La tolleranza religiosa dell’Islam ed il rapporto Islam-politica: intervista a Padre Samir Khalil Samir

tratto da “La libertà religiosa nei paesi islamici. Rapporto 1998”

Padre Samir Khalil Samir, gesuita, è nato al Cairo ed è docente di Teologia orientale nella Facoltà di Teologia dell’Università Saint-Joseph di Beirut, in Libano. Insegna anche al Pontificio Istituto Orientale di Roma, dirige e ha fondato il CEDRAC (Centro di Documentazione e Ricerca Arabo- Cristiano).
Volendo affrontare il problema della libertà religiosa dei cristiani nei paesi islamici, vorrei cominciare dalla sua esperienza personale. Lei è di origine egiziana, vive e insegna in Libano, a Beirut, in una terra che per molti anni è stata un esempio unico di convivenza e rispetto tra cristiani e musulmani; poi con la lunga guerra civile che ha sconvolto il paese molte cose sono cambiate. Quale è la situazione dei cristiani nel Libano di oggi?
Posso dire che la situazione è buona, per un motivo: perché il Libano non è paese islamico. È un paese dove i musulmani sono numerosi, forse la maggioranza, ma per fortuna è un paese che legalmente non si definisce musulmano, a differenza di tutti gli altri paesi arabi. Il Libano è l’unico paese che è allo stesso tempo arabo e non musulmano; questo si esprime a livello giuridico con il fatto che, per diritto, il Presidente della Repubblica deve essere un cristiano, mentre il Primo Ministro deve essere un musulmano. La realtà del Libano, che risale al 1923, quando fu varata la sua Costituzione, è frutto di un atteggiamento dei cristiani del Libano, un atteggiamento che mi ha sempre colpito. Io sono egiziano, ho vissuto in diversi paesi arabi, ma sono rimasto colpito dalla differenza che vedo nei cristiani del Libano, ed in parte in quelli della Siria. In Egitto abbiamo un atteggiamento da schiavi, dovuto a secoli di sottomissione che hanno portato ad un’attitudine a sopportare. Ciò ha anche prodotto una determinata spiritualità, bellissima, in cui si vede l’accettazione cristiana della sofferenza. In Libano e in Siria no. Loro non tacciono quando c’è qualcosa che non va; anche se in Siria la percentuale di cristiani è in- feriore a quella dell’Egitto. In Siria non hanno paura, hanno una fierezza che non si trova in Egitto. Questo viene da secoli di storia e tale atteggiamento è divenuto una seconda natura. Se in Libano i cristiani dovessero diventare una minoranza di molto inferiore ai musulmani, i cristiani continueranno a rivendicare i loro diritti di cittadini. Hanno creato un’altra mentalità.
Quale è il fondamento sociologico, ideologico e r eligioso delle discriminazioni e delle persecuzioni che colpiscono i cristiani?
Il problema dell’islam non può essere compreso senza fare riferimento alla politica. Le ingiustizie sono dovunque, siamo abituati a considerare normale il fatto che le minoranze debbano lottare per i propri diritti. Ciò che colpisce è che nei paesi musulmani c’è un’immediata identificazione fra religione e politica, che legittima lo stato di inferiorità giuridica di chi non è di religione islamica. Nei paesi islamici due sono gli scopi di chi ha responsabilità di governo: in primo luogo quello di proteggere la religione musulmana, assicurarsi cioè che sia osservata, con tutti i mezzi disponibili; in secondo luogo quello di estendere l’islam a tutto il mondo. Questa è la teoria classica dei giuristi musulmani, non è una novità; l’islam è «religione e società». Sotto questo aspetto si comprende come sia fatto ogni sforzo, economico, culturale, politico, per estendere l’islam. L’altra caratteristica del mondo islamico è il prevalere della comunità sull’individuo, il che significa che la nozione di libertà di coscienza o di diritti dell’uomo (due concetti che da due secoli contraddistinguono, nel bene e nel male, il mondo occidentale) solo in minima parte sono stati accolti dalla cultura musulmana.
Il fondamento giuridico delle attuali discriminazioni fu elaborato tra il I ed il IV secolo dell’era islamica (corrispondenti al periodo che va dal VII al X secolo dell’era cristiana). In questo periodo fu elaborata tutta la giurisprudenza e tale dottrina è giunta fino ai nostri giorni. Bisogna anche dire che all’inizio del XX secolo la cultura islamica fu pervasa da un vasto movimento liberale, suscitato anche dall’influsso dell’Occidente, che a tale movimento appariva come un modello auspicabile di società. Vi sono stati grandi giuristi che nell’Egitto degli anni Trenta del nostro secolo hanno prodotto una positiva integrazione tra codice napoleonico e legislazione tradizionale islamica. Tutto questo è stato rimesso in discussione agli inizi degli anni Settanta con la guerra del 1973, la crisi del petrolio, ecc. La reazione «integralista» alle tendenze moderniste e liberali era emersa già in seguito all’abolizione del Califfato nel 1924 da parte di Ataturk, alla fine degli anni ’20 risale anche la nascita del movimento dei «fratelli musulmani ». Tale reazione ha comunque suscitato l’ostilità dei governi di tutti gli Stati arabi (si pensi a Nasser). Dobbiamo riconoscere che la concezione secondo cui l’islam è «religione e stato» appare la più fedele al progetto originale di Maometto. Quando gli islamisti oggi rivendicano questo progetto socio-politico sono fedeli alla tradizione islamica, la più comune e la più autentica.
Nella cultura dei paesi arabi musulmani ha infine prevalso, al posto della categoria del cittadino, la divisione tradizionale della società in credenti (coloro che seguono l’islam), protetti (cristiani ed ebrei) e miscredenti (la cui sorte può essere la morte o la conversione all’islam). La realizzazione e la diffusione di quest’idea della società rimane il sogno della tendenza tradizionalista.
È possibile oggi pensare diversamente l’islam? Vi è una qualche dialettica o un confronto fra interpretazioni diverse?
Io credo che sia possibile, ma allora sarà una nuova tradizione che oggi non è quella prevalente. L’islam nasce fin dalle origini come progetto socio- politico ed anche militare: ciò è evidente sia nel Corano che nella sunna, nella tradizione che include la vita e i detti di Maometto. Per un musulmano religione e politica sono indissolubili.
In che modo nei paesi islamici si dà attuazione a questo progetto? Dobbiamo partire dal presupposto che nella visione dell’islam ogni mezzo è buono se contribuisce allo scopo finale dell’instaurazione dello Stato islamico o alla protezione dell’islam. Ciò si vede nella islamizzazione della scuola: ogni mattina in Egitto si inizia con la lettura del Corano, i testi delle materie insegnate sono pieni di riferimenti all’islam, dalla matematica alla storia o alla letteratura, l’apprendimento del Corano è obbligatorio per tutti.
Altro strumento è l’umiliazione dei cristiani ad ogni livello. Se cammino per strada portando, con discrezione, una croce, rischio di essere picchiato o ingiuriato. È comune essere insultati dai bambini. Già a livello sociologico, dunque, c’è una pressione molto forte che scoraggia i più deboli. A livello più grave, economico, la discriminazione verso i cristiani fa sì che per questi la possibilità di trovare lavoro sia più difficile, e spesso tale possibilità è limitata al lavoro privato. A questo proposito si deve anche tenere presente che moltissimi paesi hanno sulla carta di identità l’indicazione della religione professata e dove ciò non accade, è il nome stesso a rivelare la fede religiosa del singolo e a determinare così le sue possibilità di lavorare o anche il trattamento.
Anche l’informazione svolge un ruolo importante sotto questo aspetto: ogni giorno, sui giornali si parla dell’islam, talvolta si attaccano violentemente i cristiani. Anche in televisione la presenza dell’islam è molto forte: i programmi di informazione parlano dei successi dell’islam, i notiziari sono interrotti dalla preghiera. Nei dibattiti televisivi spesso si lanciano accuse contro i cristiani, ma non è prevista la presenza di un contraddittorio o il diritto di replica; questo accade anche per i giornali. Per strada ovunque risuonano le trasmissioni radiofoniche con le cinque preghiere, precedute dagli appelli che possono durare anche un’ora. In Egitto c’è una radio statale che trasmette il Corano 24 ore su 24. Accade che il pio musulmano, senza intenzioni cattive o ostili, tiene il volume altissimo affinché tutti i vicini possano ascoltare (è una cosa comune del mondo arabo). L’effetto, tuttavia, è che chi è cristiano deve ascoltare tutto il giorno il Corano... e molti cristiani dicono che noi dovremmo accettare tutto questo...
La pressione sociale dell’islamizzazione è fortissima, ha effetti molto più gravi sui cristiani che non le norme della legge; non si può capire questo se non si vive in un paese musulmano e se non si capisce l’arabo. Questo concorso di forze coercitive ha qualche analogia con ciò che accedeva nei paesi comunisti, dove le leggi, le istituzioni di nome garantivano la libertà, ma di fatto non era così. Se consideriamo che in 70 anni il comunismo è quasi riuscito nel tentativo di estirpare il senso religioso del popolo russo, dobbiamo riconoscere che se dopo tanti secoli in Medio Oriente vi sono ancora comunità cristiane, questo è davvero un miracolo.
In questa situazione stupisce che l’Occidente rimanga inerte di fronte a casi di palese violazione dei diritti umani; per l’opinione pubblica, i grandi mezzi di comunicazione, le istituzioni politiche questo problema sembra non esistere...
Mi sembra che l’Occidente in ciò sia condizionato dalla sua storia; l’Occidente è sociologicamente di matrice cristiana, ma ha lottato da due secoli a questa parte per liberarsi della religione e della sua identità. Si è così diffusa l’idea che il cristianesimo non debba entrare in questioni politiche, che è un fatto interiore, personale, che non deve avere legami con la vita civile. Si è privatizzata la religione. Molti occidentali, inoltre, sono secolarizzati ed hanno nei confronti della religione due possibili atteggiamenti:
1) la religione non mi riguarda, è un fatto privato del singolo;
2) la religione è un fenomeno che va combattuto.
All’origine di questo modo di pensare c’è anche la polemica contro la Chiesa, intesa come istituzione dotata di una struttura gerarchica, di apparati, ecc. Quando invece si parla dell’islam, si è soliti dire che si tratta di un’altra cultura, la quale ha il diritto di organizzarsi come meglio cre- de, con la poligamia, la forma dello Stato e così via. Il tipico ragionamento occidentale mette al primo posto il rispetto per le altre culture, ma non quando si tratta dei cristiani d’Oriente. Inoltre per il fatto che per molti la religione non ha senso, anche questo problema delle persecuzioni dei cristiani non è importante; molti poi hanno interpretato con categorie occidentali, spesso prese dal marxismo, realtà completamente diverse. Ciò ha portato a clamorose falsificazioni, come quella per cui la guerra civile del Libano era da considerare una lotta di classe, una guerra dei musulmani, poveri ed oppressi, contro i cristiani, ricchi e potenti. La realtà era del tutto diversa.
Un altro aspetto di questo problema: l’Occidente, che afferma di voler rispettare tutte le culture, si mobilita soltanto di fronte alle violazioni di valori che esso riconosce come fondamentali; per ciò che riguarda l’islam è il caso dell’infibulazione ed in genere della condizione della donna. Anche l’idea di tolleranza, che si è progressivamente affermata in Occidente, va considerata in questo ambito di problemi, perché tale idea si è evoluta in un atteggiamento pericoloso, per cui chi è diverso ha per ciò stesso più diritti e gode quasi di maggiori tutele. Questo modo di pensare ha effetto anche sulla nostra questione, perché si proietta erroneamente la situazione minoritaria dell’islam in Occidente e la condizione di svantaggio degli immigrati islamici su quanto accade là dove l’islam è maggioritario o addirittura religione di Stato.
L’Occidente sembra avere quasi un senso di colpa verso i paesi del terzo mondo...
È una delle tendenze che mi preoccupa: c’è una sistematica autocritica, spinta fino al masochismo, che sta corrodendo la società occidentale. Io la chiamo il «meaculpismo». Sui giornali possiamo trovare ogni sorta di attacco al cristianesimo, ogni possibile sciocchezza sulla religione e sulle cose più sacre della nostra religione e nessuno si può permettere di obiettare nulla: c’è la libertà di pensiero. Ciò non vale se si scrive qualcosa di non gradito per le altre grandi religioni, in particolare sull’islam e l’ebraismo: allora subito tutti accorreranno ad accusare e condannare.
E tuttavia l’Occidente è molto cauto quando si tratta di Paesi importanti dal punto di vista economico.
Basta guardare al caso dell’Arabia Saudita, un paese dove i più elementari diritti dell’uomo sono ignorati sistematicamente, nel silenzio più assoluto anche delle grandi potenze. Tutti i Paesi, l’Italia come gli Stati Uniti, sanno che in Arabia Saudita il diritto del lavoro è contrario alle regole dell’umanità. Come si arriva ti viene ritirato il passaporto e tu diventi uno schiavo, non puoi uscire dal loro paese senza il loro permesso. Ogni tanto si verifica un incidente diplomatico, perché un lavoratore occidentale viene maltrattato, ma poi tutto torna come sempre: il fatto è che a patire le ingiustizie sono soprattutto i lavoratori del terzo mondo (delle Filippine e dello Sri Lanka in primo luogo) e così nessuno parla. Posso capire le Filippine, perché il denaro proveniente dai lavoratori immigrati in Arabia Saudita è la prima fonte di ricchezza del paese, ma questa omertà è rivoltante nel caso dei Paesi occidentali. È un atteggiamento amorale che colpisce profondamente i popoli arabi, che oggi guardano all’Occidente con l’ammirazione che sempre si riserva ai potenti, ma anche con disprezzo perché essi comprendono che è l’Occidente ad essere senza principi.

Intervista a Muhammad Sa’id al-Ashmâwi, giudice riformista perseguitato

Zamalek, l’isola all’interno del Nilo che ospita al Cairo numerose ambasciate di Paesi arabi e musulmani, ha tra i suoi abitanti anche un sorvegliato speciale, che dal 1980 vive con la scorta di tre poliziotti armati, che ne proteggono l’abitazione e l’incolumità. Muhammad Sa’id al-Ashmâwi è un giudice «illuminato», ma all’interno del suo appartamento, colmo all’inverosimile di oggetti di antiquariato locale e di antichità occidentali, non filtra la luce del giorno: pesanti tende di velluto coprono le finestre per evitare che insieme al sole possano entrare le pallottole dei fondamentalisti musulmani che vorrebbero sbarazzarsi della sua scomoda presenza. L’isolamento non è sufficiente a fermarne l’attività poiché, dice, è meglio sacrificare la propria vita che rendersi complici del prevalere dell’«ideologia islamica», come lui definisce il fondamentalismo. Le sue opere in lingua araba hanno conosciuto traduzioni in inglese, come Islam and Political Order, e numerose sono le sue lezioni presso Università occidentali, dalla Spagna agli Stati Uniti. In italiano, è apparso Riflessione giuridica sul problema della «codificazione» della shari’a, all’interno del volume Dibattito sull’applicazione della Shari’a pubblicato dalle Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli nel 1995. La sua vicenda, meno nota di quella dello scrittore Salman Rushdie, si svolge tra le quattro mura di casa, ma sotto silenzio come in una prigione.
«Ero Consigliere della Corte di Giustizia del Cairo. Ma ho preferito andare in pensione perché il ministro della Giustizia, incaricato anche dei Beni religiosi (Awqâf), mi ha obbligato ad abbandonare le mie attività. Il governo non si riteneva soddisfatto delle mie sentenze. Ma si tratta di una sorta di persecuzione politica. Hanno voluto togliermi l’opportunità di raggiungere la gente, pur non arrivando a farmi oggetto di una fatwâ (una condanna formale dei dottori islamici, come usa nell’islam, n.d.r.) e limitandosi alle minacce. Ciononostante, si tratta di un pericolo che corro costantemente, anche all’estero, a causa dello sviluppo internazionale che hanno conosciuto i miei tentativi di offrire nuove definizioni della religione ».
Vi sono altri intellettuali che vivono nelle sue condizioni, in Egitto?
No. Chi prova ad infrangere qualche dogma poi fugge all’estero. Per questo la mia attività è rimasta senza seguito apparente, anche se molti intellettuali vi fanno riferimento in modo esplicito o implicito. Certo, se potessi esprimermi liberamente, senza pressioni dall’esterno, anche la mia produzione potrebbe aumentare e dare il via a un rinnovamento e a una riscoperta della religione e dell’islam in particolare. Del resto, non desidero pormi in contrasto con il governo, sebbene io continui a rappresentare un problema, in quanto non è facile inglobarmi.
Lei pensa che possa maturare una maggiore consapevolezza dei diritti umani e della libertà religiosa nei Paesi musulmani?
Un’evoluzione è possibile, a patto che si passi da quella che ho definito «l’ideologia islamica» a un «islam liberale». Per gli ideologi, invece, i diritti dei musulmani vengono prima di quelli altrui. A mio giudizio occorre proteggere tutti sulla base dei diritti umani, ma chi scrive qualcosa di non gradito agli ideologi viene subito tacciato di aver violato i «diritti islamici». Quanto alla libertà religiosa, andrebbe rispettata e non soppressa, poiché anche nel Corano viene affermato il pieno rispetto della libertà di fede. Qualcun altro ha voluto costruire una tradizione non basata sul Corano. Il risultato è che, invece di identificare la religione e la comunità si sono legati insieme la religione e lo Stato e ciò ha causato un conflitto tra la comunità islamica e lo Stato. Eppure, il governo, invece di porre il popolo di fronte alla realtà, continua ad assecondare chi è stato conquistato, per ignoranza, da queste false affermazioni. L’idea di un «islam liberale» è stata accusata di condurre all’ateismo e al secolarismo, ma è falso. Io sono musulmano, mi sento vicino al sufismo, e credo che la religione avrà un futuro, non nel senso di una comprensione meccanica del suo messaggio, ma sulla strada dell’unificazione tra gli uomini. Anche la posizione dei «dhimmi», cioè dei popoli di religione ebraica e cristiana, che implicava da parte della maggioranza islamica il diritto di proteggerli, è un concetto superato da quello di cittadinanza. Ma, siccome nel Corano non si parla di cittadinanza, poiché allora non vi era il concetto dello Stato, la Umma (la comunità musulmana, n.d.r) tenta di distruggere lo Stato senza aver nulla con cui sostituirlo. È quello che accade anche in Occidente, dove i musulmani non si sentiranno mai cittadini dello Stato, a meno che non cambino mentalità.
Ed è anche, secondo lei, uno dei motivi che conducono alla solidarietà e all’appoggio finanziario e armato di Paesi musulmani in occasione dei conflitti nei Balcani, ultimo quello in atto nel Kosovo?
Certo. I musulmani si sentono minacciati perché pensano in modo tribale. Se pensassero in maniera globale si sentirebbero cittadini di uno Stato senza avvertire una diminuzione dell’autorità. Il fatto è che oggi il fanatismo è diventato una moda e la dottrina dell’islam è dominata dagli estremisti militanti.
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