Jim Thompson

 

Bad Boy
1953 - Einaudi, pag.246


 


A tredici anni, impara a fumare sigari e a sedurre fanciulle sotto la guida del nonno bestemmiatore. Qualche tempo dopo, fa il fattorino d'albergo,e arrotonda lo stipendio spacciando alcolici. Poi congela per il freddo e trema di paura come guardiano di un oleodotto. Fa imbestialire gli insegnanti, frega gli uomini della mafia, e per poco non si fa ammazzare da un vice sceriffo. Infine, a un dato punto della sue vita, diventa uno dei più grandi autori di genere che l'America abbia mai conosciuto...
Andando a rimestare fra i suoi ricordi, Jim Thompson scrive un'autobiografia che è una rilettura cinica dell'epopea americana, nonché una sorta di Huckleberry Finn del romanzo noir. Un testo appassionante come un romanzo, reso con un’ironia tagliente, senza sentimentalismi, senza pietà, con quella giusta dose di cinismo che raggela e diverte il lettore, come nelle sue opere più conosciute.

***

l’inizio…

1.

I miei primi ricordi sono i pizzicotti che ho ricevuto. Non in senso metaforico, ma letterale. Ero un bambino goffo, con la testa grossa, incline alla balbuzie e a farmi lo sgambetto da solo. Mia sorella Maxine, anche se più piccola di me, era svelta, nei movimenti come nel pensiero, disinvolta ed estremamente agile. Quando le mie azioni o il mio aspetto la irritavano - cosa che sembrava accadere quasi di continuo - mi dava un pizzicotto. Quando non riuscivo a rispondere abbastanza rapidamente ai suoi ordini, mi dava un pizzicotto. La metafora “morbida come la pelle di un bambino” per me è sempre stata priva di significato. La mia pelle da infante sembrava sempre che fosse stata martoriata con le pinze per il carbone.
Un giorno, ci eravamo da poco trasferiti in una zona particolarmente esecrabile di Oklahoma City in seguito a un tracollo delle fortune della famiglia Thompson, Maxine vide due bambini neri che tornavano a casa dal negozio di alimentari. Avevano un bottiglione di latte. Facendomi scendere dai gradini con un rapido pizzicotto, Maxine mi trascinò sul marciapiede e accostò i due.
Non avrebbero voluto essere bianchi? Chiese. Be', in cambio del loro latte, lei era pronta ad attuare la trasfigurazione. Lo aveva già fatto con me; e io ero stato più nero di quanto lo fossero loro. Molto, molto più nero... e adesso, che mi guardassero.
I bambini erano un po' dubbiosi ma, avendo ricevuto un pizzicotto, giurai che Maxine stava dicendo la pura verità. E, dopo aver ricevuto un altro pizzicotto, corsi in cucina per recuperare gli attrezzi - una saponetta e uno spazzolone - con cui doveva essere effettuata la trasfigurazione. Su istigazione di Maxine, guidai i pazienti verso l'idrante sul retro del giardino e iniziai a strofinarli. Maxine si portò il latte nel cesso (era quel tipo di quartiere), ne bevve quanto più poté e fece cadere il bottiglione nel buco.
Poi entrò in casa e si mise a urlare appena varcata la soglia. Mamma uscì di corsa, con Maxine che la precedeva. Fingendo di volermi allontanare dai due neri stupiti, mi diede diversi energici pizzicotti, facendo si che, quando mamma raggiunse il luogo del misfatto, io stessi gridando cose senza senso. Mamma diede ai due bambini i soldi per un quarto di latte fresco, li asciugò e mi trascinò in casa, urlando di non sapere cosa mi avrebbe fatto. Con un risolino odioso, Maxine rimase in giardino, libera di perseguire i suoi disegni diabolici.
Essendo molto giovane, non fui in grado di spiegare l'accaduto nel breve lasso di tempo in cui una spiegazione avrebbe potuto avere una qualche utilità. Ne ricavai comunque un'impressione, molto nebulosa al tempo, ma che in seguito si espanse e prese una forma più definita.
Mi sarei preso la colpa qualsiasi cosa avessi fatto. Tanto valeva cercare anche di divertirsi.

2.

Sono sempre stato una frana in fatto di amicizia. In cambio di una parola amichevole ero pronto a rinunciare alla casacca Buster Brown che indossavo di solito. Durante i miei primi anni di vita, mio padre viaggiava molto per l'Oklahoma e noi di rado rimanevamo nella stessa città per più di un mese, non abbastanza perché io mi potessi abituare a una scuola estranea, e però troppo perché potessi rimanerne fuori del tutto.
Proprio quando stavo per ambientarmi, facevamo i bagagli e ce ne andavamo.
Così bramavo l'amicizia sopra ogni cosa, e malgrado tutte le fregature che mi sono preso non ho mai smesso di abboccare all'amo che mi veniva messo davanti agli occhi. A quei tempi c'era un gioco chiamato push-over. Un ragazzo veniva da te, ti metteva un braccio sulle spalle e iniziava a parlare. Poi, proprio quando tu magari cominciavi a dargli un po' di confidenza, un altro ragazzo ti si inginocchiava di nascosto alle spalle mentre il primo ti cacciava una spinta che ti faceva cadere a gambe all'aria.
Non so quante volte sono caduto per questo gioco, e altri del genere, prima di capire che quella che all'inizio aveva la parvenza di un'amicizia poteva rivelarsi qualcosa di completamente diverso. Non mi è mai piaciuta l'idea e l'ho combattuta con tutte le mie forze. E più avanti, nel corso della mia vita, quasi come fosse un dovere, mi sono sempre sottratto alle profferte di gentilezza chiedendone freddamente la ragione.
Con il tempo, mio padre si stabili più o meno in modo permanente a Oklahoma City, dove divenne il socio avvocato di Logan Billingsley, fratello di Sherman, proprietario dello Stork Club. Nei priori giorni in Oklahoma, Papà era stato un poliziotto e aveva salvato Logan dal linciaggio. Non so nulla in merito alla questione, ma so per certo che diventarono buoni amici e, in seguito, soci.
Logan aveva un figlio di nome Glenn, il monello più malefico che sia mai esistito. So che adesso gestisce un pretenzioso ristorante a Hollywood, ma questo non c'entra con la nostra storia.
La vita di Glenn sembrava governata da un incantesimo. Un sabato pomeriggio, mentre si stava sporgendo dalla finestra dell'ufficio, cadde e fece un volo di quattro piani cavandosela con appena un graffio. Atterrò sulla tenda da sole della drogheria a piano terra, la strappò e finì sulla carrozzina di un bambino, facendola a pezzi. Fortunatamente, il veicolo in quel momento non ospitava il suo naturale occupante. E lui, come dicevo, non si fece nulla.
Vivevamo nella parte occidentale della città, nelle vicinanze della Willard School, che a quei tempi era una zona molto difficile. Rientravo a casa la notte sprovvisto di ampi pezzi della mia persona e del mio abbigliamento. Glenn tornava sempre integro e sorridente, e in genere portava con sé una quantità di oggetti di valore che il mattino erano appartenuti ad altri proprietari.
Un giorno, alcuni ragazzi più grandi lo fecero cadere in un tombino e richiusero il buco. La maggior parte dei suoi coetanei sarebbe morta di paura, ma non Glenn. Lui si mise a vagare per le arterie della fogna, raccogliendo dalla melma lungo il percorso una ragguardevole quantità di monetine. Dopo qualche ora particolarmente redditizia, uscì passando attraverso un altro tombino. Telefonò alla polizia, riferendo che un suo amico era stato buttato nelle fogne da un certo gruppo di ragazzi, fece i loro nomi. Poi, senza dare il proprio, riattaccò e si avviò in città.
I poliziotti fermarono i ragazzi a scuola e strapparono immediatamente la confessione. La vittima fu identificata come Glenn. Si diede il via alla ricerca del suo corpo per tutta la rete fognaria e i giovani criminali furono portati alla stazione di polizia, prima di scontare un bel periodo in riformatorio.
Il pomeriggio tardi Glenn si presentò in commissariato e fu salutato dai poliziotti, al colmo del sollievo e dell'ammirazione, come un vero e proprio eroe. Lo portarono a casa dove fu messo a letto, apparentemente troppo scioccato dall'esperienza per mangiare. In realtà, non c'era nulla che non andasse in lui eccetto un lieve mal di stomaco e, forse, un po' di stanchezza agli occhi. Era infatti stato in quattro cinema e si era mangiato svariati dollari di caramelle, gelati e altre prelibatezze.
Dopo quell'esperienza anche i peggiori bulli della scuola si tennero alla larga da Glenn. Era veleno allo stato puro.
L'ho sempre ammirato.

frammenti

Mi conoscono tutti. Nessuno conosce te. E siamo soli soletti. Cosa ne pensi di questo fatto, furbone? Ti sei fatto vedere in giro. Pieno di piscio e di alcool. Cosa pensi che potrebbe fare uno stupido ragazzotto di campagna in un caso del genere?
Mi fissava, immobile, il sorriso scopriva i denti. Rimasi paralizzato e senza parole, con un nodo alla bocca dello stomaco. Il vento sibilava e gemeva attraverso il pozzo. Parlò di nuovo, come per rispondere a una questione che io stesso avevo sollevato.
- Non ne ho bisogno, - disse. - Non c’è niente che si possa fare con una pistola che non possa essere fatto in un modo migliore. Non vedo nulla in giro per cui debba avere bisogno di una pistola.
Mosse leggermente i piedi. I muscoli delle spalle si gonfiarono. Prese un paio di guanti di pelle nera dalla tasca e se li infilò lentamente. Si colpì il palmo di una mano con il pugno dell'altra.
- Ti dirò una cosa, - disse. - Anzi, un paio. Non c’è modo di capire cos'è un uomo guardandolo. Non c’è modo di sapere cosa può fare se ne ha la possibilità. Pensi che riuscirai a ricordartelo ?
Non ero in grado di parlare, ma mi sforzai di annuire. Il sorriso e gli occhi tornarono normali.
- Sembri un po' provato, - disse. - Perché non mangi e bevi qualcosa prima che ce ne andiamo ?
Pagai la multa. Pagai anche il mandato di cattura, la paga del vice di due giorni e i chilometri che aveva percorso. E potete star certi che non sollevai obiezioni.
Non ho mai rivisto quel vice, ma non riuscivo a togliermelo dalla mente. E più ci rimaneva, più grande diventava l'enigma che presentava. Stava bluffando? Aveva solo intenzione di spaventare a morte un ragazzino impudente? O era vera l'altra cosa, quella di cui ero sicuro all'epoca? La mia umiltà mi aveva salvato dalla morte di cui ero stato minacciato?
E se l'avessi colpito con quel pezzo di legno ? E se lo avessi sfottuto di più? E se mi fossi spaventato e avessi cercato di afferrare l'accetta?
Provai a metterlo su carta, di inserirlo in una storia, ma anche se per me lo era, non riuscivo a farlo sembrare reale. O meglio, era troppo comune e innocuo, niente di più di un vice di una piccola cittadina. Messo sulla carta, era solo seriamente irritato, non un assassino.
L'enigma, naturalmente, non stava tanto in lui quanto in me. Avevo la tendenza a vedere le cose in bianco e nero, senza sfumature intermedie. Ero troppo pronto a categorizzare, naturalmente usando me stesso come punto di riferimento. Il vice si era comportato prima in un modo, poi in un altro, poi di nuovo nel primo. E nella mia ignoranza vidi questo come un segno di complessità invece che di semplicità.
Aveva fatto tutto ciò che la sua razza e il suo background gli permettevano per essere amabile. Io, non avevo reagito nel modo giusto, così aveva scelto un'altra tattica. Era semplice una volta che riuscii a vedere le cose dal suo punto di vista e non dal mio.
Non sapevo se mi avrebbe ucciso, perché non lo sapeva nemmeno lui.
Alla fine, quando maturai, riuscii a ricrearlo sulla carta, l'omicida sardonico del mio quarto romanzo, L'assassino che e in me. Ma ci misi molto tempo per farlo, quasi trent' anni.
E ancora non me lo sono tolto dalla testa.


***

Stese lungo l'ampio percorso dell'oleodotto, sempre più sperduto in territori selvatici man mano che il lavoro procedeva, c'erano svariate centinaia di migliaia di dollari in equipaggiamento e materiale. C'erano due fossati, venti generatori elettrici, un escavatore, camion e trattori. C'erano scorte di petrolio e benzina, pile di gomme, tubi, candele d'accensione e centinaia di altri accessori.
Il mio lavoro era vigilare su questa roba.
Per tutta la notte camminavo su e giù per le tubature, attraversando a un certo punto il Pecos. Avevo una lampada a gasolio a prova di pioggia e un fucile a ripetizione. Le mie istruzioni alla lettera erano di - sparare a qualsiasi figlio-di-puttana si facesse vedere e poi magari fargli qualche domanda -.
All'inizio il lavoro mi piaceva abbastanza. Le giornate erano lunghe e a mezzanotte c'era ancora una sorta di crepuscolo sulla prateria. In piedi su una macchina scavatrice, potevo vedere tutto il mio raggio di azione. Dovevo camminare pochissimo e quando lo facevo potevo sentirmi relativamente sicuro. Riuscivo a vedere ed evitare i serpenti a sonagli, le tarantole e i centopiedi di una quarantina di centimetri che consideravano questa area il loro dominio privato.

***

Tornai a Fort Worth nell'inverno del 1928. Eccetto per il fatto che Maxine si era sposata, tutto era rimasto più o meno uguale. Papà non guadagnava praticamente nulla. La famiglia se la cavava a stento.
Feci richiesta di un lavoro all'hotel e fui seccamente respinto. I vicedirettori e i capisquadra dei fattorini che conoscevo se ne erano andati. Il vicedirettore a cui feci domanda non gradiva ne il mio aspetto né il mio curriculum.
- Non c’è niente per te, - disse bruscamente. - Hai avuto troppi guai qua in giro. A ogni modo, sei troppo grosso per fare il fattorino. Uno alto come te dovrebbe lavorare in miniera.
- Non devo fare per forza il fattorino, - dissi, arrossendo in volto. - Posso fare qualsiasi lavoro nell'hotel.
- Spiacente.
- Le dico una cosa, - dissi. - Penso che lei sia troppo basso per fare il vicedirettore.
Sorrise, freddamente, e se ne andò.
Pensavo che si fosse comportato in modo piuttosto cocciuto, ma non potevo che essere almeno in parte d'accordo con lui sulla mia altezza. Quando avevo iniziato a lavorare all'hotel ero abbondantemente sotto il metro e ottanta. Adesso superavo il metro e novanta. Anche se ero ancora sottopeso, le spalle più ampie mi davano l'aspetto di un tipo massiccio.
Ero molto consapevole della mia taglia. C'erano pochi altri lavori che valesse la pena fare nell'hotel, ma non volevo davvero fare il fattorino. Ero troppo alto. Essere un servo contrastava spiacevolmente con l'indipendenza indisciplinata degli ultimi anni.
Ma dovevo rimediare un impiego, e in fretta. Così, incapace di trovare qualcos' altro, andai a lavorare in una catena di drogherie.
In teoria la settimana lavorativa era di sole settantaquattro ore. Dalle sette alle sette nei giorni feriali e dalle sette alle nove il sabato. La realtà però, era ben altra. Durante la settimana bisognava arrivare alle sei per preparare il negozio per l'apertura delle sette e la sera bisognava fermarsi almeno un'altra ora per pulire e mettere in ordine. Di sabato, il giorno più affollato, bisognava presentarsi alle cinque e si era fortunati se si riusciva ad andarsene alle prime ore di domenica mattina. La domenica, o meglio quello che ne rimaneva, veniva in genere trascorsa tra riunioni di venditori, rifornimenti di prodotti e inventari.
La mia paga era di diciotto dollari la settimana. Appresi una lezione molto importante da questa organizzazione malavitosa, ovvero che più lungo è lo spazio a disposizione sul modulo di richiesta, peggiore è il datore di lavoro. Questa compagnia insisteva per sapere tutto, anche le questioni più remote che potevano riguardare un potenziale impiegato, qualsiasi cosa, dal numero di scarpe alle preferenze politiche e religiose dei parenti.



 

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