Dove sei stato mio bell'Alpino

…Nei nuovi canti, pertanto, si individuano già le tracce della tendenza al confluire dello stile del canto popolare militare piemontese, per lo più orientato ai motivi di vita di caserma, con lo stile veneto-friulano, ricco di un suo apporto costituito da una più precisa e ingentilita individualità ed umanità. Questa fusione rappresenta il germe ed il preludio alla nascita delle canzoni tipicamente alpine, che soltanto nelle trincee della guerra 1915-'18 troveranno i motivi per amalgamare i più diversi elementi di ispirazione tratti da un piano ormai nazionale con le ragioni contingenti determinate da una guerra di posizione durata per anni. Infatti, a parte la riesumazione di due o tre canti alpini che ci vengono tramandati dal tempo della battaglia di Adua (Baratieri manda a dire - che il nemico è sui confini - c'è bisogno degli alpini - per poterli liberar) e la diffusione anteriore al 1915 di alcune canzoni che non scompariranno più dal repertorio («Oi barcarol del Brenta», «E c'eran tre Alpini», «Nui suma Alpin», «Sul cappello»), è nel corso della vicenda nazionale che ha per ambiente il teatro della grande guerra e per movente la passione e il dolore dell'intero popolo italiano, che dalle generiche e particolari provenienze folkloristiche, regionali, dialettali, montanare e popolaresche, iniziano ad isolarsi chiaramente le canzoni militari dei soldati che stanno «facendo la guerra », e fra queste si possono individuare per una particolare loro fisionomia le «canzoni degli alpini» che da allora in poi costituiranno e perpetueranno una vera e propria massiccia tradizione.

Come in ogni altro reparto, non è certamente fra i fischi delle pallottole e l’infuriare delle cannonate che nascono i canti alpini, ma piuttosto nelle pause della battaglia, dopo che i superstiti hanno ripreso respiro, si sono contati, hanno raccolto i feriti e recuperato i morti, li hanno avviati a valle, o sepolti; quando, infine, mancando di acqua e per non lasciare traccia soffregano a lungo con una manciata di terra le mani sporche di sangue, estraggono poi di tasca la lettera già iniziata da giorni e decidono di completarla finalmente, aggiungendo alla nuova data:cara moglie, anche oggi sono vivo.

E’ proprio in quei momenti che la matita resta ferma fra le labbra, e i soldati fissano un tratto indistinto nel cielo e subito si perdono nella visione della famiglia lontana, ritornano ai minuti degli ultimi addii dal treno in partenza, rammentano i vagoni traboccanti di soldati che cantano perché ormai nel canto resta l’unico modo d'affermare la «struggente voglia di vivere». E ora si guardano attorno, osservano la miseria e lo sporco della trincea, fissano gli elmetti ammaccati e i cappotti fangosi dei compagni rimasti sempre in meno, accovacciati lì presso, i loro volti barbuti ed inselvatichiti, ma ormai tanto cari, fraterni. Ed è allora che un nodo alla gola costringe il respiro, pare contrastare per un sentore d'intima rampogna o disagio il gesto della mano che tuttavia scende sul foglietto disteso sul ginocchio e traccia a fatica le parole: cara moglie sono vivo.

È l'ora, questa, è l'atmosfera in cui nascono le canzoni. Su un pezzetto di carta, su una cartolina in franchigia, nel retro di una busta usata. Senza pentagramma, certamente.

Senza nozioni di poesia, nemmeno di sintassi. Basta una matita e il cuore.

Per una che resterà poi nel tempo individuata come «canzone d'autore», sono decine e decine quelle nate senza alcuna paternità, composte da un inconscio poeta o generate dalla patetica buona volontà di un gruppetto di alpini seduti vicini a prender fiato in una qualche baracchetta, pronti ad aiutarsi reciprocamente anche in questa disperante lotta "grammatica contro sentimento", consultandosi con gli occhi e cercando le parole, mentre si attende di montare il nuovo turno di guardia. Sulla linea delle parole si tentano i primi accenni della melodia, che si snoda e si torce e a poco a poco si compone, ripetuta con umiltà e con perseveranza, fino a quando succede che quel gruppetto di altri alpini meno distanti drizza le orecchie, ascolta con diffidente silenzio, poi accenna un «si» e si alza infine lentamente per accostarsi e aggiungersi agli intimiditi cantori. Esce di tasca una fisarmonica da bocca, cerca a tentoni il motivo, gli altri seguono e ripetono, si scambiano i primi consensi soddisfatti: — La va. La va.

— A mi la me par bona.

— Mi scomèto che la 'taca! — Speremo, ciò, dopo tuta 'sta fadiga! Nasce così, come germina da un cespo d'erba sulla roccia una stella alpina o una campanula, una nuova canzone per la compagnia, forse per il battaglione, forse per tutti gli alpini...

Più tardi, durante gli anni di pace nasceranno le discussioni e le distinzioni colte e sottili, a volte addirittura accanite, per decidere se le canzoni degli alpini costituiscono fatto d'arte e come vadano inserite, con dettagli e sofisticherie, nel patrimonio culturale musicale italiano.

Sta di fatto che gli alpini non hanno mai cercato di farsi avanti a iscriversi nelle categorie dei canterini con presunzioni artistiche, ma in ogni tempo della loro storia si limitano a cantare dapprima per se stessi, per una propria intima soddisfazione, e ciò può avvenire nelle condizioni più disparate, in tempo di guerra come in tempo di pace. Per essi via via il motivo di cantare può essere l'allacciarsi a un ricordo lieto o triste, o l'evocazione dei compagni scomparsi, o un'affermazione d'orgoglio che non si sa né si vorrebbe diversamente esprimere o una esplosione di vitalità e d'allegria, o un aiuto a se stessi per ritmare il passo quando la marcia è diventata ormai troppo lunga ed estenuante, o, infine e soprattutto, un mezzo sincero e immediato per riconoscersi, un contrassegno e un sigillo che lega in un vincolo canoro e fondendo ogni voce crea senso di massa e di vigore.

Non c'è vanità, non c'è millanteria nel canto degli alpini, molte loro canzoni possono essere cantate durante una cerimonia religiosa («Stelutis Alpinis», «Bandiera nera») qualche altra, si sa, vale per essere canticchiata facendo brusca e striglia, o per far sorridere i vecchiotti e la ragazzotta che porta il mezzo litro nelle osteriole dei villaggi: “il ventinove luglio”, “Nui suma Alpin, am pias el vin"… Però, a considerare nel loro insieme i canti degli alpini, a collocarli nella progressione del tempo e delle patrie vicende, a collegarli con la storia dei battaglioni e dei reggimenti, con le pietre e con le nevi, con le caverne e le cengie e le morene fra le quali presero vita, allora sotto la semplice linea melodica scorre una vena segreta che sa di offerta, di dolore, di sacrificio, di taciturna coscienza di un dovere sempre adempiuto, di un amore geloso e tenace che ha fatto da trama alla storia d'Italia, e che, lasciando scomparire il volto di ogni singolo alpino (il canto corale è prima di tutto espressione di disciplina e di umiltà), innalza la storia degli alpini verso gli approdi della leggenda e dell'epopea. Chiedendoci perchè gli alpini cantano in quel modo, si potrebbe affermare che gli alpini cantano così per la stessa ragione per la quale così hanno sempre saputo vivere e resistere fino a morire: con quel loro inimitabile, semplice modo d'essere uomini. Fino alla seconda guerra mondiale l'interesse per il canto alpino era per lo più circoscritto nell'ambito delle «penne nere» durante il periodo di servizio militare, e ai naturali luoghi di provenienza di tali soldati, le valli alpine e le regioni subalpine; dall'ultimo dopoguerra in poi, invece, il “boom” della meccanizzazione, con la diffusione di dischi, radio e televisione, ha investito anche il campo della canzone alpina, diffondendola anche in ambienti fino allora scarsamente o per nulla interessati. Ne è sorta l'inevitabile conseguenza che la primitiva linea melodica monodica sia stata spesso non soltanto alterata, ma assoggettata a trattamenti i più vari, agli arrangiamenti ed alle armonizzazioni più disparate, dalle quali traspare senz’altro e in primo luogo una sempre rinnovata passione per il canto corale alpino, ma dalle quali tuttavia si può a volte anche notare qualche eccessiva concessione ai gusti musicali d'oggi; cosa che non manca di determinare impennate e giuste prese di posizione fra i molti gelosi custodi del canto alpino tradizionale. Per converso, in opposizione di orientamenti, contro chi vuole mantenersi rigidamente aderente alle autentiche fonti, sta chi invece è più corrivo a cercare nuove varietà di espressione, ritenendo di restare egualmente inserito nel naturale fluire della corrente del canto alpino.

Tralasciando ogni disquisizione e giudizio estetico, ciò che in definitiva sostanziale è il perpetuarsi spontaneo della velidità e autenticità di una tradizione grazie alla quale sempre si rinnova, anche nella diversità dei tempi, la inimitabile episodica che vincola il canto alla stessa vita degli alpini, e ne costituisce parte integrante.

Canta così, oggi, l’alpino, mentre nella sua camerata sta riassestandosi la branda, come cantava l’alpino nel 1917, quando giunto a riposo nel fondovalle si inginocchiava fra i sassi del torrente a lavarsi allegramente maglia e mutande; come cantava in egual modo, in una continuità di impostazione sentimentale e morale che non conosce diversità di condizioni o di tempi, l’intera compagnia d‘alpini del Battaglione “Val Chisone” comandata dal capitano Martini, alla quale è giusto dedicare qui un ricordo, nel cinquantenario.

La compagnia era da mesi dislocata a ridosso delle Tofane, arroccata sulle rocce del Piccolo Lagazuoi, a sentinella del Passo Falzarego, appigliata a quota 2500 metri e abbarbicata lungo un'aerea cengia a sbalzo sul vuoto, digradante verso la Val Parola e chiamata appunto “cengia Martini”. Posizione pazzesca a viverci, ma di prim'ordine a saperla tenere, dominante com'era, sempre contesa dagli austriaci, che a un certo punto iniziarono a scavare una galleria muovendo dalle loro posizioni sottostanti, e con settimane di lavoro da talpe si portarono a raggiungere la cengia, nell’intento di occuparla di sorpresa facendo saltare una mina e aggredendo subito gli alpini frastornati o tramortiti.

Ma i rumori di scavo non erano sfuggiti agli alpini, che sommando i vari indizi avevano intuito l'intento e avevano controllato il progredire dei lavori fino al giorno in cui, giunti gli austriaci ormai sotto la cengia, gli alpini di guardia individuarono il punto ove ti stava ammassando l'esplosivo. Fu allora che il capitano Martini ottenne di far salire dalla valle, con trombe e tromboni, alcuni, elementi della fanfara reggimentale, che si appostarono con gli alpini nei pressi del punto ove sarebbe esplosa la mina. Cosicché, quando questa fu fatta brillare e gli austriaci si gettarono nel varco ancora fumigante per irrompere alla conquista della posizione italiana, si trovarono aggrediti dall'esplosione dello strombettare dei suonatori che a tutto fiato rinforzavano le voci degli alpini, i quali in frenetico coro avevano attaccato una tra le più allegre e aggressive delle loro canzoni. Sotto lo sferzare delle note che sottolineavano il fallimento della sorpresa e la scanzonata sicurezza degli alpini, gli sbalorditi austriaci ripiegarono rapidamente quatti quatti alle posizioni di partenza.

Allegria, orgoglio, malinconia, nostalgia, dolore, rimpianto, speranza si alternano e si fondono quindi secondo l'ora, l'estro e gli eventi, nella canzone che gli alpini di volta in volta cantano. Sono lontane, talora irraggiungibili e sconosciute, le vene d'ispirazione originaria; affondano nel terreno della nostra storia, spesso in modo imprevedibile e riaffiorano di tempo in tempo quando un nuovo estro o un nuovo dolore le richiama, le ritrasforma adattandole a un nuovo tempo, a una nuova necessità di canto. A volte sono vecchie parole che si vestono di una nuova melodia. A volte è un vecchio motivo che si stende su nuovi versi, convulsi e dolorosi, quasi a placarne la concitata voce di sofferenza. A indicare, anche nella vita degli alpini, l'ineluttabile continuità della sofferenza umana, mai disgiunta dalla grandezza d'animo di chi sa sopportarla tanto da trasformarla in virtù…

 

 

 

 

 

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