Medulla cordis mei
di Lorenzo Berti

Volevo fare lo scrittore, e dio santo se mi sembrava un proposito giusto e decoroso. Voglio dire, non c’era nulla che mi piacesse, nulla che mi riempisse l’occhio. Lavorai in un ufficio, roba di contabilità. Non mi tornavano i conti relativi a delle bolle di accompagnamento, chi se ne fregava, li facevo tornare di forza. D’accordo, non era professionale; ma erano affari miei dopotutto? Non sapevo nemmeno per chi lo facevo, e se quello comunque ci teneva tanto, beh, che se li facesse lui, in prima persona. Lavorai in una specie di agenzia di viaggi, regolarmente assunto eccetera. Ma anche lì, che mi fregava a me di portare gruppi “qui da noi” (gesù, NOI…), sistemarli in un albergo, soddisfare le loro richieste, e così via? Sì insomma, che diavolo di soddisfazione c’era? Era quello che volevo? A me poteva anche piacere viaggiare, ok, ma stare a vedere e accontentare gli altri che viaggiavano mica era la stessa cosa. Proprio per niente. E in ogni caso, che c’era di tanto entusiasmante a mettere in piedi il fatto che quel pullman avrebbe dovuto essere a quell’ora in quell’aeroporto a caricare su tutta quella gente che viaggiava? C’era gente che amava queste cose? Si accomodassero. Io, per me, non mi sentivo affatto entusiasta. E non era perché, come si potrebbe anche pensare, l’attività non era mia e quindi, come si dice, non ci sentivo. No, affatto; credo proprio che niente sarebbe cambiato se io fossi stato il proprietario della tale agenzia, del tale ufficio o del tale capannone industriale: sai che bello alzarsi alla solita ora, guidare nel solito traffico, fare le solite cose, ma da proprietario. Mi dicevo che avevo un cervello, io, sissignore, e che così mi pareva di buttare via la mia vita. Ok, ero presuntuoso; ma allora, se proprio dovevo buttarla via, preferivo buttarla via tipo in una catena di montaggio, con un bel lavorone meccanico e ripetitivo. Lo feci, e andò meglio; ero meno infelice, anche perché forse avevo meno tempo di pensare a quanto lo ero. Ero stanco, a fine turno, e quando si è stanchi si riflette male. È per questo che dopo gli uomini vanno a puttane, forse. Non hanno altro da fare: o vanno a letto da soli, se non sono sposati, o vanno in macchina con una puttana. Bel teorema profondo, già. Ero proprio un intelligentone, Cristo. Certo che lo ero, e per questo volevo essere uno scrittore. È solo che pensiamo sempre che la felicità sia qualcosa che non si ha? Può anche darsi, però a me non interessava nulla di tutta quella roba, e soprattutto se niente niente facevo tanto di alzare lo sguardo – una questione di prospettive, di futuro, aspettative, capiamoci – mi prendeva qualcosa allo stomaco, come vomitare alla rovescia. E allora c’era l’idea della scrittura: forse, tutto sarebbe stato diverso, se fossi riuscito a diventare uno scrittore. Così, le cose non avevano un senso. Il mio desiderio feroce. C’era un’autobiografia di qualche personaggio che aveva questo titolo. Io mi immaginavo che quelle parole avrebbero benissimo potuto essere mie. Il coglione smisurato e pretenzioso, che ero…
volevo fare lo scrittore, e mi passavano per le mani i libri di Flaubert e di Stendhal, di Kakfa, di Maupassant. Non ci sarei riuscito mai. Lo scopo della vita. Lo scopo della vita poteva essere aprire un bar, o un negozio in franchising. Scrivere? Tutto sommato era un’idea. E poi Philip Roth, De Lillo, Salman Rushdie: il loro occhio pareva abbracciare tutto quello che era successo, da sempre a oggi, e uno si sentiva così piccolo a leggere i loro libri, sapeva che era quasi inutile, un gran casino a cogliere tutto quel che c’era, perché era come se loro viaggiassero a una velocità mentale mille volte superiore alla tua. Mi mettevo a pensare a come avevano iniziato: c’era stata una piccola stella per ciascuno di questi – l’idea di invischiarla e avvolgerla con le loro belle parole, avvicinarla e coglierla, farsela cadere nelle mani, entrambi persi l’uno dell’altra; c’era stata una ragazza che li faceva alzare ogni mattina col pensiero di lei in testa, esattamente come si erano addormentati la notte prima? Erano stati molto più candidi, ingenui, teneri e appassionati di adesso? E Saroyan, e John Fante, e Scott Fitzgerald con la sua Zelda – quelli che rimanevano così per tutta la vita, più o meno, e il loro occhio era sempre e soltanto il loro cuore. Forse il primo libro su cui lasciai i miei, di occhi, furono proprio i Racconti dell’età del Jazz di Fitzgerald. Lo scopo della vita. Il mio qual era? E chi lo sa… solo, così le cose non avevano un senso.
Ancora, volevo fare lo scrittore, perché sentivo ribollirmi dentro migliaia di idee che dovevo mettere sulla carta in un modo o nell’altro. Sempre, le sentivo mentre guidavo, tornando dal lavoro che avevo sul momento, o a letto, prima di addormentarmi. Ridicolo, no? E allora sentite questa: erano solo fantasmi che svanivano non appena mi mettevo in condizione di scriverli. Dio, come se ne volavano via! Presi anche a portar con me un piccolo taccuino e una penna; lo lasciavo sul sedile della macchina, e quando mi veniva in mente qualcosa ce l’appuntavo. Smisi quando mi accorsi che rischiavo sempre un incidente. Ma poi, se anche riuscivo a fissarne qualcuno, quando andavo a rivederlo mi pareva una gran schifezza. Non lo buttavo però, anche se avrei voluto e dovuto. No, semplicemente lo guardavo, rileggevo, lo stiracchiavo da una parte e dall’altra inutilmente, e poi mi buttavo giù. Le idee non venivano, e io restavo lì, con lo schermo bianco e i pensieri neri. Grande artista, davvero. Nessun libro scritto né pubblicato, e già il blocco dello scrittore. Ero lungimirante. E allora mi dicevo che non bisognava pensarci, che avrei dovuto solo mettermi a sedere e non assillarmi tanto, che tutto sarebbe venuto da sé, esattamente come veniva da sé quando non facevo nulla, e me ne stavo seduto in macchina o sdraiato sul letto. Cazzo, lì era come se quei pensieri si impadronissero di te, e ti portassero via da quello che stavi facendo – che generalmente era assolutamente nulla, ma questo è un altro discorso; però forse era quello il segreto: erano loro che venivano a cercare te, quand’erano in comodo. Ecco, sì… e per il resto ti prendevano in giro. Non volevano lasciarsi fissare; com’erano venuti se ne dovevano andare. Succedeva così anche agli altri, mi chiedevo?
Volevo fare lo scrittore, e ancor di più lo volevo da quando c’era lei. La mia, di stelle, si chiamava Camilla. No, in realtà non si chiamava affatto Camilla; la chiamo io adesso così, la mia dolce Camilla Lopez, perché quando ero o non ero con lei, da quando insomma la conoscevo, mi sentivo come Arturo Bandini. Come lui, ero destinato solo a sbatterci la testa. E non era finzione, penso, né in un caso né nell’altro. La conobbi, e le dissi quello che cercavo di essere. Cioè, per vivere lavoravo nel tale ufficio e facevo cose così, un modo come un altro per prendere qualche soldo, certo, ma appena potevo mi mettevo a scrivere, e avevo idee e fantasia, e tutto quello che si deve avere insomma perché le cose vadano nel verso giusto. Non so come fu: lei era così bella e cominciammo a vederci, di rado, d’accordo, ma era pur sempre un inizio, e poi lei mi aveva colpito così forte che qualcosa era cambiato in me. Sentivo che quella ragazza era tutto ciò di cui avrei mai avuto bisogno. Lei lo capì, si spaventò e da allora fu dura. Cominciai a scriverle delle lettere, lettere in cui cercavo di spiegare, di farle sentire che sarebbe stato come nessun’altra cosa; che lei era tutto quello che cercavo e che non ci sarebbe mai stato nessuno che l’avrebbe fatta sentire come l’avrei potuta far sentire io. Il fatto era però che non mi ascoltava. E le parole peggioravano solo la situazione. Una volta, la tua Camilla si commuove e sei dolcissimo, un grande scrittore che la fa piangere e sognare e abbandonare alle fantasticherie più dolci; due volte, cominci a innervosirla e annoiarla; tre, sei patetico, te e tutto il tuo bla bla bla. E poi Camilla cambia, di brutto. E allora mi dissi che non ne valeva la pena, che ero un uomo dopotutto – no, uno scrittore, già! un grande scrittore, anche se per la verità erano solo aspettative per il momento – e così… no, Camilla! Eri proprio una persona da lasciar perdere, tu e tutti i tuoi problemi e il non volermi ascoltar più; io cercavo solo di essere gentile, di strapparti un sorriso, e capirti, e le mie intenzioni erano le migliori che ci potessero essere, davvero. Volevo solo farti capire quanto eri stata speciale dal primo momento che ti avevo visto, ma era tutto inutile. La magia se n’era andata. E quindi addio, si disse il grande scrittore, con quella suprema dignità che hanno certo gli immortali grandi artisti di questo mondo ridicolo. Salvo poi continuare a tremare come un bambino al solo pensiero che era tutto finito – senza che nemmeno ci fosse stato qualcosa, per la verità; ma poi era anche bello dirsi una frase come è tutto finito, sapeva così di duro: da una frase così, da uno stato d’animo così, potevano nascere certi racconti incancellabili e delicati da farla innamorare davvero, Camilla, e allora forse non era poi così finito, era solo questione di pazienza, di sentire un po’ male, e poi ricominciare da capo. Perché era lei che doveva essere la mia stellina, non c’erano dubbi su questo.
Ma sì, aspettiamo! Torna da lei con le mani piene! Quando le mani del grande scrittore stringeranno una lettera, una lettera come questa: Lei è un genio. I Suoi lavori sono quanto di meglio ci è capitato di leggere negli ultimi anni. Assolutamente. Venga da noi, La aspettiamo a firmare il contratto. Contratto in bianco. Vogliamo l’esclusiva su tutti i Suoi libri, anche su quelli che verranno, QUANDO verranno. Gesù, che grande scrittore che è! Non perda tempo! Le riserviamo l’albergo tal dei tali, per il periodo che Le sembrerà più comodo – ecco allora vedrai, vedrai che cambierà tutto. Vedrai l’effetto che le farà quando qualcun altro dirà che sei davvero un grande scrittore, e allora anche lei riaprirà gli occhi, vedrà che eri sincero e che tutte le tue intenzioni erano buone, e tutto quello di sbagliato che c’era tornerà a posto. Sarai famoso, grande scrittore, e le tue strade saranno lastricate d’oro, se non lo sai. E godrai di un grande credito presso il destino tutto, Camilla compresa. Sarà quasi una grande concessione che le farai, quella di parlarle ancora. Ma no, Camilla, no… era tutto così chiaro, invece: il grande scrittore avrebbe rinunciato a tutto solo per sentire come ci si sentiva con te che ti addormentavi sulla sua spalla mentre stavate tornando dal mare, e lui ti guardava mentre respiravi, e ti passava una mano fra i capelli. Sì, certo, affanculo la gloria, il grande scrittore e tutto! Tanto, tutto quello che succedeva, succedeva per lei, perché, come cercai di farle capire in alcune delle parole che le scrissi dopo un po’ di tempo, quando già non mi ascoltava più, il discorso era proprio questo, né più né meno:

E poi c’era quell’incredibile bisogno che avevo di lei. L’avevo avuto dalla prima volta che l’avevo vista. Se ne era andata, quella prima volta, era uscita dalla casa di sua zia dove ci eravamo incontrati per il tè, e io divenni un buono a nulla senza di lei, un incapace assoluto fino a quando non la vidi di nuovo. Se non fosse stato per lei, la mia vita avrebbe percorso strade differenti – sarei stato giornalista, muratore – qualsiasi cosa mi fosse capitato. La mia prosa, così com’era derivava da lei. Perché io abbandonavo sempre quello che scrivevo, lo odiavo, disperato, accartocciavo i fogli e li buttavo per la stanza. Ma lei rovistava fra tutta quella roba che io gettavo e veniva a capo delle cose, e io non sapevo mai se avevo fatto qualcosa di buono, pensavo che ogni riga che avevo scritto non fosse migliore del solito, perché non avevo modo di esserne certo. Ma lei prendeva le pagine, vi trovava quello che c’era di buono e lo serbava, poi me ne chiedeva altre, così che per me diventò un’abitudine, scrivevo meglio che potevo e le davo i fogli, lei vi faceva un’opera di taglia e cuci, e quando era terminato, con un inizio, una metà e una fine, ero ancora più meravigliato di quando poi lo vedevo stampato, perché non avrei mai potuto farlo da solo.
Passarono tre anni così, poi quattro, cinque, e cominciai ad avere qualche nozione del mestiere, ma erano le sue nozioni, e non mi preoccupavo mai molto degli altri che avrebbero potuto leggere le mie cose, scrivevo solo per lei, e se lei non fosse stata lì, avrei potuto anche non scrivere affatto.

Sì, non era roba mia, d’accordo. Ma era esattamente quello che volevo dire. Ed è quasi commovente quando ti rendi conto che qualcuno l’ha già detto, esattamente con le stesse parole che avresti dovuto usare tu, o giù di lì. E poi non è che le ho fatte passare come mie, Camilla… te l’ho detto, no, che era preso da un libro, da uno degli scrittori che avevano dato vita tra le altre cose al tuo nome, e a molto di tutto quanto il resto.
Beh, nient’altro… ma al di là dei sogni, non era che gli editori facessero a gara per accaparrarmisi, e così tutto quello che potevo fare era chiedere un segno alle stelle, quando era notte, un maledettissimo segno, perché io sapevo che era così che doveva andare, e invece andava in tutt’altro senso e allora perché, dio santo? Qualcuno me lo dica, cazzo… perché non si può barare un po’ con la vita? Fatemi conoscere un po’ del futuro, solo un piccolo pezzo, almeno quel tassello di presente che ci manca per capire meglio perché ci succedano certe cose, il modo per interpretare quei piccoli segnali che a volte ci capitano. Qualcuno, lassù: Dio, una Dea, un angelo, va bene anche un ufo, un cartomante, le stelle, qualsiasi cosa… c’è qualcuno che possa aiutarmi? Un cazzo di essere anche unicellulare, un meteorite in fiamme che perde i pezzi. Solo un aiutino, così… una sbirciatina a quello che sarà, o un consiglio per fare in modo che sia, se per voi è più semplice.
Non c’era mai risposta, e tornavo ad aspettare, solo. E badate che il punto di domanda è sempre peggio del punto fermo. Tanto, a quella gente non gliene fregava niente di me, e pensavo che magari pure lei se la rideva di gusto leggendo le mie lettere sdolcinate e eccessive, e non rideva invece quando ero divertente. Poi, c’era sempre questo strano tipo di dubbio che era dentro di me, e che mi faceva dire che aveva ragione lei, che le cose non sono mai così facili, specie queste, perché per lei forse avrebbe voluto dire dare la sua vita a uno che nemmeno conosceva e che parlava e parlava e parlava; ma allora dio santo, che lo conoscesse, lui non la mangiava mica! Ma no, ma no… lei non rideva quando leggeva le mie lettere; lei era solo confusa, era tutto normale: tempo, tempo, tempo. Merda, ma non poteva essere tutto più facile? Perché doveva essere così difficile esser felici? C’erano miliardi di persone che avevano la felicità squadernata sotto gli occhi; miliardi di canzoncine del cazzo in cui il fesso di turno parlava di quanto era felice e di come era bello stare insieme alla signorina di turno. Ricco, famoso, felice: un artista. Ma era veramente così, poi? La felicità non esisteva, e quanto alle canzoni, in tanti avevano anche scritto sulla finzione di quella felicità. Il nome Adorno ti diceva niente, Camilla? Ma con lei, grande scrittore, ti sarebbe piaciuto pure tutto il resto. O almeno non ci avresti fatto più caso. Era così che era successo a tutti gli altri, lì dentro, dove lì dentro sta non solo per questa o quest’altra fabbrica o ufficio, ma per il mondo intero. Non avresti più capito quanto era brutto e inutile tutto questo; l’avresti fatto e basta, tanto dopo c’era lei ad aspettarti. Allora ecco il destino, caro il mio grande scrittore: dovevi soffrire, grande scrittore, perché solo dalla sofferenza sarebbe nata la tua fortuna. Ma la mia fortuna era lei. Io lo sapevo. Forse un giorno qualcuno avrebbe ascoltato la tua storia, perché è così che andavano le cose: ero uno scrittore, Camilla Lopez, e non ci si poteva scampare, no di certo… solo allora saresti stata, con me o senza, anche se non ci fossi stata più, anche se non fossi esistita mai, l’oasi di un po’ tutti i miei pensieri stanchi, come si sentiva in una di quelle canzoni che passavano alla radio, più o meno.
Dio santo come mi piacevi, Camilla… i tuoi capelli lunghi e lisci, neri; quegli occhi, quel sorriso quelle tette; tutto, tutto quanto. Eri un fuoco, e io solo un foglio di carta. Mi avvicinai, e cosa può fare un foglio di carta accanto a un fuoco? Cominciai a bruciare. E bruciai, non avevo scelta.

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