Nick Hornby


 

Alta Fedeltà
1995 - Guanda, pag.254


 

l'inizio...

Ecco, per stilare una classifica, le cinque più memorabili fregature di tutti i tempi, in ordine cronologico:

1) Alison Ashworth 2) Penny Ilardwick 3) Jackie Allen 4) Charlie Nicholson 5) Sarah Kendrew.

Ecco quelle che mi hanno ferito davvero. Ci vedi forse il tuo nome li in mezzo, Laura? Ammetto che rientreresti fra le prime dieci, ma non c'è spazio per te fra le prime cinque; sono posti destinati a quel genere di umiliazioni e di strazi che tu semplicemente non sei in grado di appioppare. Questo forse suona più cattivo di quanto vorrei, ma il fatto è che noi siamo troppo cresciuti per rovinarci la vita a vicenda, e questo è un bene, non un male, per cui se non sei in classifica, non prenderla sul piano personale. Quei tempi. sono passati, e che liberazione, cazzo; l'infelicità significava davvero qualcosa, allora. Adesso è solo una seccatura, un po' come avere il raffreddore o essere al verde. Se volevi veramente incasinarmi, dovevi arrivare prima.


1. Alison Ashworth (1972)

Quasi tutti i pomeriggi, ciondolavamo ai giardinetti che stavano proprio dietro casa mia. Vivevo nello Hertfordshire, ma avrebbe potato benissimo trattarsi di un qualsiasi sobborgo inglese: il solito genere di sobborgo, col solito genere di giardinetti - a tre minuti da casa, giusto dall'altra parte della strada, davanti a una breve fila di negozi (un supermercato, un giornalaio, un negozio di liquori). Niente ti aiutava a orientarti; se i negozi erano aperti (e chiudevano alle cinque e mezza, e all'una il giovedì, e per tutto il giorno la domenica), magari potevi andare dal giornalaio e dare un'occhiata al giornale locale, ma anche questo non era detto che ti mettesse sulla pista giusta.
Avevamo dodici o tredici anni, e avevamo scoperto da poco l'ironia - o almeno, quella che poi compresi essere l'ironia: ci sentivamo liberi di usare l'altalena, la giostra e gli altri giochi per bambini che arrugginivano lì ai giardinetti, solo a condizione di ostentare una specie di distacco voluto e ironico. Il che implicava o affettare distrazione (e in questo caso si poteva fischiettare, o chiacchierare, o giocherellare con un mozzicone di sigaretta o con una scatola di fiammiferi); oppure sfidare il pericolo, e quindi buttarsi dall'altalena quando toccava il punto più alto, saltare dalla giostra quando era lanciata al massimo della velocità, o aggrapparsi al dondolo finché non raggiungeva una posizione quasi verticale. Se in un modo o nell'altro riuscivi a dimostrare che in questi divertimenti infantili potevi rischiarci la pelle, allora giocarci diventava ok.
Non avevamo ironia, però, in fatto di ragazze. Non c'era stato tempo. Un attimo non esistevano, almeno non in un qualche modo per noi interessante, e l'attimo dopo non potevi evitarle: erano dappertutto, erano ovunque. Un attimo avevi voglia di dargli una botta in testa perché erano tua sorella, o la sorella di qualcun altro, e l'attimo dopo volevi... in realtà, non sapevamo mica cosa volessimo dopo, ma era qualcosa, qualcosa. Quasi all'improvviso, tutte queste sorelle (non esisteva altro tipo di ragazze, non ancora) erano diventate interessanti, persino inquietanti.
Vedi, noi non eravamo tanto diversi da prima. C'era venuta la voce stridula, ma la voce stridula non è un grande aiuto - ti rende ridicolo, indesiderabile. E i peli che ci stavano spuntando sul pube erano il nostro segreto, un segreto strettamente conservato fra noi e i nostri slip, e sarebbero passati anni prima che un membro del sesso opposto verificasse che erano proprio dove dovevano essere. Le ragazze, invece, tutto ad un tratto avevano il seno e, insieme a quello, un nuovo modo di camminare con le braccia incrociate sul petto, un atteggiamento che nascondeva e allo stesso tempo evidenziava quanto era appena accaduto. E poi ecco trucco e profumo, sempre da quattro soldi, e usati in modo inesperto, a volte persino comico, ma comunque un segno piuttosto terrificante di come le cose fossero andate avanti a nostra insaputa, senza di noi, al di là di noi.
Cominciai a uscire con una di queste ragazze... no, non è esatto, perché io non ebbi alcuna parte nella decisione. Ma nemmeno posso dire che lei cominciò a uscire con me. Il problema sta nell'espressione “uscire con”, che sottintende una sorta di parità ed eguaglianza. Invece ciò che accadde fu che Alison, la sorella di David Ashworth, si staccò dal capannello femminile che si raccoglieva tutte le sere vicino alla panchina e mi adottò, mi mise sotto la sua ala e mi portò via dal dondolo.
Adesso non riesco più a ricordare come fece. Credo che lì per lì nemmeno mi resi conto di quanto stava succedendo, ricordo infatti che a metà strada verso il nostro primo bacio, il primo bacio della mia vita, provai una sensazione di totale sbigottimento: non mi capacitavo che Alison Ashworth e io fossimo diventati tanto intimi. Non sapevo con precisione nemmeno come fossi finito dalla sua parte dei giardinetti, lontano da suo fratello, da Mark Godfrey e dagli altri, né come ci fossimo allontanati dal gruppo delle sue amiche, né come lei avesse avvicinato la sua faccia alla mia facendomi capire che dovevo mettere la mia bocca sulla sua. Tutto l'episodio è al di là di qualsiasi spiegazione razionale. Ma le cose andarono proprio così, e si ripeterono, pressoché uguali, il pomeriggio dopo, e quello dopo ancora.
Cosa credevo di fare? E lei cosa credeva di fare? Adesso, se mi viene voglia di baciare qualcuna in quel modo, con la bocca, la lingua e tutto il resto, è perché voglio anche altre cose: sesso, venerdì sera al cinema, compagnia e conversazione, fusione della rete famigliare e amicale, che mi si porti lo sciroppo a letto quando sono malato, un paio di cuffie nuove per ascoltare i miei dischi e i miei cd, e forse un bambino

***

frammenti


Il mio negozio si chiama Championship Vinyl. Vendo dischi di musica punk, blues, soul e R&B, un po' di ska, qualcosina delle Antille, alcuni pop degli anni sessanta - tutto per il serio collezionista di dischi, come dice la scritta, ironicamente all'antica, sulla vetrina. Stiamo in una tranquilla strada di Halloway, prudentemente piazzati in modo da attirare il minor numero possibile di curiosi di passaggio; non c'è nessuna ragione di capitare qui, a meno che uno non viva da queste parti, e la gente che vive da queste parti non sembra esageratamente interessata al mio Stiff Little Fingers etichetta bianca (per voi venticinque sterline - a me ne è costato diciassette, nel 1986) o alla mia unica copia di Blonde on Blonde.
Riesco a tirare avanti grazie ai miei clienti regolari, gente che fa di tutto pur di venire qui il sabato a fare acquisti - sono uomini giovani, sempre uomini giovani, con gli occhiali alla John Lennon e la giacca di cuoio e le braccia piene di buste di carta quadrate - e grazie alle ordinazioni per posta: mi faccio pubblicità sulle retrocopertine delle riviste di rock, e ricevo lettere di giovani uomini, sempre giovani uomini, che scrivono da Manchester e Glasgow e Ottawa, giovani uomini che sembrano spendere una quantità spropositata di tempo cercando vecchi quarantacinque giri degli Smiths ormai fuori catalogo e introvabili album di Frank Zappa: << LE VERSIONI ORIGINALI, NON LE RIEDIZIONI >>. Tutta gente a un passo dalla pazzia, chiaro.
Sono in ritardo, e quando arrivo al negozio vedo che c'è già Dick, sta appoggiato alla porta e legge un libro. Dick ha trentun anni, i capelli neri, lunghi e grassi; porta una maglietta dei Sonic Youth, una giacca di cuoio nero che virilmente vuol mostrare di avere visto tempi migliori, anche se l'ha comprata solo l'anno scorso, e un walkman con un paio di cuffie ridicolmente grandi che gli cancellano non solo le orecchie, ma anche mezza faccia. E libro è una biografia di Lou Reed in brossura. La borsa ai suoi piedi - che davvero ha visto giorni migliori - porta la pubblicità di una casa discografica americana indipendente e tremendamente alla moda; Dick ha rivoltato mezzo mondo per procurarsela, e diventa sempre molto nervoso quando le passiamo vicino. La usa per portare in giro i nastri; Dick ha sentito quasi tutta la musica che abbiamo in negozio, e preferisce portarsi da casa roba nuova che ascolta mentre lavora - nastri di amici ed edizioni pirata ordinate per posta - piuttosto che sprecare tempo a sentire qualcosa una seconda volta.
(<< Ti va di venire a pranzo con noi al pub, Dick? >> gli domandiamo Barry e io, un paio di volte a settimana. Lui lancia un'occhiata dolente alla sua pila di cassette e sospira. << Non dico che non mi piacerebbe, ma ho ancora tutta questa roba da sentire. >>)
Ciao, Richard.
Lui armeggia nervosamente con le gigantesche cuffie, ne allontana una dall'orecchio e l'altra gli scivola sull'occhio.
Oh, ciao. Ciao, Rob.
Scusami, ho fatto tardi.
Non c'è problema.
Bello il fine settimana?
Mentre apro il negozio, lui annaspa raccattando la sua roba.
Tutto bene, si, ok. A Camden ho trovato il primo album dei Liquorice Comfits. Quello pubblicato dalla Testament of Youth. Qui non l'hanno mai stampato. Solo importato dal Giappone.
Magnifico. - Non so di che cazzo stia parlando.- Ti faccio un nastro.
Grazie.
Perché mi ricordo che dicesti che il loro secondo disco t'era piaciuto, Pop, girls, etc... Quello con Hattie Jacques in copertina. La copertina pero non l’hai vista. Hai visto solo il nastro che t'ho fatto io.
Non nutro alcun dubbio circa il fatto che Dick possa avermi registrato un nastro dal secondo album dei Liquorice Comfits, e anche che io possa avergli detto che mi piaceva. Ho la casa piena di nastri che Dick mi ha registrato, e che io, nella maggior parte dei casi, non ho mai ascoltato.
E tu? Il tuo fine settimana? Bello? Brutto?
Non riesco a immaginare che genere di conversazione potrebbe venire fuori se raccontassi a Dick il mio fine settimana. Probabilmente resterebbe di sasso se gli dicessi che Laura se n'è andata. Dick non è ferrato in questo genere di argomenti; in realtà, se mai dovessi confessargli qualcosa di natura anche solo remotamente personale - che ho avuto una madre e un padre, per esempio, o che sono andato a scuola, quando ero ragazzo - suppongo che semplicemente arrossirebbe, e farfuglierebbe qualcosa di incomprensibile per poi domandarmi se ho sentito il nuovo album dei Lemonheads.
Una via di mezzo. Qualcosa di bello e qualcosa di brutto.
Annuisce. - Questa ovviamente è la risposta giusta.
Il negozio puzza di fumo rancido, di umido, e di copertine plastificate, ed è stretto e squallido e sporco e stipato, un po' perché e cosi che lo volevo - questo è l'aspetto che deve avere un negozio di dischi, e solo i fan di Phil Collins amano i negozi dall'aria pulita e salubre come un quartiere residenziale in periferia - e un po' perché non riesco a decidermi a ripulirlo o a far rimbiancare le pareti.
Ci sono espositori coi dischi lungo ogni parete, e un altro paio davanti alla vetrina, e i cd e le cassette sono dentro dei contenitori di vetro appesi alle pareti, è più o meno e tutto qui; il negozio è grande quanto basta, purché non ci siano clienti, per cui nella maggior parte delle giornate risulta della grandezza giusta. Lo sgabuzzino sul retro é quasi più ampio della zona anteriore destinata a negozio, ma non ci teniamo dentro proprio niente, davvero, giusto qualche pila di dischi di seconda mano che nessuno si è ancora preso la briga di prezzare, così più che altro serve per i momenti d'ozio. A esser franco, la vista di questo posto mi dà la nausea. Certi giorni ho paura di lasciarmi andare alla furia cieca, di strappare il mobile di Elvis Costello dal soffitto, di buttare l'espositore dei “Cantanti Country (maschi) A-K” in mezzo alla strada, e andare a lavorare in un grande magazzino della Virgin e non tornare mai più.
Dick mette su un disco, una roba psichedelica della West Coast, e prepara il caffè mentre io esamino la posta; e poi beviamo il caffè; e poi lui prova a ficcare ancora qualche disco negli espositori straboccanti e scricchiolanti, mentre io impacchetto un paio di ordinazioni arrivate per posta; e poi do un'occhiata al cruciverba del Guardian, mentre lui legge una rivista di dischi di importazione americana; poi lui da un'occhiata al cruciverba del Guardian, mentre lo leggo la rivista di dischi di importazione americana; e quasi senza che ce ne accorgiamo, arriva il momento che tocca a me preparare il caffè.
Alle undici e mezza, vacillando, entra un certo Johnny, un ubriacone irlandese che viene regolarmente a trovarci un tre volte a settimana, per cui le sue visite hanno finito col diventare come le battute e le coreografie di un copione che né Johnny né io vogliamo modificare. In questo mondo ostile e imprevedibile, noi facciamo assegnamento l'uno sull'altro per darci reciprocamente qualcosa su cui contare.
Vaffanculo, Johnny -, gli dico io.
Così per te i miei soldi non son buoni? -dice lui.
Tu non c'hai un soldo. E noi non abbiamo niente che tu voglia comprare.
Gli do quest'imbeccata e lui si lancia in una appassionata interpretazione di “All kinds of everything” di Dana; e qui tocca a me: esco da dietro il banco e lo trascino verso la porta; poi tocca a lui, e si getta su uno degli espositori; poi tocca a me, e con una mano apro la porta del negozio e con l'altra cerco di allentare la sua presa sull'espositore per spingerlo in strada. Escogitammo queste mosse un paio d'anni fa, così adesso le sappiamo a menadito.
Johnny è l'unico a entrare in negozio durante tutta la mattinata. Questo non è un lavoro per gente sfrenatamente ambiziosa.

 

 

 

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