La libertà religiosa nei paesi islamici

Riportiamo una breve rassegna sulla situazione delle altre religioni in alcuni paesi islamici. Se ne deduce che nei paesi occidentali i musulmani godono di una tolleranza sconosciuta ai cristiani nei paesi musulmani.
Questi dati sono stati tratti da un rapporto del 2000 sulla libertà religiosa nel mondo del Segretariato Italiano "Aiuto alla Chiesa che soffre".

EGITTO
RELIGIONE: Musulmani: 94%; Cristiani Copti: 5,9%

La Costituzione, promulgata nel 1980, che considera la shari’a come la fonte principale del diritto, favorisce i musulmani e relega i cristiani – nonostante i copti ortodossi siano la comunità cristiana più numerosa del Medio Oriente e sostengano di rappresentare circa il 10% della popolazione – al rango di cittadini di seconda classe, a cui non è concessa rappresentanza politica e nei confronti dei quali vi sono discriminazioni anche in campo lavorativo, specie nel settore amministrativo e della pubblica sicurezza. L’ammissione di studenti cristiani alle scuole per insegnanti di arabo è ostacolata in quanto comporta lo studio del Corano.
Il governo utilizza una legge, in vigore dal 1865 nell’Impero ottomano, che di fatto impedisce la costruzione, il restauro e persino la tinteggiatura delle chiese senza il permesso del presidente della Repubblica. Anche se dal 1998, come informa il rapporto sulla libertà religiosa del Dipartimento di Stato Usa, grazie al decisivo intervento del presidente Mubarak, vi sono segnali di allentamento delle maglie relative ai permessi di restauro di chiese, rimangono insormontabili le difficoltà burocratiche opposte dal ministro dell’Interno e dalle autorità locali all’esecuzione dei progetti approvati.
Si verificano inoltre frequentemente attacchi da parte di islamisti nei confronti dei cristiani.

21 Dicembre 2004 – da Asianews.it

Conversioni forzate, chiese negate: i cristiani discriminati sulle rive del Nilo

Nelle ultime settimane nuovi episodi di discriminazioni contro la minoranza copta hanno spinto i cristiani a forti proteste di piazza: il gesto del patriarca Shenouda III – autoesilio volontario - vuole denunciare le persecuzioni, violazioni della libertà religiosa e le violenze alle quali i cristiani sono ogni giorno sottoposti nell’antico paese dei Faraoni.

Questi gli ultimi fatti conosciuti di avversione anti-cristiana. Il 3 dicembre 5.000 musulmani del villaggio di Mankateen (220 km sud del Cairo) hanno saccheggiato il luogo di preghiera cristiano e i negozi degli abitanti copti del villaggio. La folla islamica si era radunata sull’onda dell’entusiasmo per la notizia che il presidente Mubarak aveva rifiutato - per imprecisate “ragioni di sicurezza” - la richiesta dei copti di costruire una nuova chiesa su un terreno acquistato dalla comunità nel 1977. Durante le violenze contro i cristiani la polizia locale - denuncia il giornale copto El-Keraza - “è rimasta a guardare fino a danni compiuti, per poi arrestare qualche assalitore”.

Il settimanale Al-Ahram riferisce che il 28 novembre mons. Abanob, vescovo copto di Asiut (375 a sud da Il Cairo), ha denunciato casi di conversioni forzate all’islam, compiuti da Mohamed Abdel-Mohsen, leader locale del Partito nazionale democratico. “Molte famiglie cristiane sono venute a lamentarsi da me” ha denunciato mons. Abanob “perché quest’uomo musulmano offre case, denaro e lavoro in cambio della loro conversione all’islam”. Il vescovo ha affermato di avere un video in cui si vede l’uomo adescare cristiani per farli diventare musulmani: “Sceglie in particolare le donne, i poveri e i disoccupati perché sono più facili da convincere”. Il politico islamico ha definito “completamente costruite” le accuse del prelato copto. Nei giorni precedenti il governatore di Asyut aveva respinto la richiesta di comunità copta di costruire 2 nuove chiese, perché l’unica esistente risulta insufficiente per il numero dei fedeli. Secondo Abdel-Hafez, membro dell’amministrazione di Assiut, “visto che i cristiani sono il 10 % della popolazione, altre chiese non sono necessarie”.

Il 25 gennaio scorso 4 giovani cristiani sono stati arrestati nella città turistica di Sharm El Sheikh per essere stati trovati in possesso di alcune Bibbie e di filmati cristiani. Peter Nady Kamel, Ishaq Dawoud Yassa, John Adel e Andrew Sa'id - questi i nomi degli arrestati, tutti studenti all’Università del Cairo e alla Minya University - sono stati accusati di “formare un gruppo che minaccia l’unità nazionale, la pace sociale e la sicurezza” secondo quanto appreso dall’ente Jubilee Campaign. Anche per loro si era levata la voce di protesta del patriarca Shenouda III.

L’Egitto conta 70 milioni di abitanti, il 90% circa dei quali musulmani; i cristiani sono il 10%, in larga parte copti. I cattolici locali sono circa 200 mila.

ARABIA SAUDITA
RELIGIONE: Musulmani sunniti: 95,5%, Musulmani sciiti: 3,3% NUMERO CATTOLICI: 641.000

Stato islamico la cui religione è l’Islam e la costituzione il Santo Libro di Dio e la Sunnah del suo Profeta", il Regno trae la sua autorità, come recita l’art. 7 dello statuto fondamentale del potere, dal Libro di Dio e dalla Sunnah del suo Profeta, ai quali sono o rimangono subordinate tutte le regole dello Stato, che ha l’incarico di tutelare la fede musulmana, di applicare la shari’a, di ordinare il Bene e di vietare il Male, oltre che di diffondere l’islam e assicurare la da’awa, cioè la pratica del proselitismo islamico. L’art. 26, che regola i diritti dell’uomo, li intende applicabili limitatamente all’ambito della shari’a. I cittadini sauditi sono obbligatoriamente musulmani.
La legge saudita proibisce ai non musulmani di riunirsi per motivi legati alla propria fede religiosa. Nel territorio del Regno, secondo l’agenzia "Compass" del 17 gennaio 2000, vi sono almeno sei milioni di immigrati non musulmani ai quali è negato ogni diritto a praticare la propria fede, pur essendovi eccezioni per gruppi numericamente insignificanti. Negli ultimi due anni, almeno 130 immigrati cristiani sono stati messi in prigione, privati del lavoro ed espulsi dal Paese sulla base di accuse di "attività cristiane". Il 6 luglio scorso a Riad, informa "Droits de l’homme sans frontières" del 16 novembre 1999, è accaduto al ventiquattrenne filippino Arsenio Enriquez Jr., cameriere di un ristorante della capitale dal 1993, arrestato dopo una perquisizione domiciliare, in cui è stata trovata una Bibbia. In carcere ha potuto ricevere soltanto la visita di un amico e spedire una lettera alla propria famiglia.
Barbara G. Baker, per l’agenzia "Compass Direct" del 22 dicembre 1999, riferisce dell’arresto di un ingegnere filippino, Edmar Romero, detenuto dal 1° dicembre perché sospettato di svolgere attività cristiane. Durante la perquisizione avvenuta nell’abitazione dell’arrestato è stata sequestrata una bibbia. Le indagini sono partite con il sequestro, avvenuto due mesi prima da parte della muttawa (la polizia religiosa saudita), di un elenco di nominativi durante un’incursione in un luogo di culto clandestino. In quell’occasione, l’8 ottobre, sono stati interrogati 267 fedeli e 13 di loro sono stati arrestati ed espatriati, dopo un’ingiunzione ai loro datori di lavoro affinché li licenziassero. Romero, liberato il 13 gennaio 2000, ha contestualmente perduto il lavoro e gli è stata comunicata l’ingiunzione a lasciare l’Arabia Saudita entro tre settimane dalla scarcerazione. Intanto, dal 7 gennaio 2000, dopo un’irruzione in una casa privata dove erano riuniti un centinaio di cristiani, sono stati detenuti dieci adulti e cinque bambini filippini: i coniugi Art e Sabalista Abreu e i loro figli Kristel, dodicenne, Aaron, di dieci anni e Keilah, di due. Con loro erano stati arrestati anche Dick Mira Velez, Disdado Cadoy, Jun ed Evelyn Vinegas e i loro figli, Paul, di sei anni e John, di quattro, oltre a Rubino Sulit, George e Elen Rivera, e Eminesio Rabea. La loro liberazione è avvenuta in due tempi, come informa l’agenzia "Ansa" del 28 gennaio 2000, nei giorni 19 e 23.
Fonti filippine a Riad hanno rivelato all’agenzia "Compass" (17.1.2000) che i minori sono utilizzati come arma di ricatto dalla polizia religiosa per ottenere informazioni sulla rete di immigrati filippini cristiani e sulle loro attività di culto. Altrettanto proibita è la religione baha’i, definita dall’Accademia.

da Asianews.it del 3/6/2004
LA POLIZIA RELIGIOSA SAUDITA ARRESTA E TORTURA I CRISTIANI

…….. O’Connor è stato rapito sei mesi fa dalla Muttawa [la polizia religiosa saudita], mentre si trovava in una strada di Riad. Condotto in una moschea, è stato torturato e picchiato: “Mi hanno appeso a testa in giù” ha dichiarato a chi l’ha visitato in prigione. “Mi hanno tirato pedate sul petto e giocavano a calcio con la mia testa”. O’Connor è stato quindi condotto nel carcere di Olaya, a Riad, dove attualmente è detenuto. La polizia locale ha affermato di non aver interrogato O’Connor: è stata la Muttawa ad arrestare, interrogare e picchiare il prigioniero cristiano.
O’Connor è stato accusato di uso di droga, di vendita di liquori e di aver predicato Gesù Cristo. La famiglia di O’Connor ha dichiarato che le accuse di droga sono state inventate dalla polizia.  O’Connor è stato minacciato di morte se non abiurava la sua fede. È conosciuto come un cittadino esemplare e un buon cristiano nella comunità indiana residente in Arabia Saudita.
Spesso la polizia religiosa saudita ha praticato violenze e torture su cristiani. Li ha poi costretti a firmare documenti in arabo in cui ammettevano i crimini di cui erano accusati. (LF)

da Asianews.it del 9/6/2004
ARABIA SAUDITA
Persecuzione, prigione e tortura per i cristiani

  Nel regno saudita, su 21,6 milioni di abitanti, i musulmani sono il 93,7%; i cristiani sono il 3,7%, nella quasi totalità lavoratori stranieri. I cattolici sono 900 mila.
Non esiste libertà religiosa. Ogni manifestazione pubblica (avere delle Bibbie, portare un crocifisso, pregare in pubblico) è proibita. Innumerevoli sono gli episodi di persecuzione, arresti e violenze nei confronti dei cristiani. Nell’aprile del 2001 due filippini sono stati arrestati con l’accusa di praticare il culto in casa propria: hanno scontato un mese di carcere e ricevuto 150 frustate. Nel maggio successivo 11 cristiani sono stati arrestati durante un incontro di preghiera in una casa privata. Nell’estate dello stesso anno, 13 cristiani sono stati arrestati a Jedda: sono stati frustati e picchiati di fronte agli altri prigionieri. Non ci sono sacerdoti né religiosi residenti nel paese: l’ultimo, un sacerdote americano è stato espulso nel 1985.
Oltre a costituire il gruppo non-musulmano più numeroso, i cristiani sono anche i più organizzati come gruppi clandestini di preghiera e sono per questo bersaglio preferito delle autorità saudite. Lo scorso ottobre, due cristiani egiziani sono stati arrestati a Riad per aver pregato in casa loro. Solo l’interessamento personale del principe saudita  Sultan Abdul Aziz Al-Saud ha permesso di liberarli. Gruppi di preghiera o studio della Bibbia si trovano nelle maggiori città (Riyadh, Jiddah, Al Jubayl e Dammam). La partecipazione a queste riunioni è rischiosa. I fedeli devono stare sempre in guardia nel comunicare data e luogo dell’incontro. Inoltre, il possesso di materiale non-islamico (rosario, croci, immagini sacre e bibbie) porta dritto all’arresto da parte dei mutawa’in (la polizia religiosa del buon costume). Il divieto degli altri culti in Arabia è dovuto alla “sacralità dei luoghi santi della Mecca e di Medina, estesa a tutto il territorio”. L’accusa di professare il credo cristiano è spesso usata come alibi per eliminare oppositori al regime.
L'Arabia Saudita è guidata da una monarchia ereditaria fondata sui principi dell'Islam wahabita fondamentalista. La legge islamica, la shari'ah, è il fondamento del sistema di governo. La shari'ah stabilisce la natura dello Stato, i suoi obiettivi e responsabilità, regolamentando anche i rapporti tra governo e cittadini. I residenti non musulmani sono sottoposti alla shari’ah, come tutti i musulmani.

  da Asianews.it del 25/11/2004
ARABIA SAUDITA
Arresti e persecuzioni contro i cristiani

Il caso di Brian Savio O’Connor è solo l’ultimo di una lunga serie di arresti, torture e rapimenti contro i cristiani - sia locali che stranieri - in Arabia Saudita. La cappa oppressiva del regime di Riyadh su ogni manifestazione religiosa diversa dall’islam wahabita suscita sempre più inquietudine tra gli oltre 8 milioni di stranieri che lavorano nel regno saudita.
La religione più colpita dal regime saudita è quella cristiana. Fonti locali di AsiaNews affermano che nelle carceri saudite ancora oggi ci sono numerosi cristiani detenuti per motivi religiosi.
Nell’ottobre 2003 due cristiani egiziani sono stati arrestati e incarcerati dalla Muttawa (la polizia religiosa saudita); sono poi stati rilasciati il mese successivo.
Nel febbraio 2003 un cristiano straniero, di cui si ignora la nazionalità, è stato espulso per aver dato una bibbia in lingua araba a un cittadino saudita: agli stranieri è consentito infatti possedere libri religiosi nelle proprie lingue, ma il possesso di bibbie in arabo viene considerato un atto di proselitismo e quindi illegale, punibile con il carcere. Sempre nel corso del 2003, un cristiano etiope è stato espulso dal paese perché si rifiutava di offrire informazioni sulle proprie convinzioni religiose nel corso di un’indagine pubblica. All’inizio del 2003 quattro cristiani pakistani sono stati arrestati senza specificazioni dalla Muttawa. Due sono stati rilasciati ed espulsi, ma degli altri due non si sono più avute notizie.
Nel maggio 2002 la polizia di Jeddah ha arrestato 10 cristiani eritrei ed etiopi che si riunivano di venerdì per il loro incontro settimanale, in concomitanza con la giornata festiva del paese musulmano. Al momento dell’arresto la polizia ha cercato di ingannare i cristiani promettendo loro alcool e bevande, volendo avere un pretesto legale (il divieto di alcolici) per incriminare i 10 fedeli.
Nel febbraio 2002 viene rilasciato l’ultimo dei 14 cristiani imprigionati nel luglio precedente: Dennis Moreno-Lacalle, filippino, è uno degli stranieri provenienti da India, Nigeria, Etiopia, Eritrea e Filippine che si incontravano in case private dove poter motivi religiosi e tenere momenti di preghiera. Tutti e 14 sono incarcerati per non meglio specificate “attività cristiane illegali”. Nel corso della sua prigionia la Muttawa ha promesso a Moreno-Lacalle di rilasciarlo immediatamente se si fosse convertito all’islam, ma egli ha sempre rifiutato: per questo, è restato in carcere per 6 mesi.
Il 28 gennaio 2002 l’International Christian Concern ha ricevuto una lettera di 3 cristiani etiopi che raccontavano le terribili violenze e torture subite nel carcere Bremen, a Jeddah, dove erano rinchiusi da 6 mesi, senza aver mai stati ufficialmente incriminati, ma solo incolpati dai carcerieri per la loro appartenenza cristiana.
In Arabia Saudita non esiste libertà religiosa: tutte le religioni diverse dall’islam wahabita sono bandite dalla vita pubblica. La legge permette solo a titolo privato la pratica di religioni diverse dall’islam, ma i fatti recenti smentiscono questa affermazione di principio. Attualmente sono in prigione anche numerosi sciiti e sufi (una corrente mistica dell’islam), oltre ad alcuni attivisti musulmani sauditi che si battono per la democrazia e il rispetto dei diritti umani.

17 Dicembre 2004 – Asianews.it

Arabia Saudita: arrestato e incarcerato un saudita convertito al cristianesimo

Jeddah (AsiaNews) - Un cittadino saudita convertitosi al cristianesimo è stato arrestato e incarcerato. Il fatto è avvenuto il 29 novembre a Hofuf, città orientale dell’Arabia, ma la notizia è stata diffusa solo alcuni giorni fa da International Christian Concern (ICC) di Washington, impegnato nella difesa dei cristiani perseguitati nel mondo. Fonti locali hanno confermato ad AsiaNews l’arresto del di Amad Alaabadi – questo il nome del cristiano imprigionato – affermando che egli “non è il solo cristiano saudita in carcere in questo momento, ce ne sono altri”.

Dalle notizie pervenute a ICC, altri cristiani - almeno 3 o 4 - sarebbero stati arrestati insieme a Emad. La presenza di cristiani nelle prigioni saudite era stata confermata anche in un’intervista di Brian O’Connor ad AsiaNews. Brian Savio O’Connor, è un protestante indiano espulso dall’Arabia dopo torture e prigionia per “aver predicato il cristianesimo”.

Il 29 novembre Amad è stato intercettato dalla Muttawa, la polizia religiosa saudita, mentre stava guidando per portare a casa i figli da scuola. Gli agenti lo hanno scortato fino a casa e poi l’hanno portato nella prigione della città. In seguito Amad è stato condotto in carcere a Jeddah, dove attualmente è detenuto. Il 4 dicembre egli è riuscito a telefonare a sua madre, che si trova in Australia, per comunicarle quanto gli era successo e dove si trovava. La madre ha riferito che il figlio “sembrava molto debole”: ICC ritiene che gli agenti della Muttawa abbiano torturato il cristiano Amad per riconvertirlo all’islam.

Amad ha 30 anni ed è padre di 4 figli. È diventato cristiano 2 anni fa. Non si conosce ancora a quale confessione cristiana appartiene.

L’islam fondamentalista wahabita è l’unica religione ammessa ufficialmente in Arabia Saudita. Non esiste libertà religiosa, sebbene negli ultimi anni le autorità saudite permettono a seguaci di altre religioni la pratica in privato. La Muttawa, la polizia che controlla il comportamento religioso degli abitanti, continua però a perseguire i cristiani anche nelle loro case private, dove si riuniscono per pregare.

Nel regno saudita non è permesso costruire luoghi di culto, chiese o cappelle. Su 21,6 milioni di abitanti, i musulmani sono il 93,7%. I cristiani sono il 3,7% della popolazione, nella quasi totalità lavoratori stranieri. I cattolici sono 800 mila. Non si hanno cifre precise sul numero dei sauditi cristiani.

PAKISTAN
RELIGIONE: Musulmani: 95%; Cristiani: 2%; Induisti: 1,7%
Numero cattolici: 1.062.000

Pur essendo stato sventato, ai primi di gennaio del 1999, il pericolo di vedere applicata dal Parlamento la shari’a su tutto il territorio nazionale, rimane costante la discriminazione nei confronti di quanti non aderiscono all’islam.

La legge sulla blasfemia, introdotta nel 1986, prevede l’ergastolo per chi offende il Corano e la pena di morte in caso di offesa a Maometto. Sono decine i morti tra i cristiani a causa di questa legge in questi anni.

Divieto di insegnare catechismo ai bambini cristiani, costretti a studiare la dottrina islamica.
Sul fronte scolastico, il governo non consente agli studenti appartenenti alle minoranze religiose di essere esaminati su dottrine diverse da quella islamica e impone l’insegnamento di quest’ultima a tutti, rendendo l’esame obbligatorio. Come alternativa, vi è, per i non musulmani, l’insegnamento di morale (comunque fondata sulla religione islamica), scelta che tuttavia comporta gravi discriminazioni per chi la compie. Nelle scuole cristiane, informa «Eglises d’Asie» del 1° maggio 1999, la dottrina cristiana è insegnata come materia non inserita nei programmi ufficiali.

Alle minoranze religiose non è riconosciuto il diritto di voto come ai musulmani, ma soltanto — come informa «Asia News» dell’agosto-settembre 1999 — la possibilità di eleggere propri rappresentanti, e per un numero limitato di seggi, nelle assemblee nazionali o provinciali.

Il Rapporto sulla libertà religiosa del Dipartimento di Stato statunitense dà notizia dell’allontanamento dalla famiglia di origine, ordinato dalle autorità, di due ragazze di 11 e 15 anni, ex cristiane e poi convertite all’islam. La famiglia cristiana si è trasferita e ora si nasconde per timore di ritorsioni, dopo aver criticato le sentenze giudiziarie che l’hanno privata delle due figlie.

aggiornamento del 14/5/2004
riportiamo una notizia da Asianews, che denuncia la morte di un ragazzo torturato per forzarlo alla conversione all'Islam


Lahore (AsiaNews/Ucan) – Un ragazzo cattolico è morto sotto le violenze dei rapitori che cercavano di convertirlo all’islam. Il fatto ha suscitato scandali e critiche da parte dei cristiani e la Commissione episcopale di Giustizia e Pace ha deciso di citare in corte i responsabili.
Il giovane è morto per le violenze inflitte su di lui da parte di un insegnante e alcuni studenti di una scuola islamica. Una dichiarazione della Commissione di Giustizia e Pace afferma che l’incidente riflette “una pericolosa tendenza alle conversioni forzate”.
Lo scorso 17 aprile Javed Anjum, 18 anni, studente di economia e commercio si era fermato a bere dell’acqua  da un rubinetto a Toba Tek Singh, 310 km a sud di Islamabad. Un insegnante e alcuni studenti della Jamia Hassan bin Almurtaza Madrasa , una scuola religiosa islamica delle vicinanze, lo hanno catturato. Per 5 giorni egli è stato torturato finché le sue condizioni sono divenute così gravi che i suoi torturatori lo hanno portato a una stazione di polizia affermando che Javed Anjum aveva cercato di rubare una pompa elettrica per l’acqua e lo hanno denunciato per furto. Il giovane è stato preso in consegna dalla polizia fino al 24 aprile, quando alcuni medici lo hanno finalmente curato. Ma era troppo tardi. Secondo l’inchiesta della Commissione episcopale, il giovane è morto il 2 maggio in un ospedale di Faisalabad, per “blocco renale”. Nei giorni precedenti i medici avevano anche diagnosticato la rottura di alcune costole e la perdita della vista.

Secondo Giustizia e Pace, la polizia si è rifiutata di verificare le cause delle ferite di Anjum, e di investigare sulle accuse sporte contro di lui.
Il capo della Commissione episcopale, Peter Jacob, ha dichiarato che i responsabili della scuola islamica stanno cercando di dare l’impressione che Anjum fosse un drogato. Anche i responsabili politici musulmani locali stanno difendendo e proteggendo la scuola. “Tutto questo mostra – dice Jacob – che i colpevoli sono coscienti di quanto hanno fatto e disperatamente cercano di nasconderlo attraverso false accuse”.

La Commissione episcopale afferma che “l’intolleranza religiosa e la discriminazione sono le ragioni alla base di alcuni incidenti successi di recente, in cui alcuni giovani non musulmani sono stati con la forza convertiti all’islam e circoncisi contro la loro volontà”. Lo scorso novembre un altro ragazzo pakistano cattolico, il 15enne Zeeshan Gill è stato preso da alcuni compagni di scuola e costretto a diventare musulmano. Alcuni insegnanti islamici lo hanno minacciato e picchiato, costringendolo a seguire lezioni alla Madrasa Jamia al Qasim al Aloom, una scuola islamica con annesso un collegio. Zeeshan Gill è riuscito poi a fuggire, ma da allora lui e i suoi parenti si sono nascosti per paura di essere uccisi.


Kosovo
Cattolici: 65.000

I recenti disordini in Kosovo, provocati dagli albanesi contro i pochi serbi rimasti, hanno provocato anche gravi violenze contro le chiese cristiane da parte dei musulmani. Molte chiese sono state infatti bruciate e distrutte, e si sono salvate solo quelle protette dalla KFOR. Riportiamo uno stralcio di articolo tratto da Esprossonline.it, che denuncia la grave situazione dei cristiani in quelle terre, a due passi da casa nostra.

..."In tutto il Kosovo sorgono nuove moschee e scuole coraniche finanziate dall'Arabia Saudita e va crescendo il peso delle correnti islamiste.

La conferma è nei pericoli in cu ora incorrono i musulmani che si convertono al cristianesimo. In passato questi pericoli erano quasi inesistenti. L'Islam tra le popolazioni albanesi è in genere poco radicato e si accompagna a un debole controllo sociale.

Ora invece hanno fatto la loro comparsa gruppi estremisti. E per i convertiti la vita si è fatta difficile. Lo scorso 11 maggio 2003 uno di loro è stato brutalmente picchiato e minacciato di morte come "traditore".

A essere presi di mira sono soprattutto i convertiti alle Chiese evangeliche, le più attive nel far missione. Molti dei neobattezzati sono costretti a tener segreta la conversione ai loro stessi famigliari.

La Chiesa cattolica ha scelto il basso profilo, non fa proselitismo e quindi meno risente delle pressioni islamiste."

TUNISIA
POPOLAZIONE: 9.128.000
RELIGIONE: islam 99%
Cattolici: 21.000

Con l’indipendenza del 1956, la Costituzione stabilisce che la religione di Stato è l’islam, ma il governo permette la pratica di altri culti, anche se è stabilito che il capo dello Stato debba essere un musulmano. Il proselitismo è vietato, come la distribuzione di materiale religioso. I cattolici sono una minoranza ristrettissima, l’unica diocesi è quella di Tunisi e conta 45 sacerdoti e 180 suore. La Chiesa gestisce scuole, una clinica, biblioteche, e centri culturali, ed è impegnata in vari progetti di sviluppo del Paese. …….
Agli inizi degli anni Cinquanta, metà degli abitanti di Tunisi era cattolica; con la dichiarazione d’indipendenza, circa 280 mila tunisini appartenenti a questa religione sono stati espulsi. Oggi se ne contano meno di un decimo, la maggior parte delle chiese è chiusa o non funziona. Il pericolo del fondamentalismo e del crollo di questa “oasi di tolleranza” non è molto lontano. La Tunisia era originariamente, come l’Algeria, un centro importante della Chiesa latina. La conquista di Cartagine da parte dei musulmani nel 698 ha voluto dire per la Chiesa l’inizio della fine. La visita di Giovanni Paolo II in Tunisia ha incoraggiato la difesa dei diritti umani, la libertà religiosa e di cultura per i ventimila cattolici che vivono in una società pressoché totalmente islamizzata. I cattolici sono alla ricerca di un rapporto sereno con i fratelli e le sorelle musulmane.

ALGERIA
POPOLAZIONE: 29.476.000
RELIGIONE: islam 99.5%; cristiani 0.5%
Cattolici: 2.500

Il problema della libertà religiosa in Algeria ha origine nel 1962, quando con l’indipendenza l’islam diviene religione di Stato: da allora molte chiese sono state trasformate in moschee, i cristiani devono astenersi dal manifestare esteriormente la propria identità religiosa, anche se è tollerata l’importazione e la diffusione della Bibbia e di altre opere cristiane. Nel 1978 il vicario episcopale di Algeri mons. Gaston Jacquier viene assassinato in città, probabilmente per il solo fatto di essere uscito indossando pubblicamente la croce pettorale.
Il giorno 8 maggio 1994 padre Henri Vergès, di 64 anni, e suor Paule- Hélène Saint-Raymond, di 67 anni, vengono uccisi mentre escono dalla biblioteca cattolica dove svolgevano il loro servizio in favore dei giovani. La biblioteca, messa a disposizione dall’arcivescovo di Algeri, si trova nella Casbah; essa fornisce sostegno scolastico agli studenti, organizza corsi di informatica, provvedendo anche a distribuire beni di necessità per i più poveri.
Nella città Kabyli di Tizi Ouzo quattro missionari dei Padri Bianchi (tre francesi e un belga) vengono brutalmente uccisi il 27 dicembre 1994. Domenica 3 settembre 1995 due religiose vengono assassinate ad Algeri: suor Bibiane Leclerc e suor Angèle-Marie Littlejohn, rispettivamente di 65 e 62 anni. Entrambe vivevano ad Algeri dal 1964.
Mons. Pierre Claverie, vescovo di Orano, è ucciso con una bomba il 1° agosto 1996, insieme al suo autista Muhammed Pouchikhi. Pierre Claverie aveva dedicato la sua vita a favorire il dialogo fra islam e cristianesimo: era conosciuto come il “vescovo dei musulmani”, aveva studiato in profondità l’islam, tanto che, a quanto riporta il quotidiano inglese “The Tablet” del 10 agosto 1996, gli stessi musulmani lo consultavano in materia. Secondo le autorità algerine i responsabili materiali dell’attentato sono stati uccisi in uno scontro a fuoco con la polizia qualche mese dopo l’attentato. Il 23 marzo 1998 si è concluso il processo contro altri presunti complici con la condanna a morte di otto degli imputati. I condannati avrebbero fatto parte di una cellula di attivisti islamisti che avrebbe fiancheggiato il gruppo degli esecutori materiali dell’attentato. Secondo alcuni esperti, comunque, la vicenda presenta alcuni tratti poco chiari: un giornalista algerino ha dichiarato che i condannati gli avrebbero rivelato di aver confessato sotto tortura. Negli ambienti cattolici di Algeri, secondo la testimonianza del giornalista italiano Maurizio Blondet, intervistato dall’agenzia “Fides”, è diffusa la sensazione che nell’assassinio di mons. Claverie possa essere in qualche modo implicato il governo.
La notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, sette monaci trappisti di origine francese vengono rapiti presso il monastero del villaggio di Tibhrine (60 miglia a sud della capitale) dal G.I.A. Dopo il rifiuto del governo francese a prendere in esame le proposte avanzate da alcune rivendicazioni dei terroristi e un annuncio della loro esecuzione dato dal G.I.A. (Gruppo Islamico Armato). Il 21 maggio, i corpi dei sette frati sono trovati decapitati. Altri sette religiosi sono uccisi con armi da fuoco nelle vie della casbah in Bab el-Qued.

MAROCCO
POPOLAZIONE: 27.225.000
RELIGIONE: islam 98.7%; cristianesimo 1.1%
Cattolici: 23.266
L’islam è religione di Stato, ma secondo l’art. 6 della Costituzione vi è libertà di culto per cristiani ed ebrei, ai quali è tuttavia impedita penalmente ogni attività di proselitismo ed è proibita severamente la conversione dall’islam. Il re è Amir al Mouminin (“Comandante dei credenti”) e ha il compito di vegliare sul rispetto dell’islam, secondo l’art. 19 della Costituzione. L’attuale sovrano, si dichiara discendente diretto di Maometto. I cristiani in realtà subiscono persecuzioni, la perdita del posto di lavoro e in alcuni casi la prigione.
“Kathpresse” del 21 gennaio 1994 rendeva nota la vicenda di un marocchino di 29 anni, condannato a tre anni di carcere per essersi convertito al cristianesimo. Mustafa Zemanda era stato arrestato con 18 altre persone perché aveva ricevuto per posta letteratura cristiana. Mentre gli altri coimputati firmarono una dichiarazione che impediva loro di accettare qualsiasi forma di posta simile in futuro, ottenendo così la libertà, Zemanda, protestante, avendo rifiutato di firmare, fu condannato in base all’art. 220-221 del codice penale marocchino, anche se il paragrafo 6 della Costituzione afferma che l’islam è la religione di Stato, ma la libertà degli altri culti è garantita.
La stessa fonte, esattamente un anno dopo, informava che a Teutan un musicista di El Salvador è stato condannato per aver spinto un musulmano a convertirsi al cristianesimo. I tre cristiani, che erano stati arrestati in Marocco per aver compiuto tentativi di conversione al cristianesimo, sono di nuovo liberi. Come riferisce l’organizzazione per i diritti dell’uomo Christian Solidarity International, il rilascio del musicista iberoamericano, Gilberto Orellana, è avvenuto a causa della mobilitazione internazionale. Orellana, appartenente a una denominazione battista e originariamente direttore della orchestra sinfonica statale dell’America Centrale, insegnava dal 1992 al conservatorio di Teutan. Il 5 gennaio 1995 è stato condannato a una pena detentiva per aver dato a un musulmano motivi per convertirsi al cristianesimo. Orellana ha contestato le accuse, la sua casa è stata perquisita e la polizia ha rinvenuto Bibbie e pubblicazioni cristiane.
Il suo stato di salute era grave, perché le condizioni nelle carceri marocchine sono molto dure. Con lui erano stati arrestati 5 marocchini, accusati di aver subito la sua influenza. Tre di loro sono stati rilasciati dopo aver abiurato la fede cristiana, gli altri due sono stati condannati a otto mesi, ma poi liberati. La situazione rimane comunque rischiosa perché si teme la pressione sociale da parte dei vicini musulmani.
Il Marocco è quasi totalmente musulmano, i cristiani sono circa 300mila su 27 milioni di abitanti.
“Offene Grenzen”, nell’aprile 1995 riportava che la Costituzione marocchina garantisce la libertà di culto, ma in pratica i credenti locali si imbattono in considerevoli difficoltà. Sei cristiani sono stati arrestati perché si sono riuniti in un appartamento. Nel corso dell’interrogatorio tre di loro hanno rinnegato il credo, gli altri hanno ricevuto dagli otto ai dodici mesi di prigione. Grazie alla pressione internazionale sono stati rilasciati. Un gruppo francese ha cercato i pochi cristiani dispersi in Marocco per portare una parola di conforto. Questo il resoconto, con nomi fittizi. Ahmed abita in un villaggio nell’Atlas e come tanti altri marocchini cercava il senso della vita quando ha cominciato un corso sulla Bibbia. Poi ha perso la vista e lo ha interrotto. Si è recato in Europa a imparare il Braille e il mestiere di telefonista. In questi due anni nessuno gli ha parlato del Vangelo. Tornato in Marocco è finito in prigione per una lite da osteria. Uno dei suoi compagni di cella era cristiano, condannato a sei mesi per la fede. Ahmed si è convertito ed è uscito di prigione come un uomo nuovo: ascoltava audiocassette, leggeva i suoi libri per non vedenti ed era felice. La polizia, scoperto che era cristiano e non voleva abbandonare il suo credo, ha confiscato i libri nella sua abitazione e lo ha condotto in una città distante 350 km. Ahmed è stato interrogato per due giorni ed è stata esercitata su di lui ogni tipo di pressione psicologica, la polizia ha cercato ovunque qualcuno che potesse leggere quei testi in Braille. Ora Ahmed è tornato libero, ma senza i suoi libri. Aisha è una marocchina di 30 anni. Il padre era un’autorità, assai stimato, diretto discendente di Maometto. Lei quindi una pro-pro nipote del fondatore dell’islam. Ha praticato l’islam con fede e coscienza fino a che non le è venuto un dubbio “perché Dio vuole che io sia santa se io non sono per nulla capace di esserlo?”. Qualcuno le diede una Bibbia e subito si è sentita insieme allontanata e attratta dalle due diverse fedi. Alla fine si è convertita al cristianesimo, ma i problemi sono cominciati a scuola dove insegnava arabo e il Corano. Quattro delle sue alunne erano cristiane e le altre avevano seri dubbi sul Corano. Una volta scoperte le sue convinzioni, il preside ha trascorso nella sua classe quattordici giorni, controllandola attentamente: al primo piccolo errore è stata mandata via.

Fedeli agli insegnamenti di San Francesco, ha spiegato l’arcivescovo di Tangeri, “conviviamo con i musulmani senza forzarli a cambiare religione”. “Essere una presenza della Chiesa in un Paese ufficialmente musulmano dove è proibito l’annuncio di altri credo”: questa la sfida della Chiesa in Marocco, “per vivere il Vangelo tra i musulmani”.

SUDAN
POPOLAZIONE: 32.594.000
RELIGIONE: islam 73%; animisti 16.7%; cristiani 8.2%
Cattolici: 2.958.467

Pur essendo formalmente una repubblica, il Sudan è a tutti gli effetti un regime militare: dal 1969 fino alla fine degli anni Ottanta nel Paese si sono susseguiti vari colpi di Stato. L’attuale regime è retto dal generale Omar Hassan el-Bechir. Il Sudan riceve consistenti aiuti e forniture militari (il materiale bellico è di provenienza cinese) dai Paesi arabi, soprattutto dall’Iran. Il Sudan aderisce all’Organizzazione della conferenza islamica ed ha instaurato dal 1993-1994 stretti rapporti politici e commerciali con l’Iran. Non va trascurato, tuttavia, che nel 1996 il Sudan ha aderito, insieme a Gibuti, Eritrea, Etiopia, Kenya, Uganda e Somalia all’IGAD (Inter Governmental Authority for the Development), una comunità politico- economica che, nonostante divisioni e contrasti che perdurano tra i suoi membri (si veda il recente conflitto tra Eritrea ed Etiopia), si avvia ad assumere un ruolo strategicamente fondamentale in questo delicato settore geo-politico. Secondo alcuni commentatori il “nocciolo duro” dell’IGAD sarebbe costituito da leader politici, come Meles Zenawi, presidente dell’Etiopia, e Yoweri Museveni leader dell’Uganda che hanno negli USA il loro referente principale. Nella sua espansione verso sud, verso “il Paese dei neri” (bilâd as-sûdan), l’islam incontrò sin dall’inizio la tenace resistenza dei regni cristiani di Nubia: Nobatia, Makurria e Alwa, i quali riuscirono ad arginare l’avanzata islamica fino alla fine del XII secolo. Con la caduta di Dongola nel 1317 cominciò il processo di islamizzazione della valle del Nilo, ma solo nel 1505 cadde l’ultimo dei regni cristiani di Nubia. Solo l’Etiopia, grazie all’intervento nel 1543 di una spedizione portoghese, riuscì a resistere e a conservare la sua indipendenza politica e religiosa. Dunque, la presenza cristiana nelle terre che oggi corrispondono allo Stato sudanese è di antica data e costituisce un elemento prezioso dell’identità culturale di una parte consistente di quella popolazione, essendo radicata ancora tra i cristiani, presenti soprattutto nella zona meridionale del Sudan, nonostante le persecuzioni e i tentativi di acculturazione che i cristiani hanno affrontato. Le radici dell’attuale conflitto religioso in Sudan risalgono quindi a tempi lontani e certamente vi si sovrappone anche la secolare rivalità delle diverse etnie (non va dimenticato in questo senso il ruolo dei mercanti islamici nella tratta degli schiavi) che si trovano oggi a convivere in una nazione che è il frutto di un disegno arbitrario, di un affrettata decolonizzazione e della scarsa lungimiranza delle nuove “classi dirigenti”. Una storia complessa e turbolenta, quindi, fa da sfondo al conflitto attuale, che ha assunto l’aspetto di una vera e propria guerra civile, con il Paese, di fatto, diviso a metà: il nord controllato dal governo e fortemente islamizzato, il sud controllato dalle forze ribelli. Una tappa importante della tragedia attuale va individuata nell’introduzione, nel 1983, della legge islamica (la shari’a), ………
Nel 1994 il regime sudanese attraverso il Missionary Act ha di fatto proibito ogni forma di proselitismo non islamico ed equiparato la Chiesa ad Organizzazione Non Governativa straniera. In generale la linea di condotta di governo del Fronte Nazionale islamico, tesa a un’assimilazione culturale (islamizzazione) e linguistica (arabizzazione) delle popolazioni del sud, non riesce ad avere ragione dei ribelli e, allo stesso tempo, spinge il Sudan a un isolamento sempre maggiore nel contesto internazionale. Dopo quindici anni di guerra (che ha già fatto più di due milioni di morti, di cui la stragrande maggioranza nel sud, e provocato enormi devastazioni), il fallimento degli ultimi tentativi di accordo dell’ottobre del ’97 e la presente carestia, il Paese appare in una situazione di gravissima necessità. La principale forza di opposizione politica del Paese è costituita dall’Alleanza Nazionale Democratica (NDA), che comprende sia alcuni settori della guerriglia, sia i partiti musulmani moderati, aboliti nel 1989.
…………..
Il direttore dell’agenzia di stampa “Misna”, padre Giulio Albanese, comboniano, in un’intervista al mensile “Inside the Vatican” del novembre 1998, fornisce gli elementi di giudizio per comprendere l’atteggiamento dei musulmani sudanesi nei confronti degli “infedeli”: “le ‘religioni del Libro’, cioè il cristianesimo e l’ebraismo, sono tollerate, se i loro appartenenti acconsentono alla sottomissione alla legge musulmana. Non è loro concesso fare opera di proselitismo o svolgere attività di culto in pubblico”, afferma p. Albanese, che prosegue: “La maggioranza degli abitanti del Sud è animista, vale a dire che segue una religione legata alla natura. Costoro sono considerati ‘pagani’ o ‘infedeli’ dai musulmani, cioè senza anima, alla stregua di cani o di altri animali. In altre parole, i governanti del Nord disprezzano i ‘selvaggi’ del Sud come indegni di fare appello ai ‘diritti umani’. Per fare un esempio, nella versione ufficiale sudanese della ‘Carta dei diritti dell’Uomo’, la parola ‘persona’ è tradotta come ‘musulmano’. I musulmani sudanesi affermano ‘apertis verbis’: ‘Riconosciamo la Carta dei diritti dell’Uomo – ma per i musulmani’. Questo giustifica i massacri, le torture e altre atrocità inflitte dai musulmani del Nord agli abitanti del Sud e ai profughi del Sud nelle periferie urbane. Perciò il conflitto non vede opposti il cristianesimo e l’islam, ma la cultura islamica del Nord e quella nera e animista del Sud”.
Un articolo di Alison Parker, Background to the conflict in Sudan, in “Servir” dell’8 dicembre 1996, ricorda alcuni dei casi più gravi di persecuzione religiosa verificatisi in Sudan negli anni precedenti il 1995:
- nel dicembre del 1994 un sacerdote cattolico italiano è stato percosso perché in possesso di vino per la comunione;
- il 5 dicembre 1994 l’Arcivescovo Mazzolari della diocesi di Rumbek ha denunciato il caso di quattro catechisti fustigati e poi crocifissi per aver rifiutato di riconvertirsi all’islam, fede che avevano abbandonato vent’anni prima. Secondo padre Joseph Bragotti dei missionari comboniani la responsabilità di tali uccisioni sarebbe da attribuire alle forze di sicurezza del governo.
Dall’inizio degli anni Novanta il governo sudanese ha adottato la politica di rapire i bambini di etnia Toposa e di internarli in un campo a Quarint- Hanan, con il pretesto di educarli e di averne cura. In realtà questi bambini vengono indottrinati attraverso un programma di islamizzazione. Alcuni sono stati deportati in Libia, in Ciad o in Arabia Saudita, altri sono stati obbligati a lavorare in fattorie, altri ancora dopo aver ricevuto un addestramento militare sono stati inviati al fronte nel Sud.
Dal 1991 Padre Mark Lotede, lui stesso di etnia Toposa, ha cominciato a denunciare tale politica: alcuni giovani, evasi dal campo ove erano internati, sono stati accolti da padre Lotede e iscritti nelle scuole della diocesi di Juba. Il governo non deve aver apprezzato l’iniziativa del sacerdote che è stato più volte minacciato, sottoposto a vessazioni, interrogatori e arresti ingiustificati. Alla fine del 1995 padre Lotede viene nuovamente arrestato insieme ad altri.
Questo arresto è stato alla base di una montatura organizzata dal regime islamista sudanese per screditare la Chiesa cattolica (cfr. France Catholique 1° marzo 1996). Vittima principale è il nunzio apostolico Mons. Erwin Ender, il quale viene invitato con l’inganno ad assistere alla liberazione, sollecitata dalla pressione internazionale, di padre Lotede e di altri due religiosi. In realtà mons. Ender è costretto ad assistere, alla presenza della televisione, alla confessione, evidentemente estorta, di padre Lotede, il quale ha confessato, in quella circostanza, di aver partecipato a un piano sovversivo e di aver progettato il “bombardamento di installazioni strategiche a Juba”. La strategia di diffamazione messa in opera dal regime appare del tutto simile a quella praticata soprattutto dai regimi marxisti (mons. Ender nella sua lettera di protesta al governo sudanese ha ricordato “gli anni più neri del regime comunista nella Germania Est”). Essa costituisce un espediente propagandistico al quale i Paesi totalitari hanno fatto spesso ricorso nella storia recente: si pensi al Vietnam, alla Cina o, più di recente, all’Iraq.
Nel gennaio del 1995 Amnesty International ha accusato il governo sudanese e i ribelli del Sud di violazioni aperte dei diritti umani. Il Segretario Generale di Amnesty International, Pierre Sane invocando l’apertura di negoziati, ha denunciato tuttavia il pericolo che la comunità mondiale diventi connivente rispetto a una situazione in progressivo peggioramento. Weltkirche del febbraio 1996 informa che il Vescovo Paride Taban della diocesi di Torit nel sud nel Paese in un messaggio rivolto ai cristiani del Sudan ha ricordato i casi di alcuni fedeli che hanno saputo affrontare dure persecuzioni: nella parrocchia di Kapocta sei o sette catechisti, che sono stati imprigionati o torturati, hanno continuato a insegnare e a pregare anche nelle loro celle. Due sacerdoti sono stati torturati a Juba e Khartum, mentre il Vescovo di Juba è stato messo in prigione. L’agenzia “ANB-NIA” del 15 marzo 1996 riporta diverse testimonianze Che confermano la pratica dello schiavismo, soprattutto di bambini, attuato in Sudan soprattutto contro le popolazioni cristiane del sud. James Pareng Alier è uno di questi bambini: aveva solo dodici anni quando fu rapito nel sud del Paese, in seguito a un attacco contro un villaggio vicino tenuto dai ribelli. “L’esercito ci ha portati ad un campo chiamato Khalwa, vicino Khartum. Poi dopo due mesi fummo trasferiti in un campo a Fao, nel Sudan dell’Est. Questo campo era diretto dalla Dawa islamiyaa (un’organizzazione per la diffusione dell’islam). Io sono stato costretto ad apprendere il Corano e ribattezzato Ahmed. Loro mi hanno detto che il cristianesimo è una religione cattiva. Dopo un certo tempo siamo stati addestrati militarmente e ci hanno detto che saremmo andati a combattere”. James non sa più dove sia la sua famiglia; è potuto scappare perché una delegazione delle Nazioni Unite aveva ottenuto il permesso di visitare il campo dove era detenuto. Dopo una detenzione di più di un anno è stato liberato e ha potuto raggiungere alcuni parenti a Khartum.
La pratica della deportazione, dello schiavismo e della tratta dei minori è confermata da numerosi testimoni, come il giornalista inglese David Orr, o l’ex ufficiale di polizia David Majur Mamur, ora membro attivo dell’associazione Prokid, dedita alla difesa dei bambini rapiti. Secondo Gaspar Biro, delle Nazioni Unite, da una ricerca effettuata nel 1995 in venti campi delle regioni del Kordofan e dei Monti Nuba risulta che in questi campi 9.034 bambini sono detenuti e subiscono un indottrinamento islamico.
Padre Sesana Kzito, un missionario comboniano che conosce bene la situazione del Sudan, dopo aver visitato la regione Heiban dei Monti Nu- ba, controllata dalle forze ribelli dell’SPLA, e aver incontrato alcuni membri della Chiesa locale ha confermato la gravissima situazione in cui versano gli abitanti della regione, minacciati dalla politica del governo sudanese “vicina alla pulizia etnica”. In particolare nel rapporto di padre Kzito si fa riferimento ai campi di lavoro istituiti dal governo come a veri e propri “campi di concentramento”, di cui dà notizia France Catholique del 1° marzo 1996. Le truppe governative, in seguito a un combattimento con i ribelli avvenuto nella regione dei Monti Nuba nel quale avevano avuto la peggio, hanno saccheggiato e distrutto per rappresaglia alcuni villaggi vicini. In seguito i soldati governativi hanno profanato la chiesa cattolica locale.
La questione dei diritti umani in Sudan è stata al centro dei lavori di una tavola rotonda tenutasi il 14 ottobre del 1996 a Parigi presso l’Assemblea Nazionale. In tale occasione il portavoce della Commissione per i Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite, Gaspar Biro, ha puntualizzato il fatto che le vittime principali delle violazioni dei diritti dell’uomo sono costituite dalle minoranze razziali e religiose, i gruppi e le comunità che vivono nel Sudan meridionale. “Nel Sudan - ha precisato il funzionario delle Nazioni Unite - tutta la gamma dei diritti dell’uomo universalmente riconosciuti è stata violata: esecuzioni sommarie, arresti arbitrari, detenzioni senza processo, torture sistematiche, schiavismo e traffico di schiavi, violazioni dei diritti dei bambini e delle donne, persecuzioni religiose e conversioni forzate all’islam”. Tra le pratiche più odiose vi è quella delle violenze sui bambini e sulle donne: a Khartum e nelle altre città del Nord la Polizia e le Forze di Sicurezza effettuano periodicamente delle retate per catturare bambini e adolescenti che vivono nei campi profughi (circa il 95 per cento di costoro appartiene alle etnie meridionali). Le donne sono utilizzate come concubine, a volte scelte come spose, spesso costrette a lavorare nelle case degli ufficiali.
La scuola cristiana di Dorusnab, un centro per rifugiati situato alla periferia di Khartum Nord, è stata mezza distrutta su ordine del governo. I fatti si sono svolti il 7 dicembre 1996. Numerosi rappresentanti del Comitato per la pianificazione si sono presentati davanti gli edifici della scuola, accompagnati da bulldozer e uomini armati dell’esercito e della polizia.
Senza presentare alcun mandato hanno proceduto alla distruzione del muro di cinta, della sala professori e del magazzino.
Un gruppo di 64 bambini, secondo l’organizzazione per i diritti dell’uo- mo SOHR, è stato rapito dai villaggi del sud-Sudan dai soldati dell’esercito sudanese. Molti di loro, informa la KNA di gennaio-febbraio 1997, sono stati dati come regalo agli arabi e agli afgani. L’inviato speciale della UNO-Sonder in Sudan, Gaspar Biro, è stato bandito dal Paese dopo un breve soggiorno. I motivi sono sconosciuti. Il generale Ibrahim, che ha incontrato a Khartum, aveva detto di non poter garantire per la sua sicurezza. Secondo le notizie provenienti dalla regione di Kordofa, sono circa 3.000 i civili rapiti e ridotti in schiavitù. “Fides”, dell’8 maggio 1998, rende noto che oltre mille bambini sono stati ridotti in schiavitù dalle milizie mujahidin, considerati come bottino di guerra insieme al bestiame razziato nei villaggi del Sud, dove tali milizie sono impiegate nella lotta contro i ribelli. Il destino di questi bambini, in maggioranza sotto i dodici anni, è quello di essere venduti nei mercati arabi o medio-orientali. La notizia proviene da fonti delle regioni centrali del Sudan, che hanno osservato il gruppo di soldati e schiavi bambini proveniente da Abyei. “Fides” del 21 marzo 1997 informa che in Sudan continuano le discriminazioni contro i cristiani: non vengono infatti concesse autorizzazioni per le riunioni di preghiera e sono sistematicamente negati i permessi per i luoghi di culto. Le autorità locali hanno ordinato la distruzione di capanne di paglia utilizzate dai cristiani per la preghiera domenicale tra i baraccati di Abu Zabad, Rokab, Abu Ajura e Abu Sallala. Le autorità continuano a proibire i raduni di preghiera, sia nei luoghi di proprietà della Chiesa, pur approvati per le attività sociali, che nelle case private. Nell’ultimo anno i catechisti di Fula, Dallami e Um Dureim sono stati arrestati varie volte per aver organizzato la preghiera domenicale. Nei cosiddetti “campi della pace” (veri e propri campi di concentramento) per gli sfollati del Sud Dar Fur, ai cristiani è stato proibito di radunarsi in preghiera e i catechisti che organizzavano i raduni sono stati imprigionati.
Davanti alle demolizioni sistematiche delle chiese, dei luoghi di preghiera e delle scuole cattoliche nei sobborghi di Khartum, dove sono ospitati rifugiati cristiani del Sud del Paese, l’Arcivescovo di Khartum Gabriel Zubeir Wako e il suo ausiliare Daniel Adwork nell’aprile del 1997 hanno inviato al governo sudanese una lettera cortese, ma estremamente ferma, per protestare contro tali atti contrari agli accordi stabiliti, soprattutto in occasione della visita di Papa Giovanni Paolo II, e ribaditi dalle autorità in diverse occasioni pubbliche. Nella lettera in questione si denunciavano questi fatti:
Il 31 marzo 1997, giorno in cui cadeva il lunedì di Pasqua, un bulldozer accompagnato da poliziotti armati ha distrutto il Centro Polivalente e di Preghiera di Tereya (Kalakla). Il giorno successivo, la stessa squadra di demolizione prendeva di mira il Centro cattolico di Kalakla Gubba e Wad’Amara. Solo l’iniziativa delle comunità cristiane dei due centri ne ha impedito la distruzione: i membri delle comunità hanno infatti anticipato la demolizione, provvedendo all’occupazione delle zone e bloccando la via ai bulldozer.
Il 7 aprile, il giornale “AlWan” riferiva ciò che era accaduto a Tereya come la “distruzione di Chiese non pianificate” allo scopo di giustificare la demolizione. In realtà ciò che era stato distrutto era un Centro Polivalente, dove i cristiani pregavano e svolgevano le loro attività religiose e di istruzione. Già il 7 e il 29 Dicembre 1996 era accaduto che il Centro cattolico di Dorusha’ab (Khartum Nord) venisse raso al suolo con la forza. Il 19 luglio 1997, non tenendo in alcun conto le richieste provenienti dai cristiani, per ordine del governo si è provveduto a distruggere una scuola cattolica a Jebel Awlia, a 50 km dalla capitale. La scuola sorgeva in un campo di profughi, su un terreno di proprietà del vescovo di Khartum ed era entrata in funzione con l’approvazione e sotto il controllo del Ministero dell’Educazione del Sudan. Dal 1994 tra 75 e 100 sono stati i centri polivalenti distrutti nella periferia della città, sotto il pretesto della “pianificazione urbanistica”, mentre sono stati negati tutti i permessi per la loro ricostruzione. Questi centri, costituiti da capanne di rami furono installati a partire dal 1985 per ospitare i rifugiati della guerra civile: erano utilizzati durante il giorno come giardini di infanzia e scuole per giovani dai 5 ai 15 anni, mentre alla sera ospitavano corsi di alfabetizzazione e di apprendistato per gli adulti. La domenica diventavano centri di preghiera.
“Kathpress” del 9 ottobre 1997 riporta le proteste dell’organizzazione per i diritti dell’uomo “Solidarietà Cristiana” contro la distruzione attuata tramite i bulldozer di un’altra Chiesa cattolica nella regione di Khartum. La scuola, “Zagalona 2” a Omdurmann era stata sistemata dalla Chiesa cattolica per accogliere i bambini profughi del Sud ed era frequentata da 413 bambini come asilo e scuola.
“Fides” del 9 gennaio e 13 febbraio 1998 rende noto che il governo sudanese ha confiscato il club cattolico di Khartum con un’azione di forza che ha visto impiegati soldati dell’esercito e uomini della sicurezza in assetto antisommossa. Secondo la “Comboni Press” la confisca del club, che era il punto di riferimento delle famiglie e dei giovani cattolici, è solo l’ultimo atto di una escalation di violenze contro il centro, cominciate già nel 1992.
Agli inizi del mese di febbraio 1998, informa l’agenzia “Fides”, in seguito ai violenti scontri avvenuti attorno a Wau, nei quali entrambe le fazioni si sono macchiate di efferatezze, gruppi di Mujahidin e Fertit (milizie musulmane filo-governative) si sono resi responsabili dell’uccisione indiscriminata di numerosi civili, donne e bambini; diverse testimonianze sono giunte a proposito del massacro di circa 600 persone nel villaggio di Marialbay.
…………...
“Christian Solidarity International-Suisse” informa che dal 1° al 10 giugno 1998 le forze armate del Fronte islamico Nazionale hanno lanciato diversi attacchi contro le popolazioni (in maggioranza cristiane) del distretto di Twic, a nord di Bahr El Ghazal. In tale circostanza, il 3 giugno, nel villaggio di Ayen le milizie islamiste hanno ucciso il diacono della Chiesa episcopale Abraham Yac Deng e ridotto in schiavitù Elizabeth Ading Deng e Abuk Goch, due fedeli della chiesa episcopale; due dei figli di Abuk Goch si trovano fra i 25 membri della comunità che sono stati portati via come schiavi. I miliziani del Fronte islamico hanno saccheggiato la chiesa episcopale di Ayen: il parroco e un altro diacono sono scampati di poco alla morte. Altri attacchi, con uccisioni sommarie, distruzione di chiese e riduzione in schiavitù di donne e bambini, sono avvenute nei villaggi di Turalei e di Maper.
Padre Lino Sebit (30 anni, parroco di Hilla Mayo), padre Hillary Boma (56 anni Cancelliere arcidiocesano) e padre William Nilo, che è stato rilasciato dopo poche ore, sono stati arrestati dalle forze di sicurezza di Khartum il 28 luglio ed il 1° agosto 1998, con l’accusa di essere implicati negli attentati dinamitardi verificatesi il 30 giugno nella capitale. Secondo fonti della “Misna” l’accusa mossa ai sacerdoti va inserita nella campagna diffamatoria messa in atto da elementi vicini al fondamentalismo islamico del governo sudanese. Le pessime condizioni fisiche di padre Boma (l’u- nico a poter essere visitato in carcere), insieme ad altri dati raccolti, farebbero pensare che i sacerdoti arrestati siano stati sottoposti a misure di coercizione molto dure, se non a vere e proprie torture. Il Vescovo Ausiliario Mons. Adwok che ha visitato padre Boma mercoledì 9 settembre, ha dichiarato che il sacerdote sembra molto sofferente per la pressione alta e ha perso circa 20 chili; padre Boma ha riferito di aver visto l’altro sacerdote imprigionato solo una volta e di averlo trovato in cattivo stato, forse a causa di torture. Nessuna visita o colloquio è stato finora concesso a padre Sebit. L’arcivescovo di Khartum, mons. Wako e mons. Adwok hanno ribadito la loro convinzione sull’innocenza dei due sacerdoti e dunque sulla estraneità ai fatti loro imputati. Intanto nei confronti dei due accusati e di altre diciotto persone si sta svolgendo un processo. Notizie dell’agenzia di stampa “Misna” rendono noto dell’evacuazione di una missione cattolica nell’Equatoria occidentale (Sud Sudan). Tre missionarie comboniane e un comboniano sono, infatti, stati trasferiti il 3 novembre, in aereo, dalla missione di Nzara (diocesi di Tombura-Yambio) alla base delle Nazioni Unite di Lokichogio nel Kenya settentrionale. Suor Maddalena Vergis (italiana), suor Maria Eugenia Valle (italiana) e suor Ruiz Ana Maria Aguilar (messicana) e padre Alberto Eisman Torres Jesús (spagnolo) sono in buone condizioni. La loro evacuazione è avvenuta a seguito delle scorribande di gruppi armati lungo la linea di confine che separa il Sudan dalla Repubblica Democratica del Congo; in particolare, risulta essere estremamente insicura la zona limitrofa alla missione. ….

EMIRATI ARABI UNITI
POPOLAZIONE: 2.580.000
RELIGIONE: islam 96% (80% sunnita, 16% sciita);
cristianesimo 3,8%

L’Unione, nella Costituzione provvisoria del 1971 ha dichiarato come propria religione ufficiale l’islam. Vi è stata tolleranza da parte delle autorità nel concedere permessi per edificare luoghi di culto e scuole cristiane, ma esistono pressioni da parte della comunità islamica tendenti alla persecuzione dei cristiani.
I cattolici sono divisi in 5 parrocchie servite da 14 sacerdoti e 361 religiose. Numerosa la comunità di Dubai composta da oltre 30.000 cattolici.
Soltanto i cristiani stranieri godono di una certa libertà di culto e di testimonianza, mentre l’educazione cristiana e il proselitismo sono condannati severamente. Esistono vari episodi di intolleranza, come quello di Elie Dib Ghalib, cristiano libanese che ha ricevuto una condanna a sei mesi di detenzione e 39 frustate per aver sposato una ragazza yemenita immigrata, infrangendo la legge che vieta i matrimoni misti, se non c’è la conversione dell’infedele all’islam.


COMORE
POPOLAZIONE: 514.000
RELIGIONE: islam 99%; cattolicesimo 1%
Cattolici: 3.000

In seguito alle restrizioni introdotte con la Costituzione del 1987, in cui aumenta considerevolmente il peso dell’islam nella vita sociale, è proibita ogni manifestazione religiosa diversa dall’islam e non sono permessi raduni tra membri di altre religioni.

INDONESIA
POPOLAZIONE: 199.544.000
RELIGIONE: islam 87.2%; cristianesimo 9.6%; induismo 1.9%;
buddismo 1%
Cattolici: 5.581.446
Secondo la Costituzione del 1945, in Indonesia la condizione richiesta alle religioni presenti nel Paese è il monoteismo. Il popolo deve essere devoto al suo Dio in linea con la propria religione, cooperare con chi appartiene ad altre confessioni per creare una vita armoniosa, rispettare la libertà, le funzioni e non forzare nessuno a credere in un’altra religione. La Costituzione prevede cinque religioni, compreso il cristianesimo.
Ma nella realtà quotidiana le cose stanno ben diversamente.
Le Chiese cristiane sono attive, anche se si tratta di una minoranza, ostacolate di continuo dai musulmani fin nelle piccole cose, come i rapporti di quartiere. Due decreti del 1978 impediscono la propaganda religiosa «per ottenere conversioni» e impongono l’ottenimento del benestare del governo per gli aiuti dall’estero. Inoltre si registrano difficoltà nella concessione di autorizzazioni per la costruzione di chiese.
La situazione indonesiana è giudicata preoccupante per diverse ragioni: la forte tensione politica che attraversa il Paese si esplica sempre più di frequente in atti di violenza (la campagna elettorale della primavera del 1997 è stata caratterizzata da scontri e violenze che hanno causato più di 300 morti).
Anche se il governo promuove la tolleranza reciproca, ci sono in realtà gravi problemi per la Chiesa cristiana.
Il 10 ottobre 1996, nella città di Situbondo, nella parte Est di Giava, una folla di circa 3.000 musulmani ha assaltato e dato alle fiamme 30 chiese e ucciso sei persone. Un pastore della Chiesa evangelica, sua moglie e i loro due bambini, insieme a una giovane e a un aiutante, intrappolati nell’edificio, sono bruciati vivi. Secondo i responsabili della denominazione protestante (anche sulla base di testimonianze oculari e dei rapporti della polizia) la sommossa sarebbe stata pianificata e ben organizzata da agitatori appartenenti a gruppi di integralisti, e ciò sarebbe provato, afferma l’agenzia di stampa “U.C.A. News” del 14-24 ottobre 1996, dalla rapidità con cui gli assalti alle chiese sarebbero stati condotti, dalla disponibilità immediata di ordigni incendiari e dalla coordinazione dimostrata dai vari gruppi. Nella parte occidentale dell’isola di Giava, a Tasik Malaya, il 26 dicembre 1996 sono state distrutte 13 chiese e una scuola cristiana. “Idea Spektrum” riferisce che gli attacchi sono avvenuti nel corso di una ribellione di estremisti islamici che hanno colpito edifici del governo, scuole, fabbriche e banche. Sarebbero state uccise anche due coppie nei loro mezzi di trasporto. Un altro episodio è accaduto a Manang (Giava centrale), dove circa 50 giovani musulmani hanno fatto irruzione nel corso di una celebrazione religiosa della vigilia di Natale, hanno colpito il prete fino a fargli perdere i sensi, hanno rubato i mobili e rotto il soffitto della sala delle riunioni. Inoltre i giovani hanno spiegato che nel loro villaggio in futuro non sarà permesso né essere cristiani né celebrare funzioni religiose. Il 30 gennaio 1997, gli integralisti hanno distrutto molte chiese, un tempio cinese ed il negozio di un cinese cristiano. Hanno fatto irruzione a Rengasdengklok, circa a 50 km da Giakarta e hanno attaccato gli edifici con sassi e bastoni.
Alla fine di dicembre nella città di Tasik Malaya, a Giava Ovest, sono stati uccisi 4 uomini e 15 sono stati feriti. Gravi danni a più di cento edifici e a 12 chiese cristiane. A Situbondo sono morti 5 uomini, il pastore protestante Isaac Christian, sua moglie e tre figli, e distrutte 25 chiese e un tempio. Gli indonesiani-cinesi e la minoranza cristiana sono sempre nel mirino degli attentati musulmani, organizzati anche per la loro misera situazione economica. Infatti l’80 per cento del capitale privato è gestito dai cinesi. Inoltre i militanti vogliono rendere l’islam unica religione del Paese, obbligatoria per tutti.
Negli ultimi due anni 1300 edifici della Chiesa cattolica sono stati gravemente danneggiati.
La “KNA” del 1°/3 gennaio 1998 testimonia dei crescenti attacchi contro la Chiesa e i cristiani che vanno, secondo “Fides”, di pari passo con la successione al Presidente Suharto: l’organo di informazione si riferisce a una dichiarazione del comandante musulmano Abduiraham Wahid, capo del movimento Nahidatul-Ulama, secondo il quale sono stati stanziati 210 milioni di marchi per portare scompiglio religioso e sociale. “Fides” afferma che dietro gli attentati si nasconde un’oscura regia che persegue obiettivi politici, economici e religiosi.
“Idea Spektrum” riferisce di tumulti di estremisti islamici sviluppatisi a Giava est, ovest e centro; colpite anche la Kalimantan del sud e dell’ovest. Negli ultimi mesi sono state distrutte 64 chiese e centri cristiani. A volte gli islamisti assoldano bande per compiere atti vandalici. All’inizio del febbraio 1998 ci sono stati attacchi a cinesi cristiani nel sud e centro di Sulawesi. Il 26 gennaio 1998 a Kregan, Giava centrale, sono stati distrutti negozi e case di cristiani. Duemila attivisti hanno cacciato gli abitanti dei villaggi circostanti. Il 25 novembre 1997, 350 musulmani hanno attaccato la parrocchia del villaggio Karya Tani e hanno cercato di intimidire il parroco e i praticanti dell’Istituto della Bibbia di Batu.
Padre Ignatius Sandyawan Sumardi, un sacerdote cattolico che aveva dato asilo a tre attivisti del principale partito di opposizione, ricercati dalla polizia, ha subito un processo a Giakarta nell’ottobre del 1997. I latitanti erano ospitati presso l’abitazione del fratello di padre Sumardi, anch’egli posto sotto accusa. Padre Sumardi dirige un centro per bambini di strada e senza tetto, e alla fine del 1996 ha ricevuto il premio indonesiano per i diritti dell’uomo. Nell’aprile 1997, informa la “KNA” del 16 luglio 1997, ha ricevuto il divieto di espatriare.
In ottobre e dicembre 1997 il centro turistico Villa Syngra a Bogar è stato obiettivo di incursioni: 70 giovani sono stati bastonati e la parrocchia distrutta. È proibita qualsiasi pubblica manifestazione cattolica nel corso del ramadan. Nella città di Clegon, nella parte occidentale di Giava, a partire dalla Pasqua 1997 sono stati vietati riti e manifestazioni cristiane. A Garut Selatan sono state interdette le attività evangelizzazione e a Ketapong è stato rifiutato alla Chiesa il permesso di costruire un edificio per il servizio religioso, benché la maggior parte dei cittadini sia cristiana. Otto suore del Povero Bambino Gesù arrivate a Cileduk, sobborgo di Giava, e prese a sassate dai musulmani, hanno reagito costruendo un centro di assistenza per bambini, un asilo e una scuola. A Flores c’è suor Ugolina che raccoglie tutti i bambini malati abbandonati dalle famiglie. Secondo “Human rights without frontiers” del 6 marzo 1998, non sono escluse nemmeno le proprietà private e, oltre alle chiese, sono state distrutte e bruciate anche case di cristiani. Ottenere informazioni è difficile a causa della vastità del territorio e della molteplicità delle isole assai distanti tra loro. La caduta del mercato asiatico e la conseguente povertà dell’Indonesia hanno portato la popolazione a sfogare la rabbia contro la Chiesa, facendo diventare queste aggressioni quasi uno sport nazionale. I cristiani in Indonesia sono circa 20 milioni contro circa 170 milioni di musulmani. Le maggiori violenze si registrano a Giava, poi a Sulawesi, Kalimantan, Giakarta. Alcuni degli ultimi attacchi sono stati appoggiati dai fondamentalisti, ma altri sembrano nati da gente povera e aizzata dal mito di una nazione musulmana.
Domenica 22 novembre 1998, durante incidenti provocati da musulmani, sono state arse 13 chiese e uccise 13 persone, probabilmente con il falso pretesto che alcuni cristiani ambonesi avevano saccheggiato tre moschee durante la notte precedente. La responsabilità delle distruzioni, comunque, secondo “Compass Direct”, va attribuita al Fronte per la Difesa dell’Islam (PFI), che ha iniziato un lancio di pietre contro una chiesa protestante di Giakarta, al quale sono seguiti atti sanguinari, resi noti anche da giornalisti stranieri, che hanno assistito a mutilazioni sulla pubblica via. Mentre la folla inferocita urlava “Siamo gentiluomini musulmani e loro porci cristiani” o “Uccidere tutti i pagani”, uno dei leader che guidavano i musulmani avrebbe gridato, a un ufficiale dell’esercito che stava proteggendo alcuni cristiani ambonesi, di farsi da parte per lasciar prevalere la giustizia islamica. Sui muri di una chiesa bruciata è stata trovata la scritta “Bantai Ambon” (Uccidere gli ambonesi), dipinta in grandi dimensioni. I leader cristiani indonesiani hanno messo in guardia le proprie congregazioni affinché dissuadano i fedeli dalla vendetta, conoscendone le usanze violente e la cultura, spesso ancora permeata di elementi tribali, come il codice di sangue.
Il 24 novembre A. B. Susanto, responsabile del Forum delle Associazioni cattoliche d’Indonesia, ha lanciato un appello generale ai cittadini della capitale perché torni a regnare la pace fra la gente. Le autorità locali sospettano che la violenza sia stata organizzata da un’élite islamica conservatrice per accrescere la pressione sul governo. In una dichiarazione ufficiale del 23 novembre la Santa Sede ha espresso preoccupazione per la situazione e deprecato i fatti accaduti, “lesivi dei tradizionali principi di tolleranza in vigore in Indonesia secondo la Costituzione del Paese”.
Nonostante la legislazione, in Indonesia esiste una vera e propria persecuzione nei confronti del cristianesimo. Da trent’anni a questa parte sono state distrutte 385 chiese, di cui 118 dal 1996 a oggi, e uccisi trentatré uomini. Le esplosioni di violenza hanno radici politico-economiche oltre che religiose. L’economia indonesiana è in gran parte in mano ad indonesiani- cinesi, quasi tutti cattolici, che possiedono l’80 per cento dell’industria privata. Nel febbraio 1998 molti negozi di proprietà di questi ultimi sono stati assaltati da teppisti. Durante sommosse che hanno avuto luogo nel maggio 1998, sono stati uccisi 1.200 cinesi.
La “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, nell’aprile 1998, forniva un quadro ancora più sconfortante delle persecuzioni religiose in atto da decenni: dal 1969 sarebbero stati distrutti in Indonesia circa 440 edifici religiosi, solo nel febbraio 1998 ben 40 chiese avrebbero subito atti vandalici.

La maggiore repressione religiosa si registra a Timor Est, colonia portoghese fino al 1975 e invasa dall’esercito indonesiano che ne ha fatto una sua provincia nel 1976. La popolazione non ha accettato l’annessione e solo nei primi mesi del 1997 si sono contati 35 morti, 81 feriti, 633 arresti e 134 sparizioni. Qui, la popolazione è cattolica all’85 per cento. L’unica speranza è che con il nuovo governo qualcosa cambi. Ma monsignor Belo, Premio Nobel per la Pace 1996 e Vescovo di Dili (Timor Est), ha denunciato la conversione forzata degli orfani di famiglie cattoliche all’islam. Tra i quindici e i venti bambini orfani e cattolici vengono portati via ogni anno da Timor Est in istituti indonesiani di Giava dove viene cambiato loro il nome e vengono educati all’islam. Dal 1997 Timor Est ha due diocesi, quella di Kili e quella di Baucau, la prima con 520.000 fedeli, 66 sacerdoti e 280 religiose; la seconda conta poco più di 200.000 fedeli e 22 sacerdoti.

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