Noi non solo abbiamo il piu’ grande interesse a che le popolazioni dell’Oriente [europeo] non siano unite, ma che al contrario siano suddivise nel numero maggiore possibile di parti e di frammenti. Ma anche all’interno delle stesse popolazioni non abbiamo alcun interesse a portarle all’unita’ ed alla grandezza, a trasmettere loro forse pian piano una coscienza nazionale ed una cultura nazionale, bensi’ piuttosto a scioglierle in innumerevoli piccoli frammenti e particelle.
Heinrich
Himmler (Documento
riservato del Reich, 15\V\1940, cit. da “KONKRET” n.4/94)
Tko
nece brata za brata, on ce tudjnca za gospodara (Chi ripudia suo fratello finira’ sotto lo
stivale straniero).
Proverbio
balcanico
La guerra in Jugoslavia, sia questa che quella che l’hanno
preceduta nell’ultimo decennio, hanno fatto tornare di moda l’aggettivo
“etnico”: siamo entrati in guerra per fermare una “pulizia etnica”, le atrocità
commesse da ogni parte sono state generate da “odio etnico”, si praticano
“stupri etnici”, eccetera. E’ come se la politica e l’economia avessero
abbandonato i Balcani, ripiombati in quello che si definisce “un nuovo
medioevo”.
Premesso che io non credo affatto che sia così, e tornerò su
questo punto, mi è sembrato utile dire qualche parola su quali siano le “etnie”
che abitano i Balcani e in base a quali parametri esse si identificano e
vengono identificate come tali.
Il principale parametro identificativo dell’etnia nei Balcani
non è l’appartenenza a un “sangue” o a una “lingua”, ma l’appartenenza ad una tradizione culturale. Da un punto di vista
“razziale”, i Balcani sono abitati essenzialmente da due popoli, da due
“razze”: gli Slavi e gli Albanesi (con minoranze italiane, magiare, rumene e
turche).
Gli Slavi sono la
maggioranza, sono indoeuropei, sono dilagati nella Penisola balcanica dai
Carpazi nel VII secolo e la hanno occupata tutta.
Gli Albanesi sono
anch’essi indoeuropei, e, se come pare probabile, la loro lingua discende
dall’Illirico, sarebbero ciò che resta degli originari abitanti della penisola,
gli Illiri.
Slavi e Albanesi hanno lottato insieme contro i Turchi al
momento dell’espansione Ottomana, erano alleati, insieme agli Ungheresi, nella
famosa battaglia del Kosovo (1389),
che segnò la fine dell’indipendenza serba e dette inizio alla sottomissione
quasi totale dell’Impero Bizantino ai sovrani ottomani. Il mitico Scanderbeg,
l’eroe nazionale albanese, lottò per vent’anni (1448-1468) contro i
Turchi, e forse avrebbe ottenuto risultati migliori se Venezia e il Papa si
fossero decisi ad appoggiarlo. La sua sconfitta consegnò definitivamente le
terre albanesi ai Turchi, che le governarono fino al 1913.
Sudditi ottomani divennero anche gli Slavi, in misura maggiore
o minore a seconda dell’espansione dell’Impero Ottomano, che, lo ricordo, nel 1680 era giunto quasi alle porte di
Vienna. Nel vivo della carne slava passò quindi per secoli la mobile frontiera
fra i Turchi e l’Europa.
I popoli slavi sono legati da vincoli etnico-linguistici ben
più forti di quelli che legano per esempio i popoli romanzi o quelli germanici,
fatte salve alcune aree, come la Scandinavia.
Mentre nel IV secolo d.C. le lingue germaniche sono già ben
differenziate, la fine dello slavo comune si colloca alla fine del XII secolo.
Quindi, quando parliamo di Serbi, Croati, Bulgari, Montenegrini, Sloveni prima
del XII secolo ci riferiamo a collettività più o meno organizzate
politicamente, che parlano dialetti della stessa lingua. Questo tra l’altro
rese possibile l’uso degli stessi libri e della stessa lingua, lo slavo
ecclesiastico antico, nell’evangelizzazione degli Slavi di Bulgaria, di Serbia,
di Moravia, della Pannonia e della Rus’ kieviana, tra il IX e il X secolo. Dal
canto suo, l’uso di questa stessa lingua quale lingua di cultura compattò
l’identità slava anche quando le diverse parlate iniziarono a divergere; e
nella Slavia che rimase ortodossa lo slavo ecclesiastico fu sino al XVIII
secolo veicolo di una cultura comune e simbolo di una comune appartenenza
etnica.
All’interno del mondo slavo, quando questo perde la sua
compattezza, gli Slavi balcanici formano un unico grupo linguistico, quello
slavo-meridionale (“jugo-slavo”), suddiviso al suo interno in due sottogruppi,
quello orientale formato da bulgaro e macedone (quest’ultimo riconosciuto come
lingua nel 1945, e prima dialetto
occidentale del bulgaro; pensiamo a cosa significa questo in termini di
definizione dell’identità e di rivendicazioni territoriali!) e quello
occidentale, formato da sloveno, serbo e croato. Quando nell’Ottocento, con la
nascita delle nazioni, gli Slavi si pongono il problema della codificazione di
una lingua standard, tra i diversi dialetti parlati dai Serbi, dai
Montenegrini, dai Musulmani di Bosnia-Erzegovina e del Sangiaccato e dai Croati
ne viene scelto uno, comune alla maggioranza dei Serbi e dei Croati: nasce così
il serbo-croato, lingua di una
comunità slava che si vuole tale al di sopra delle differenze dialettali,
religiose e culturali.
Ma quali sono invece le differenze religiose e culturali?
Prendiamo come esempio la Bosnia. Bosnia è il nome di una
regione, chiamata così dal fiume Bosna. I Bosniaci sono gli abitanti della
Bosnia: non esiste una razza bosniaca né una lingua bosniaca. Attualmente in
Bosnia si riconosce l’esistenza di tre etnie: i Serbi bosniaci, i Croati
bosniaci e i Musulmani bosniaci. Quest’ultima, l’“etnia” dei musulmani di
Bosnia, nasce con la conquista Ottomana: una parte della popolazione indigena
della Bosnia, dell’Erzegovina e del Sangiaccato, slava, aderisce alla cultura dei
conquistatori e si converte all’Islam, mantenendo però la lingua e le
tradizioni culturali dei propri antenati. Questo sincretismo dà anche vta ad
una letteratura, che si esprime in lingua slava, elabora motivi del folklore
slavo, ma utilizza l’alfabeto arabo. Nello stesso tempo nasce una produzione
letteraria che adotta invece la lingua e le tradizioni letterarie arabe,
persiane e turche. E’ da questo sincretismo culturale che nasce l’identità dei
Musulmani bosniaci, al punto che oggi ci sono Musulmani bosniaci che non sono
di fede musulmana, così come ci sono Croati che non sono cattolici e Serbi che
non sono ortodossi. A sua volta, l’identità “nazionale” bosniaca che la guerra
ha distrutto si sostanziava della coesistenza rara e incredibile di diverse culture
(alfabeti, tradizioni letterarie) e religioni all’interno di una popolazione
relativamente omogenea dal punto di vista del sangue e della lingua (sangue e
lingua slavo-meridionali).
Ma il peso culturale dell’opzione religiosa non vale solo per
l’Islam: anche per gli Slavi cristiani il fatto di gravitare nell’orbita della
Chiesa di Roma o di quella orientale ha avuto conseguenze fondamentali per la
determinazione dell’identità, a partire dall’uso di un alfabeto slavo o latino,
per finire alla letteratura, alla filosofia, al diritto, alla concezione del
potere, alla mentalità tout court. In
genere, nei lunghi secoli di dominazione straniera sono state le chiese a
tenere vivo il sentimento di appartenenza a una cultura quando tutti gli altri
strumenti, a partire dall’insegnamento in lingua materna, erano negati.
Il processo di autoidentificazione delle diverse comunità
slavo-meridionali si è dunque basato su una somma di fattori anche
contrastanti: da un lato la comunanza slava, dall’altro le diverse tradizioni
culturali e religiose, o anche quelle politiche e amministrative (per esempio
il fatto di essere stati amministrati dagli austriaci o dagli ungheresi).
Questa duplicità ha reso possibili, a seconda delle circostanze, diverse
costruzioni ideologiche. Nel momento della dissoluzione degli Imperi,
l’ideologia dominante è stata quella dello jugoslavismo: gli slavi meridionali come parti di una stessa comunità organizzata
in un unico stato.
Cento anni dopo, con la fine della Jugoslavia di Tito e
dell’intero sistema di equilibri europei, i diversi popoli che ne avevano fatto
parte corrono invece a dare vita ad altrettanti stati-nazione. Per farlo, hanno
bisogno di proiettare indietro nel tempo le loro storie i comunità nazionali (e
qui si impegnano intellettuali, università, accademie), di promuovere processi
accelerati e artificiali di differenziazione linguistica, ma soprattutto di
assicurarsi il possesso esclusivo di un territorio con lo strumento più
semplice e tradizionale: lo “spostamento” di intere popolazioni “rispedite a
casa loro” in base di una riscrittura ad
hoc della storia e della geografia.
Scoppiano guerre in cui si mescolano interessi diversi, si
combatte per la “propria” storia, per la “propria” terra e, naturalmente, per
il controllo di porti, ferrovie, centrali elettriche, vie commerciali,
oleodotti, sbocchi al mare. Per non
parlare di interessi di altro genere, quelli di chi mesta nel torbido per poter
meglio coltivare i propri traffici di armi, droga, denaro sporco, clandestini,
ben più facili in paesi dilaniati dalla guerra e, nel caso della Federazione
Serbo-Montenegrina, sottoposti a embargo e quindi necessitati a procurarsi
svariati prodotti per “vie traverse”.
Cos’ha fatto l’Occidente? Ha salutato la fine della Jugoslavia
(fine in gran parte provocata dalle pressioni economiche e politiche dello
stesso Occidente) come la vittoria della libertà, chiudendo gli occhi sul
pericolo che la separazione così frettolosa portava con sé, ha appoggiato tutti
i movimenti separatisti, fino a quelli di matrice criminale e terroristica come
oggi l’UCK, ha sottovalutato la frustrazione del popolo Serbo, il più
“disseminato” per tutta la ex Jugoslavia e il più vessato dalle “pulizie
etniche” (queste sì reali) in Croazia e in Bosnia. Oggi, per completare una
frantumazione balcanica che serve solo ai nostri interessi geopolitici,
strategici ed economici, bombardiamo la Repubblica Federale di Jugoslavia,
ossia, fra le entità politiche sorte dalla vecchia Jugoslavia di Tito, l’unico
Stato federale e multietnico che garantisce (almeno in linea di principio, il
che non è poco, vista la traumaticità della sua storia recente e le fortissime
pressioni destabilizzanti subite) l’autonomia culturale e politica ai soggetti
che lo compongono.
Anche a voler credere (e non siamo certo noi fra quelli che ci
credono) alla buona fede dell’Occidente, alla sua assoluta mancanza di
interessi politici ed economici nell’area, alla sua volontà di cercare una
soluzione giusta, che assegni ad ogni popolo la sua terra (quale “sua” terra? E
per farci che cosa? Negli interessi di chi?), basta leggere qualche pagina di
storia dei Balcani per capire la totale inutilità di un intervento che si
prefigga questo scopo. Prendiamo un atlante: se osserviamo le carte politiche, se
cioè privilegiamo il principio statuale, ci troviamo di fronte a un susseguirsi
frenetico sulle stesse terre di padroni diversi, che dopo secoli di alterne
vicende lasciano il posto a grandi imperi sovranazionali: quello Ottomano e
quello Austro-Ungarico. Se osserviamo le carte dialettologiche o etniche, ci
troviamo di fronte a continue migrazioni e rimescolamenti di popoli che toccano
l’apice con il montare della marea turca. Dello stesso Kosovo nessuno sa dire
con certezza se appartiene ai Serbi o agli Albanesi, nonostante l’impegno
profuso dagli storici di entrambe le parti per provare la “serbizzazione” del
Kosovo o, viceversa, l’“albanizzazione” della Vecchia Serbia (Rascia), ottenuta
anche grazie a uno straordinario incremento demografico dell’etnia albanese.
Non si può dire con certezza a chi appartenga per il semplice fatto che
appartiene a tutti e due, così come l’intera Federazione jugoslava appartiene a
tutti i popoli che la abitano e a differenza, per esempio, della Croazia di
Tudjman, definita nella Costituzione “patria dei Croati”. Se non si convive e
se non si vuole la deportazione di una delle due componenti (del resto,
settecentomila Serbi sono emigrati negli ultimi dieci anni dalla Croazia e
dalla Bosnia) l’unica soluzione è un’ennesima frantumazione territoriale, e poi
un’altra ancora (Sangiaccato, Vojvodina e Montenegro sono in lista d’attesa),
fino a ridurre i Balcani a un mosaico di staterelli con un pugno di abitanti
ognuno (ma finalmente omogenei in base a tutti i parametri, finalmente di
“razza pura”), privi di reale autonomia e condannati a essere protettorato di
grandi potenze.
I.
Difficile rivolgere anche solo uno sguardo distratto ad una
carta dei Balcani senza cogliere il dilemma che ha segnato tutta la storia dei
popoli che vi abitano: vivere insieme nel
quadro di uno stato multietnico o non vivere affatto. Per una regione in
cui i confini fra i popoli e le religioni si disperdono in mille sacche,
corrono attraverso le città, attraverso le case e all’interno delle famiglie,
il separatismo etnico non porta né rinascita culturale né autodeterminazione
politica, bensì le esclude: non un presunto “odio atavico” fra popoli che in
realtà si mescolano e rimescolano da secoli, ma il principio dello stato
nazione genera la pulizia etnica.
Nei Balcani, il nazionalismo è due volte menzognero: perché
pone la barbarie a difesa dell’identità culturale e perché dà vita a stati
deboli, inevitabilmente subalterni ad interessi geopolitici non loro. Un esempio
per tutti: la Bosnia, per anni macelleria d’Europa in nome di
un’autodeterminazione nazionale irrealizzabile in un paese composto, nei fatti,
di sole “minoranze”, e oggi congelata dagli accordi di Dayton.
A capo dell’amministrazione imposta alla Bosnia è ora l’Alto
Rappresentante (High Representative, HR), nominato dalle potenze occidentali
garanti, un cittadino non bosniaco. Lo HR ha pieni poteri esecutivi in tutte le
questioni civili, e il diritto di revoca sui governi della Federazione Bosniaca
e della Repubblica Serbo-Bosniaca. Lo HR deve operare in stretto contatto con
l’Alto Comando militare IFOR. Una forza di polizia non militare internazionale
è sotto la protezione di un commissario venuto dall’estero, nominato dal
segretario generale delle Nazioni Unite. Circa 1.700 poliziotti giunti da 15
paesi sono stati inviati in Bosnia, dopo un programma di preparazione durato
cinque giorni a Zagabria. Laddove l’Occidente aveva sottolineato il proprio
appoggio alla democrazia, l’Assemblea parlamentare, istituita secondo la
“Costituzione” e perfezionata con il Trattato di Dayton, agisce essenzialmente
approvando decisioni altrui.
Inoltre, la Costituzione bosniaca stabilita a Dayton consegna
le redini della politica economica alle istituzioni di Bretton Woods (FMI,
Banca Mondiale) ed alla BERS (Banca Europea per la Ricostruzione e lo
Sviluppo), di stanza a Londra. L’articolo VII stabilisce che il primo
governatore della Banca Centrale della Bosnia-Erzegovina debba essere nominato
dal FMI e “non essere un cittadino bosniaco o di uno Stato vicino”, ossia non
ex-jugoslavo. Il compito di amministrare l’economia bosniaca è scrupolosamente
suddiviso fra le agenzie dei donatori: mentre la Banca Centrale è sotto la
custodia del FMI, la BERS guida la Commissione sulle società statali, che
vigila sulle operazioni di tutte le aziende del settore pubblico, fra cui
energia elettrica, acqua, poste, strade, ferrovie, ecc. Il presidente della
BERS nomina il presidente della commissione che dirige anche la
ristrutturazione del settore pubblico, soprattutto con l’intenzione di svendere
i beni statali e quelli autogestiti, e ottenere fondi di investimento a lungo
termine.
Dominio delle vie del petrolio dal Mar Caspio e di quelle
della droga dalla Turchia e dall’Afghanistan, controllo militare di zone
cruciali fra Europa e Asia, espansionismo islamico, traffici di ogni tipo
legati alle guerre e guerriglie endemiche e all’embargo della Jugoslavia,
rapporti fra cartelli mafiosi... Sono tante le vie che passano per i Balcani,
tanti gli interessi che si intrecciano: politici, economici, religiosi. Oggi
come ieri, i “liberatori” dei popoli balcanici sono altrove. Nel caso del
Kosovo, poi, la storia sembra condannata a ripetersi in modo addirittura
grottesco, e noi italiani faremmo meglio a ricordare...
II. Un po’ di storia...
Nel 1912, con la
Prima Guerra Balcanica, Serbia, Bulgaria, Grecia e Montenegro perseguono lo
scopo di cacciare definitivamente l’Impero Ottomano dall’Europa. Secondo gli
accordi preliminari, ne sarebbero dovuti derivare due stati - uno
serbo-albanese e uno bulgaro-macedone - come nucleo di una futura federazione
balcanica. Alla fine della guerra, le grandi potenze impongono però un
mutamento degli accordi, con la creazione di un’Albania indipendente (contro il
volere degli stessi albanesi, fedeli all’Impero Ottomano), temporaneamente
sotto amministrazione militare italiana. La Serbia sposta perciò le sue
richieste territoriali sulla Macedonia: di qui, nel 1913, la Seconda Guerra Balcanica, questa volta fra Serbia e Bulgaria.
Si delineano così le direttrici di quella che sarà per tutto
il secolo la nostra strategia geopolitica nei confronti dei Balcani: 1)
Impedire l’affermarsi di vaste aggregazioni politiche su base multinazionale
(Albania e Bulgaria torneranno a inserirsi in un progetto di federazione
balcanica solo fra il 1945 e il 1948, su iniziativa di Tito). 2) Sfruttare
l’Albania ora come testa di ponte coloniale, ora come nucleo per movimenti
irredentistici pan-albanesi con funzione destabilizzante per l’intera area. Già
nel novembre 1914, poco dopo lo
sbarco italiano a Valona a titolo di “garanzia” per l’indipendenza del paese,
un lungimirante giornalista liberale preconizzava: “L’Italia deve presupporre
l’Albania terra propria, protetta o amica, preparandosi anche all’eventualità
che essa acuisca i suoi rapporti con la Grecia e con la Serbia, che uscirà
certamente dall’attuale conflitto ingrandita e rafforzata”. Conclusione per
l’Albania: “o farla forte o farla nostra”.
Albania come protettorato (anche a prezzo di eventuali spartizioni) e
irredentismo “grande-albanese” saranno le due opzioni fra cui oscillerà la
politica italiana fino al secondo dopoguerra.
Già nel 1918
ritroviamo le truppe italiane in Albania, in contrapposizione frontale con
l’”alleato” serbo, con l’obiettivo di un Montenegro autonomo e di una “Grande
Albania” comprendente il Kosovo. Per iniziativa del gen. Piacentini, comandante
generale delle forze italiane in Albania, nasce a Scutari il “Comitato di
Difesa Nazionale del Kosovo”, composto da notabili kosovari del periodo
ottomano come Hashan bey Prishtina. Fra i suoi scopi, la propaganda
grande-albanese in Kosovo, l’organizzazione di una resistenza armata col
supporto italiano (che impone una “fascia smilitarizzata”, di fatto una zona
franca per gli irredentisti) e l’utilizzo delle bande di briganti locali (kacaki). Dopo alcuni successi iniziali,
la situazione si rovescia con la cacciata degli italiani dall’Albania (primavera 1920).
In Kosovo i contrasti etnici vengono gradualmente
“normalizzati” attraverso la riforma agraria e la cooptazione dei notabili
albanesi nelle lobby politiche di Belgrado, mentre in Albania si afferma Ahmet
bey Zogu (il futuro re Zog), interessato a consolidare lo stato nei suoi
confini e a normalizzare i rapporti col vicino jugoslavo. Dopo una serie di
tentati colpi di stato per riportare l’Albania sul binario irredentista, nel 1924 Prishtina e il suo gruppo dovranno
definitivamente rifugiarsi in Italia, dove svolgeranno un ruolo chiave nella
politica balcanica di Mussolini.
Alle tradizionali manovre diplomatiche, il fascismo
affiancherà una nuova strategia di manipolazione del fuoriuscitismo
irredentista, di propaganda, di spionaggio, di manovre cospirative, di
assassinio politico. Nel memoriale del “Comitato politico profughi albanesi” al
Ministero degli Esteri (1927)
leggiamo frasi che ci riportano agli avvenimenti di oggi: “L’Albania è in
contatto con le tre piaghe aperte nel campo jugoslavo che sanguinano sempre:
Montenegro, Kosovo e Macedonia. L’Italia dovrebbe cercare un accordo con i
nazionalisti, inviare esperti militari per l’organizzazione di un esercito,
un’avanguardia, in caso di conflitto pronta a marciare nella pianura del
Kosovo”.
In questo quadro, Prishtina si affiancherà presto ad altri
gruppi di esuli sotto tutela fascista, come gli ustascia croati di Pavelic e i macedoni di Mihajlov, coi quali nel gennaio 1932 getta le basi per un coordinamento insurrezionale
anti-jugoslavo. La morte per mano di un agente di Zog (agosto 1932) gli impedirà di partecipare all’attentato contro re
Aleksandar di Jugoslavia, portato a termine da Pavelic e Mihajlov nel 1934.
Da questo momento Mussolini si affiderà a una politica di
intervento diretto, culminata con l’invasione dell’Albania (aprile 1939). I resti
dell’organizzazione di Prishtina tornano in patria con responsabilità
organizzzative; fin dall’estate, su istruzioni di Ciano, in territorio kosovaro
vengono reclutati mercanti e notabili a scopo di spionaggio e propaganda; nel gennaio 1940 il segretario del neonato
Partito fascista albanese promette l’imminente liberazione dei connazionali di
Jugoslavia e Grecia.
Nel 1941 la
Jugoslavia viene aggredita e smembrata dalle potenze dell’Asse. Un commentatore
dell’epoca dedicava all’evento una lucida analisi, che non sfigurerebbe oggi, mutatis mutandis, sulle colonne di
alcuni quotidiani: “Finita la guerra, la Serbia fu ricompensata dei dolori
passati, ricevendo i territori ai quali essa agognava [...]. Ma il trionfo
della Serbia fu effimero e di breve durata. La Nemesi di Dio contro quel popolo
orgoglioso e folle si sta ora compiendo, per opera delle vittorie attuali del
Reich e dell'Italia [...]. I serbi impareranno a loro spese dove conducono
l'orgoglio ed il folle desiderio d'opprimere i deboli. Avranno in casa loro i
tedeschi, e diventeranno anch'essi una piccola nazione protetta. Facciano bene
i loro conti” (Giorgio Bartoli, “Nemesi divina”, in “Conquiste”, aprile-maggio
1941, p. 112. Segue citazione da Mussolini: “Ogni individuo e popolo e'
artefice e responsabile in gran parte del suo destino”).
III. Guerra.
Il censimento tenuto dal Regno jugoslavo nel 1939 fornì i seguenti risultati
rispetto alla popolazione della provincia del Kosovo e della Metochia (Kosmet):
abitanti 645.017, di cui non slavi (in grande maggioranza albanesi): 422.827
(65,6%); slavi: la rimanenza (34,4%).
In seguito allo smembramento della Jugoslavia, il Kosovo viene
suddiviso in tre zone di occupazione straniera: una italiana, una tedesca ed
una bulgara.
Nell’agosto 1941 l’Italia,
che occupa la parte più estesa del Kosovo, annette questo territorio alla
“Grande Albania”, a sua volta protettorato tricolore. Tutto il Kosovo, compresa
la zona di Mitrovica, Podujevo e Vucitrn, a maggioranza serba e formalmente
sotto il controllo del governo-fantoccio filotedesco di Nedic, è in realtà alla
mercè delle bande dei collaborazionisti albanesi, specialmente quelle di
Boletini e Deva, che seminano il terrore sotto gli auspici della Wehrmacht.
Durante la guerra nella “Grande Albania” verra’ costituita
persino una divisione albanese delle SS, la “Skanderbeg”, cosi’ come in Bosnia
la divisione “Handzar” (istituita in seguito ad un accordo fra Hitler e il Gran
Mufti di Gerusalemme, Hadj Al-Husseini), tutta composta da musulmani. Analogamente
a quanto avviene nella Croazia di Ante Pavelic e dell’Arcivescovo Stepinac,
anche nel Kosovo panalbanese i diritti di cittadinanza ai serbi sono negati. Si
mira all’annientamento della cultura e della presenza fisica serba. Svariati
villaggi e luoghi di culto vengono rasi al suolo, e molti crimini vengono
commessi contro la popolazione.
Ricordiamo che nella stessa Serbia occupata dalla Wehrmacht i
crimini del nazismo contro gli ortodossi sono ispirati alla logica genocida che
impera in tutta Europa. Nell’autunno
1941 la citta’ di Kragujevac subisce una spropositata rappresaglia contro
la popolazione civile, che causa 7300 uccisioni a sangue freddo. Il centro di
Belgrado viene bombardato prima dell’occupazione: sono le scene del film
“Underground” di E. Kusturica...
Particolamente aggressiva nell’area balcanica è la politica
vaticana. Se il film di Costa Gravas “Amen” recentemente presentato a Berlino
(con tanto di manifesto che unisce svastica e croce cristiana) denuncia le
responsabilità di papa Pio XII nello sterminio degli ebrei, pochi ricordano il
ruolo di supporto svolto dal Vaticano nei confronti delle più efferate
dittature naziste europee: da Franco (Spagna) a Pavelic (Croazia), dalla
Slovacchia ai collaborazionisti filotedeschi nell’Ucraina occupata.
Ritorniamo in Kosovo. Sotto il nazifascismo nella zona viene
ripristinato il sistema di proprietà feudale: i contadini perdono così i beni
ottenuti grazie alla riforma agraria del 1918, attuata dal regno jugoslavo.
Rispuntano i “Bey” e gli “Aga”, i magnati di ottomana memoria, che tornano a
controllare la distribuzione dei prodotti agricoli e la vita sociale in quanto
rappresentanti del nuovo Stato panalbanese. Le razzie contro il bestiame e la
distruzione dei beni degli ortodossi sono consuetudine.
Kosovo Polje e Pristina vengono abbandonate dalla popolazione
non-albanese. Fonti tedesche di allora registrano almeno 60mila fuggiaschi.
Persino Neubacher, plenipotenziario del Ministero degli Esteri hitleriano, deve
intervenire perche’ gli episodi di terrore diminuiscano.
In questa situazione il movimento partigiano albanese-kosovaro
rimane estremamente debole, essendo suddiviso in ben otto piccole distinte
formazioni (dal movimento monarchico “Balli Kombaetar”, detto dei “balisti”, ai
comunisti). Ben più saldo è il
Movimento di Liberazione della Jugoslavia, nel quale i serbi entrano in gran
numero. Sin dal 1943 i partigiani jugoslavi e Tito stesso sono soggetti alle
pressioni dei partigiani albanesi di E. Hohxa che chiedono l’unione del Kosovo
con l’Albania, tuttavia la tendenza jugoslavista rimane egemone anche per la
maggiore componente serba tra i partigiani del Kosovo. Non mancano, peraltro,
serbi favorevoli alla unione del Kosovo con l’Albania (Miladin Popovic), né
albanesi kosovari impregnati di idee jugoslaviste (il giovane intellettuale e
comandante partigiano Koci Xoxe).
Con l’8 settembre
gli italiani lasciano l’amministrazione del Kosovo nelle mani dei nazisti
tedeschi, bulgari ed albanesi. A Pec,
su 756 vittime del nazifascismo, 741 sono serbi e montenegrini. Il 3\XII\1943
circa 400 membri del cosiddetto “Reggimento del Kosova”, guidati da Xhafer
Deva, circondano Pec e nel giro di 4 giorni uccidono più di 300 persone con
metodi analoghi a quelli dei loro alleati ustascia nella Grande Croazia di Pavelic
e Stepinac (torture, mutilazioni, decapitazioni). La maggior parte della
popolazione di entrambe le etnie è peraltro solidale con i perseguitati.
Nel dicembre 1944
contro i partigiani che avanzano ovunque scoppia una insurrezione organizzata
dai “balisti” panalbanesi. I leader Poluza e Voca (la cui famiglia era vicina
alla corte di re Zog) fomentano una atmosfera ostile e violentemente
anti-serba: l’insurrezione scoppia a Drenica
e verrà sedata completamente solo dopo tre mesi.
Nel censimento del 1948
gli slavi risultano essersi ridotti all’8% della popolazione del Kosovo.
IV. Dopo il diluvio,
prima del diluvio.
Assai complessa è la storia politica del Kosovo del
dopoguerra. Sottoposti in un primo periodo a un pressante controllo poliziesco,
legato alle condizioni della Guerra fredda e ai contrasti fra titoisti e
filosovietici dopo il 1948, gli
albanesi jugoslavi beneficiano peraltro fin da subito di misure più
incoraggianti di qualsiasi statuto di autonomia: centinaia di scuole elementari
e decine di medie vengono aperte, con insegnamento non solo della, ma in lingua albanese; la terra confiscata ai contadini albanesi è
loro restituita, mentre ai coloni serbi e montenegrini giunti in Kosovo negli
anni Venti-Trenta e cacciati durante l’occupazione fascista non è consentito di
rientrare.
Col tempo, gli albanesi jugoslavi ottengono garanzie politiche
sempre maggiori: nel 1964 il
Kosovo-Metohija assume lo status di regione autonoma (pokrajina), e l’identità
culturale degli albanesi jugoslavi è tutelata da iniziative anche un po’
forzate, come l’abbandono generalizzato, nel 1968, del dialetto albanese settentrionale (ghego, predominante in
Kosovo) nelle comunicazioni di massa, nei documenti ufficiali e nella
produzione culturale, in favore dello standard linguistico d’oltre frontiera,
sostanzialmente modellato sul tosco (la parlata meridionale). Nello stesso
anno, viene inaugurata l’Università di Prishtina, che conosce subito un boom di
iscrizioni.
Nel quadro del disgelo jugoslavo-albanese dovuto alla comune condanna
all’intervento del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia, vengono liberalizzati i
contatti culturali fra la regione autonoma e lo Stato albanese. Milioni di
manuali scolastici albanesi si riversano sul Kosovo a colmare il vuoto di
materiale didattico determinato anche dal recente passaggio allo standard
linguistico “metropolitano”. Nel corso di dieci anni, ben 250 professori
dell’Università di Tirana svolsero regolari cicli di lezioni presso l’Universtà
di Prishtina. Tale politica culturale, lungi dal contribuire al “distensione”
fra albanesi e slavi, stimolò un recupero massiccio e una legittimazione
“scentifica” dell’ideologia nazionalista grande-albanese, coltivata e promossa
dalla leadership di Tirana in una versione corroborata dal dogmatismo stalinista
antijugoslavo. Alla vecchia classe dirigente kosovara uscita dalla resistenza e
nutrita di valori jugoslavisti comincia a subentrare una giovane generazione
formatasi nella contestazione anti-serba del 1968 e nel nuovo clima culturale pan-albanese. Presso vasti settori
della popolazione, i “miti fondanti” della Jugoslavia federale e socialista
iniziano a entrare in crisi irreversibile, anche sull’onda della frustrazione
per una persistente condizione di sottosviluppo economico rispetto agli standard
federali.
Nella seconda metà degli anni Settanta, la dirigenza federale
tenta di rispondere a questo processo con la concessione al Kosovo di
un’autonomia amministrativa sempre più larga e di ingenti aiuti economici. Con
la nuova Costituzione jugoslava del 1974,
orientata in senso decentralizzato e federalista, il Kosovo, pur rimanendo
parte della Repubblica di Serbia, diventa di fatto la “settima repubblica”
jugoslava. L’”autonomia speciale” in vigore in Kosovo prevede il diritto di
veto della regione sulle decisioni della Repubblica di Serbia (e non
viceversa), nonché la non giudicabilità degli albanesi da corti che non siano
quelle kosovare. La regione, etnicamente sempre più compatta, si avvia a
divenire il naturale spazio degli albanesi in Jugoslavia, e solo fra il 1982 e il 1984 più di 15.000 serbi lasciano il Kosovo: proprio in questa
occasione, un deputato serbo del parlamento autonomo del Kosovo parlò per la
prima volta di “pulizia etnica”.
Per quanto riguarda le strategie economiche, dal 1966 in avanti il Kosovo è stato il
massimo fruitore dei finanziamenti erogati dal Fondo federale (una sorta di
Cassa del Mezzogiorno jugoslava) per lo sviluppo delle aree povere del paese,
con una quota sul totale in ascesa fino al 40% del 1980. I fondi venivano concessi sotto forma di credito a lungo
termine a tassi minimi; ad essi si affiancò, negli anni Settanta, una sorta di
prelazione del Kosovo sui prestiti alla Jugoslavia dal Fondo Monetario
Internazionale. Tale accesso del Kosovo ad un surplus di ricchezze che localmente non si generavano e nel quadro
di una gestione arbitraria degli stessi da parte degli organismi locali, non
condusse a uno sviluppo economico della regione, ma ad una gestione
parassitaria e burocratica, a un meccanismo di distribuzione a pioggia
finalizzato per lo più alla creazione di consenso assistenziale-clientelare.
La situazione cambia nel corso degli anni Ottanta, quando il
sistema sociale e politico della Repubblica Federativa e Socialista di
Jugoslavia (RFSJ) entra progressivamente in crisi anche per le fortissime
pressioni a cui è soggetto da parte del Fondo Monetario Internazionale e della
Banca Mondiale. Sull’onda dello scontento popolare e della crisi si rafforzano
da una parte i micronazionalismi locali, dall’altra le politiche centralistiche
dei socialisti serbi.
Dal 1987 si afferma
in Serbia un nuovo gruppo dirigente. A guidarlo, Slobodan Milosevic, dirigente
della Banca centrale di Belgrado con ottimi agganci negli Stati Uniti e
responsabile dei rapporti di questa col Fondo Monetario Internazionale di
stanza a New York. Proprio dal FMI giunge la richiesta pressante di decurtare i
finanziamenti al Kosovo, che nei primi anni Ottanta avevano raggiunto il 42,5%
del bilancio federale. Essendo tali finanziamenti l’unica motivazione residua
per il Kosovo ad un lealismo jugoslavista ormai ampiamente eroso a livello
ideologico, è chiaro che al taglio di questi deve corrispondere una restrizione
delle prerogative autonomistiche, pena la sicura secessione della regione.
L’intero gruppo dirigente jugoslavo condivideva allora questa posizione: “Non
c’è dubbio che il Kosovo sia un problema per l’intero paese, una polveriera su
cui sediamo noi tutti”, dichiarava nel 1987 il leader sloveno Milan Kucan (“The
New York Times”, November 1, 1987, Sunday), ansioso sia di limitare il
drenaggio di fondi dal ricco nord verso il Kosovo, sia di affermare il
principio di non ingerenza della Federazione negli affari interni delle
repubbliche.
La RFSJ procede tuttavia velocemente verso il collasso, anche
per l’inasprirsi delle pressioni economiche internazionali. Il 5\XI\1990, un anno prima della
disintegrazione “etnica”, il Congresso americano approva il “Foreign Operations
Appropriations Law” 101-513 per il 1991, che impone alla Jugoslavia la
restituzione immediata di tutti i prestiti, prospettando una redistribuzione
separata dei crediti ad ogni repubblica federata a condizione di “libere
elezioni” separate e in misura dei risultati elettorali repubblica per
repubblica (ossia, privilegiando i partiti e le coalizioni di governo
secessioniste e filooccidentali). E’ l’inizio della fine: il provvedimento
impone alla RFSJ una destabilizzazione tanto radicale da preoccupare la stees
CIA, che in un rapporto di poco posteriore mette in guardia il Congresso contro
una possibile guerra civile nei Balcani (“New York Times”, 28\XI\1990).
Nel 1989, di fronte
alle tendenze centrifughe sempre più forti nel paese, la Presidenza collegiale
della RFSJ (e non, dunque, la sola Serbia) aveva annullato gli aspetti più
“politici” dell’autonomia kosovara e soppresso i corsi in lingua albanese
all’Università di Pristina (fino al gennaio
1999, quando parte del campus di Pristina sarà restituito agli albanesi),
mantenendo peraltro il bilinguismo nelle istituzioni, l'insegnamento in lingua albanese
fino alle scuole secondarie, nonche' i diritti civili e politici di cui godono
tutti i cittadini della Jugoslavia (che, lo si ricordi, non è affatto una
“dittatura”, ma una repubblica federale il cui presidente è eletto
democraticamente e risponde a una coalizione parlamentare). I secessionisti
albanesi scelgono la strada del boicottaggio di tutte le istituzioni dello
Stato jugoslavo: dalle vaccinazioni infantili alla scuola dell'obbligo,
dall'insegnamento universitario alle tornate elettorali, la popolazione
albanese si assenta nella sua quasi totalità dalla vita politica e sociale
jugoslava per costruire un sistema parallelo per l'istruzione, la sanità, la
rappresentanza politica.
Tutto ciò è reso possibile grazie al sostegno di forti gruppi
di pressione in Occidente: negli anni
‘90, il sedicente governo kosovaro in esilio ha sede a Bonn e il suo
premier, il medico urologo Bujar Buhoshi, tiene frequenti convegni insieme
all’ex ministro degli esteri tedesco Kinkel. Negli USA l’irredentismo panalbanese
è appoggiato dalla “Albanian-American Civil League” con sede a New York e
diretta dal deputato Joseph Dioguardi, vicino a Bob Dole.
Nel marzo 1997
viene scartata la candidatura di Anthony Lake alla direzione della CIA e viene
assegnata a George Tenet, 46 anni, originario dell’Albania meridionale. Il
padre e' nato nella cittadina di Himara (vicino a Valona) da dove emigro' in
giovane eta' per la Grecia. “Tenet ha ancora in Albania alcuni parenti” e
durante l'insurrezione albanese di due anni fa “sarebbe stato almeno quattro
volte in Albania”, come denuncio' l'allora “responsabile dei servizi segreti
albanesi Bashkim Gazidede” (a sua volta loschissimo figuro: vedi infra), Tenet “e' uno che ha sempre
svolto il compito di agente di collegamento fra il mondo dello spionaggio e
quello politico, essendo stato direttore del Comitato senatoriale per lo
spionaggio” (“La Stampa”, 23\III\97). L’influente personaggio, del resto, non
fa mistero dei suoi punti di riferimento ideologici: sua madre, egli racconta
“ha lasciato l’Albania meridionale alla fine della Seconda guerra mondiale, a
bordo di un sottomarino britannico, per sfuggire al comunismo [...]. Lei e’ una
vera eroina. E’ con queste esperienze di vita e di valori in mente che io spero
di guidare la nostra comunita’ di intelligence” (“Il Manifesto” 24/2/1999).
Importanti agenzie di public relations come la Ruder&Finn, da anni sotto contratto
col governo croato, coi musulmani di Bosnia e con i separatisti del Kosovo,
“orientano” l’opinione pubblica in modo adeguato: “Abbiamo potuto far
coincidere nell’opinione pubblica serbi e nazisti. - dichiara il direttore
della Ruder&Finn Global Public
Affairs, J. Harf, a J. Merlino, direttore della Redazione Esteri di Tf2 -
Noi siamo dei professionisti. Abbiamo un lavoro da fare e lo facciamo. Non
siamo pagati per fare la morale (...). Se vuole provare che i serbi sono delle
povere vittime, coraggio, sarà tutto solo”.
La questione kosovara, pur complessa, lasciava comunque larghi
margini a una soluzione pacifica (vedi l’accordo del 1\IX\1996 sul sistema scolastico fra S. Milosevic e il leader
kosovaro I. Rugova, mediato dalla Comunità di S. Egidio) fino alla svolta
terroristica del 1997. Già il 24\I\1997 su “Il Piccolo” un articolo
di Mauro Manzin segnalava l’esistenza, in Albania vicino ad Elbasan, di un
campo di addestramento per gruppi paramilitari kosovari: “Motivati, ben armati
(materiale soprattutto NATO dell’ultima generazione), studiano le tecniche
terroristiche dei colleghi dell’IRA e dell’ETA. Le loro prime vittime sono stati
tre albanesi affiliati al Partito socialista serbo di Milosevic (quindi
traditori della causa albanese) e il rettore dell’Università di Pristina (salvo
per miracolo)”. Cosa c’è dietro?
Cessata la guerra in Bosnia, crollano le “piramidi
finanziarie” su cui si basava l’intera economia albanese (e che dal riciclaggio
dei profitti di quella guerra in gran parte dipendevano) e cade il governo
Berisha. Il fiume di denaro, di armi e di equipaggiamento passa ora le
frontiere verso il Kosovo, in sostegno di un’organizzazione guerrigliera detta
UCK (“Esercito di Liberazione del Kosovo”). Tale organizzazione, assai simile
per struttura e strategia ai “contras” centroamericani degli anni Ottanta, è
attiva fin dal 1995. Il suo gruppo
dirigente proviene in parte dal Movimento Popolare per il Kosovo (LPK), una
sedicente organizzazione marxista-leninista fondata nella città turca di Izmir
(Smirne) nel 1982, sotto gli auspici
della dittatura militare allora al potere in Turchia (C. Chiclet su “Le Monde
Diplomatique”, gennaio 1999). Del resto, la Turchia, interessata alla creazione
di una “trasversale verde” islamica attraverso i Balcani, sostiene attivamente
da quasi un decennio i movimenti musulmani nella regione, a cominciare dal
partito SDA del presidente bosniaco A. Izetbegovic (convinto islamista e autore
già negli anni ‘70 di una “Dichiarazione islamica”).
Secondo l’analista di questioni di “intelligence” John
Whitley, l’appoggio occulto all’UCK fu stabilito come impresa comune fra CIA e
la tedesca Bundes Nachrichten Dienst (BND), che in precedenza aveva avuto un
ruolo chiave nell’affermarsi in Croazia del governo Tudjman. L’obiettivo di
finanziare e addestrare l’UCK fu inizialmente affidato alla Germania: “Essi
usavano uniforme tedesche, armi dell’ex Germania dell’est”. Alla Germania si
sostituì in un secondo momento l’azione diretta della CIA (“Truth in media”,
Phoenix, 2\IV\1999).
Altri sponsor sotterranei non tardano a mettersi in moto.
“L'Uck ha uno dei suoi punti di riferimento in Veton Surroi. Surroi fa parte
del circolo albanese finanziato dal miliardario Soros. A Tirana dicono che alla
Dardania Bank e' arrivato un milione di dollari (1.700 miliardi di lire) per
finanziare la guerriglia” (“Il Sole 24 ore”, 10\VI\98). Nell’agosto '98, Soros
ha avuto grosse perdite nel crollo della borsa di Mosca, dove aveva investito
2,5 miliardi di dollari. Dopo questo crack, si intensifica il suo attivismo
“politico”: da principale consulente del Fondo Monetario e di Clinton, il
finanziere americano organizza un ristretto “comitato di crisi” sulla guerra
contro la Jugoslavia. Soros è del resto presente in Albania da alcuni anni, con
l'obiettivo di “liberare i Balcani”. Soros ha anche “sponsorizzato un Tribunale
internazionale permanente per giudicare i crimini contro l'umanità, promosso
dal commissario europeo Emma Bonino” (“Il Sole 24 ore”, 7\II\98).
A completare il “quadro di famiglia”, ricordiamo l’afflusso
crescente (col precipitare degli avvenimenti) di mercenari di varia provenienza
nelle file dell’UCK: recentemente è stata data notizia di cittadini francesi
uccisi in scontri a fuoco con l’esercito jugoslavo in territorio kosovaro
(Televideo, p. 182, 18\V, ore 8,15), mentre già in aprile era stato ferito
un’altro mercenario d’oltralpe. Risale agli inizi del maggio ‘99 la nomina al vertice militare dell’UCK di un ex generale
della Vojska croata, Agim Ceku,
vicino al “Military Professional Resources inc.” (un’agenzia semi-ufficiale del
Pentagono, specializzata nella gestione e nello smistamento di mercenari nelle
“guerre sommerse”) e protagonista delle pulizie etniche croate in Krajina
(“Washington Times”, 4\V\1999).
V. Terrorismo e
propaganda.
Il 1\III\1998, due
poliziotti serbi sono uccisi dall’UCK. Questa azione, in sé non diversa dalla
lunga serie di attacchi terroristici precedenti, segna l’inizio di una
massiccia attività antiguerriglia da parte dell’esercito serbo: l’8 marzo Drenica, la roccaforte della
guerriglia albanese, viene attaccata in forze. I morti sono un’ottantina.
Nel marzo 1998, il
presidente jugoslavo S. Milosevic si incontra per la prima volta a Belgrado con
I. Rugova, eletto plebiscitariamente alla presidenza dell’autoproclamata
repubblica del Kosovo, per un giro di trattative presto vanificate dalla
massiccia ripresa della guerriglia in giugno. L’UCK, del resto non aveva fatto
mistero di considerare i negoziati di Belgrado come un “tradimento” da parte
dei moderati di Rugova. I bilanci dell’estate sono circa 500 vittime militari e
civili, 300 villaggi distrutti, decine di migliaia di sfollati, sia albanesi
che serbi: nelle zone occupate, è l’UCK a praticare la “pulizia etnica”.
Con il dilagare della guerriglia, la situazione in Kosovo
precipita in un’escalation di
violenza spesso strumentalizzata dai mass media occidentali. Nell’agosto 1998 Erich Rathfelder, già noto
per reportage faziosi sulla guerra in Croazia e in Bosnia, denuncia su
“Tageszeitung” la strage di 567 kosovari, fra cui 430 bambini, presso Orahovac.
E’ tutto falso, come rivela una missione d’osservazione della UE, ma la notizia
sortisce ugualmente un forte effetto. “La Stampa”, più degli altri quotidiani
italiani, la pubblica con enorme risalto, e la fa commentare da Enzo Bettiza e
da Alain Finkielkraut, sobri ed equilibrati analisti noti, solo per fare un
esempio, per le violentissime critiche al film di E. Kusturica Underground, all'atto della sua vincita
a Cannes nel '95, da loro tacciato (come poi si seppe, senza averlo visto), di
“filoserbismo”.
A inizio settembre,
una fossa comune viene trovata veramente, ma le vittime sono serbe, vittime
dell'UCK, in gran parte civili, cadaveri bruciati in un forno (il “primo forno
crematorio dalla fine della seconda guerra mondiale”, come ha detto Ivan
Markovic, vicepresidente della Jul). “La notizia, piccola piccola, è stata data
dai quotidiani, anche da “La Stampa”, senza il commento di grandi nomi
internazionali, in un articolo (da Zagabria, ovvio!) di Ingrid Badurina, che
peraltro ne parla in modo dubitativo, e poi trova il modo di parlare di una “immediata
rappresaglia” dei serbi con decine di vittime. Ma dove? Quando? Qual è la
fonte? Dato che di questa strage nessuno ha parlato, ci spieghi Badurina come
ha fatto ad averne notizia. Attendiamo fiduciosi” (Riccardo Luccio su
“Liberazione”, 3\IX\1998).
Sull’onda dell’opinione pubblica gonfiata dallo stillicidio di
montature grandi e piccole, si intensifica il pressing sul governo jugoslavo da parte degli americani, che nel
frattempo hanno definitivamente “adottato” l’UCK, già contattata a fine giugno
da Robert Gelbard, l’inviato speciale della Casa Bianca per il Kosovo (e autore
di un piano di intervento militare in Kosovo, allora bocciato dalla Casa
Bianca). A settembre, l’ex senatore Bob Dole presenta a Clinton un catastrofico
rapporto sulla “pulizia etnica” in Kosovo e torna a chiedere l’intervento
militare, ma con i Democratici in difficoltà alle elezioni congressuali di
novembre, Clinton accetta per il momento il compromesso promosso da Richard
Holbrooke: i cosiddetti “accordi di Belgrado”. Nondimeno, proprio a fine settembre si tiene a Villamura
(Portogallo) il primo vertice NATO in cui si prevede esplicitamente l’uso della
forza qualora Milosevic non si lasci piegare. Tale programma, accettato da
tutti i Ministri della Difesa dei paesi NATO, non fu mai discusso nei
rispettivi parlamenti (“Corriere della Sera”, 19\IV\1999).
Il 12 ottobre,
Milosevic accetta di ritirare gran parte delle forze di polizia serbe dal
Kosovo e di farvi entrare duemila osservatori disarmati dell’OSCE. I cosiddetti
“accordi di Belgrado” non verranno mai firmati dall’UCK.
Iniziano estenuanti trattative per il futuro assetto della
regione fra Milosevic e il “moderato” F. Agani, noto politico e intellettuale
albanese, rappresentante dell’autoproclamato governo del Kosovo. Il contingente
OSCE, formato per più del 70% da militari e diviso al suo interno da lobbysmi
nazionali (gli italiani restano esclusi dalle cariche direttive), si dedicherà
prevalentemente a operazioni di intelligence
e alla copertura dell’attività della guerriglia kosovara, salvo alcune
grottesche iniziative come il (mancato) concerto a Pristina dell’oriunda
albanese... Anna Oxa! Interpellato a Vienna sui torbidi retroscena della
missione in Kosovo, il portavoce dell'OSCE Mons Nyberg, dopo essersi consultato
con esponenti della missione attualmente dislocati in Macedonia, preferisce non
commentare le accuse. “Non siamo in grado di verificare questi fatti, quindi
non possiamo confermarli né smentirli”(vedi la testimonianza di un verificatore
OSCE italiano in “I quaderni speciali di LIMES”, aprile 1999, e la conferma da
parte dei verificatori svizzeri nel quotidiano cattolico ticinese “Giornale del
popolo”, 12\V\1999, http://www.gdp.ch/primo_piano/primo_piano.htm).
Con gli scontri di natale
nella zona di Poduevo, l’UCK rompe una tregua che comunque non ha mai firmato
ne’ realmente praticato: secondo l’agenzia di stampa “Tanjug”, fra l’ottobre 1998 (quando ha inizio la
missione OSCE in Kosovo) e il marzo 1999,
nell’area hanno luogo 975 attacchi terroristici che causano 141 morti, 305
feriti e 86 scomparsi. Nello stesso periodo vengono scoperte (e confermate
dall’OSCE) fosse comuni di serbi (10 e 12 morti); decine di serbi vengono
rapiti, alcuni torturati; a metà dicembre sei civili serbi muoiono a Pec in un
attentato; il 15\1\1999, un
verificatore britannico e il suo interprete vengono feriti da uno sniper dell’UCK, ma questi crimini
passano quasi inosservati. Armi dirette ai secessionisti panalbanesi vengono
sequestrate nei porti italiani, conti bancari vengono aperti in Europa per il
finanziamento dell’UCK, le polizie di molti paesi individuano i legami dell’UCK
con i traffici di droga e prostituzione, come ammesso dallo stesso Cristopher
Hill, capo negoziatore americano (“Daily Telegraph”, 6\IV\1999).
L’azione antiguerriglia dell’esercito jugoslavo, pur violenta
e spesso esasperata, non ha alcuna finalità di “pulizia etnica”, ma è volta a
fare “terra bruciata” all’UCK nelle zone di maggior radicamento. Le finalità
nient’affatto “etniche” o “politiche” ma esclusivamente antiguerriglia
dell’armata federale sono del resto unanimemente confermate in numerosi
rapporti stilati del Ministero degli Interni tedesco su richiesta dei tribunali
impegnati in cause di riconoscimento di asilo politico da parte di cittadini
Kosovari (vedi documentazione completa in appendice).
Per quanto riguarda l’UCK, la sua strategia terroristica e
destabilizzante risulta chiaro dal rapporto degli stessi osservatori americani
OSCE al Dipartimento di Stato: “L’UCK minaccia e rapisce chiunque abbia rapporti
con la polizia [...] Rappresentanti dell’UCK hanno minacciato di uccidere
abitanti dei villaggi e bruciare le loro case se non si uniscono all’UCK. Le
minaccie dell’UCK ha raggiunto una tale intensità che i residenti di sei
villaggi della regione di Stimlje sono pronti ad andarsene” (“KDOM Daily
Report”, US Department of State, Washington D.C., 21\XII\1998).
I crimini dell’UCK, pur passati sotto silenzio dai grandi
mezzi di informazione, sono ben noti ai governi occidentali. Solo due mesi
prima della guerra, Dini dichiarava: “Mentre Belgrado rispetta gli accordi
firmati con il mediatore americano Holbrooke, la guerriglia dell'UCK ha
sfruttato il ritiro delle milizie serbe (sotto gli occhi degli osservatori
Osce, ndr) per tornare nelle campagne, rientrare nelle città e guadagnare così
terreno, anche grazie alle armi che passano attraverso l'Albania. L'UCK si
illude se spera di fomentare la guerra per spingere la NATO all'attacco contro
la Serbia” (Il Manifesto 16.1.1999). Urge dunque una grossa provocazione per
dare la svolta “desiderata” agli eventi.
Il 15\I\1999, in
seguito agli scontri intorno a Racak tra le forze jugoslave e i miliziani
dell’UCK, il capo degli osservatori OSCE William Walker (personaggio quantomeno
ambiguo, attivo in Nicaragua e Salvador negli anni ‘80 e collaboratore di
Oliver North ai tempi del caso Iran-Contras. Vedi le trascrizioni del processo
Irangate riportate sulla rivista statunitense “Workers World”, 28\I\1999)
avalla la versione di un “massacro di civili”. Si tratta in realtà di
guerriglieri cambiati d’abito e ammucchiati in un fossato, ma le parole di
Walker sulla “gratuita ferocia dei serbi”, pur smentite in seguito dal
presidente dell'OSCE, il norvegese Kurt Vollebaek, avranno un profondo impatto
sull’opinione pubblica. Il rapporto su Racak stilato da un équipe di medici
finlandesi per conto dell’UE verrà subito segretato (vedi C. Chatelot su “Le
Monde”, 21\I\1999).
In un certo senso, la strage di Racak è per il Kosovo quello
che per la Bosnia sono state le due bombe al mercato nella Sarajevo del ‘94 e
del ‘95 e le montature sui presunti “stupri etnici” e sui “campi di sterminio”.
Il Gruppo di contatto decide di imporre a serbi e albanesi un negoziato sotto
la propria egida, in forma di ultimatum.
VI. Rambouillet: i
ballerini sul Titanic.
7/2/1999:
Iniziano i colloqui nel castello di Rambouillet, residenza estiva del
Presidente francese.
L’UCK, nonostante le difficoltà poste dalle autorità jugoslave
il giorno precedente, è rappresentato da suoi propri membri ed anzi (pur non
avendo alcuna plausibile legittimazione giuridica) guida la delegazione
albanese kosovara: il presidente legittimo Rugova passa in secondo piano
rispetto al ventinovenne comandante guerrigliero Hashim Thaci. Molti dei suoi
compagni di frazione sono ricercati per omicidio e si sono presentati a
Rambouillet privi di documenti di identità.
I kosovari sono “accompagnati” da personaggi del calibro di
Morton Abramovitz, in qualità di rappresentante dell’ “International Crisis
Group” vicino alla Fondazione Soros, nonché da Marshall Harris e Paul Williams,
ex funzionari del Dipartimento di Stato americano. Accanto alla delegazione
kosovara, anche il Ministro degli Esteri albanese Milo e Filippo di Robilant,
ex portavoce di Emma Bonino e rappresentante della “Coalition for International
Justice” (“Corriere della Sera”).
La delegazione jugoslava è composta da personaggi vicini al
governo centrale e membri delle varie comunità etniche che compongono la
provincia: serbi, musulmani, albanesi non separatisti, turchi, rom.
Anche un’altra delegazione, di serbi kosovari, guidata dai
pope Amfilohije ed Artemije, giunge in Francia, pur non invitata alla
Conferenza, e si dedica alle public
relations nella capitale francese.
Oltre ai nazionalisti ed ai clericali del “Movimento di Resistenza
Serbo”, al quale i pope sono affiliati, tutti gli oppositori politici
dell’attuale governo jugoslavo ritengono “non rappresentativa” e troppo
“arrendevole” la delegazione jugoslava e la contestano - primo tra tutti il
presidente montenegrino Djukanovic, che dichiara inaccettabile qualsiasi futuro
assetto della Federazione jugoslava che veda ridotto il peso del Montenegro a
livello federale. Non è difficile capire il motivo di una simile posizione da
parte del leader filooccidentale: attualmente, il Montenegro detiene il 50% dei
seggi nel Consiglio Federale alla pari con la Serbia. Un eventuale
riconoscimento del Kosovo come Repubblica federata (e non più regione autonoma
della Serbia) implicherebbe una spartizione a tre dei seggi, con la riduzione
della quota per ciascuna Repubblica al 33%.
8/2:
I colloqui tra i mediatori internazionali Hill (americano), Petritsch (europeo)
e Majorskij (russo) da una parte e ciascuna delle due delegazioni proseguono
separatamente: le delegazioni sono alloggiate infatti in due piani diversi del
castello e non si incontrano tra di loro.
I mediatori hanno sottoposto alle delegazioni i “dieci punti”
di principio elaborati dal Gruppo di Contatto, che contengono tra l’altro la
intangibilita’ degli attuali confini ed una ampia autonomia per la regione del
Kosovo. A detta dei mediatori, entrambe le delegazioni si dicono favorevoli.
9/2:
I membri dell’UCK nella delegazione albanese rilasciano una dichiarazione che
chiede la sottoscrizione urgente di un cessate il fuoco sotto la supervisione
della NATO, la liberazione dei prigionieri, il ritorno degli esiliati ed un
referendum per l’indipendenza. Da Belgrado, il nazionalista Draskovic dichiara
che si tratta di una manovra diversiva degli albanesi per non sottoscrivere i
“dieci punti”.
10/2:
La delegazione jugoslava insiste perché i “dieci punti” del Gruppo di Contatto
siano sottoscritti immediatamente e senza precondizioni.
La NATO comunica da Bruxelles di avere preparato il piano per
l’occupazione militare del Kosovo, da attuarsi subito dopo il raggiungimento
degli accordi di pace. Il Segretario di Stato USA Albright incontra il
montenegrino Djukanovic esprimendogli tutto l’appoggio USA. Il portavoce Rubin
minaccia la Jugoslavia: bombarderemo se non consentirete l’accesso della “forza
di pace” occidentale in Kosovo.
Il Presidente della Serbia Milutinovic giunge in serata a
Parigi.
11/2:
Continua la tournee parigina dei pope ortodossi del Kosovo: in una conferenza
stampa fuori dal castello, Artemije critica la delegazione jugoslava perché
rappresenterebbe solamente il Partito Socialista (SPS) e la Sinistra Unita
(JUL), e non i serbi del Kosovo.
La delegazione jugoslava firma i “dieci punti” di principio
elaborati dal Gruppo di Contatto senza condizioni e senza aspettare che gli
albanesi facciano altrettanto. I dieci punti vengono sottoscritti anche dalla
delegazione della Repubblica della Serbia, composta dai rappresentanti serbi e
di tutte le nazionalità del Kosovo tranne gli albanesi separatisti.
Il segretario politico dell’UCK e capo della delegazione
albanese a Rambouillet, Hashim Thaci, chiede un incontro urgente con
rappresentanti della NATO per parlare, dice, dell’invio di truppe in
Kosovo. Il Ministro della difesa USA
William Cohen minaccia nuovamente Belgrado, aggiungendo che gli obiettivi degli
attacchi aerei sono gia’ stati scelti.
12/2:
Il Ministro degli esteri inglese Cook deplora l’insistenza della delegazione
jugoslava sul fatto che gli albanesi dovrebbero anch’essi sottoscrivere i
“dieci punti” per incominciare le trattative.
Il Presidente della Serbia Milutinovic accusa i mediatori internazionali
di avere organizzato un non-negoziato, costringendo i membri delle due
comunita’ a lavorare indipendentemente ed incontrandoli separatemente. Il
Presidente serbo dichiara inoltre che Belgrado accetterebbe una presenza
militare NATO in Kosovo solamente... se
la Repubblica Federale di Jugoslavia fosse ammessa a diventare membro della
NATO!!!
Le trattative sono sospese per parecchi giorni e riprendono a
Parigi in marzo. La delegazione
degli albanesi separatisti del Kosovo, insieme ai mediatori occidentali,
propone un diversa bozza di “accordo” e, senza dialogare, trattare o discutere
alcunché con l’altra parte, chiede, in forma di ultimatum, la firma della delegazione
della Repubblica Serba. Nel nuovo documento (p. 81, cap. 8, art. 1, § 3), che
chissà perché il nostro governo considera “riservato”, sono contenuti i
presupposti della dichiarazione di indipendenza del Kosovo attraverso una non
meglio definita “consultazione popolare” da tenersi dopo il periodo
transitorio.
Un punto inaccettabile per la delegazione serba, fra l’altro,
è quello relativo al ritiro delle proprie truppe (cui non fa riscontro una
reale smilitarizzazione ne’ tantomeno un ritiro dell’UCK, peraltro non nominato
negli accordi e indicato col termine vago di “altre forze”) e alla presenza
delle truppe della NATO nel territorio della regione autonoma del Kosovo.
Questo ultimatum non viene accettato dalla delegazione della Repubblica di Serbia.
A metà marzo, il Segretario di Stato americano per la
Democrazia, i Diritti umani e il Lavoro Harold Koh convoca i rappresentanti
delle maggiori associazioni americane per i diritti umani (William Schulz per
“Amnesty International”, “Human Rights Watch”) e, dopo essersi rammaricato per
l’impossibilità del governo di sostenere l’estradizione di Pinochet, “allinea”
gli ospiti sull’imminente guerra umanitaria in Jugoslavia (fonte: IAC,
5\IV\1999).
Il 24\3 hanno
inizio le operazioni militari NATO in Jugoslavia.
La guerra.
Il 24\3\1999 hanno
inizio le operazioni militari NATO in Jugoslavia. Dureranno 78 giorni. Per i
due popoli, serbo e kosovaro, inizia l’ennesimo - forse definitivo - olocausto.
In 78 giorni 1.100 aerei hanno sganciato sull’intero paese 25.000
tonnellate di esplosivo, per un potenziale superiore a quello di Hiroshima e
Nagasaki. Secondo fonti jugoslave, i morti fra i civili sono stati circa 5000,
di cui il 30% minorenni. Solo alcuni dei bombardamenti più pesanti:
Dei 9 ponti sul Danubio ne sono stati distrutti 7,
interrompendo la principale via di comunicazione fra il Mare del Nord e il Mar
Nero.
La notte dell’ 8\4
e poi a ripetizione nei giorni successivi viene bombardata l’industria
automobilistica Zastava di Kraguevac (36 mila lavoratori, 180 mila
nell’indotto). In tutto, le fabbriche colpite sono state 121, pari a circa il
50% del potenziale produttivo nazionale.
14\4
Bombardata una colonna di un migliaio di profughi kosovaro-albanesi fra
Djakovica e Prizren. 73 i morti, 36 i feriti.
Fra il 4\4 e il 18\4 viene colpita ripetutamente e
distrutta l’industria chimica di Pancevo, con la liberazione nell’aria di
quantità elevatissime di sostanze altamente venefiche e\o cancerogene. Tali
sostanze, ricadute poi con le piogge, contamineranno per anni una zona dove
risiedono 130 mila persone (Belgrado dista 16 Km). In tutta la Jugoslavia
vengono colpiti altri 7 grossi depositi. Dato il forte degrado del suolo e
delle acque in ampie zone del paese, si valuta che la produzione agricola
subirà a partire dell’anno prossimo un calo del 10% circa, pari alla dieta
annua di 2-3 milioni di consumatori. Altro “danno collaterale” dall’effetto
verificabile solo negli anni deriva dall’uso massiccio di proiettili al DU
(uranio impoverito), le cui polveri sono altamente tossiche sia dal punto di
vista chimico che radiologico (tumori, mutazioni genetiche).
23\4
Distrutta la sede della TV serba nel centro di Belgrado (16 impiegati morti, 16
i feriti). Messi fuori uso i principali ripetitori.
24-25\4
Festeggiamenti per il 50° anniversario della Nato a Washington. Viene approvato
(in piena guerra) il nuovo Concept paper,
che prevede la possibilità di interventi dell’Alleanza anche al di fuori del
proprio spazio e senza preventivo mandato ONU. Il caso Jugoslavia, ancora in corso,
vene dichiarato come precedente, il che trasforma l’emergenza una messa alla
prova e rende irreversibile l’azione in corso.
4\5
Incontro fra Clinton e Chernomyrdin, mediatore russo. Il 6\5 I. Rugova viene lasciato libero di lasciare il territorio jugoslavo
con la famiglia. Pare aprirsi uno spiraglio per la trattativa, benche i
bombardamenti si intensifichino.
Il 6\5, i Ministri
per gli Affari Esteri del G8 rendono noto un programma di 7 punti per la
cessazione delle ostilità. In sostanza, si tratta della riproposizione dei
punti di Rambouillet. Il governo di Belgrado chiede una serie di garanzie sul
disarmo dell’UCK in contemporanea col ritiro delle truppe jugoslave, la non
partecipazione alla forza di interposizione militare da parte delle nazioni che
abbiano partecipato alla guerra, la definizione della voce in capitolo della
Jugoslavia sul futuro status del Kosovo. Intanto, la guerra continua.
7\5
Bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado. Tre morti e una decina di
feriti. 7-8\5 Bombardato l’Hotel
“Jugoslavia” nel centro di Belgrado. 8\5
Bombardato l’ospedale di Belgrado. 4 i morti. 13\5 Bombardata una colonna di 600 profughi kosovaro-albanesi fra
Prizen e Suva Reka. 48 i morti, circa 60 i feriti. 19-21\5 Ripetutamente colpito e distrutto il penitenziario di Pec.
95 morti e 196 feriti fra detenuti e guardie.
Il 25\V Milosevic e
altri quattro dirigenti jugoslavi e serbi vengono accusati dal Tribunale
internazionale dell’Aja per crimini di guerra. L’iniziativa, presentata dai
promotori come “atto dovuto”, viene interpretata da molti commentatori come una
mossa per togliere spazio ad ogni possibile dialogo e rendere necessario
l’intervento di terra.
Il 19\VI, in
seguito all’accettazione dei 7 punti da parte del governo di Belgrado (3\VI), cessano le ostilità. Oltre alle
vittime e ai danni provocati dai bombardamenti, si contano centinaia di
migliaia di profughi albanesi kosovari (250 mila nella sola Albania, diverse
migliaia anche verso la Serbia) in fuga dalla guerra e dalle rappresaglie
dell’esercito jugoslavo e dei gruppi irregolari. Il numero delle vittime civili
fra gli albanesi è incerto, anche per le continue notizie “al rialzo” diffuse
senza alcuna verifica durante la guerra (si era parlato di 50 mila morti). A
fine novembre, gli ispettori dell’FBI e del Tribunale internazionale dell’Aja
avevano identificato 187 corpi di albanesi uccisi, mentre altri membri del
Tribunale (Carla del Ponte) parlano di circa 2000 morti.
Una pace torbida.
Nell’estate 1999 le
truppe jugoslave si ritirano. Al loro posto subentrano la Kfor (Kosovo Force) e
il Minuk (amministrazione civile guidata da B. Kouchner) delle Nazioni Unite,
ma le nuove autorità, peraltro divise al loro interno, si preoccupano
soprattutto di consolidare le proprie posizioni strategiche nel paese e non
impediscono affatto che inizi la pulizia etnica, questa volta reale, contro la
popolazione non-albanese.
Al ritiro delle truppe federali non è seguito alcun accenno di
pacificazione: l’UCK ha attuato il 18\9
una smilitarizzazione poco più che simbolica (su circa 25 mila combattenti sono
state consegnate 10 mila armi) e i suoi effettivi sono confluiti nelle nuove
“Forze di difesa” (Tmk), mentre i suoi capi (H. Thaci) hanno dato vita ad un
“governo provvisorio” non previsto dagli accordi di Rambouillet e opposto al
vecchio “governo” in esilio di I. Rugova, con lo scopo dichiarato di premere
l’acceleratore verso l’indipendenza totale.
Tornati gli albanesi, hanno subito cominciato a fuggire in
massa i serbi e i rom sotto la pressione di intimidazioni e di violenze
continue, di cui le più gravi sono state l’attentato del 28\9 al mercato di Kosovo Polje (un morto, 39 feriti) e l’attentato
a un ponte sulla ferrovia presso Mitrovica, dove era appena transitato un
convoglio con centinaia di profughi serbi (4\11).
Secondo fonti di Belgrado, fino alla metà di novembre 447
kosovari non albanesi (più 36 albanesi filo-jugoslavi) sono stati massacrati,
200 i sequestrati, di cui 39 già uccisi, mentre degli altri non si sa nulla;
circa 50 mila le case date alle fiamme; 70 i monasteri e le chiese ortodosse
distrutte; 20 mila i non-albanesi licenziati. La stampa vicina all’UCK nega il
coinvolgimento di quest’ultima nelle violenze, senza peraltro dolersi troppo
degli esodi di massa (“Soltanto là dove ci sono serbi ci si possono aspettare
disordini e insicurezza [...]. Il Kosovo si svuota non della sua popolazione
serba, ma della sua popolazione criminale” - “Zëri i Kosovës”, 1\9\1999).
Risultato: 250.000 serbi hanno già lasciato la provincia, che
si avvia a diventare la regione etnicamente più ‘pulita’ di tutti i Balcani; su
150.000 rom kosovari, 90.000 sono stati cacciati. Il 2\II\2000, gli ultimi
slavi musulmani (circa un migliaio) abbandonano la regione per rifugiarsi a
Novi Pazar (Serbia). La piccola comunita’ ebraica di Pristina era gia’ stata
costretta in novembre a riparare a Belgrado. I serbi rimasti vivono in veri e
propri ghetti (come nella parte settentrionale di Mitrovica), costantemente
vigilati dalle truppe Kfor. Il futuro multietnico della regione e’ ormai definitivamente
compromesso.
In compenso, iniziano subito i preliminari per l’inserimento
del Kosovo “redento” nel nuovo ordine economico e strategico: il 18\XI\2000, il vertice OSCE di Istambul
vara un dettagliato “piano di stabilita’” per i Balcani, volto al finanziamento
dei “regimi amici” di Croazia, Bosnia, Albania e Kosovo e alla creazione di
“corridoi economici” dotati di tutte le infrastrutture per i traffici di merci
e di materie prime dall’Asia centrale all’Europa occidentale (“Sole 24 Ore”,
19\XI). Romano Prodi annuncia che la UE contribuirà per 5,5 miliardi di Euro
(da erogare fra il 2000 e il 2006), parte dei quali destinati anche alle città
serbe governate dall’opposizione al governo di Belgrado e situate in posizione
strategica per i futuri “corridoi” (Nis, Kragujevac, Cacak). Non a caso, al
vertice prendono parte anche esponenti dell’opposizione serba, come Z. Djndjc
(oggi presidente della Serbia, artefice dell’estradizione illegale di Milosevic
al tribunale dell’Aja e principale uomo degli americani nell’area).
L’opera di destabilizzazione della Jugoslavia prosegue non
solo sul versante economico, ma anche su quello strettamente: in dicembre viene
assassinato a Belgrado il Ministro della Difesa Pavle Bulatovic, artefice nei
mesi precedenti di un’energica manovra di “disaccerchiamento” e di apertura
diplomatica verso Russia, Cina e India (vedi la sua lunga intervista sul
quotidiano russo “Nezavisimaja Gazeta” del 4\II). Montenegrino fedele alla
Jugoslavia, Bulatovic rappresentava una minaccia per i secessionisti sostenuti
dall’Occidente, come il Primo ministro montenegrino Filip Vujanovic, che
all’inizio dell’anno compie un viaggio negli USA e il 19\II\2000 si incontra
con la Albright a Zagabria. Scopo di tali iniziative è chiedere finanziamenti per
proseguire nello sfascio della Federazione, ma gli va cosi’ cosi’: aveva
chiesto 62 milioni di Dollari ma glie ne vengono concessi solo 7.
L’epicentro della strategia destabilizzatrice rimane comunque
il Kosovo occupato: l’aviazione NATO sconfina ripetutamente in territorio
montenegrino e l’UCK e bande affini si infiltrano in territorio serbo, con
l’occupazione stabile di alcuni villaggi “rivendicati” al Kosovo (“Observer”,
20\II\2001).
La base americana in Kosovo, Camp Bondsteel (fra l’altro,
intitolata a un efferato massacratore della guerra in Vietnam) è la più grande
e meglio armata fra Aviano e le Filippine. Edificata in pianta stabile, è
evidentemente destinata a svolgere un ruolo di egemonia militare in tutta
l’area, fino alla Russia.
In Kosovo, le provocazioni piu’ gravi si concentrano su
Kosovska Mitrovica: situata al centro di un’importante zona mineraria e
controllata fino a febbraio dalle relativamente imparziali truppe francesi (che
non a caso si sono prese la loro dose di pallottole da un’UCK strettamente
legata al comando angloamericano, prima di essere “integrate” con piu’
“affidabili” truppe statunitensi), la città’ contiene infatti l’ultima
rilevante enclave serba della regione.
Il 2\II un autobus
di civili serbi in uscita dalla città’ e’ attaccato a colpi di razzi anticarro
(2 morti e 5 feriti). Il giorno dopo, due granate lanciate in locali
frequentati da serbi fanno circa 25 feriti. Gli scontri proseguono nei giorni
successivi, costringendo circa 550 persone a lasciare le proprie case, tanto
che il rappresentante russo della missione ONU Sergej Ivanov denuncia la totale
impotenza delle forze di pace e minaccia di ritirare il proprio contingente.
Intanto proseguono gli incendi, i rapimenti, i pestaggi e il
lancio di granate in case, negozi e locali serbi: il 4 e l’11\II a Obilic;
sempre il 4 viene presa a colpi di
granata una corsia dell’ospedale di Prizren, col ferimento grave di 4 pazienti
serbe; a Gnjilane, il 9\II, 5 bombe
in 24 ore, mentre nella stessa città’ un serbo era stato ammazzato a casa sua
il 4; un altro autobus carico di
serbi viene bersagliato a Lipljan l’8,
fortunatamente senza vittime; il 18,
due serbi vengono trovati morti dalla Kfor nel villaggio di Gornja Gusterica.
La tensione raggiunge il culmine il 21\II, quando a Kosovska Mitrovica si svolge una grande marcia
irredentista-panalbanese , a stento arrestata dalle truppe Kfor (gran parte
delle quali era peraltro impegnata a rastrellare il settore serbo della città’,
nella vana ricerca di depositi di armi). Il generale Klaus Reinhardt
(comandante generale della Kfor) non manca peraltro di esprimere solidarietà
con i dimostranti albanesi, che “stavano solo dimostrando per un futuro
migliore e per una città’ riunificata”.
Mentre 45.000 soldati Kfor armati fino ai denti ignorano la
sistematica pulizia etnica condotta in Kosovo, impegnati come sono a occupare a
lungo termine e a fortificare i nodi strategici fondamentali della regione per
futuri obiettivi che niente hanno a che fare col peacekeeping (la base
americana di Camp Bondsteel, costo 36,6 milioni di Dollari, 6300 presenze, e’
destinata a rimpiazzare Aviano come testa di ponte verso Oriente), il
contingente civile ONU e’ totalmente privo di fondi (le quote Ue e Usa sono “sotto”
di 102 milioni di dollari, secondo lo stesso Kouchner) e non ha avviato ancora
nessuna delle opere di ricostruzione previste. In compenso, secondo
un’inchiesta del “London Times” (5\II), nella regione fioriscono traffico di
droga, rapimento e tratta di bambini, prostituzione (quest’ultima anche ad usum
delle truppe Kfor).
Intanto, se la struttura amministrativa ad interim patrocinata
da Kouchner e non prevista dagli accordi di pace nasce gia’ lacerata dalle liti
inter-albanesi (gli altri gruppi etnicinon vi partecipano), l’UCK non perde
occasione per ribadire a modo suo l’egemonia de facto sulla maggior parte dei
comuni: Hasim Chuse, leader di un piccolo partito democratico
albanese-kosovaro, è stato ritrovato morto il 2\II con tre proiettili nella nuca. Anche su questo versante, ben
poche sono le garanzie offerte dalle truppe Kfor: dopo la perquisizione, con
sequestro di un arsenale, a casa del fratello del leader UCK Hashim Thaci e
dopo le indagini su altri capibanda, e’ bastato che il portavoce UCK A.
Krasniqi indirizzasse a Kouchner e Reinhardt una lettera minatoria, accusando
la Kfor di agire “come i criminali serbi”, perche’ i due alti papaveri della
forza di occupazione si scusassero direttamente con Thaci. Ristabilita la
concordia, pochi giorni dopo Kouchner e Reinhardt hanno tenuto a battesimo il
nuovo “Corpo di Protezione del Kosovo”, interamente targato UCK a cominciare
dal suo comandante Agim Ceku, ex ufficiale disertore dell’esercito jugoslavo,
poi noto come il piu’ feroce fra i capi dei contras kosovari, responsabile del
massacro di 120 serbi a Gospic (Croazia), gia’ nel 1991.
Oltre che alla pulizia di casa propria, l’UCK si dedica con un
certo successo anche ai rapporti internazionali: il Primo ministro bulgaro Ivan
Kostov (destra nazionalista e filo-atlantica) ha invitato Thaci a Sofia in
visita ufficiale, probabilmente sperando che cio’ acceleri il tanto sospirato
ingresso della Bulgaria nell’UE e nella Nato. Non bastera’ certo a rovinare
l’intesa il fatto che il paese giochi da anni un ruolo chiave nella via della
droga gestita dalle mafie turca, albanese e kosovara (261 kg di stupefacenti
sequestrati in Bulgaria nel 1999).
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SCHEDA
Gli interessi economici occidentali in Kosovo
Poco nota e’ la spartizione neocoloniale delle ricchezze e
delle attivita’ produttive kosovare, benche’ numerose multinazionali si siano
messe all’opera subito dopo l’occupazione militare della regione da parte
dell’Occidente. Si dovrebbe addirittura dire: in concomitanza con tale
occupazione, secondo interessi e coinvolgimenti economici in gran parte
preesistenti. A Pec, la filiale Zastava produce parti dei camion Iveco. Nessuna
sorpresa che la città’ sia divenuta il quartier generale del contingente italiano,
cui sono state affidate le chiavi della ditta.
Coincidenza? Le miniere di Trepca, uno dei principali volani
dell’economia jugoslava, erano state sottoposte negli ultimi anni ad una
parziale privatizzazione che aveva visto fronteggiarsi la franese SCMM e la
holding del miliardario greco Militineos. Quest’ultimo, alla fine, l’aveva
spuntata, ma disgraziatamente Trepca e’ stata occupata proprio dal contingente
francese, che ha immediatamente sospeso i rappresentanti greci del Consiglio di
impresa, in vista di una futura “corte arbitrale” sulle miniere (“Danas”,
7\12\1999).
A dire il vero, il presidente dell’Assemblea degli azionisti,
il serbo B. Milanovic, ha fatto presente come la miniera, società per azioni e
non proprietà statale jugoslava, non rientri nella giurisdizione della Kfor, ma
il “governo provvisorio” albanese-kosovaro di H. Thaci ha reclamato Trepca come
proprieta’ di un ancora inesistente “stato albanese”... A chi dara’ ragione
Kouchner?
Scenario simile per petrolio ed elettricita’: le installazioni
petrolifere “Nis” e quelle della societa’ elettrica EPS fanno parte del settore
inglese. S ne occuperanno le societa’ britanniche Nat West, British Power e
Bankers Trust. Agli amministratori e agli operai serbi, ovviamente, e’ stato
dato il benservito.
A Suva Reka la ditta Balkan produce pneumatici per camion in
collaborazione con la Deutsche Kontinental. Per cementare tali promettenti
sinergie, l’area e’ stata affidata al contingente germanico, cosi’ come la zona
dei vigneti kosovari sfruttati da aziende vinicole tedesche.
Gli americani si sono invece aggiudicati i minerali strategici
di Novo Brdo e la città’ di Gnjilane con la sua famosa fabbrica di pile, alcune
delle quali utilizzate dalle NASA. Sempre a Gnjilane si trova la fabbrica di
tabacco TIG (recentemente insignita in Francia del Premio mondiale qualita’),
gia’ sotto contratto con la Lucky Strike. Non sara’ certo dispiaciuto agli
investitori che le squadracce dell’Uck abbiano ripulito dai serbi una cittadina
cosi’ fiorente.
Parallelamente alla colonizzazione delle strutture produttive
kosovare, gli occupanti occidentali non perdono tempo neanche sul fronte
finanziario. Il 24\I ha iniziato la sua attivita’ la “Micro Enterprise Bank”
(Meb), un ente di credito industriale acquartierato presso la missione Onu e
patrocinato e diretto dai governi tedesco e olandese (amministratore generale:
l’olandese Koen Wasmus).
In una situazione di assoluto monopolio finanziario dopo la
distruzione forzata di tutti i legami economici fra Pristina e Belgrado, la Meb
promette di diventare il principale volano di colonizzazione economica della
regione, in modo non dissimile da quanto gia’ da tempo attuato in Bosnia dalla
“Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo” (Bers), di stanza a Londra e
non a caso uno dei principali finanziatori della Meb.
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SCHEDA
Petrolio
Il “great game” che si innesca per il controllo dei pochi
giacimenti petroliferi ancora non sfruttati non riguarda solo l’immediata area
di estrazione, ma le differenti opzioni
di corridoi energetici, di pipeline con relativi indotti e finanziamenti,
attraverso cui il petrolio deve passare per raggiungere l’Occidente. È per
questo, non per altro, che oggidì si macellano popoli interi. Le favole
“umanitarie” servono solo a coloro che poi si godranno beatamente il prezioso
oro nero.
Come scrive A. Di Fazio (Le
connessioni fra la guerra dei Balcani e la crisi energetica prossima ventura,
in AA.VV., Imbrogli di Guerra. Scienziate
e scienziati contro la guerra, Roma 1999): “Un giacimento quasi intatto
(...) è quello intorno al Mar Caspio, e una linea prioritaria di alimentazione
per l’Europa è quella che passa per i Balcani. Questa circostanza, unita all’ancor
più importante fattore della dominance
totale, è senza dubbio alla base del conflitto nei Balcani”. Vediamo di che si
tratta.
Il petrolio dell’area caspica ammonterebbe a 5-10 miliardi di
tonnellate, se non di più: l’ultima grande riserva di idrocarburi del mondo.
Già fra il 1991 e il 1993 le grandi compagnie occidentali
cercano di inserirsi in quello che, dopo la disintegrazione dell’URSS, si
configurava come un vuoto geopolitico e soprattutto economico: nel 1994 tra
Houston, Londra e Baku (Azerbajdzan) si forma un consorzio internazionale a
guida BP (Regno Unito), il cosiddetto “affare del secolo” per un investimento
di 7,5 miliardi di dollari.
Le compagnie americane e la Turchia, per sottrarre a Mosca il
monopolio degli oleodotti, avviano il progetto di un oleodotto detto
“occidentale”, contrapposto a quello russo “settentrionale”. L’oleodotto
“occidentale”, partendo da Baku, attraverserebbe la Georgia (altra repubblica
ex-sovietica di stretta osservanza atlantica) per arrivare al porto di Supsa
(Mar Nero georgiano); di qui, un “corridoio” marittimo e poi terrestre
(attraverso il Kurdistan turco) lo collegherebbe al terminale turco di Ceyhan,
sul Mediterraneo.
L’attacco alle posizioni di Mosca è aggravato dalla secessione della Cecenia (fine 1991) che minaccia il controllo russo
sull’oleodotto “settentrionale”. Il consistente prestito concesso dal Fmi nel 1995 all’Azerbajdzan (80 milioni di
dollari, portati l’anno dopo a 350) e la limitazione della Turchia al passaggio
di petroliere russe per gli stretti del Bosforo sembrano concludere la
triangolazione Ankara-Baku-Washington ai danni di Mosca.
Tra settembre e ottobre 1995
sembra pero’ profilarsi una soluzione di compromesso: il petrolio azero passerà
sia per gli oleodotti russi che per quello “occidentale”. Una soluzione voluta
anche dal presidente Clinton, che ha a cuore le buone relazioni con Mosca (cui
vanno i cospicui crediti dell’Fmi) e la stabilità di Eltsin, su cui incombono
le elezioni politiche di dicembre e quelle presidenziali del giugno 1996. La Russia perde il controllo
monopolistico sugli oleodotti, ma non lo acquista la Turchia, peraltro
indebolita, fra il 1994 e il 1995, da una grave crisi finanziaria ed
inflattiva.
Malgrado Azerbajdzan e Georgia continuino a caldeggiare
l’oleodotto “occidentale” e ad appoggiarsi alla Turchia (nell’aprile 1996, in visita ad Ankara, il
presidente georgiano E. Shevarnadze definisce “indispensabile per la pace nel
Caucaso il contributo turco”), l’ago della bilancia nel “great game”
petrolifero sembra favorire Mosca, che nell’aprile 1996 si assicura anche il petrolio del Kazachstan, convogliato
verso Novorossijsk (700 mila barili giornalieri entro il 1998). Al progetto partecipano anche compagnie europee come BP e
Agip, attirate dai costi decisamente inferiori rispetto al progetto
“occidentale”, che sembrerebbe destinato a cadere del tutto nel dimenticatoio
se non fosse per la tanto endemica quanto provvidenziale crisi cecena, avviata
in una parabola disastrosa dall’aprile 1994.
Inizialmente, i consorzi petroliferi russi avevano
approfittato del parziale stato extraterritoriale (ed extralegale) del segmento
ceceno dell’oleodotto “settentrionale”: i capiguerriglia “succhiavano” dai
condotti ingenti quantità di idrocarburi e poi li rivendevano “al nero” al
porto di Novorossijsk, coperti dalle autorità federali che potevano così
aggirare le quote ufficiali internazionali con prezzi inferiori del 45% agli
standard mondiali. Ma a lungo andare il perenne stato di insicuezza spaventa
gli investitori internazionali, che costringono l’oleodotto “settentrionale” a
un blocco indeterminato (maggio 1998).
Nel corso dell’anno successivo, la Russia viene ulteriormente marginalizzata
dal conflitto scoppiato in Daghestan, che chiude definitivamente ogni
possibilità di bypassare il tratto ceceno dell’oleodotto.
Risultato: l’oleodotto “occidentale” Baku-Supsa entra in
funzione a metà aprile 1998,
inaugurato solennemente da tre presidenti: l’azero Aliev, il georgiano
Shevarnadze e l’ucraino Kuchma (quest’ultimo detentore di un secondo “ramo”
dell’oleodotto, via Odessa-Polonia). Non è un caso che pochi giorni prima i
presidenti avessero presenziato ad esercitazioni congiunte dei tre eserciti
nell’ambito della “partnership for peace” targata Nato. Nè è un caso che nello
stesso periodo in cui l’oleodotto “settentrionale” veniva definitivamente
surclassato, Mosca abbia scaricato il leader kurdo Öcalan, garante, negli anni
precedenti, che per il territorio kurdo il segmento Baku-Ceyhan dell’oleodotto
“occidentale” non sarebbe mai passato.
Nè
è casuale la notizia d’agenzia (2\VII\1999),
non emersa sulla stampa, secondo cui un plotone azero (trenta militari) ha
preso parte alle operazioni belliche in Kosovo inquadrato nell’esercito turco.
La partecipazione azera alla guerra, interamente finanziata da Ankara (e
corroborata, in ottobre, da una dichiarazione congiunta dei due presidenti
sulla sintonia di Azerbajdzan e Turchia, “due stati, un’unica nazione”), è
irrilevante da un punto di vista strettamente militare ma assai indicativa da
quello geopolitico. Se l’oleodotto “settentrionale” doveva terminare sull’Egeo
e convogliare il greggio verso i porti italiani di Bari e Brindisi, lo sbocco
privilegiato dell’oleodotto “meridionale” è la cosiddetta “dorsale verde”: quel
corridoio di paesi musulmani balcanici comprendente l’Albania, le regioni a
maggioranza albanese dell’ex-Jugoslavia (Macedonia occidentale, Kosovo) e il
Sangiaccato, fino alla Bosnia e ai terminali croati e adriatici.