeni trovandosi di fronte ad un dio che era venuto dal mare
accettarono quel nome di battesimo per
la loro terra e lo tramandarono fino ai tempi moderni in cui i conquistatori
spagnoli appresero che Aztlan era il
nome della terra degli Aztechi precolombiani.
Io sono certo che i Tirreni conoscevano le Americhe. Il racconto di
Platone ne è la riprova. In Timeo 24e-25a scrive " quel mare... davanti a
quell'imboccatura che, come dite, voi chiamate colonne d'Ercole [dunque gli
Egizi conoscono le colonne sotto altro nome, ed è logico], aveva un'isola...
più grande della Libia e dell'Asia messe insieme: partendo da quella era
possibile raggiungere le altre isole per coloro che allora compivano le
traversate [ovviamente traversate oceaniche coi bastimenti di Tarshish], e
dalle isole tutto il continente opposto che si trovava intorno a quel vero
mare. " Non si può pretendere una descrizione perfettamente coincidente
con la realtà da discorsi tramandati da
chi non può pretendere di esserne stato testimone, ma si riferisce ad una lunga
serie di narrazioni di bocca in bocca e scritti che alla fine risalgono alla
perduta Atlantide dei Tirreni orientali. In ogni caso, dai racconti che riporto
appresso, è evidente che l'isola non si trova subito dopo le Colonne, ma a
parecchi giorni di navigazione verso Occidente. Immagino l'Atlantico navigato
da Colombo. Poi, attraversata a piedi l'America Centrale, magari dalla parte di
Panama, i navigatori riprendevano a
navigare il Pacifico giungendo alla
costa asiatica orientale, che poteva apparire come il continente che si trovava intorno a quel vero mare (Oceano sia
Atlantico che Pacifico), mentre il Mediterraneo è uno stagno. Lo pseudo
Aristotele di Storie meravigliose, 84, dice che i Cartaginesi sbarcavano
spesso, e alcuni vi si stabilivano a motivo delle sue felici condizioni, in
un'isola deserta e che distava numerosi giorni di navigazione oltre le Colonne
e di cui impedivano a chiunque l'accesso.
Diodoro nella Biblioteca storica scrive che dalla parte dell'Africa si
trova in mare aperto, a parecchi giorni di navigazione verso Occidente,
un'isola notevole per l'estensione, che per l'estrema felicità sembra essere la
residenza di divinità e non di semplici mortali. I Fenici che esploravano le
coste africane oltre le Colonne d'Eracle vi arrivarono casualmente, portati per
parecchi giorni dai venti e dalla tempesta.
Essi si opposero all'invio di una colonia da parte dei Tirreni (5,
19-20). Questi due documenti sono riportati dal lavoro citato di Gras, Rouillard e Teixidor, pp. 292-294). Leggendo
un passo di F. Braudel (Memorie del Mediterraneo, Tascabili Bompiani, p. 233)
ho avuto l'illuminazione. Braudel senza far caso alle implicazioni del suo
paragone, accosta il viaggio di lungo corso di un vascello di Tarshish di
Salomone, che fra andata e ritorno
impiega tre anni (1 Re 10, 22, riportando oro, argento, avorio, scimmie e
pavoni), a quello di un galeone spagnolo che agli inizi della corsa all'oro
partiva da Siviglia, giungeva fino alle Americhe e tornava a Siviglia impiegando approssimantivamente lo stesso
tempo. Le navi oceaniche di Tarshish andavano fino alle Americhe! Ecco perché impiegavano tre anni
fra andata, carico e ritorno! Il calo del prezzo dell'argento in Egitto, notato
poco oltre da Braudel, non derivava
dall'argento spagnolo ma da quello americano, via Tirreni. E prosegue nel
parallelismo senza rendersi conto che si tratta della medesima realtà
fotografata in tempi distanti " Probabilmente nel mercato egizio si ebbe
una sovrabbondanza di argento, come nell'Europa del XVI d. C., sommersa dal
metallo bianco proveniente dall'America." Braudel dice Egitto e dice bene,
perché fotografa una realtà del Medio Regno (che nulla ha a che fare coi viaggi
posteriori dei Fenici). E l'altrimenti inspiegabile decima fatica di Eracle,
catturare i buoi di Gerione nell'isola di Erizia, diventa chiara se appunto il
Sole diede ad Eracle la sua coppa d'oro (una imbarcazione celeste) "per
attraversare l'Oceano" (pseudo Apollodoro II, 5) da Tartesso a Erizia e
ritoprno, dunque per raggiungere le Americhe, abitate dai pellerossa, il che
non deve essere estraneo al nome Erizia, Rossastra. Omero la chiama Apeira
"Sconfinata" o anche "ai confini del mondo", e i Feaci ne
hanno riportato a Pyrgi un'indigena pellerossa come domestica per Nausicaa.
Erano le navi dei Tirreni a navigare fino alle Americhe per conto loro e del
partner egizio. Ecco spiegato perché è in Egitto che si verifica il calo del
prezzo dell'argento. E gli Etruschi, come eredi dei Tirreni, pretendevano
riallacciare i rapporti con Atlantide, ma
non avevano il controllo dello
Stretto di Gibilterra e di Tartesso. Sicuri che l'oro egizio provenisse solo
dalla Nubia? E l'oro dei precolombiani dove lo mettiamo? E l'oro degli
Etruschi? Non ricordo più dove ho letto di sostanze ritrovate (caffeine,
derivati del tabacco?) nelle mummie egizie che avrebbero potuto giungere solo
dalle Americhe. Ora sappiamo perché. Dalle mie antiche letture sugli Aztechi
ricordo che Mexica, la capitale, era sull'acqua e gli indigeni la
attraversavano sulle piroghe lungo canali. Non è difficile immaginare che i
primi esploratori tirreni tornarono in patria a relazionare la doppia
magistratura (come Odisseo fa con
Alcinoo) su questa terra in mezzo al mare e all'acqua. Da qui la conformazione,
immaginifica, della città capitale di Atlantide secondo Platone.
Studiando gli Slavi al fine di conoscere i Tirreni,
mi sono imbattuto nel nome del Mar Nero attuale che invece nel medioevo era
noto agli Slavi, ai Latini di Bisanzio e agli Arabi come Mar Russo/Rosso, da
prendere per il momento solo per la sua fonetica, senza relazione col colore
rosso, bensì, semmai, stando all’opinione prevalente degli slavisti, con gli
scandinavi Ruotsi (i Variaghi) "Russi" che sul Mar Nero venivano a commerciare.
Io voglio vedere se è possibile immaginare il contrario, che il nome
Russo/Rosso, anzi proprio Rosso (sia
per la fonetica legata ad un nome di popolo, ma anche perché
identificato come Rosso, colore), fosse il nome datogli dai locali, i Tirreni,
che commerciavano coi paesi intorno al
Baltico. Quando il tirreno occidentale Omero definisce il mare "colore del
vino" e "nebbioso" (Braudel definisce il Mar Nero mare dalle
frequenti tempeste, sempre " avvolto in nebbie e nuvole " p.
271) mi suggerisce con forza la sua
culla culturale nel Mar Nero o Russo/Rosso del medioevo. La tradizione
riguardante i Fenici è come tutte le altre una metastoria che cerca di andare
indietro nel tempo se possibile fino ad Adamo ed Eva. Così non stupisce che ad
Erodoto i sacerdoti del tempio di Eracle/Melqart a Tiro abbiano rivendicato
un'antichità per la città e il tempio che arriva fino al 2750 a. C. circa (II,
44), inglobando quindi la civiltà cananea che giunge fino al III millennio. Noi
sappiamo che i Fenici compaiono dopo la dark age e dunque sono il frutto dei
popoli del mare mescolati con i Cananei. Del resto anche loro, come gli Ebrei,
pretendono di venire dal Mar Rosso attuale (" Anticamente questi Fenici,
come essi stessi raccontano, erano stanziati sul mare Eritreo, dal quale,
attraversata la Siria, partirono per stabilirsi sulle nostre coste, in una
parte della Siria, fino all'Egitto, che si chiama tutta Palestina. "
Erodoto, VII, 89) Gli Ebrei ancora non esistevano, come i Fenici, e comunque
non provenivano dall'Egitto, bensì dalla Tracia, dai Balcani. I Fenici sono i
"Rossi", e come popoli del mare possono seriamente essere scesi in
Palestina provenendo dal Mar Rosso, sì, ma non quello che poi si è voluto
manipolare nell'Antico Testamento, bensì quello che oggi si chiama Mar Nero e
nel medioevo Russo/Rosso. Tenere presente che anche gli Slavi sono definiti dai
cronisti medievali "Rossi" di
faccia e di capelli. Come Esaù/Edom il cacciatore, uomo della steppa (Genesi
25, 27), rossiccio e tutto come un mantello di pelo (Genesi 25, 25) che è
fratello di Giacobbe/Israele, il nomade che vive sotto le tende, che non può
essere meno rosso e peloso di lui. Il mondo slavo conosce diversi nomi di tribù
derivati da corsi d'acqua (Poločani da Polota, un fiumicello che si getta nella
Dvina, Vislani dall'alta Vistola, Moravi dalla Morava), per cui è possibile che
Ròs (Rasna, Rasènna, nome della nazione etrusca, tirrenica occidentale, è
probabilmente forma aggettivale, con accento che, non cadendo sulla
"o" la fa leggere "a" come accade nella lettura del russo)
sia il nome di un popolo originariamente stanziato ad esempio sul Ros',
affluente del Dnepr/Borysthenes. Così il Mar Nero viene detto nelle cronache
medievali Mare Russo (Russkoe, Rucenum, Bahr al-Rus). Rimane però il dubbio che
vi sia derivazione dagli scandinavi Rus, Variaghi, guerrieri mercanti sulla
via, dai Variaghi ai Greci, del Dnepr. In ogni caso i "Russi"
osservati da Ibn Fadlan venuti a commerciare sulla riva del Volga, "
Giammai avevo incontrato uomini dalla statura più perfetta; simili ad alberi di
palma, biondi, con il viso vermiglio e il corpo bianco... " (Conte p. 105)
ricordano la descrizione di Nausicàa fatta da Odisseo: " Mai cosa simile
ho veduto con gli occhi, né uomo né donna: e riverenza a guardarti mi vince. In
Delo una volta, così, presso l'ara d'Apollo, vidi levarsi un fusto nuovo di
palma... " (Od. VI, 160ss)
Teniamo presente che i Tirreni giungono in Italia
almeno dal tempo di Tuthmosi IV e Amenofi III, nella prima metà del XIV secolo (i
nuraghi chi li ha costruiti se non i Tirreni "costruttori di
torri"?). Dunque nulla di strano se c'è appunto coincidenza di riferimenti
nordici (i Tirreni occidentali, come discendenti di quelli orientali, erano a
loro volta Iperborei ed Atlantidi, secondo quanto si ricava da pseudo
Apollodoro). Mi riferisco al substrato tirrenico di lingua greca anteriore
all’arrivo dei “Ros” da cui poi gli Etruschi.
Tra l'altro i Russi osservati da
Ibn Fadlan avevano " sul corpo, dalla punta delle dita fino al collo,
disegni verdi che rappresentavano alberi, immagini... " un'indubbia
influenza scita, come attestano i tatuaggi delle mummie di Pazyryk (Conte, p.
105-106). Trovandosi da Circe in Colchide, Odisseo fa una deviazione a nord, al
di là del Fiume Oceano, ove vivono i Cimmeri (al completo buio; c'è
un'elaborazione del fenomeno dell'aurora boreale, con eterna luce ed eterna
notte) e immagina che qui sia l'Ade e qui interroga l'indovino Tiresia. I
Cimmeri vivevano nella Russia meridionale e furono cacciati (in età omerica,
VII sec.) a Occidente dagli Sciti. Ma Omero li colloca all'estremo nord. I
Germani, secondo Tacito, credono che Odisseo sia giunto a questo Oceano e abbia
fondato Askipyrgion "borgo dell'otre?" (Aski-Pyrgi; presso l'attuale
Asberg, nella zona di Mors, sul basso Reno). Sempre secondo Tacito, vi si
rinvenne un altare consacrato a Odisseo con anche il nome del padre Laerte
(Germania, 3, 3). Credo che si tratti di migrazione del sito originario a fini
propagandistici, politici (lo sbocco naturale delle vie dei Tirreni erano il
Baltico e la Scandinavia dirimpettaia, non il Mare del Nord). Ma la notizia
serve a confermare un qualche fondamento della tradizione, sia pure solo
"letteraria". Tornati da Circe, riprendono il viaggio verso casa, verso
la Tirrenia occidentale, e devono passare per le Sirene, poi Stretto di
Messina, Sicilia con le vacche del Sole, di nuovo Scilla e Cariddi, cui si
avvicina ormai Odisseo da solo su un relitto della nave, si aggrappa al fico, e
ricade sul relitto mentre viene risputato dai gorghi marini, sempre dalla
stessa parte, nel bacino occidentale del Mediterraneo. Giunge a
Ogigia/Sardegna, da cui arriva a Scheria/Pyrgi (destinazione finale del viaggio
degli Argonauti e dei marinai tirreni sulla via verso la loro patria perduta di
Colchide) e da qui a Itaca (adattamento dello stesso Omero per descrivere il
ritorno di Odisseo questa volta come eroe greco). Le Sirene meritano un discorso più approfondito. Già
coi Lestrigoni di Cizico, nel Mar di Marmara/Proconneso, Omero è nel territorio
degli Iperborei/Tirreni che, come ricaviamo da Pseudo Apollodoro, vivono
intorno al Mar Nero, ma quando afferma che qui "son vicini i sentieri
della notte e del giorno" (X, 86) esprime lo stesso identico concetto di
Esiodo: " il figlio di Giapeto [Atlante] tiene il cielo ampio reggendolo
con la testa e con infaticabili braccia, saldo, là dove Notte e Giorno venendo
vicini si salutano passando alterni il gran limitare di bronzo, l'uno per
scendere dentro, l'altro attraverso la porta esce, né mai entrambi ad un tempo
la casa dentro trattiene... " (Teogonia 746ss). Quando Omero descrive la
Terra come uno scudo rotondo (quello fabbricato da Efesto per Achille)
circondato dal fiume Oceano (Iliade XVIII, 606-607) ha in mente la sfericità
della Terra. L'idea è che andando a oriente sul 40° parallelo nord si
incontrano gli Iberi del Caucaso e attraversando il fiume Oceano e ritornando
da Occidente sempre al 40° parallelo nord si incontrino quelli
dell'Iberia/Spagna. Certo la Terra era ancora assai piccola perché inesplorata,
ma io credo che non fosse considerata piatta, in quanto l'osservazione del
sole, della luna, delle eclissi, di pianeti visibili ad occhio nudo, per
similitudine doveva portare alla sfericità della Terra. Per le anime semplici
la sua raffigurazione come uno scudo di Achille portava alla sua forma piatta,
ma questa era l'unica cartografia disponibile in età omerica. Io sono persuaso
che i Tirreni, i più antichi e celebri marinai dell'antichità, avevano una
cartografia assai più sofisticata di questa. Furono i yahweisti di tutti i
tempi, spregiatori della cultura in nome della supremazia di Yahweh a
propagandare l'opportunità di una terra piatta e al centro dell'universo, sede
del profeta di Yahweh o del Papa. Nella Colchide di Circe, immaginata molto più a nord di quanto non fosse:
"Sentite le mie parole, benché angosciati, compagni: o cari, qui non
sappiamo dov'è la tenebra e dove l'aurora, o dove il Sole, che gli uomini
illumina, cala sotto la terra, o dove risale" (X, 189ss), v'è un accenno
all'aurora boreale dei paesi nordici di cui Omero deve aver sentito parlare da
mercanti prima di tutto tirreni (celebri Argonauti), precursori degli Arabi
delle cronache medievali. Leggendo nel libro di Conte a proposito delle
rusalki, le ondine slave, vengo a sapere che sono le amanti respinte che si
gettano nei fiumi per potersi un giorno forse vendicare attirando l'amato nei
gorghi, e l'unico fiume che vedo citato a proposito, da un lavoro di Puskin, è
il "profondo Dnepr", il Borysthenes, noto come la "via dai
Variaghi ai Greci". Nel De administrando Imperio si legge (Conte, p. 99)
di una successione di ben sette rapide, coi loro nomi che ne denotavano la
pericolosità (mi aveva colpito il passaggio ed avevo annotato a margine:
Sirene? Poi vi ho associato il passo sulle ondine e ne ho tratto le
conseguenze). Dunque io credo sia stata questa la via del ritorno immaginata da
Omero dopo la Colchide di Circe (da lui situata molto a nord, tanto che poi
l'Ade finisce sul Baltico) e prima del bivio Stretto di Messina/Stretto di
Sicilia, che poi bivio non è perché Odisseo può solo passare per lo Stretto di
Messina, l'altro quello di Sicilia/Plancte poté attraversarlo per la sua
pericolosità solo la nave Argo (qui passa la faglia dove si scontrano la zolla
europea e quella africana, con fondali insidiosi e gorghi e venti che sfasciano
le imbarcazioni), da oriente a occidente, dalla Colchide a Pyrgi dei Tirreni
(non da Occidente a Oriente, con Circe spostata in Italia, con Scherìa/Corfù,
come manipolato poi dai Greci). Si noti ancora, ad abundantiam, che per
arrivare ad Itaca (destinazione finale, adattata da Omero per l'Odisseo greco)
non ci sarebbe stato bisogno di passare per lo Stretto di Sicilia o
Messina, e dunque a che prò Circe ne
avrebbe fatto menzione all'Odisseo di Itaca? Essa si rivolge all'Odisseo del
poema originario, il Viaggio d'Odisseo, che era sulla scia dei viaggi dei Tirreni/Argonauti, che andavano alla Colchide
partendo da Pyrgi (ma anche da qualche
altro scalo presso la foce del
Tevere) e poi vi facevano ritorno per il rapporto alla magistratura
duale che reggeva Roma. Se ho ragione, queste navigazioni tirreniche fra Mar
Nero/Rosso e Mar Baltico, lungo le vie fluviali, sono una prova importante a
favore dell'origine del nome Mar Ro/usso (del Mar Nero) dal fatto che era
frequentato e abitato dai Tirreni stessi in origine e poi da coloro che
sarebbero diventati storicamente importanti in età più tarda, i Ros/Rasenna, i
Rossi/Russi, stanziati sul Ros' affluente del Dnepr, che avrebbero colonizzato
l'Etruria a partire dal IX-VIII secolo. Niente scandinavi di sorta, ma solo
ineguagliabili marinai tirreni. Quella
del Dnepr era la via dei Rossi/Russi, la "via dei Tirreni" e poi dei “Rasenna” al Mar Baltico. Semmai,
da commercianti rasenna stabilitisi in Scandinavia sarà derivato il nome
Ruotsi/Russi. C'è una testimonianza che accomuna i Cartaginesi, colonia fenicia
di Tiro a sua volta figlia del Mar Nero/Mar Rosso, con i mercanti slavi del Mar
Nero eredi delle tradizioni dei Tirreni e dei Ros. Secondo Erodoto " I Cartaginesi affermano l'esistenza di un
territorio libico, con relative popolazioni, al di là delle colonne d'Eracle;
quando si recano presso queste popolazioni con le loro mercanzie le scaricano
sulla spiaggia in bell'ordine, risalgono sulle navi e mandano un segnale di
fumo; gli indigeni vedono il fumo e accorrono verso il mare, depositano
dell'oro in cambio delle merci e quindi si allontanano dalle merci stesse. I
Cartaginesi sbarcano, esaminano l'oro e, se gli sembra adeguato al valore delle
merci, lo prendono e se ne vanno; se invece glki sembra poco, risalgono sulle
navi e aspettano: i locali tornano e aggiungono altro oro fino a soddisfarli.
Nessuno dei due cerca di raggirare l'altro... " (4, 196) " Quando
giungono [sulle coste del Mare del Nord], le carovane cominciano con
l'annunciare il proprio arrivo, poi procedono verso il luogo fissato per
vendere e per comprare. Là ogni mercante dispone per terra le merci indicandone
il prezzo, poi se ne ritorna all'accampamento. I locali escono dalle abitazioni
e collocano dinanzi alle mercanzie pelli di martora, di volpe, di lince e altre
pellicce, prima di eclissarsi. I mercanti ritornano, e chi si ritenga
soddisfatto dai beni proposti per lo scambio li raccoglie; in caso contrario
non li prende e la contrattazione procede finché le parti giungano a un
accordo. " (Abu l-Fida, XIV sec., Conte, 332)