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Carl
Streator è un uomo solitario. Ha quarant'anni, è
vedovo e fa il giornalista. Mentre lavora a un reportage sulla
sindrome della morte improvvisa del neonato scopre qualcosa
di terribile: la presenza in tutti i luoghi dove sono morti
dei bambini piccoli del libro “Poesie e filastrocche da
tutto il mondo”, aperto su una nenia africana usata per
dare la "dolce morte". Il canto si rivela un'arma
micidiale: basta leggerlo a voce alta o anche solo recitarlo
a mente "dirigendolo" verso qualcuno e quel qualcuno
finisce per tirare le cuoia. Carl diventa - più o meno
involontariamente - un serial killer e si associa con un'agente
immobiliare (tale Helen Hoover Boyle, specializzata nella compravendita
di case "infestate" da spiriti e che anni prima ha
perso un figlio piccolissimo per colpa della ninna nanna). Insieme
solcano in lungo e in largo gli Usa, allo scopo di fare piazza
pulita di tutte le copie esistenti del libro, nel timore che
il mortale virus verbale si diffonda fino a cancellare ogni
forma di vita umana. Ad accompagnarli sono l'assistente di Helen,
Mona, aspirante strega, e il suo ragazzoOstrica, un ecoterrorista
che vive di truffe e ricatti. Benvenuti nella nuova famigliola!
Ninna nanna è una raggelante parabola sul pericolo di
infezioni psichiche in un'epoca di proliferazione spropositata
dell'informazione. Ma è anche un thriller mozzafiato,
con una trama ricca di suspence e di sorprese. Infine, trattandosi
di un romanzo di Palahniuk, è anche una black comedy
che lo impone una volta per tutte come il più divertente
e visionario dei nichilisti di oggi.
***
1.
Il problema delle storie è che le
racconti a giochi fatti.
Anche le telecronache di baseball alla radio, gli home-run e
gli strikeout, persino quelli sono in ritardo di qualche minuto.
Persino i programmi Tv in diretta arrivano un paio di secondi
dopo.
Persino il suono e la luce non superano una certa velocità.
Un altro problema e chi la storia la racconta. Il chi, il cosa,
il dove, il quando e il perchè del giornalismo. La forma
che il messaggero dà ai fatti. Quello che i giornalisti
chiamano Il Guardiano. Il fatto che il modo in cui
si presenta una storia è tutto.
La storia dietro la storia.
Parlo di tutto questo da un bar ogni volta diverso. Il luogo
in cui scrivo questo libro, capitolo dopo capitolo, non è
mai lo stesso paesino, o città, o bar per camionisti
perso nel nulla.
Ciò che tutti questi luoghi hanno in comune sono i miracoli.
Mi riferisco alla roba che leggi nei rotocalchi di bassa lega,
tutte le guarigioni, le apparizioni e i miracoli di cui i giornali
importanti non parlano mai.
Questa settimana è la volta della Santa Vergine di Welburn,
New Mexico. La settimana scorsa l'hanno vista volare giù
per Main Street. Con i lunghi dreadlock rossi e neri al vento,
i piedi scalzi e sporchi, una gonna di cotone indiana di due
tonalità di marrone diverse e un toppino di jeans legato
dietro il collo. Tutti i dettagli nel "World Miracles Report"
di questa settimana, accanto alla cassa di ogni supermercato
d'America.
Ed eccomi qua, una settimana dopo. Sempre un passo indietro.
A giochi fatti.
La Vergine Volante ha le unghie con lo smalto rosa e le punte
bianche. Una manicure alla francese, l'hanno definita alcuni
testimoni. La Vergine Volante aveva una bomboletta di spray
antizanzare Off, e con quella nell'azzurro cielo del New Mexico
ha scritto:
SMETTETELA DI FARE FIGLI
(Sic)
Poi la bomboletta di Off l'ha lasciata cadere. Ora è
in viaggio per il Vaticano. Per delle analisi. Già adesso
sono in vendita foto dell'evento. Videocassette, persino.
Quasi tutto quello che si può comprare, lo si può
comprare a giochi fatti. Catturato. Ucciso. Cotto e servito.
Nei videosouvenir si vede la Vergine Volante che agita la bomboletta.
Fluttuando nel cielo di Main Street, saluta la folla. E sotto
l'ascella ha un ciuffo di peli scuri. Un attimo prima che cominci
a scrivere, una folata di vento le solleva la gonna, e la Vergine
Volante non porta gli slip. In mezzo alle gambe è depilata.
E da qui che oggi scrivo la mia storia. Da una tavola calda
dove parlo con alcuni dei testimoni di Welburn, New Mexico.
Con me c'è Sarge, un vecchio patatone di poliziotto irlandese.
Sul tavolo che ci divide c'è un quotidiano locale, ripiegato
in modo da evidenziare un annuncio su tre colonne che dice:
A tutti i proprietari
di mobili imbottiti: attenzione!
"Qualora dei ragni velenosi abbiano
deposto le uova nei vostri mobili imbottiti" dice l'annuncio,
"sussistono gli
estremi per intentare un'azione legale collettiva." E indica
anche un numero di telefono, del tutto inutile.
Il Sarge ha uno di quei colli con la pelle tanto floscia che
se gliela pizzichi quando la lasci andare non si distende, resta
cosi com'è. A quel punto lui deve cercare uno specchio
e sfregarsela finché non torna liscia.
Fuori dalla tavola calda il flusso di gente che entra in città
non si è ancora interrotto. Gente che si inginocchia
e prega per un'altra apparizione. Con le grosse mani giunte,
il Sarge finge di pregare, e intanto sbircia fuori dalla vetrina
con la coda dell'occhio. Fondina slacciata, pistola carica e
pronta per il tiro al piattello.
Dopo aver fatto il suo graffito nel cielo, la Vergine Volante
si è messa a mandare baci. Ha fatto il segno della pace
con le due dita. Si è levata al di sopra degli alberi,
tenendosi giù la gonna con una mano, si è ravviata
i dreadlock rossi e neri e Amen. Sparita dietro le montagne,
al di la dell'orizzonte. Nel nulla.
Ma è anche vero che non si può credere a tutto
quello che scrivono i giornali.
La Madonna Volante non è stata un miracolo.
E’ stata una magia.
Questi non sono santi. Sono incantesimi.
Io e il Sarge non siamo qui per assistere a un'apparizione.
Noi due siamo cacciatori di streghe.
Ma è anche vero che questa storia parla del qui e dell'ora.
Di me, del Sarge, della Vergine Volante. Di Helen Hoover Boyle.
Quella che sto scrivendo è la storia di come ci siamo
incontrati. Di come siamo arrivati fin qui.
2.
Ti
fanno una sola domanda. Poco prima di diplomarti alla scuola
di giornalismo, ti chiedono di immaginarti nei panni di un reporter.
Lavori in un importante quotidiano di una grande città
e una sera, la vigilia di Natale, il caporedattore ti spedisce
a indagare su un caso di morte.
La polizia e l'ambulanza sono già sul posto. Il corridoio
dello squallido condominio è già stipato di vicini
in accappatoio e ciabatte. Nell'appartamento c'è una
giovane coppia che singhiozza accanto all'albero di Natale.
Il figlio è morto soffocato da uno degli addobbi dell'albero.
Raccogli i dati che ti servono, nome del bambino, età
e via dicendo, dopodiché torni in redazione che è
quasi mezzanotte e riesci a finire l'articolo giusto in tempo
per mandarlo in stampa.
Lo fai leggere al caporedattore e lui te lo stronca perché
non hai scritto di che colore era l'addobbo. Rosso o verde?
Vederlo era impossibile, e a te non è venuto in mente
di chiederlo.
Dalla tipografia strillano che bisogna chiudere la prima pagina,
e tu hai solo due scelte.
Chiamare i genitori e farti dire il colore.
O rifiutarti di chiamarli e perdere il lavoro.
Ecco il quarto stato. Il giornalismo. E dove ho studiato io,
l'intero esame di deontologia professionale consisteva in quest'unica
domanda. E un aut-aut. Io ho risposto che avrei chiamato i paramedici.
Oggetti del genere vengono catalogati. Qualcuno doveva per forza
aver ficcato l'addobbo in una busta e scattato una foto. Figurarsi
se andavo a chiamare i genitori la vigilia di Natale a mezzanotte
passata.
In deontologia professionale ho preso dal 5 al 6.
Al posto della deontologia professionale, ho imparato a dire
alla gente solo quello che vuole sentirsi dire. Ho imparato
a scrivere tutto quanto. E ho imparato che i capiredattori possono
essere davvero stronzi.
Da allora non ho mai smesso di chiedermi quale fosse il vero
senso di quel test. Oggi faccio il giornalista, lavoro per un
quotidiano importante, e le cose non ho più bisogno di
immaginarmele.
Il mio primo bambino risale a un lunedì mattina di settembre.
Niente addobbi natalizi, quella volta. Niente vicini accalcati
intorno alla casetta prefabbricata in periferia. Solo un paramedico
seduto nel cucinino con i genitori a fargli le domande standard.
Il suo collega mi ha accompagnato nella nursery e mi ha fatto
vedere quello che trovano di solito nella culla.
Tra le domande standard dei paramedici ci sono le seguenti:
Chi è stato a trovare il cadavere? Quando? Il bambino
è stato spostato? Quand'è stato visto vivo per
l'ultima volta? Veniva allattato al seno o artificialmente?
Sembrano domande fatte a casaccio, ma un medico non può
fare altro che raccogliere dati statistici nella speranza che
un giorno emergano delle analogie.
La nursery era gialla con le tendine a fiori azzurri alle finestre
e una cassettiera bianca di vimini accanto alla culla. C'era
una sedia a dondolo dipinta di bianco. Sopra la culla era appeso
uno di quei giochini mobili fatto di farfalle gialle di plastica.
Sulla cassettiera c'era un libro aperto a pagina 27. Per terra
c'era un tappetino intrecciato azzurro. Appesa a un muro, una
cornice con dentro una scritta ricamata. Diceva: “Nato
di Giove farà strada e non ci piove”. La stanza
profumava di borotalco.
E magari io la deontologia professionale non l'ho imparata,
però ho imparato a osservare. Non esistono dettagli di
poco conto.
Il libro aperto si intitolava “Poesie e filastrocche di
tutto il mondo” ed era stato preso in prestito dalla biblioteca
della contea.
Il mio caporedattore aveva in mente di realizzare un reportage
in cinque parti sulla cosiddetta sindrome della morte improvvisa
del neonato. Ogni anno settemila neonati muoiono senza un motivo
apparente. Due bambini su mille un bel giorno vanno a nanna
e non si svegliano più. Il mio caporedattore, Duncan,
le chiama morti in culla.
I dettagli di Duncan sono che ha la pelle butterata dalle cicatrici
dell'acne e che ogni due settimane quando si tinge le ricrescite
grigie gli spunta una linea marrone sul cuoio capelluto, lungo
l'attaccatura dei capelli. La password del suo computer è
"password".
L'unica cosa che sappiamo sulla morte improvvisa del neonato
è che non esiste uno schema preciso. Quasi tutti muoiono
mentre sono da soli, tra la mezzanotte e il mattino, ma un neonato
può morire anche mentre dorme accanto ai genitori. Può
morire nel seggiolino dell'auto o nel passeggino. Un neonato
può morire tra le braccia della madre.
C'è un sacco di gente che ha dei figli, ha detto il mio
caporedattore. E’ il tipo di articolo che un genitore
o un nonno ha troppa paura di leggere ma che alla fine legge
lo stesso. Di informazioni nuove da dare non ce ne sono, ma
l'idea era quella di realizzare cinque ritratti di famiglie
che hanno perso un figlio neonato. Mostrare come la gente affronta
la perdita. Come la vita continua. Qui e là potremmo
infilarci qualche dettaglio essenziale sulle morti in culla.
Descrivere la fonte inesauribile di forza interiore che queste
persone scoprono di avere. Il taglio del reportage sarebbe quello.
Il genere di cronaca che, non essendo legata a un fatto d'attualità
specifico, in gergo si definisce soft. Uscirebbe sulla prima
pagina della sezione Costume.
Come illustrazioni potremmo usare foto di bimbi sani ora morti.
Spiegheremmo che è una cosa che può capitare a
chiunque. Così mi ha detto lui. E’ il tipo di reportage
concepito per beccarsi un premio giornalistico. Eravamo alla
fine dell'estate e le notizie scarseggiavano. Ed era il periodo
dell'anno in cui si concludono più gravidanze e nascono
più bambini.
L'idea di tallonare i paramedici delle ambulanze è stata
del mio caporedattore.
La faccenda di Natale, la coppia di genitori singhiozzanti,
l'addobbo dell'albero... ormai lavoravo da così tanto
tempo che quelle cazzate me le ero scordate.
Quella domanda di deontologia devono per forza fartela a fine
corso, perché a quel punto non puoi più tornare
indietro. Hai le rate del prestito studentesco da rimborsare.
A distanza di anni e anni, il sottoscritto è giunto alla
conclusione che il vero senso della domanda è: Sei sicuro
di volerti guadagnare da vivere cosi?
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