Antonio Mariani

 

Noi la pensiamo così

Circondato da un superbo scenario di montagne scintillanti di nevi perenni, tra il Monte Bianco, il Gran Paradiso, il Ruitor e i monti della Savoia, mi è capitato in questi

giorni di leggere un vecchio articolo pubblicato su una pagina dell’Avvenire del primo novembre del 2000. E sono rimasto agghiacciato dal titolo:“La Montanara tonalità

New Age” (sic!). Un amico che mi è venuto a trovare, me ne ha portato una fotocopia che conservava da tempo allo scopo, provocatorio, di farmela leggere. E (quando si dice la combinazione!) proprio in questi giorni, in questo ambiente ideale, mi stavo accingendo a scrivere qualche cosa da pubblicare sul numero unico dedicato

 

 

al decennale del Coro Malga Roma. Qualcosa per comunicare agli amici che ci seguono le nostre idee, i nostri principi ispiratori. Ed appunto notando l’enorme divario che ci separa dalle idee espresse in quel pezzo, posso dire che, come punto di partenza per la mia esposizione, esso cade proprio come il cacio sui maccheroni. E’ a firma del sig. Roberto Beretta, ed è accompagnato da un paio di fotografie. Una di queste ritrae un coro alpino, con il classico e purtroppo diffuso abbigliamento (certamente più adatto ad una manifestazione da azienda turistica o ad una “arrampicata” in montagna - l’avranno mai fatta? - che ad una esibizione canora): scarponi, pantaloni alla zuava, calzettoni bianchi, camicia a scacchettoni. E con in testa un improbabile cappelluccio con la penna (di quelli squallidi e risicatucci da congedando, di cui certi reprimendi alpini amano fregiarsi al posto del loro glorioso copricapo: un incrocio tra un agnolotto e un ditale da cucito). L’ “occhiello” dell’articolo dice:“ De Marzi: ma la crisi dei cori dura da 20 anni (n.d.r. : più o meno da quando ha cominciato a diffondere le sue canzoni?). Marchesotti: repertori da rinnovare (sic!). Gherzi: brani dall’Himalaya, perché no? (arisic!!!!!)”. Ciò che sto esprimendo è ovviamente solo il mio/nostro punto di vista: idee e sentimenti maturati in una , ahimè!, (quasi) cinquantina di anni di affettuosa, e spesso professionale, consuetudine con i monti e con i canti al fine di spiegare il mio/nostro, punto di vista e cosa rappresenti per me/per noi, un canto di montagna. E qui è difficile non cadere nel tranello della retorica, ma, fedele alla massima “omnia munda mundis”, non mi faccio scrupoli e proseguo! Il canto di montagna per noi significa il riaffiorare alla memoria di ricordi, di sensazioni, di paesaggi, di odori, di brani di vita che ci rammentano momenti di emozioni intense.

Le marce con lo zaino in spalla per raggiungere il rifugio (o i luoghi di esercitazione), gli alpeggi con lo scampanio delle mucche, le arrampicate, spesso sofferte, sulle belle rocce dolomitiche o le ascensioni sui pendii ghiacciati occidentali. In tutte queste occasioni, in più di quarant’anni, mai una volta abbiamo mancato di sottolineare la nostra gioia e le nostre emozioni con un canto. Neanche quando, e purtroppo è capitato, il nostro essere in montagna dipendeva da un accadimento disgraziato e doloroso.

Io credo che siamo stati, e siamo, gli ultimi, parlo nel senso di generazione, ad avere avuto ed avere queste esperienze. Nelle quali coinvolgiamo coloro (pochi) con cui abbiamo consuetudine in queste occasioni.

 

 

 

 

Il nostro atteggiamento

 

E questo, diciamo così, è il nostro atteggiamento soggettivo. Ma vorrei considerare la questione da un punto di vista più generale, esaminandone gli aspetti più propriamente antropologico-culturali. E’ noto a tutti che fino a poco dopo il termine dell’ultima guerra il “genere” musicale “canti di montagna” costituiva ancora un “prodotto” di consumo popolare. Tanto è vero che ancora in quegli anni, per fare un esempio, una canzonetta tipo “Vecchio scarpone” (peraltro musicalmente bruttina e piena di luoghi comuni ) riusciva a riportare un enorme successo in uno dei primi festival di San Remo, proprio perché rimandava maliziosamente a certi stereotipi (lo scarpone, le stelle alpine, le cime bianche)…

Ho parlato di consumo popolare, perché la gente veniva da un periodo, e ne aveva ancora conservato la cultura, in cui tutto era più semplice. Anche allora i mezzi di comunicazione di massa condizionavano i costumi ma, a differenza di quanto accade oggi, li stimolavano verso una cultura contadina, paesana e quindi montanara (anche se spesso per motivi, diciamo così,“perversi”: ma questo è un altro discorso). Ed infatti il canto di montagna che, come noto, almeno nella forma corale e polifonica che conosciamo ed amiamo, ha avuto origine e sviluppo nella prima metà del secolo appena trascorso, è “esploso” nel periodo fra le due guerre.

I reduci della prima, che fu un volano formidabile per l’unificazione culturale nazionale, anche se provenienti, poniamo, dalla Sicilia, cantavano con nostalgia i canti della trincea e dei monti appresi dai commilitoni delle valli alpine. E li insegnavano ai figli che li ripetevano nelle loro occasioni (*). Certo non tutti i canti provenivano da una tradizione

alpigiana orale. Ci sono stati ad esempio anche alcuni “autori”, percentualmente pochi per la verità, che in questo periodo hanno “composto” dei canti di montagna (penso a Stelutis alpinis di Zardini, ai canti abruzzesi di Albanese, alle composizioni di Pigarelli, per citare i più noti). Non si può negare, tuttavia, come queste canzoni fossero

comunque legittimamente assimilabili alle altre. Come quelle, infatti, costituivano non un “prodotto di nicchia” ma un genere di vasta fruizione, dal momento che era seguito, coltivato e “consumato” dal “popolo”. Il boom degli anni ’60, il proliferare dei mezzi di comunicazione di massa, la conseguente tendenza all’ “omologazione” culturale, tutto ciò, a mio avviso, ha decretato il neanche tanto lento declino del “canto di montagna”. La mia generazione ne è ben stata testimone. Personalmente rammento che già fra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60, durante la mia frequentazione della montagna in ambito SUCAI, ero guardato con curiosità e sufficienza dagli altri alpinisti del gruppo mentre con alcuni amici intonavo timidamente qualche brano durante la marcia di ritorno dalla “palestra” o nell’immancabile sosta in osteria. In seguito i grossi cambiamenti strutturali della società hanno fortemente accelerato questa “evoluzione”. Pochi anni or sono, per fare un altro esempio pratico, nell’inverno del 2000, durante un breve richiamo presso il Centro Addestramento Alpino di Aosta per un corso di aggiornamento per Istruttori militari di sci, mi sono ritrovato insieme ad una quarantina tra Ufficiali e Sottufficiali delle truppe alpine, il più anziano dei quali avrà avuto una trentacinquina di anni. Con un certo pudore ho cercato di scandagliare fra di loro, avvalendomi anche di un certo ascendente che mi era conferito dal grado superiore (nonché, ahimè, anche dall’età “molto più superiore”), per cercare di capire se conoscessero e praticassero i canti di montagna e se la truppa in qualche modo li coltivasse nelle varie occasioni. Quei bravi giovani, devo dire tutti eccellenti

militari e provetti sciatori ed alpinisti, mi hanno guardato con un misto di tenerezza e di indulgenza, quasi come se avessi chiesto loro se c’era ancora l’usanza, nell’Esercito Italiano, di porsi alle gambe le fasce mollettiere.

E ancora, più recentemente (si tratta dell’anno scorso), avendo ricevuto con grande piacere l’invito a formare e dirigere un coro con gli allievi Ufficiali alpini che frequentavano gli ultimi corsi A.U.C. (l’ultimo, ahimè!, si è svolto proprio l’anno passato) presso la Scuola di Fanteria di Cesano, nell’iniziare le prove (preciso che si trattava di giovani diplomati o laureati, tutti o quasi provenienti da quelle che una volta si chiamavano zone di reclutamento alpino), per riuscire a trovare un canto che fosse loro non dico familiare, ma almeno non completamente sconosciuto

ho durato fatica. Ed abbiamo infine optato per Sul cappello, che alcuni comunque non conoscevano, ed Il testamento del Capitano, conosciuto ancor meno. Loro mi avevano proposto E’ arrivato l’ambasciatore, nota canzoncina che si tramandavano di corso in corso, non so perché, da qualche anno (e ho dovuto faticare per renderli persuasi che, malgrado quella “piuma sul cappello”, con le canzoni alpine questa non c’entrasse per nulla). Questo fenomeno è fatalmente destinato ad avere un'accelerazione esponenziale, con la sospensione della leva e l’introduzione della figura del soldato professionista: la remunerazione di questi nuovi militari di truppa, fatalmente, è appetibile, lo dicono i fatti, quasi esclusivamente a giovani provenienti da regioni di scarse risorse economiche e quindi lavorative, non certo dalle ormai ricche valli alpine. Occorre quindi, molto serenamente e sia pure a malincuore, prendere atto che il genere “canto di montagna” ha esaurito da tempo la sua fase evolutiva. E’ attualmente coltivato, con affetto e attaccamento, da pochi appassionati. Ma allora è ancora lecito, ovviamente da un punto di vista “intellettuale”, praticarlo? E’ un’operazione culturalmente e storicamente corretta? Dato ovviamente per scontato che ciascuno è libero di esprimersi come meglio crede, sono dell’opinione che anche sotto questa prospettiva la risposta non possa che essere affermativa. La pratica, la raccolta, lo studio, la custodia del patrimonio culturale popolare è cosa degna e giusta. A maggior ragione se, come è nella fattispecie, il farlo dona intense sensazioni e momenti di grande gioia e serenità. Ma c’è un’altra domanda: è lecito, per contro, scrivere, comporre, creare oggi canti di montagna? E’ anche questa operazione storicamente e culturalmente corretta? Beh, qui la faccenda si fa un pochino più “articolata”. Fermo restando quanto già espresso sulla libertà delle scelte intellettuali di ciascuno, non mi sento di rispondere positivamente.

E se non fossi stato sufficientemente chiaro illustro ulteriormente il mio punto di vista. L’origine dei canti di montagna, nella quasi totalità dei casi, è assolutamente sconosciuta, tanto da farli ritenere, nella credenza comune, di invenzione popolare. Bene, è proprio questa nebbiosa origine, perduta nel tempo, che ci fa quasi illudere che la melodia (e le parole) si siano originate, per misteriosa magia, dai profili stessi dei monti. In ciò stesso è il fascino di questi canti (ed a questo proposito invito a rileggere la preziosa presentazione, opera di Giuseppe Mazzotti, che apre le pubblicazioni dei canti della montagna del repertorio della SAT). E allora, se noi amiamo tutto ciò proprio per queste ragioni, come possiamo apprezzare quanto invece ha origine ora per mano di un compositore contemporaneo? Si potrebbe obiettare che l’etnomusicologia ci ha ampiamente spiegato che in realtà tutte queste canzoni non si sono generate spontaneamente, ma che c’è stata la mente di un “compositore” iniziale che ha dato via alla creazione del brano. Brano che, successivamente ripreso e modificato da mille mani, è poi giunto fino a noi. Allora perché negare pari dignità a qualche cosa che, ugualmente, ha origini “colte” e che ha solo il “difetto” di essere contemporanea? Rispondo che questo è il nostro (il mio) giudizio oggi; che sarei pronto (e ovviamente ben lieto!) a riparlarne tra cento, duecento anni. Tuttavia ritengo che difficilmente la futura critica etnomusicale, posto che presterà attenzione all’argomento, potrà darne un giudizio positivo: ciò che è stato creato da un autore nel ‘600, nel ‘700 o nell’ ‘800, e che è stato poi rimaneggiato dalla pratica popolare, era un prodotto goduto da tutti, che entrava pertanto a far parte della cultura comune. Ciò che viene creato oggi è destinato

ad un pubblico esiguo e selezionato, venendo a perdere proprio la caratteristica peculiare della popolarità. Va da sé che con ciò non intendo assolutamente entrare nel merito del valore tecnico musicale dei componimenti contemporanei, la cui valutazione esulerebbe dall’argomento. Questo, in fondo, è tutto. E dovendo assolutamente terminare per aver di gran lunga “forato” lo spazio che mi era stato concesso, posso concludere con l’affermare che il Coro Malga Roma è nato perché un gruppo di persone, alle quali si sono via via (sia pur faticosamente) aggiunte delle altre, amava esprimersi secondo queste premesse e cantare solo canti della naja alpina e più in generale canti di montagna storicamente affermati.

Non essendoci altri organismi sulla piazza che concordassero con queste idee, hanno dato vita a questo gruppo. Ma c’è un altro aspetto, peculiare, del nostro coro: esiste infatti una sorta di più o meno tacito accordo fra di noi, in base al quale chiunque si presenti e condivida queste nostre idee è accolto con calore ed amicizia, indipendentemente dalle sue qualità… musicali. E questo vale, in primis, per il direttore. Certo, ci rendiamo ben conto che con una simile filosofia si riesca a crescere tecnicamente con molta fatica, ma certamente sul piano umano la nostra crescita è stata di grande soddisfazione. E questo è ciò che conta di più per noi. Quindi se qualche paziente lettore, anche non particolarmente dotato dal punto di vista canoro, volesse condividere queste nostre esperienze, che venga senza indugio: sarà certamente accolto con calore e simpatia. Antonio Mariani.

 

Il secondo direttore

 

 

 

 

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