Come si finanzia il terrorismo islamico: viaggio nella Jihad Corporation

IlSole24Ore del 3/8/2005

Un giorno forse si riuscirà a scrivere una storia del terrorismo islamico nella quale comparirà sullo sfondo un ritratto più nitido di quello che ci appare ancora come un corteo indistinto e sfocato di militanti, guerriglieri e mullah, alleati, per fede, convinzione o semplicemente per opportunità, con mercanti, politici, principi e banchieri.
Ma già oggi possiamo capire qualcosa della guerra santa con uno sguardo su come si finanziano Al Qaida, i gruppi mediorientali, le cellule degli islamici europei.
Jihad Corporation. Il viaggio nella Jihad Corporation e nelle casseforti del terrore può cominciare semplicemente dalla soglia di una moschea o di una scuola coranica dove sul frontone è segnato con evidenza il conto corrente cui inviare l'obolo della Jihad, o davanti a una banca che ha filiali alla Mecca, Islambad, Londra, Washington. Oppure al bazar di Peshawar dove, scriveva Winston Churchill all'inizio del secolo scorso, in ogni pashtun c'è un commerciante, un credente e un guerriero, in un universo tribale complesso che oggi manda i figli a studiare a Londra, usa il computer ma vota una coalizione di partiti filo talebani per attuare una versione ancora più rigida della sharia, la legge islamica Si può anche iniziare da una data, il 1973, e da una constatazione: la ricchezza ha favorito l'Islam radicale e il terrorismo quanto la povertà ha influito nel reclutamento tra le masse dei diseredati e degli e m a r g i n a t i .
Troppo spesso descritte esclusivamente come tradizionali e conservatrici, le società arabe e musulmane sono comunque cambiate in questo quarto di secolo, anche se non quanto l'Occidente. Non si spiega altrimenti il fatto che i jihadisti coinvolti nelle operazioni di Al Qaida siano borghesi istruiti con basi tecniche e scientifiche secolari: la nuova generazione di terroristi, soprattutto quando è sganciata dal territorio mediorientale o appartiene alla seconda generazione di immigrati in Europa, è rappresentata soltanto in parte dal povero delle periferie del Terzo Mondo. Il terrorismo islamico, come molti suoi predecessori in Occidente, è un'attività borghese.

Il 1973 è l'anno della guerra del Kippur e del primo grande shock petrolifero: sommersi dai petrodollari i sauditi costituiscono una sorta di impero della carità e della beneficenza in tutto il mondo musulmano, lanciandosi con sussidi e aiuti materiali in un'opera di proselitismo internazionale per guadagnare adepti a una delle versioni più puritane dell'Islam.
La monarchia saudita, sotto la guida di re Fahd appena scomparso, con i proventi del petrolio e degli investimenti sulle piazze finanziarie mondiali ha costituito un sistema bancario destinato ai Paesi emergenti che si rendevano permeabili all'indottrinamento. Nel ' 73 viene fondata la Banca islamica di sviluppo, in cui i sauditi detengono la quota del 25%; poi, per rendere ancora più opaca la finanza islamica, sono state create altre agenzie come il Fondo dell'Opec ( 30% saudita) e la Banca Araba per lo sviluppo, la Dar al Mal al Islami e la Al Baraka.
Con i petrodollari sauditi nasce anche, dal Golfo, all'Asia centrale, al Maghreb, una nuova borghesia arabo musulmana. Un impatto sociale ed economico dirompente è esercitato dalla grandi migrazioni verso il Golfo del petrolio. Nei primi anni gli emigranti sfoltiscono le schiere dei disoccupati e mandano i soldi a casa, costituendo con le rimesse una delle voci più importanti di economie come quella egiziana o pakistana, poi tornano in patria dall'eldorado del petrolio con il portafoglio gonfio e nuove idee sull'Islam. Nasce così una nuova borghesia islamica sempre meno ancorata ai princìpi nazionalisti: l'ideale politico sociale è quello della umma, la comunità dei musulmani. Influenzati da un ambiente islamico conservatore e fondamentalista, cui attribuiscono la causa spirituale della nuova ricchezza, gli ex emigrati professano zelanti una religiosità alla saudita, che in alcuni Paesi, come il Pakistan, farà da battistrada ai talebani e in Egitto e nel Maghreb ai movimenti integralisti. Con i fondi sauditi sorgono nuove moschee e scuole coraniche, caratterizzate dalla profusione dei marmi e dal neon verde, il colore dell'islam, che punteggiano il panorama urbano dei quartieri residenziali di Islambad o di Casablanca, del Cairo o di Istanbul.
Sono queste moschee — tutte uguali, edificate con i petrodollari — che rompendo con le tradizioni locali fanno della dottrina puritana saudita uno standard da seguire.
Su questo sfondo agiscono vecchie e nuove istituzioni del mondo musulmano. Sono gli enti di beneficenza e le Ong islamiche, che, in un periodo che va dal 1975 al 2002, hanno elargito circa 70 miliardi di dollari in tutto il mondo islamico. Questi soldi sono finiti in moschee, scuole coraniche, ospedali, assistenza alle popolazioni musulmane in difficoltà, borse di studio ma anche nelle casse dei movimenti estremisti. I sauditi hanno finanziato tutti quelli che si richiamavano all'Islam, anche i gruppi ostili alla monarchia di Riad, in una sorta di redistribuzione della rendita petrolifera per bilanciare le profonde diseguaglianze all'interno del mondo arabo musulmano.
« Beneficenza » alla Jihad.
Secondo l'Illicit Transaction Group, un task force della Cia che ha presentato un rapporto anche all'Onu, negli ultimi dieci anni i gruppi della Jihad avrebbero ricevuto finanziamenti tra i 300 e i 500 milioni di dollari da enti di beneficenza e donatori privati in gran parte sauditi. Alla metà degli anni 90 la Lega Mondiale dei musulmani e l'Assistenza Islamica ( International Islamic Relief) finanziavano da tempo i campi di addestramento in Afghanistan e Pakistan, il regime dei Talebani, i mujaheddin della Bosnia, la resistenza cecena, il fronte islamico nelle Filippine. Il segretario dell'Islamic Relief è Muhammad Jamil Khalifa, uno dei cognati di Osama Bin Laden, ma questa non può essere una sorpresa: la Lega Mondiale di musulmani e l'Assistenza Islamica agiscono sotto l'egida del gran muftì saudita, sono foraggiate dal Governo e dai membri della famiglia reale, operano attraverso gli uffici delle ambasciate saudite. Durante la guerra afgana il responsabile di Peshawar della Lega era Abdullah Azzam, lo sceicco palestinese che ha forgiato ideologicamente Bin Laden.
Le autorità americane ogni tanto congelano i conti di qualche organizzazione islamica, ma in realtà sia Washington sia le altre capitali occidentali hanno evitato di accanirsi nei confronti dei sauditi, per un motivo molto semplice: sul mercato americano, tra banche e Wall Street, gli investimenti sauditi ammontano ad almeno 600 miliardi di dollari.
È dai tempi di Roosvelt che l'Arabia vende agli Stati Uniti petrolio con lo sconto sulle quotazioni internazionali correnti, i legami economici e politici sono stretti, di alto livello, come dimostra anche il caso del Carlyle Group, dove la famiglia Bin Laden era partner dei Bush e dei Baker.
La « santa alleanza » . Sarebbe naturalmente una semplificazione e in molti casi scorretto costruire una relazione lineare di causa effetto tra l'Arabia saudita, la sua propaganda islamica e gli attentati kamikaze: i soldi della Jihad non provengono soltanto dalle grandi istituzioni di beneficenza come quelle saudite. Questo è uno degli aspetti della " santa alleanza" tra mercanti, mullah e militanti: c'è una finanza apparentemente minore, fuori dalle regole, il denaro si muove con trasferimenti di valuta informali, cioè in nero, e in Occidente trova il suo moltiplicatore nelle attività legali o in grigio delle comunità musulmane all'estero.
Decine di milioni di persone, dentro e fuori il Dar al Islam, la Casa dell'Islam, costituiscono spazi offshore, con circuiti economici paralleli che sfuggono alle statistiche.

Strutture familiari e di clan da sempre trasferiscono denaro senza muoverlo dai Paesi d'origine. È il sistema della Hawala (" fiducia" in hindi): si deposita il denaro in un luogo e lo si recupera in un altro, ricorrendo a un mediatore, il proprietario del capitale, che attraverso i corrispondenti locali sottrae soldi da una parte e li aggiunge in un'altra. Chi utilizza il servizio paga una commissione: il denaro viaggia senza passare dalle banche, con un sistema che non prevede ricevute o libri contabili.
Un'economia « informale » . L'" offshore dei poveri" muove miliardi; ma per la Jihad sono importanti anche le connessioni con le roccaforti dell'economia informale. Negli anni 90 l'Afghanistan grazie ai narcodollari e al contrabbando era salito al secondo posto tra i partner commerciali di Dubai. Passati quattro anni dalla caduta dei Talebani sappiamo che gli aiuti internazionali destinati a Kabul sono largamente superati dai proventi del papavero che alimentano l'economia di confine con il Pakistan.Il mezzo principale che continua a foraggiare le organizzazioni della Jihad resta comunque la zakat, il terzo dei cinque pilastri dell'Islam, che significa "purificazione" e indica i versamenti caritatevoli, nella misura del 2,5% del valore di patrimoni e proprietà. Si tratta di miliardi di dollari destinati ai più poveri e a quelli che lottano per il credo del Profeta: un polmone finanziario che ha fatto lievitare con la "tassa della carità" organizzazioni umanitarie e di assistenza musulmane. Un'economia della beneficenza, coperta dal segreto sul destinatario finale dei fondi, che da sempre nella umma, la comunità dei musulmani, salda il legame tra mullah, mercanti e combattenti. Le mille vie della « zakat » , l'obolo del 2,5% da versare ai bisognosi Una fitta rete di petrodollari e rimesse, elargizioni « umanitarie » e fondi neri

13/11/2005
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