Elisabetta d'Austria - SISSI, Vita e leggenda di un'imperatrice. 

Relazione speciale offerta da Rory

Sissi, cioè Elisabetta, Aurelia, Eugenia, Duchessa in Baviera è nata a Monaco il 24 dicembre 1837. Ludovica, sua madre, godeva di un rango più elevato. Figlia dell’Elettore Massimiliano di Wittlesbach, divenuto re di Baviera grazie all’alleanza con Napoleone III, era nata principessa di Baviera. Il matrimonio, avvenuto nel 1825 con il duca Max, suo secondo cugino, l’ha fatta precipitare dal ramo principale dei Wittlesbach al ramo cadetto, e ora è solo duchessa in Baviera. Questa unione, che non fu di simpatia né tantomeno d’amore, la lascia insoddisfatta nel suo orgoglio e nella sua sensibilità. La sua vita è opaca, fatta di abitudini e di rancori. Mentre lei si annoia attendendo il marito, questi canta, viaggia, provoca scandalo, sperpera il denaro della famiglia ed ha figli da altre donne. I figli legittimi sono ingiusti e amorali. Al brontolare di una madre troppo presente preferiranno un padre che scompare e ricompare assai spesso, ogni arrivo del quale è una festa.

Ai primi tepori della bella stagione, la famiglia lascia la città e si trasferisce nella residenza estiva di Possenhofen, situata sulle rive del lago Starnberg.

Elisabetta ha un corpo minuto, tutto nervi e muscoli, che cresce con la passione per gli esercizi fisici. Non dimenticherà mai i primi anni della sua vita e forse, nel ricordo, li abbellirà. In questo periodo non è né graziosa né studiosa, eppure tutti l’adorano e la vita sembra semplice. Le piace alzarsi presto e cavalcare fin dall’alba. Se ne infischia dello stile e ancora di più dei pericoli. Senza saperlo, è già un’ottima amazzone e istintivamente entra nel sogno di suo padre. Lui la desidera intrepida e selvaggia, e lei lo è. Prova paura solo durante gli incubi, e tuttavia, al momento del risveglio , riesce a contenere in qualche modo il proprio spavento. Bambina appassionata e turbolenta, apprezza il calore del nido. A Possenhofen giungono appena gli echi dei grandi rivolgimenti del 1848, e il duca Max, protetto dalle sue idee liberali, non è minacciato dai rivoluzionari.

A tredici, quattordici anni, bisogna inventarsi un amore. Lo scudiero del duca è carino, la testa di Elisabetta comincia a girare. È innamorata, tutti lo notano. Il giovane conte Riccardo non è un partito adatto a lei, e il duca Max non desidera essere privato della figlia prediletta, che tanto gli assomiglia. L’idillio viene interrotto, il giovane inviato in un luogo lontano. Alcuni mesi dopo torna ammalato e muore quasi subito. L’adolescente è sconvolta. Nella vita di Elisabetta la morte fa già la sua apparizione e conferisce alla favola un sapore dolce amaro.

L’attenzione della famiglia si è allontanata da lei per concentrarsi sulla sorella maggiore. Pare si voglia preparare Elena a un grande destino. Si cura la sua istruzione più di quella degli altri ragazzi, insistendo sullo studio delle lingue straniere e della storia. Elena accompagna spesso la madre che le insegna come comportarsi nella buona società. Quanto a Sissi, non si sognerebbe mai di invidiare un trattamento al quale non ha diritto. Quella preparazione prefigura prestigiosi progetti matrimoniali, mentre Elisabetta continua ad amare il defunto Riccardo. A Vienna c’è un cuore libero, quello del giovane imperatore Francesco Giuseppe, primo cugino di Elena.

Nel marzo del 1848 le sommosse hanno scacciato da Vienna Metternich e l’imperatore Ferdinando. La corte si rifugia a Innsbruck, nel Tirolo, e poi a Olmutz, in Moravia. L’impero è in pericolo, l’Ungheria e Milano si ribellano. Venezia tenta di proclamare la Repubblica e di tornare Serenissima come un tempo. Praga è nelle mani degli insorti, l’Austria non può più sopportare Metternich. Essa risparmia ancora gli Asburgo e ne trae qualche merito. L’imperatore Ferdinando, che regna dal 1835, è un incapace. È un uomo gentile, ma è malato, soffre di crisi nervose, di balbuzie, di debolezza. Il suo cadetto, Francesco Carlo, non vale molto di più. Non è del tutto idiota, ma la sua timidezza, la sua mancanza di carattere e la sua incompetenza non ne fanno l’imperatore ideale di un’epoca di grandi turbamenti. La sua unica qualità consiste nell’avere per moglie l’arciduchessa Sofia, donna capace che non esita ad agire, comprendendo subito il vantaggio che può trarre dalla situazione. Ha allevato il figlio maggiore, Francesco Giuseppe, come un principe ereditario, e al giovane non mancano le qualità necessarie per esserlo. Grazie a Dio non soffre delle malattie nervose degli Asburgo; la vendicherà del deplorevole matrimonio che ha dovuto subire. Suo cognato, l’imperatore Ferdinando, abdica, e al tempo stesso suo marito, l’arciduca Francesco Carlo, rinuncia ai propri diritti. Sofia non sarà imperatrice, ma al suo posto, sul trono, siederà Franzi, il quale le sarà doppiamente debitore della corona.

15 agosto 1853. Ludovica, Elena, Elisabetta e una cameriera viaggiano in direzione di Isch e Salisburgo, dirette all’appuntamento tanto atteso con l’arciduchessa Sofia e l’imperatore.

In Crimea è scoppiata la guerra, le truppe dello zar Nicola I hanno attraversato il Danubio e, nella loro lotta contro la Turchia, sperano nell’appoggio di Francesco Giuseppe. Lo zar non gli ha forse prestato man forte e truppe in Ungheria? Trentamila soldati russi hanno schiacciato gli ungheresi che volevano staccarsi da Vienna proclamare la caduta degli Asburgo. Elisabetta non sa nulla delle miserie delle popolazioni, della povertà, della malattia. Suo padre è un liberale e tuttavia vive come un signore con la passione per il lusso, per le spese smodate. Lei non sa che una volta oltrepassata la frontiera entrerà in un mondo nuovo.

Francesco Giuseppe, di una puntualità imperiale, fa il suo ingresso nel salone. Elisabetta conosce appena questo primo cugino. Si sono intravisti anni addietro, lei era ancora una bambina, lui già un uomo. Néné fa una bella riverenza, con il sorriso reso rigido dagli sguardi, dall’importanza del ruolo attribuitole. Sissi osserva ciò che fanno gli adulti quando tentano e sperano di sedursi a vicenda. Ascolta solo parole di convenienza, vede solo atteggiamenti affetti. Malgrado questo, il fidanzato di sua sorella è molto bello. Alto, biondo, con il corpo slanciato nell’uniforme bianca e rossa. Quando gli occhi di Francesco Giuseppe si posano su di lei, Elisabetta abbassa i suoi, e quando osa sollevarli, lo sguardo dell’imperatore indugia, segue il movimento dei suoi lunghi boccoli, accarezza la sua figura, fermandosi infine sul volto, che si copre di rossore. Non ha avuto un attimo di esitazione. Ancora prima di rivolgerle la parola ha compreso che la sua vita sarebbe dipesa da quella fanciullina di cui non immaginava la venuta. Al primo sguardo si è verificato l’impossibile, si è sentito vivo come non lo era mai stato, come forse non sarà mai più. Con una cosa del genere, tutte le madri del mondo, tutti gli imperi, tutte le uniformi, non possono nulla. Non attende ancora una risposta da lei. E' sconvolto dalla sua scoperta: Elisabetta, di quindici anni e mezzo, è colei che sperava di incontrare, colei che desidera. Rappresenta l’infanzia che lui non ha conosciuto, rappresenta la timidezza, mentre lui ha dovuto anche troppo presto imparare a mettersi in mostra. È selvaggia, mentre lui ha frequentato solo palazzi, è tutto un insieme di cose che lo sconvolgono. Per Ludovica la sconfitta non è totale. Se anche la figlia maggiore le rimanesse sulle spalle, nello stesso momento quella minore si troverebbe accasata.

L’arciduchessa è decisa a lottare, convinta che suo figlio stia commettendo un errore. Ha bisogno di una moglie istruita, raffinata, di una donna che lo aiuti nel suo compito, che lo comprenda. Elena sarebbe perfetta. Per l’ultima volta tenta di convincerlo, ma lui non vuole darle ascolto.

Ludovica è estasiata dopo il primo ballo a corte. Laddove Elena ha fallito, Sissi è sul punto di riuscire. L’arciduchessa Sofia muta rapidamente atteggiamento. Modellerà questa ragazzetta come cera molle.

Al ritorno dalla sua missione, l’arciduchessa informa il figlio che la sua domanda di fidanzamento è stata accolta favorevolmente.

L’arciduchessa ha impartito ordini ben precisi: bisogna domare quella ragazza selvatica e incominciare a insegnarle i rudimenti della storia austriaca. A quindici anni Elisabetta scopre la propria curiosità. Con Jànos Majlàth, il suo maestro, un ometto di settant’anni, intelligente, spiritoso, erudito, l’Ungheria fa ingresso nel suo destino di sovrana e di donna. Majlàth non è un rivoluzionario. Nel 1848, quando è scoppiata l’insurrezione ungherese, è rimasto fedele agli Asburgo, una scelta che i liberali del suo paese gli rimprovereranno. Majlàth le parla con fervore dell’antica Costituzione ungherese, per la quale i suoi compatrioti hanno versato il sangue e che Francesco Giuseppe ha abrogato nel 1849.

Il 4 marzo viene firmato il contratto di matrimonio in assenza del futuro sposo.

Nel giorno del matrimonio, il 24 aprile 1854, la chiesa degli Agostiniani esige un atteggiamento più compassato. Al momento dello scambio dei consensi, il "sì" di Francesco Giuseppe si leva sonoro, sicuro; quello di Elisabetta è simile a un bisbiglio. Eccola dunque sposata ad un uomo il quale, grazie ai suoi quarantasette titoli, regna su cinquantadue milioni di sudditi, sovrano di uno stato multinazionale costantemente alla ricerca della propria identità e che, non trovandola, investe tutto nella sua fedeltà alla dinastia degli Asburgo. Le madri dei due sposi appaiono al mattino presto e, una volta inghiottito l’ultimo boccone, ogni madre si apparta con la propria creatura e ha inizio l’interrogatorio. L’arciduchessa sottopone il figlio alla fatidica domanda, l’imperatore confessa che il matrimonio non è stato consumato. Alla fine, che cosa sa Elisabetta dell’amore? Il giovane Riccardo è morto troppo presto perché l’emozione dell’adolescente si trasformasse in turbamento dei sensi e il sogno in desiderio. Quanto a Francesco Giuseppe, l’arciduchessa si era ripromessa di mantenere il figlio sotto il proprio controllo e di provvedere a tutto, anche della sua educazione sessuale. L’infaticabile arciduchessa diventa la grande organizzatrice dei piaceri del sovrano, portandogli le donne a domicilio.

Il mattino successivo la scena si ripete e la risposta alla domanda dell’arciduchessa è sempre la stessa. Ma il 27 aprile tutto è cambiato. In realtà Elisabetta è già alzata, ma rifiuta di comparire davanti ai suoi giudici. Quella notte è diventata davvero la moglie di Francesco Giuseppe, e non vuole sbandierare la notizia. Primo litigio. Elisabetta vuole sedere a colazione sola col marito. Francesco Giuseppe la supplica di cedere, lei si risolve a farlo col cuore pieno di tristezza.

Tra la "vera" imperatrice e la "nuova" imperatrice hanno inizio le ostilità. Elisabetta non si comporterà come sua madre, sempre obbediente, se non ossequiosa, nei confronti dell’arciduchessa. Detesta il ricatto costante che la suocera esercita suo figlio. Non solo, la fata cattiva ha suscitato in lei un sentimento del quale si sentiva incapace: l’odio. Le intenzioni di Sofia tuttavia non sono sadiche; soprattutto quelle che vogliono fare della selvaggia ragazzetta una dama adatta al titolo che porta. È convinta che questo "addestramento" sia adatto alla consorte di Franzi e alla sovrana del suo paese. Le due imperatrici si combatteranno per quasi vent’anni, e il loro disaccordo sarà sempre più profondo. Sissi si rigira nella gabbia. Nelle giornate che sembrano interminabili, Elisabetta si annoia. Per i suoi fratelli, le sue sorelle, la sua famiglia, il suo adorato Possenhofen prova una nostalgia crudele, di un’intensità quasi fisica. Con il pretesto di vegliare sulla sua salute, l’arciduchessa le vieta le passeggiate a cavallo, che le facevano dimenticare la malinconia. La punizione appare ancora più dura a Elisabetta, che si sente sola, e tuttavia non riesce mai a isolarsi. È circondata da un nugolo di donne che dovrebbero servirla, ma che, di fatto, la sorvegliano.

Elisabetta ha sedici anni ed è incinta. Una bimba nel ventre di un’altra bimba, come in un gioco di bambole ad incastro. L’arciduchessa non si commuove per così poco e decide di sfruttare la situazione a suo favore. Il bambino non è ancora nato, ma già sfugge alla madre. L’arciduchessa fa preparare la nursery nei propri appartamenti con il pretesto che sono i più soleggiati del palazzo. Sceglie le nutrici, i medici, le governanti e le levatrici. Colleziona libri di puericultura, il tutto senza consultare la futura madre. Quanto a Francesco Giuseppe, è troppo occupato a seguire gli sviluppi della guerra in Crimea, anche se le truppe austriache non sono implicate direttamente, per pensare a tener testa alla madre. Il 2 marzo 1855 muore la zar Nicola I. Aveva aiutato Francesco Giuseppe a reprimere la rivoluzione ungherese e nella guerra di Crimea si attendeva di ricevere l’appoggio dell’Austria. Non l’ha ottenuto, e muore detestando l’imperatore. La Hofburg, tuttavia, decreta un lutto ufficiale di quattro settimane.

Il 5 marzo 1855, all’alba, l’imperatrice avverte le doglie del parto. Francesco Giuseppe, spaventato come un giovane marito innamorato, corre a chiamare Sofia, che ha già disposto tutto per il parto. Nasce una bambina, che naturalmente si chiamerà Sofia. L’impero voleva un maschio, così come l’arciduchessa, ma l’imperatore è fuori di sé dalla gioia. Il periodo che segue il parto si rivela difficile; Elisabetta si rende conto che la situazione le è sfuggita di mano e no ha la forza di ribellarsi. L’arciduchessa è riuscita a convincere il figlio che un’imperatrice non deve perdere tempo nella nursery, ma occuparsi del marito, compiere il proprio dovere di rappresentanza. Elisabetta è troppo giovane, per vegliare su una bambina. Quest’ultimo argomento ferisce Sissi nell’animo. A

Possenhofen aveva coccolato con tanto amore i fratelli e le sorelle più giovani di lei che quando li ha dovuti lasciare hanno pianto con lei. A casa sua non la ritenevano incapace di cullare, di curare, di consolare. A corte, se vuole vedere la figlia, deve quasi chiedere l’autorizzazione. Si desidera che sia un guscio vuoto, una donna priva di intelligenza, un corpo che serve solo alla riproduzione, ma Elisabetta ha scoperto il potere della propria bellezza ed è decisa a servirsene. La piccola adolescente dalle guance arrotondate è diventata una donna che, quanto a bellezza, supera di gran lunga tutte le grazie viennesi. Ora misura un metro e settantadue, il che equivale ad una statura altissima, per quei tempi, tanto più che il portamento del suo capo, la lunghezza del suo collo e l’estrema sottigliezza della vita, soffocata dalla tirannia dei busti, sembrano allungarle maggiormente la figura. In secondo luogo la sua gracilità. In tutta la vita non supererà mai i cinquanta chili di peso; la sorveglianza del suo peso si trasformerà in ossessione, se non in anoressia. E infine il mistero. Intorno alla sua persona un alone di malinconia sfuma l’insolenza della sua bellezza, un nimbo di disillusione, di speranze morte sul nascere che addolcisce lo splendore della sua giovinezza. In lei la tristezza ha qualcosa di voluttuoso, di fatale. Il corpo è tutto ciò che le rimane, e lei lo vezzeggerà a suo modo. Ha già provocato uno scandalo quando, giungendo a Vienna, ha chiesto che a proprie spese fosse installata nei suoi appartamenti una vasca da bagno. Non solo, comincia le sue giornate compiendo lunghi esercizi di ginnastica e presto farà disporre sotto ai dorati soffitti a cassettoni della Hofburg tutta un’attrezzatura bizzarra: anelli, scale, sbarre, manubri. La suocera l’ha costretta un tempo a esibire il suo grosso ventre. Ora è lei che decide di esibirsi.

Il 25 febbraio 1856, sotto l’egida di Napoleone III, ha inizio il Congresso di Parigi che mette fine alla guerra di Crimea. Il salone dell’Orologio, al Quaid’Orsay, ospita i suoi belligeranti. Richard von Metternich, figlio del suo celebre padre e rappresentante dell’Austria, tenta invano di imporre la sua mediazione. Non solo non riesce a trarre vantaggio dalla neutralità austriaca, ma il suo paese esce dai negoziati più isolato che mai. I russi non perdonano agli austriaci di non averli appoggiati durante la guerra. Vienna e San Pietroburgo entrano in un’era di conflitti che continuerà, nonostante brevi tregue, fino all’esplosione del 1914. Francesco Giuseppe aveva sperato di proteggere i suoi possedimenti italiani risparmiando la Francia; Napoleone, lungi dall’essergliene riconoscente, gioca sempre più apertamente con la carta di Cavour, primo ministro del Regno di Sardegna. Napoleone e Cavour preparano una riorganizzazione dell’Italia: a farne le spese sarà l’Austria. La diplomazia austriaca perde su tutti i fronti. Fatto ancora più grave, la guerra di Crimea ha modificato i rapporti di forza all’interno della Confederazione tedesca. Per uno strano fenomeno di equilibrio, ciò che indebolisce l’Austria, rappresenta contemporaneamente un vantaggio per la Prussia , e la Russia, per vendicarsi di ciò che chiama il tradimento austriaco, non sarebbe contraria ad appoggiare le ambizioni prussiane. Tormentata in profondità dalle idee sociali, dalle rivendicazioni nazionali, una nuova Europa è alla ricerca di se stessa. L’isolamento dell’Impero non lascia presagire nulla di buono per il suo avvenire. L’imperatore sarà padre per la seconda volta, e questa attesa dissipa le altre preoccupazioni. Il 15 luglio 1856 il bambino nasce nelle migliori condizioni. È una femmina, un’altra femmina. L’arciduchessa non nasconde la sua profonda delusione. La piccola sai chiamerà Gisella. Secondo un rituale ben consolidato, Gisella raggiunge la piccola Sofia nella nursery.

Il 30 agosto 1856, Francesco Giuseppe prende infine le parti della moglie. Non affronta direttamente l’arciduchessa, le scrive una lettera, in cui le chiede di accontentare le richieste di Sissi, che vorrebbe riavere nei suoi appartamenti le due figlie strappatele alla nascita.

A partire da quel momento le bambine saranno alloggiate nell’appartamento Radetzky, dalle stanze spaziose e soleggiate, vicino a quello dei loro genitori. Non a caso Francesco Giuseppe spedisce la lettera il 30 agosto. Il due settembre i sovrani devono compiere un viaggio ufficiale in Stiria e Carinzia. Lontano da Vienna, l’imperatore eviterà il contraccolpo della reazione. Può darsi anche che Elisabetta, impegnata a fondo nella sua lotta, abbia minacciato il marito di non accompagnarlo se non avesse preso le sue parti prima della data della partenza. Per la prima volta, l’imperatrice ha vinto.

Settembre 1857. Stiria e Carinzia. A Franz Sissi dirà tutto: ciò che ha sofferto e che non vuole più soffrire. Si conoscono da quattro anni e hanno parlato così poco. Suo marito assomiglia ancora a al giovane che ha incontrato a Ischl. L’impero mormora, ma egli non vuole preoccuparsene. Sua madre gli invia messaggi di vendetta, ma ha deciso di non rispondere. Si sono lasciati alle spalle le spie e i cortigiani. Accanto a loro ci sono solo i montanari, che non origliano. Hanno strappato a viva forza questi due giorni di pace e ritengono di averli meritati.

Alla Hofburg, Sissi è considerata come una bimba alla quale non si deve parlare di parlare di politica, poiché si crede che non brilli per intelligenza; appena compare sulla scena, però, è verso di lei che salgono le acclamazioni più forti.

L’aria delle cime ha rafforzato la volontà del sovrano. L’amore, la bellezza, il fascino di Elisabetta agiscono su di lui, e lo persuadono. Con acume, lei lo induce a prendere le decisioni che ritiene giuste. Non lo costringe, non lo minaccia, ma si insinua nella sua fiducia e vince. Subito dopo il ritorno a Vienna le vengono restituite le bambine.

Inverno 1856-1857. Viaggio in Italia. L’imperatrice a Trieste scopre il mare. Continentale per nascita, viene travolta dalla passione per questo Adriatico che tenterà di fare suo. In Elisabetta è nata la viaggiatrice. A Venezia il clima è peggiore. I veneziani non sopportano l’occupazione austriaca. Anche il cuore della Serenissima non si concede agli Asburgo. I sovrani sbarcano e attraversano la Piazzetta in direzione della basilica di San Marco. Tutto potrebbe essere perfetto se non ci fosse il silenzio della folla. Quando alla fine risuonano le grida di acclamazione non ingannano nessuno, e ancor meno la coppia imperiale. Elisabetta, già innamorata di questa città, affronta la situazione con un coraggio che non sapeva di possedere. Si avvicina al marito. E Francesco Giuseppe passa all’azione. Sin dal 3 dicembre ripara all’ingiuria inflitta alla nobiltà italiana abrogando la confisca dei beni degli esiliati e decreta un’amnistia generale dei prigionieri politici.

Il 15 gennaio 1857 la coppia imperiale giunge a Milano. La polizia ha spinto verso la città la popolazione delle campagne vicine perché accolga i sovrani con un’ovazione. Nonostante questo artificio la folla rimane silenziosa. Alla sera, al teatro della Scala, nessun patrizio è presente nei palchi degli abbonati. Le grandi famiglie hanno inviato i loro lacchè in livrea. Nei giorni successivi, Francesco Giuseppe accorda l’amnistia e si diminuiscono le imposte in tutta la Lombardia. Il comandante Radetzky, governatore generale del Lombardo Veneto, viene sollevato dall’incarico. Gli viene sostituito il fratello dell’imperatore Massimiliano, e questa scelta sembra accettata favorevolmente. A metà marzo la coppia è di ritorno a Vienna. Elisabetta si precipita da Gisella, che non sembra riconoscere la madre. In Italia si dice che l’imperatrice aveva tenuto a condurre con sé la figlia Sofia per premunirsi contro un attentato. Quest’accusa è infame e ingiusta. Elisabetta non avrà mai il timore di esporre la propria persona, il suo coraggio non darà mai segni di cedimento.

Maggio 1857. Viaggio in Ungheria. Se l’Italia non si è gettata tra le braccia dell’imperatore, l’Ungheria promette di essere più caparbia, più reticente ancora. I sovrani, di fatto, ignorano l’ampiezza dei danni provocati dalla guerra. L’Ungheria non ha dimenticato le cruente rappresaglie dell’autunno 1849. a capo del paese Francesco Giuseppe nomina il prozio, l’arciduca Alberto, mentre il potere reale è nelle mani del ministro dell’Interno, il barone Bach, di cui la sede è a Vienna.

Il 4 maggio 1857 la coppia imperiale giunge a Ofen, sobborgo di Buda e di Pest. Le due città sono ancora divise. Per la loro unione si dovrà aspettare 1873. L’imperatrice ha sentito che poteva piacere a questo popolo poco incline a gettarsi tra le braccia straniere. Ma se la folla è affascinata, le vecchie ferite sanguinano ancora. Francesco Giuseppe decreta l’amnistia.

Sissi e Franz sono chiamati dal dottor Seeburger perché quello che sembrava solo la crescita dei dentini nella piccola Sofia, in realtà è qualcosa di molto più grave. La sera del 29 maggio 1857 la piccola si spegne all’età di due anni. Si sa a malapena quale sia la causa del decesso, si pensa una rosolia malsopportata dal corpicino di Sofia. Elisabetta è distrutta dal dolore. Francesco Giuseppe ritorna in Ungheria, ma Sissi non ha la forza di accompagnarlo. Elisabetta non riesce a calmare il proprio dolore. Il conte Gyula Andrassy è tornato dal suo esilio parigino in giugno. Dopo la rivoluzione del 1848. era stato condannato all’impiccagione, ma al momento del verdetto si trovava già all’estero.

Quando nel dicembre del 1857 appaiono i segni di una terza gravidanza, Elisabetta è ancora oppressa dal dolore e dai rimorsi.non è più il caso di praticare l’equitazione o di costringere il suo corpo in incredibili busti. La sua magrezza può allarmare i suoi medici, ma non la disturba e continua a nutrirsi pochissimo. L’erede è finalmente un maschio e si chiamerà Rodolfo. L’arciduchessa si impadronisce subito dell’erede al trono, approfittando della debolezza della madre. Il nipotino è un bene prezioso, dunque non farà mai abbastanza per proteggere questo tesoro.

Nel 1859 in Italia si affrontano due imperatori: da un lato Napoleone III, dall’altro Francesco Giuseppe. Napoleone III vuole a ogni costo la sua guerra d’Italia. Nel corso dell’estate precedente, il sovrano francese ha ricevuto in segreto a Plombières il conte di Cavour, primo ministro del Piemonte, con lo scopo di ideare una strategia per cacciare l’Austria dall’Italia. Se ci riusciranno, il Piemonte annetterà a sé la Lombardia e il Veneto, la Francia otterrà Nizza, la Savoia, nonché un’influenza preponderante in Italia, dove la famiglia Bonaparte vuole spartirsi le spoglie degli Asburgo e dei Borboni. Francesco Giuseppe invia un ultimatum a Vittorio Emanuele, re del Piemonte, che lo rifiuta, considerandolo una vera e propria dichiarazione di guerra. La Francia può fingere di soccorrere l’aggredito e il 3 maggio 1859 dichiara guerra all’Austria.

Il 4 giugno i francesi e i piemontesi ottengono una prima vittoria a Magenta. Lo scotto da pagare è pesante: quattromila morti francesi e piemontesi, diecimila morti tra gli austriaci, che perdono la Lombardia.

Una vera e propria disfatta, una carneficina spaventosa. L’imperatore non può lasciar sacrificare a tal punto i suoi eserciti. Dopo essere salito al trono ha dedicato loro tutte le sue cure, la sua attenzione e buona parte del bilancio dello stato. Francesco Giuseppe si sente innanzitutto un militare. In Ungheria la popolazione comincia a sollevarsi contro un’Austria indebolita. Napoleone III si prepara a inviare nel paese una legione di rivoluzionari capeggiata da Kossuth. De Laxenburg, dove dedica le sue giornate e le sue notti ai feriti, l’imperatrice incoraggia il marito a porre fine alla guerra. Francesco Giuseppe, battuto ma non ancora vinto, tenta un ultimo passo perché l’esercito prussiano venga in suo aiuto. La Prussia è d’accordo a dare prova di solidarietà conservatrice, a condizione che ciò rafforzi la sua posizione in Germania. Tentando di salvare i suoi territori italiani, Francesco Giuseppe corre il rischio di perdere la propria supremazia in Germania, a favore della Prussia. Il colloquio tra i due imperatori ha luogo l’8 luglio a Villafranca. Hanno entrambi fretta di concludere la pace. Il trattato non si rivela troppo catastrofico per Francesco Giuseppe. Perde la Lombardia, ma conserva il Veneto. Per l’Austria il peggio è stato evitato. Per contro Cavour, furibondo nei confronti di Napoleone III, si dimette dal suo incarico di primo ministro. Secondo gli accordi segreti di Plombières, il veneto doveva essere assegnato al Piemonte e Cavour si sente tradito dall’alleato francese. Anche Kossuth, che si preparava a intervenire in Ungheria contro l’Austria, viene subito abbandonato da Napoleone III.

Elisabetta mangia sempre meno e tossisce in continuazione. L’imperatrice ha cessato di essere la donna più amata del suo tempo. Suo marito la trascura e ha delle avventure. Si fanno nomi, si parla di prove, all’occorrenza si inventa.

L’anemia si manifesta attraverso edemi che le gonfiano le caviglie e le ginocchia, i medici parlano di tubercolosi. Pentito, folle d’amore, Francesco Giuseppe la supplica di cambiare dieta, di cambiare vita, ma Elisabetta non vuole ascoltare nulla da un marito che l’ha tradita. Egli rappresentava la sua forza, il suo unico sostegno in questa corte che lei odia. La passione dava un senso al sacrificio della sua libertà. Ora la prigioniera ha un solo pensiero: andarsene. Quando i medici le consigliano di andare a curare la tosse in un paese soleggiato, coglie al volo l’occasione. La temperatura calda, il viaggio, il mare. Innamorata com’è della solitudine, ha bisogno di un’isola. Francesco Giuseppe le propone l’Adriatico, è ancora l’Impero. Potrà andare a trovarla, saranno di nuovo felici, tutto tornerà come prima. Ma Elisabetta rifiuta l’Impero, rifiuta l’Imperatore. Vuole che la sua isola sia irraggiungibile. E sceglie Madera.

La regina Vittoria ha messo a disposizione della grande inferma uno dei suoi yacht più sontuosi, l’Osborne. Imbarcata ad Anversa, la moribonda rinasce alla prima tempesta. Il suo seguito agonizza a ogni rollio. La malata naviga già verso la guarigione. Questa donna instabile trova il proprio equilibrio solo in un universo in movimento. Ha bisogno della sella dell’amazzone o della passerella del marinaio. Sa che laggiù, a Vienna, l’arciduchessa approfitta della sua assenza per riguadagnare terreno. E lei è divenuta per i propri figli un’estranea. Invia a Gisella e a Rodolfo lettere e doni, non si stanca di dimostrare loro il suo affetto, promette tutte le tenerezze del mondo al suo ritorno. Anche a Madera Elisabetta avverte il bisogno di un altrove, e questo altrove assume sempre più spesso le sembianze dell’Ungheria.

Il 28 aprile 1861 lascia Madera a bordo del Victoria-and-Albert II che la regina di Inghilterra ha messo a sua disposizione. Primo scalo a Cadice, con visita della città. Poi viaggio in treno fino a Siviglia. Elisebetta visita prima Maiorca, quindi Malta. Poi il Victoria-and-Albert II solca le acque del mar Ionio e all’orizzonte appaiono le terre.

Bastano solo quattro giorni di permanenza alla Hofburg per rendere le condizioni di Elisabetta peggiori di quelle precedenti alla sua partenza per Madera. Il 21 giugno 1861, eccola di nuovo in partenza. Francesco Giuseppe l’accompagna in treno fino a Trieste. I viennesi pensano che non rivedranno più la loro imperatrice. Francesco Giuseppe non si dà per vinto, e questa volta supplica Elena di recarsi a Corfù. Ora è una donna felice, sposata a un uomo che ama e che l’ama. Ha due figli, perciò l’idea di partire per un lungo viaggio non le sorride. Ma conserva il ricordo della complicità con la piccola Sissi e generosamente cede all’insistenza di Francesco Giuseppe.

Elena scopre a Corfù una Sissi irriconoscibile. Ha il volto gonfio, tipico delle malattie da depressione. L’intelligente Nènè non si sbaglia sulle condizioni della sorella prediletta. La incoraggia a nutrirsi di più e meglio: a mangiare carne, a bere birra. La esorta a confidarsi; le due sorelle chiacchierano per giornate intere. A poco a poco Elisabetta esce dal suo torpore.

Elena rientra a Vienna dove Francesco Giuseppe attende la sua diagnosi. Sissi si sente come in una prigione, non apprezzata, al punto di non poter più sopportare di viverci. L’idea stessa di ricadere sotto l’autorità dell’arciduchessa le fa orrore. Preferirebbe morire, lontano dal marito e dai figli, piuttosto che rientrare nella gabbia del suo carnefice. Ha tentato invano di resistere a questo stato morboso, il suo spirito si ribella e combatte, e subito dopo il suo corpo capitola. In ottobre Francesco Giuseppe si imbarca per Corfù. Non le chiede di ritornare a Vienna, ma solo di non vivere più al di fuori dell’impero. L’imperatrice trascorrerà l’inverno a Venezia.

Nella primavera del 1862 Ludovica va a trovare la figlia a Venezia, accompagnata dal medico di famiglia, il dottor Fischer. Egli constata che Elisabetta non tossisce quasi più, il rischio della tisi sembra dunque essere escluso, ma per contro si parla di anemia, persino di clorosi che provoca l’idropisia. Elisabetta si arrende agli argomenti del dottor Fischer e di sua madre. La Serenissima non è il luogo adatto per una malata di idropisia. D’altra parte il dottore si preannuncia anche contro le isole lontane e i climi caldi. Egli conta senza dubbio di guarire tanto il disordine psicologico quanto il corpo della sua paziente. Vuole ricondurla con dolcezza e senza incitarla alla fuga a una vita normale, riavvicinarla a poco a poco ai suoi cari e, compito ben più difficile, incitarla a non temere più Vienna e la prossimità della corte.

L’Austria ha dovuto impegnarsi accanto alla Prussia in una guerra contro la Danimarca. Le due grandi potenze disputano alla più piccola dei suoi due ducati: lo Schleswig e l’Holstein. Bismarck è interessato da quelle terre, perché gli permetterebbero di estendere il suo potere a nord dell’Elba. Per non rompere la sua alleanza con la Prussia, Francesco Giuseppe, a malincuore, è coinvolto nel conflitto. La Danimarca resiste con immenso coraggio, ma i danesi vengono lo stesso annientati. Al termine del conflitto lo Schleswig e l’Holstein cadono sotto la sovranità austro-prussiana indivisa. Questa guerra si rivela vantaggiosa per la Prussia. Quelle terre selvagge non presentano alcun interesse per l’Austria.

Elisabetta per il momento è assai preoccupata per Rodolfo. Se Gisella è già una bimba robusta e allegra, il bambino diviene sempre più nervoso, instabile, gracile, collerico all’eccesso. Elisabetta si è sentita troppo a lungo in una situazione di inferiorità, a causa delle sue ripetute assenze, del triste ricordo della piccola Sofia, per pretendere che suo figlio le fosse restituito. Era quasi riuscita a convincere se stessa della propria incapacità. Ma la disperazione di Rodolfo l’aiuterà a compiere un vero e proprio atto di forza. Il momento è favorevole, non ha mai avuto tanto ascendente sull’imperatore.

L’imperatrice fa delle indagini e viene a conoscenza di molte cose. Con il pretesto di sviluppare le attitudini militari del bambino, il suo precettore lo separa dalla sorella che adora. Vuole che questo bambino diafano, già troppo emotivo e fragile, si indurisca, e cerca di raggiungere il suo scopo terrorizzandolo. Al minimo capriccio Rodolfo viene punito con docce gelide; quando cala la notte, Gondrecourt lo rinchiude nel giardino zoologico di Lainz, nei pressi di Schönbrunn, e per meglio spaventare il bimbo che ha solo sei anni grida: "un cinghiale! un cinghiale!". Prima di pensare di liberare Rodolfo attende che urli fino a estenuarsi. Per Elisabetta questa è l’ultima goccia. In una lettera chiede che le siano riservati tutti i poteri per quanto concerne i bambini, la scelta delle persone che li circondano, il luogo del loro soggiorno, la completa direzione della loro educazione. Non sarebbe stato possibile spiegarsi meglio. È vero che la lettera ha maturato per dodici lunghi anni. È stato necessario tutto questo perché la piccola Sissi diventasse la vera imperatrice. Inutile precisare che l’imperatore si sottomette alla volontà della moglie, un simile ultimatum non si discute.

Ungheria, 8 giugno 1867. Francesco Giuseppe viene incoronato re di Ungheria, nella cattedrale Mathias di Buda. Diviene Ferenc Jòzsef, ma è il trionfo personale, politico di Erzébet, la regina che gli ungheresi hanno scelto e che anche attraverso i peggiori avvenimenti della loro storia non cesseranno mai di amare. Risulta evidente che Elisabetta è la persona più popolare del paese e che tale rimarrà.

Quando Elisabetta si stabilisce di nuovo a Vienna, decide di approfondire le sue conoscenze dell’ungherese. Lungi dal rifiutare il paese dal quale è ritornata alcuni anni prima con il cadaverino della figlia, cerca di superare quel doloroso ricordo. Una sorta di intuizione la induce a ritenere che l’Ungheria, capace di generare drammi tanto grandi, può viceversa, per un curioso fenomeno di compensazione, far rinascere la speranza, la forza, la gioia. Più realisticamente, sa che tutto ciò che è ungherese ripugna l’arciduchessa Sofia.

Elisabetta ha bisogno di una dama di compagnia ungherese. Le piacerebbe che fosse giovane, dolce, intelligente, una possibile confidente e amica.

Ignoriamo come Ida Ferenczy ebbe la meglio sulle sue rivali, il mistero rimane. All’imperatrice viene sottoposto un elenco di sei giovani ungheresi, provenienti dalle migliori famiglie del paese. Si dice che un settimo nome sia stato aggiunto all’ultimo momento, quello di Ida Ferenczy, il cui padre è solo un povero gentiluomo di campagna. Pare che Ida non fosse al corrente di ciò che si tramava. Si mette in viaggio, felice di sfuggire al matrimonio combinato che l’attende, nella sua condizione di provinciale povera e non bella.

Elisabetta è appena rientrata da una passeggiata a cavallo, ha ancora su di sé parte della freschezza delle foreste, dell’ardore delle sue interminabili galoppate. La sua tenuta da amazzone, attillata al punto da sembrarle cucita sul corpo, la a apparire ancora più alta e sottile. Con un gesto fa alzare la giovane, rossa di confusione, e si stupisce subito della sua giovinezza. La metterà subito in guardia contro i tranelli che a corte non si mancherà certo di tenderle. L’arciduchessa Sofia e le persone che la circondano tenteranno di sottometterla con ogni sorta di intimidazione. Ma non ha nulla da temere, a condizione che sappia esistere alle profferte e alle minacce. Lei, l’imperatrice sarà lì per difenderla.

Francesco Giuseppe convoca l’assemblea nazionale ungherese e nel dicembre del 1865 si reca a Pest per l’apertura della sessione. In tale occasione costata, ancora una volta, fino a quale punto Elisabetta è popolare in tutti gli strati della società. Si ripromette di servirsi di tale popolarità; farà di lei una specie di intercessore tra i due paesi, la mediatrice di una bella riconciliazione.

Elisabetta e il conte Andràssy si incontrano per la prima volta, sanno ogni cosa l’uno dell’altra. Andràssy non ignora che il cuore dell’imperatrice batte già per l’Ungheria. Lui dovrà solo trasformare il sentimento in volontà. Ida non gli ha nascosto nulla dei rapporti di forza in seno alla famiglia imperiale. Tra Elisabetta e sua suocera, l’Ungheria equivale a un pomo della discordia. Più l’imperatrice è favorevole ai magiari, più l’arciduchessa Sofia li mette alla berlina. Andràssy sa anche che Francesco Giuseppe è innamorato della moglie come il primo giorno, forse anche di più. Di fronte a un monarca prigioniero della rete dei conservatorismi, che esita a saltare il fosso, l’influenza di una sovrana ungherese di cuore costituisce un asso nella manica.

Il 1º febbraio segna il trionfo di Elisabetta. Quel giorno Francesco Giuseppe riceve un’importante delegazione di parlamentari ai quali ripete che non si può accordare qui ciò che si rifiuta altrove. Su tutti i volti è visibile la delusione. Allora Elisabetta prende la parola in ungherese perfetto, elegante, tanto carico di dolcezza da far salire le lacrime agli occhi. Alla fina, quando tace, non si sentono risuonare gli evviva come sempre accade. Il silenzioso raccoglimento dei deputati, i loro occhi umidi tradiscono la commozione. È ascoltata, è compresa, è amata. Eppure ha detto solo ciò che l’imperatore aveva dichiarato prima di lei. Ma lo ha fatto in maniera diversa.

Elisabetta, durante il suo soggiorno in Ungheria, secondo alcune voci, non sarebbe rimasta insensibile al fascino di Andràssy. Il conte le piace, forse ne è persino innamorata. Lungi dal mostrarsene risentiti o dal trarne motivi di scherno, gli ungheresi avrebbero piuttosto voglia di congratularsi con lei del suo buon gusto. Andràssy non pensa affatto ad approfittare di una situazione lusinghiera per lui e pericolosa per Elisabetta. Troppo innamorato a sua volta, si mostra prudente.

Tuttavia si scrivono, e Ida funge da portalettere. Nelle risposte non figura nemmeno il nome di Andràssy., si parla soltanto dell’amico di Ida. Poiché l’amore è loro vietato, si sono votati entrambi alla causa ungherese.

Il 1866 si rivela uno degli anni più terribili per Francesco Giuseppe e per l’Impero. I pericoli maggiori non vengono dall’oriente ungherese, bensì dal nord tedesco. In Prussia, Bismarck mette a punto il dispositivo che deve cacciare definitivamente l’Austria dalla Confederazione tedesca. Ha preparato ogni cosa in modo che al momento del conflitto l’Impero austriaco si trovi isolato. Ha previsto persino le reticenze del suo re, Guglielmo I, il quale non desidera una guerra che lo opponga alla casa degli Asburgo, alla quale lo uniscono troppi legami personali e famigliari.

Bismarck si assicura innanzitutto la neutralità di Napoleone III. È indispensabile, per lui, impedire una coalizione franco-austriaca alla quale gli eserciti prussiani non resisterebbero. Le cose gli vanno bene. Napoleone III non intende farsi coinvolgere in un eventuale conflitto austro-prussiano. Ritiene che se ci sarà una guerra, questa sarà lunga e difficile e che, quando i due campi si saranno indeboliti, potrà facilmente proporre una sua mediazione.

Inoltre Bismarck può contare sulla benevola neutralità della Russia. San Pietroburgo non ha dimenticato di essere stata piantata in asso dall’Austria durante la guerra di Crimea; i russi non faranno nulla per appoggiare Francesco Giuseppe. L’Inghilterra, dal canto suo, diffida di Bismarck e delle sue mire espansionistiche. La figlia della regina Vittoria ha sposato il principe ereditario di Prussia e la potenza britannica non ha i mezzi per intervenire sul continente. Anche sotto questo aspetto il cancelliere è tranquillo. Bismarck, infine, conta su un’alleanza italiana. Casa Savoia, con Vittorio Emanuele II, vuole l’unità d’Italia, come la casa di Prussia, con Guglielmo I, vuole quella della Germania. Hanno un avversario comune, l’Austria. Si può sperare di vincerla attaccandola su due fronti, a nord con i prussiani, a sudovest con gli italiani.

L’8aprile1866 Bismarck induce Vittorio Emanuele firmare un trattato, la cui validità è limitata a una durata di tre mesi, il che dimostra le intenzioni del prussiano: deve fare modo che la guerra sia dichiarata entro il termine previsto. Francesco Giuseppe cerca di disinnescare il conflitto attraverso la diplomazia. Ma suo malgrado, le cose si aggravano. Napoleone III approfitta della situazione per esigere dall’Austria l’abbandono del Veneto in cambio della neutralità francese. Tuttavia il sacrificio e le condizioni del sacrificio sono quantomeno insopportabili, e oltretutto inutili. Se per l’Austria la magnifica provincia e la sua Serenissima sono perdute per sempre, questo abbandono si verifica troppo tardi, perché l’Italia è ormai legata alla Prussia dal trattato dell’aprile 1866. Si giunge a una situazione assurda: l’Italia si impegnerà nella guerra per ottenere la regione veneta che le spetta.

Il 29 giugno Elisabetta lascia i suoi bambini a Bad Ischl e fa ritorno a Vienna. La guerra è ovunque. In Baviera i suoi fratelli sono mobilitati. In Prussia Kossuth si prepara ad arruolare una legione ungherese contro l’Austria, come aveva fatto in Italia durante la guerra del 1859. Francesco Giuseppe non prende il comando militare e nomina due capi supremi: il generale Benedek per il fronte settentrionale e l’arciduca Alberto per il fronte meridionale, quello italiano. Benedek è famoso per il suo coraggio, ma non è uno stratega. Tormentato da dubbio, raggiunge in Boemiail suo immenso esercito composto da più di duecentomila uomini. Egli sa, senza dubbio, che i soldati prussiani, pur essendo meno numerosi, sono molto meglio equipaggiati. Il loro nuovo fucile ad ago rischia di provocare danni. Sicchè Benedek si chiude in una posizione di difesa, preoccupandosi soprattutto di non lasciar tagliare le sue linee di comunicazione con Vienna. Il colonnello Beck fa la spola tra Francesco Giuseppe alla Hofburg e Benedek, nei pressi di Olmϋtz. L’imperatore si preoccupa della passività del suoi comandante in capo, che costringe gli stati tedeschi a combattere la Prussia in ordine sparso. I prussiani hanno già invaso la coraggiosa Sassonia, i cui eserciti abbandonano al nemico il loro paese per raggiungere Benedeck in Boemia. La Baviera, sempre recalcitrante, rifiuta di fare altrettanto.

Il 26 giugno tre eserciti prussiani penetrano in Boemia provenienti da punti diversi. Anche il colonnello Beck si lascia prendere dal pessimismo e porta all’imperatore il messaggio di un Benedek disperato. Al limite, Francesco Giuseppe ammette la ritirata, ma rifiuta la pace a condizioni tanto deplorevoli. Benedek interpreta la risposta di Francesco Giuseppe come un appella a dar battaglia. Ciò avverrà il 3 luglio, a nord della cittadina di Königgrätz, nel villaggio di Sadowa. L’esercito austriaco batte in ritirata in condizioni spaventose. Francesco Giuseppe non si dà per vinto. Conta di riportare sul fronte settentrionale l’esercito d’Italia. Forte della sua vittoria di Custoza, questo ristabilirà l’equilibrio delle forze presenti, saprà galvanizzare gli spiriti. Contemporaneamente sostituisce Benedek con l’arciduca Alberto. Francesco Giuseppe spera ancora in un aiuto da parte della Francia, poiché anch’essa dovrebbe temere un’egemonia prussiana. Invia i suoi emissari a Parigi, ma Napoleone III non si lascia convincere. Solitamente tanto abile, valuta male le ambizioni di Bismarck e ritiene che senza fare nulla riuscirà a trarre vantaggio dalla situazione. Secondo lui, alla fine della guerra, la Germania rimarrà divisa in due, da una parte gli stati settentrionali, dall’altra quelli meridionali. Punta su un aggravarsi delle divisioni; quattro anni più tardi quest’errore gli sarà fatale. Il 13 luglio Elisabetta riparte per Buda con i figli.

Andràssy consegna all’imperatore un progetto di rimpasto dualista della monarchia. Viene così definita l’esistenza di due stati differenti, uniti all’interno dell’Impero, l’Austria-Ungheria. Com’è nelle sue abitudini, Francesco Giuseppe prende atto e non promette nulla. Non si tratta solo di indecisione da parte sua; bisogna ammettere che ha altri problemi da risolvere. L’armistizio ha messo fine alle battaglie, così l’Ungheria corre meno rischi a sollevarsi contro l’Austria. Elisabetta è finalmente venuta trovare il suo "piccolo uomo". L’incontro non mantiene le promesse. Appena arrivata, l’imperatrice ne approfitta per ricevere Andràssy.

Tuttavia Francesco Giuseppe non manca di rimproverare alla moglie tanta premura nel momento stesso in cui si dimostra così distante nei suoi confronti. Elisabetta replica condannando le esitazioni politiche di lui che, a suo avviso, non trovano alcuna giustificazione. La Germania è perduta, non resta che salvare il salvabile, vale a dire l’Ungheria. Due giorni dopo queste discussioni, Elisabetta riparte per Buda.

Nel corso dell’inverno 1866-67 Elisabetta si sforza di non cedere alla sua insaziabile smania di viaggiare. Il suo posto, fino alla firma del compromesso con l’Ungheria, è a Vienna. La soluzione sembra vicina, non è il momento di abbandonare la partita.

Il 18 febbraio 1867 Andràssy è nominato primo ministro di Ungheria. Il Compromesso del 1867 consacra l’unione ereditaria dei due stati sovrani in seno a una stessa monarchia. Francesco Giuseppe non regnerà più a Buda, quale imperatore d’Austria, ma quale re d’Ungheria.

Per l’arciduchessa Sofia l’Impero si decompone. Non accetta l’esistenza di un impero austro-ungarico. All’altro capo del mondo, Massimiliano, ingaggiato da Napoleone III come governatore del Messico, è in pericolo. La Francia nel ritirare dal Messico il suo corpo di spedizione, ha consigliato all’arciduca di abbandonare la partita e di tornare in Europa sotto scorta francese. Massimiliano esita, anche sotto consiglio della moglie Carlotta di Sassonia-Coburgo. Lei gli ingiunge di rimanere. Rimanendo, Massimiliano sceglie la morte.

Massimiliano muore a Querétaro il 19 giugno 1867. Francesco Giuseppe ed Elisabetta ricevono il telegramma a Ratisbona, dove sono andati ad assistere ai funerali del loro cognato, il marito di Elena.

Ancor prima di nascere, il quarto figlio di Elisabetta suscita una polemica. Gli ungheresi si augurano ardentemente che il nascituro sia maschio. Elisabetta ha promesso che, in tal caso, si sarebbe chiamato Stefano, dal nome del santo patrono dell’Ungheria. Il parto avviene a Buda-Pest, il 22 aprile 1868. nasce una bimba alla quale viene dato il nome di Maria Valeria. Se gli ungheresi si confessano delusi, Elisabetta non condivide il loro sentimento. La piccola è il suo amore, il suo tormento, la sua ossessione. Maria Valeria è il frutto della riconciliazione di Elisabetta e di Francesco Giuseppe.

Nell’autunno del 1867 Francesco Giuseppe si reca a Parigi per l’Esposizione universale. La Francia e l’Austria si sono ravvicinate, anche se un po’ tardi.

Nel giugno del 1870, quando l’imperatrice giunge a Bad Ischl, si parla di un possibile conflitto tra la Francia e la Prussia. È proprio in questa località che nel 1866, solo cinque anni prima, ha appreso l’inizio di un altro spaventoso massacro.

Il 18 luglio 1870 Francesco Giuseppe riunisce il Consiglio della corona per decidere la posizione dell’Austria-Ungheria. Tutti i partecipanti, imperatore compreso, sperano nella vittoria della Francia, ma nessun trattato li lega all’Impero francese. Cosa più grave, la Russia fa sapere che se Francesco Giuseppe uscirà dalla sua neutralità, interverrà a fianco di Bismarck. Quest’ultima minaccia rafforza la posizione di Andràssy in seno al Consiglio della corona. È ungherese, ha dunque dei buoni motivi per temere il vicino russo. Inoltre, non desidera una restaurazione dell’influenza austriaca in Germania, cosa che metterebbe in pericolo il Compromesso austro-ungarico. Francesco Giuseppe decide di non fare nulla. Dopo qualche successo francese, il 1ºsettembre 1870 a Sedan l’Impero di Napoleone III crolla. La Prussia domina l’Europa e il 4 settembre la Francia precipita nella repubblica.

Nel marzo del 1871 Elisabetta ritorna da Gödöllö. I suoi amici Deàk e Andràssy sono venuti ad augurarle buon viaggio alla stazione ferroviaria di Pest. Alla regina viene presentata una donna, la contessa Maria Festetics, molto intelligente e molto fedele alla causa ungherese. Elisabetta ha compreso immediatamente che la sua nuova dama d’onore sarebbe stata diversa da Ida, e non è il caso di confondere gli incarichi. Alla dolce Ida vanno le confidenze, le tenerezze, le effusioni. Davanti a lei la regina può mostrarsi qual è, con le sue debolezze e il suo orgoglio, con i suoi capricci e la sua disperazione sempre latente. Con Maria Festetics le conversazioni si basano su una fiducia, una stima reciproca. Due intelligenze si affrontano su un piano di parità. La dama d’onore sa discutere, opporre il proprio punto di vista a quello di Elisabetta. Con l’arrivo di Maria Festetics la cerchia ungherese si raccoglie intorno a Elisabetta. La sua vittoria sembra completa quando, nel novembre del 1871, Francesco Giuseppe nomina Andràssy ministro degli affari esteri per l’Austria-Ungheria.

Elisabetta non ha la passione della politica. Se si è accesa di entusiasmo per la causa ungherese, il suo ardore era più sentimentale che politico: si è riconosciuta in quel paese che teneva testa a Vienna e ne ha fatto la sua patria di elezione.

Ai suoi altri malanni, l’arciduchessa aggiunge ora una polmonite.

Il 16 maggio Elisabetta giunge ansante al capezzale di colei che fu la sua nemica, la cui vita è ora un lume prossimo a spegnersi. Alla vecchia dama non sarebbe piaciuto andarsene senza averle detto addio, anche se non prova alcun rimorso nei riguardi della nuora.

L’arciduchessa si spegne solo il giorno dopo, alle tre e mezzo del mattino. L’imperatore, è distrutto dal dolore. Ha perduto l’altra donna che amava, colei che gli ha dato la vita e il trono, colei che ha voluto solo la sua felicità e la sua gloria. Colei che aveva fatto proprio il motto della Casa d’Austria:

 

A E I O U

Austria Est Imperare Orbi Universo

Comandare il mondo spetta all’Austria

Epitaffio per un’arciduchessa defunta

Elisabetta ha trentacinque anni, Francesco Giuseppe ne ha quarantadue, e già la loro figlia si sposa. Elisabetta deplora questa precipitazione, tenta di far ragionare Gisella. Ciò non perché voglia mostrarsi possessiva, Gisella era molto più figlia dell’arciduchessa che sua, e inoltre madre e figlia sono troppo diverse per sentirsi legate, ma Elisabetta pensa alla propria giovinezza, tanto presto interrotta. Tuttavia non sarebbe carino da parte sua insistere. Gisella non cerca forse altrove ciò che sua madre non ha saputo darle? Del resto, Elisabetta si mostrerà più risoluta quando si tratterà di trattenere Maria Festetics.

Quando Gisella lascia Vienna al braccio del marito, Rodolfo soffre moltissimo. Sono stati entrambi allontanati dalla madre e cresciuti dalla nonna. La sensibilità del ragazzo è stata ferita dai maltrattamenti inflittigli dal suo primo precettore. Sempre sorvegliato, sempre solo, Rodolfo oscilla tra emotività e violenza. Idolatra la madre, ma la minima osservazione di lei lo paralizza. Decisamente Gisella non perde tempo, e l’8 gennaio 1874 Elisabetta è nonna.

Nel 1874 Elisabetta riceve il più bel regalo che una zigana possa ricevere. Dalla Bosnia giunge una vettura che lei può far agganciare al suo treno speciale o ai rapidi internazionali.

Il 28 luglio 1874 Elisabetta inaugura la sua carrozza, facendo rotta verso occidente. Prima tappa: Strasburgo, a quell’epoca città tedesca. Poi il treno riparte con tutti i suoi occupanti e senza fermarsi, attraversa la Francia.

A Vienna Elisabetta non ha occupato il posto lasciato vacante dall’arciduchessa Sofia. Da quando ha ottenuto ciò che desiderava per l’Ungheria, non interviene più in politica. A corte un partito ceco milita in favore dell’incoronazione dei sovrani a Praga e di una trasformazione del Dualismo in una federazione più vasta, dove agli slavi verrebbero riconosciuti i loro diritti, come sono stati riconosciuti quelle dei magiari.

Nell’estate 1875 muore a Praga l’ex imperatore Ferdinando, che aveva abdicato in favore di Francesco Giuseppe, suo nipote. Nomina lo stesso suo nipote erede universale.

Estate 1875. Il medico consiglia per la piccola Maria Valeria l’aria di mare e i bagni. Ciò soddisfa i desideri della madre almeno quanto quelli della figlia. L’imperatrice sceglie la Normandia.

Elisabetta non vuole permettere al proprio corpo di riposarsi. Alla minima negligenza, al primo segno di cedimento tutto l’edificio rischierebbe di crollare in maniera irreversibile.

Il 31 gennaio 1876 muore Deàk, il simbolo stesso dell’Ungheria. Sconvolta, Elisabetta si inginocchia piangendo davanti alla sua spoglia. L’uomo politico era suo amico, per tutta la vita terrà la fotografia di lui accanto al proprio letto.

La disgregazione dell’Impero ottomano segna la fine del XIX secolo. Con l’avvento dei nazionalismi, i cristiani dei Balcani non sopportano più la dominazione del sultano. Andràssy non desidera affrettare la sconfitta turca perché ciò rafforzerebbe l’influenza slava in Europa. Certo, a San Pietroburgo i russi non sono dello stesso avviso. Gli ideologi del panslavismo non hanno mai accettato che gli slavi russi fossero separati dai loro simili, gli slavi del sud a opera di altri popoli, tra i quali i magiari. Andràssy, prudente, non vuole intervenire nella zona ad alto rischio dei Balcani. Per contro, molti ufficiali dell’impero austroungarico, che sono di origine serba o croata, sono ansiosi di passare all’azione. Nel 1875 Francesco Giuseppe ha voluto dimostrare che comprendeva la loro impazienza recandosi in Dalmazia nel momento stesso in cui la provincia vicina, la Bosnia-Erzegovina, era sul punto di ribellarsi ai turchi. I bosniaci hanno visto in questo gesto un segno di incoraggiamento.

Nell’estate 1875 la Bosnia-Erzegovina si infiamma; nell’aprile del 1876 è la volta dei paesi bulgari. Nel luglio 1876 la Serbia e il Montenegro dichiarano guerra agli ottomani, e ben presto la Russia si impegna nel conflitto a fianco della Serbia. Per garantirsi la benevola neutralità di Francesco Giuseppe, la Russia conclude con lui un accordo segreto. Senza dover combattere, l’Austria-Ungheria riceverà la sua parte dei bottini di guerra dei turchi, e le sarà restituita la Bosnia-Erzegovina. Inoltre, la Russia si impegna a non creare un grande stato slavo dominato dalla Serbia.

Nei tre anni successivi Elisabetta trascorre il mese di febbraio e una parte di marzo in Gran Bretagna. L’Irlanda l’accoglie di nuovo nel 1880, ma nel 1882 deve accontentarsi dell’Inghilterra, onde evitare un conflitto con la regina Vittoria. Il mattino del 10 marzo 1880 riceve un telegramma all’hotel Claridge di Londra. Rodolfo si è fidanzato con la principessa Stefania del Belgio. L’imperatrice appare abbattuta, avrebbe preferito per il figlio un matrimonio d’amore e questo non ha davvero l’aria di esserlo. Sulla via del ritorno Elisabetta si ferma a Bruxelles per conoscere la sua futura nuora. Non vuole assolutamente ripetere il comportamento della propria suocera, comportamento che l’ha fatta tanto soffrire durante i suoi primi anni di matrimonio. Il matrimonio di Rodolfo e Stefania ha luogo il 10 magio 1881.

Nel 1884 Elisabetta è colpita da una grave forma di sciatica. Non volendo darsi per vinta cerca di ignorare il dolore continuando i suoi esercizi quotidiani. Il dottor Metzger non nasconde il proprio pensiero all’illustre paziente e le annuncia senza mezzi termini che il suo stato è grave. Se non seguirà una terapia di cui non si può garantire i risultati, l’imperatrice rischia di diventare un’invalida. Se non rinuncerà alle sue diete aberranti, all’astinenza alimentare, entro poco tempo si ritroverà prematuramente vecchia e piena di rughe.

Nel frattempo, a Vienna, Maria Valeria, che ha ormai quindici anni, si avvicina al padre. La madre si è dimostrata così possessiva che Francesco Giuseppe non ha mai osato inserirsi nella loro intimità. Manifestando un primo segno di indipendenza, Maria Valeria chiede al padre di potersi rivolgere a lui in tedesco.

I dolori di Elisabetta persistono anche dopo le cure, ma ora si nutre meglio, il suo volto è meno emaciato.

Dopo Andràssy le fantasticherie amorose di Elisabetta si fanno sempre più eteree.

Nel 1883 il Burgtheater ingaggia Katharina Schratt. La compagnia teatrale di cui fa parte, la più illustre dell’Austria-Ungheria, alla celebrità dei saltimbanchi unisce il privilegio di essere una proprietà della casa imperiale e reale.

La tradizione vuole che ogni nuovo attore sia presentato all’imperatore e che lo ringrazi della propria nomina. Quando giunge il turno di Katharina Schratt, la prassi si trasforma in divertimento, poiché la graziosa Katharina non è indifferente all’imperatore. Un tempo, la scoperta avrebbe ferito Elisabetta. Oggi la intenerisce.

Elisabetta sa che suo marito è troppo legato a lei per tentare la fortuna presso quest’attrice. Ma non importa, sarà l’imperatrice a sostenere la parte del piccolo dio Amore. Elisabetta sembra soddisfatta, la sua iniziativa ridona un po’ di gioia all’imperatore. Quanto a lei, la sua sciatica ha ripreso a farla soffrire. I dolori non sarebbero nulla, se in ogni crisi lei non ravvisasse il segnale premonitore della vecchiaia.

Elisabetta si sente abbandonata. La sua giovinezza se n’è andata e presto se ne andrà anche sua figlia. I pretendenti non le mancano. Non solo, pare che Maria Valeria abbia scelto l’arciduca Francesco Salvatore, un Asburgo appartenente al ramo toscano.

Il matrimonio di Rodolfo non è malriuscito, è catastrofico. La nascita di una figlia non ha affatto aggiustato le cose. La piccola, naturalmente, è stata battezzata col nome di Elisabetta. Rodolfo si stordisce con amori assai poco principeschi e soprattutto, i suoi medici hanno usato la morfina per curare le violente nevralgie di cui soffriva. Il male che lo ossessiona ha invaso la sua mente.

Nel mese di giugno del 1886 Elisabetta ritorna in riva al lago di Starnberg, dove ha notizia della malattia di Andràssy e, tramite il barone Nopcsa, scongiura l’amico di farsi curare nel migliore dei modi.

Nell’ autunno del 1888 il gabbiano spiega le ali in direzione di Corfù e va ad abitare a Gastouri, in una bella casa dalla terrazza irradiata di blu cobalto.

Il 12 novembre le giunge un telegramma. Suo padre ha avuto un attacco di apoplessia. L’imperatrice si prepara a partire per la Baviera quando un altro telegramma, inviato personalmente da Francesco Giuseppe, la informa che è troppo tardi. Il duca Max si è spento all’età di ottant’anni. Nello sfavillio dell’autunno, Elisabetta riveste i suoi abiti da lutti, senza sapere che non li smetterà più.

Maria Valeria, concepita dopo l’incoronazione di Budapest, sembra votata all’Ungheria ancora prima di nascere. Intorno a lei tutto è magiaro, le nutrici, le ninnananne, i pony, le leggende, le parole, le musiche, sua madre e le amiche di sua madre; la chiamano "la figlia ungherese dell’imperatrice". La diceria vuole che sia figlia di Andràssy, e gli ungheresi incoraggiano queste calunnie, lusinghiere per la loro virilità. La diceria persiste a lungo, muore solo uccisa dall’evidenza. Maria Valeria assomiglia al proprio genitore come nessun’altra figlia potrebbe assomigliare al padre.

Il matrimonio di Rodolfo è un fallimento privato e dinastico. Nella coppia non solo manca l’amore, ma persino la fiducia o la semplice compassione. La nascita della piccola Erzsi è stata difficile, e Stefania non può mettere al mondo altri figli. Per Rodolfo la situazione non è più brillante. Dalla primavera del 1887 soffre di violenti disturbi nervosi, di dolori alle articolazioni e agli occhi. Senza dubbio la sifilide è all’opera, e il principe ereditario la combatte con dosi sempre più abbondanti di morfina.

Il giorno di Capodanno l’imperatrice parte per Monaco. Rodolfo rivede la madre per la prima volta dopo la morte del padre. Durante la sua assenza i rapporti tra Francesco Giuseppe e Rodolfo si guastano. Il principe ereditario ha chiesto al papa l’annullamento del suo matrimonio e gli è stato rifiutato. L’imperatore crede che a spingerlo a questo gesto sia la sua nuova amante, e alla Hofburg si sentono le grida dei due uomini che litigano.

L’ultima follia di Rodolfo si chiama Maria Vetséra. Ha diciassette anni, le malelingue affermano che già sua madre sia stata l’amante di Rodolfo e che ha saputo preparare la figlia a un destino simile. La madre è un’arrivista, una sguadrina, ma la figlia non ha il tempo di diventarlo. È rimasta folgorata dall’amore di un principe depravato e affascinante.

Tuttavia Rodolfo trascorre l’ultima notte precedente al dramma, la notte del 28 gennaio, tra le braccia dell’accogliente Mitzi Kaspar.

Mitzi, che ha rifiutato il suicidio, rappresenta la vita, mentre Maria Vetséra rappresenta la morte.

Elisabetta è tornata dalla Baviera. Il 29 luglio ha luogo un pranzo di famiglia. All’ultimo momento Rodolfo si fa scusare, ma preferisce trascorrere la notte a Mayerling per partecipare il mattino dopo alla grande caccia.

Mercoledì 30 gennaio 1889. alla Hofburg Elisabetta legge Omero con il suo professore di greco e a un tratto, nel vano della porta, appare Ida Ferenczy. Il suo viso è sconvolto. Dice che il barone Nopcsa chiede di essere ricevuto dall’imperatrice. Prima che il barone lo abbia realmente detto, Elisabetta sa che Rodolfo è morto. Lei è la sofferenza, completa e muta. Dunque quel figlio, quell’unico figlio non sarà mai suo. La prima volta le è stato strappato dall’arciduchessa Sofia, la seconda dalla morte.

Quando Maria Valeria sopraggiunge, le lacrime che Elisabetta ha trattenuto cominciano finalmente a scenderle sulle guance.

Elisabetta singhiozza, e la sua bambina ormai grande viene a rannicchiarsi sulle sue ginocchia.

L’imperatore ignora le circostanze dei due decessi, quando spedisce i primi telegrammi, i quali parlano in fatti di crisi cardiaca di embolia. Era necessario suggerire una spiegazione e l’imperatore non ne ha. Prostrato dal destino, crede di mettere in evidenza l’implacabile volontà divina parlando di malattia e di arresto cardiaco. Inoltre, ciò gli permette di salvare la memoria di Rodolfo e di passare sotto silenzio la presenza di Maria Vetséra. Nessun adulterio, nessun delitto, e soprattutto nessun suicidio.

A Mayerling sono state trovate tre lettere. Due di esse sembrano essere state scritte prima della notte fatale, il che tenderebbe a provare che questa doppia morte non aveva nulla di improvvisato: una è destinata alla principessa Stefania, moglie di Rodolfo, l’altra a Maria Valeria, sua sorella. Solo la terza lettera sembra essere stata scritta nella stanza del padiglione di caccia, e forse in quel momento Maria Vetséra era già morta. Rodolfo rivolge le sue ultime parole alla madre. Senza dubbio Rodolfo vuole aprire il cuore alla madre, per la prima ed ultima volta. Le parla del suo amore e della sua gratitudine. Mentre si prepara a morire, le confida di non aver osato rivolgersi al padre, l’imperatore, poiché sapeva molto bene di non essere degno di essere suo figlio. Chiede alla madre che quell’ "angelo di purezza", Maria, sia sepolta con lui nel cimitero dei Cistercensi, a Heiligenkreuz, nei pressi di Mayerling. Senza di lei, non avrebbe avuto il coraggio di affrontare la morte.

Quando la lettera raggiunge Elisabetta è troppo tardi per esaudire l’ultimo desiderio di suo figlio. I due amanti sono già stati separati.

L’ipotetica follia di suo figlio colpisce Elisabetta in modo viscerale. La demenza, la stravaganza, la malinconia, lo strazio oscuro vengono da lei, dal sangue avvelenato dei Wittelsbach. Lei ha trasmesso al figlio l’antica maledizione. Ha ignorato la follia di Rodolfo, la disperazione dell’essere che le era più vicino, il suo bambino, suo figlio, il suo doppio. Dopo averlo contaminato, non ha saputo curarlo, comprenderlo, proteggerlo.

Andràssy si è messo in viaggio per Vienna appena ha appreso la morte di Rodolfo. Non vede Francesco Giuseppe da quando ha lasciato il ministero degli Affari esteri, ma continua a corrispondere con Elisabetta tramite il barone Nopcsa, suo amico. Rodolfo ammirava in Andràssy l’uomo e il politico. Durante la sua prima giovinezza, al tempo degli entusiasmi, ne aveva fatto il suo maestro di pensiero. Andràssy è afflitto da questa morte brutale, anche perché nutriva il più vivo affetto per il giovane principe, magiaro nel cuore come sua madre, e dal quale l’Ungheria si attendeva molto.

Un anno dopo Rodolfo, il 18 febbraio 1890, Andràssy muore per un cancro alla vescica.

Alcune settimane più tardi, a Ratisbona, Elena, la sorella di Elisabetta, muore tra le sue braccia dopo un’interminabile agonia.

In diciotto mesi Elisabetta ha perduto suo padre, suo figlio, l’uomo che amava e la sorella prediletta.

Acconsentendo al matrimonio della figlia, Elisabetta l’ha perduta. Se non altro Maria Valeria è felice. Le nozze sono state celebrate a Ischl nella più stretta intimità.

Con Maria Valeria più nulla sarà come prima. A Ischl, quando al termine della serata giunge la carrozza ornata di nontiscordardimé e azalee, che deve condurre via sua figlia e il giovane marito di questa, la madre troppo possessiva si sente immersa di nuovo nel lutto. ormai ha perduto tutti i suoi figli.

Dopo la morte di Rodolfo, Elisabetta ha rinunciato per mesi ai suoi viaggi, con la sua presenza ha voluto lenire la sofferenza del marito. Ma Francesco Giuseppe riesce meglio di lei a superare la propria crisi interiore.

Subito dopo il matrimonio di Maria Valeria, Elisabetta sente il desiderio di ripartire. Sua figlia non ha più bisogno di lei. Quanto a Francesco Giuseppe, essa non può offrirgli la gioia, la serenità di cui ha bisogno.

L’Imperatore fa sempre meno mistero dei suoi rapporti con l’attrice. Lungi dal sentirsi offesa o indispettita, Elisabetta pensa che la sua morte renderebbe suo marito ancora più libero. Elisabetta non ha mai mangiato volentieri, ora ha perduto il poco appetito che le restava.

La si vede apparire un po’ ovunque con i suoi veli neri: a Oporto, Lisbona, Gibilterra, Orano, Algeri, Tunisi, Ajaccio, Napoli, Pompei, Firenze, Corinto, Atene, il Cairo, Valenza, Granada, Siviglia, Maiorca, Genova, Milano, il lago di Como, Madera, e poi di nuovo Algeri…

Luigi Lucheni ha venticinque anni. Sua madre era italiana e lavorava in qualità di bracciante nelle piccole fattorie della Liguria. Rimasta incinta a diciotto anni, parte a piedi per Parigi. In quel luogo nessuno la conosce e partorisce in un ospedale della città. Appena può lasciare il letto fugge, abbandonando il suo bambino, e riesce a imbarcarsi per l’America dove si perdono le sue tracce.

Il piccolo Luigi trascorre il primo anno di vita tra i trovatelli dell’ospedale Sant’Antonio, poi viene inviato in un nido d’infanzia nel suo paese d’origine, a Parma. A partire dai nove anni lavora come impiegato nella linea ferroviaria Parma- La Spezia. Il ragazzo si rivela intelligente e lavoratore. Tuttavia a diciotto anni, privo di qualsiasi legame familiare, sceglie l’avventura. Si fa ingaggiare qua e là per guadagnare il necessario per spostarsi, il più delle volte a piedi, da Parma al Ticino, poi da Ginevra a Trieste. La polizia lo riporta fino in Italia dove deve compiere il servizio militare. Partecipa con il suo capitano, il principe di Aragona, alla campagna in Abissinia. Si dimostra un ottimo cavaliere tanto che il principe lo prende sotto la sua protezione e quando ritorna alla vita civile lo assume in qualità di cameriere. Ambizioso e indipendente, il giovane non è fatto per questo lavoro, e ben presto il principe se ne rende conto. Lucheni chiede un aumento di salario, il principe rifiuta, e il cameriere ne approfitta per abbandonare il suo servizio. Qualche giorno più tardi se ne pente e chiede di essere riassunto. Convinto che Lucheni possa fare di meglio, il principe non si lascia commuovere ma gli rinnova la sua stima. Ricomincia la vita errabonda. Dove andare, se non in Svizzera?

Elisabetta giunge in Svizzera il 30 agosto. Risiede a Terrier, nei pressi di Montreux.

Lucheni ha appena visto passare il valletto carico di bagagli a mano; l’imperatrice non deve essere lontana. Alla partenza del battello mancano uno o due minuti. Ecco le due donne che arrivano. Si affrettano, attraversano la banchina, procedono lungo il parapetto. Quella che interessa Lucheni è la più alta. Con l’ombrellino. Deve essere rapido come una freccia. Se per disgrazia lei lo vedesse avanzare, potrebbe trarsi in disparte, e in tal caso lui correrebbe il rischio di mancare il cuore. Ecco, è il momento buono. Lucheni si precipita in avanti. Le due donne, sorprese, si fermano di colpo per lasciarlo passere. Lucheni si blocca davanti alla contessa Sztàray. Sembra aver fatto un passo falso ma poi, con la manop destra sollevata, balza contro l’imperatrice colpendola all’altezza del petto. Lei cade all’indietro, la massa della sua capigliatura attutisce l’urto del capo contro il suolo. La contessa, spaventata, emette un grido mentre l’uomo si dà alla fuga.

Un cocchiere le soccorre. Aiuta Elisabetta a rialzarsi. Sul volto di lei, dalla carnagione tanto chiara, all’altezza degli zigomi sono apparse due macchie rosse. Con la mano cerca di rassettarsi i capelli.

La contessa l’afferra per la vita, ma non riesce a impedirle di accasciarsi su se stessa. Il battello è salpato. Sulla banchina il portiere dell’hotel Beau Rivale grida in direzione delle due donne: "L’aggressore è stato arrestato". Elisabetta ha perduto i sensi. Si cerca un medico, ma a bordo no ce ne sono e sopraggiunge un’infermiera seguita dal capitano del battello che ignora l’identità della malata.

La contesa slaccia il busto fin sotto al petto, per permettere all’infermiera di effettuare un massaggio cardiaco, ed è a questo punto che, sotto la camicia di batista lilla, scopre una macchia color marrone. Da un minuscolo foro, la firma lasciata dal punteruolo di Lucheni, esce una sola goccia di sangue. "L’hanno assassinata!".

Nel frattempo Lucheni viene fermato da un passante e da un gendarme. Si dibatte appena, e viene riaccompagnato sotto scorta all’albergo dove il proprietario, il signor Mayer, gli assesta un pugno in piena mascella. I presenti riescono a fatica acontanere la rabbia di un cliente, un giovane barone austriaco che voleva punire l’aggressore dell’imperatrice. Non si sa ancora cosa sia realmente successo. Lucheni, nella fuga, ha gettato l’arma, che sarà ritrovata molto più tardi. All’albergo si pensa che l’uomo si sia limitato a colpire l’imperatrice con un pugno e due gendarmi lo conducono al commissariato.

All’hotel di Beau Rivale l’imperatrice viene coricata sul letto della sua stanza. Sopraggiunge il medico, che esamina la piaga. Non c’è più speranza.

Un sacerdote le dà l’estrema unzione. Un secondo medico incide l’arteria nella parte interna del gomito. Il sangue non sgorga più.

ELISABETTA É MORTA

Nella fretta di aprirlo l’imperatore lo strappa: "Sua maestà l’imperatrice, appena deceduta". Si lascia cadere sulla poltrona, mettendosi a singhiozzare col capo tra le braccia. Lo si sente ripetere a diverse riprese: "Nulla mi è stato risparmiato su questa terra".

Elisabetta è morta il 10 settembre, di sabato, all’età di sessantun anni. Desiderava morire in mare, il suo desiderio è stato quasi esaudito. Il Lemano le sembrava più simile a un mare che a un lago.

Domenica 11 settembre tre medici legali procedono all’autopsia. Il punteruolo è penetrato quattro centimetri sopra la punta del seno sinistro, è affondato per ottantacinque centimetri attraversando il polmone e il ventricolo sinistro. Il sangue è colato goccia a goccia all’interno del pericardio. Dopo l’autopsia il corpo viene imbalsamato.

Nel corso dell’anno 1916 le forze dell’imperatore declinano, ma egli mantiene il suo ritmo di lavoro. Il 21 novembre viene coltola febbre alta e la figlia Maria Valeria, che è accanto a lui, sente che la fine del genitore è imminente. Alla sera, prima di addormentarsi, Francesco Giuseppe chiede al suo aiutante di campo di svegliarlo come sempre alle tre e mezzo del mattino. Sono senza dubbio le ultime parole del vecchio imperatore. Nella notte dal 21 al 22 novembre sua figlia e le persone che gli sono più vicine vengono a vegliarlo. Gli accessi di tosse interrompono appena il suo ultimo sonno, e certo egli non sospetta la presenza di coloro che sono al suo capezzale. Altrove, sta andando incontro una snella figura di donna, il suo volto sotto l’ombrellino bianco rifulge de luce e di grazia. È il suo amore, la sua compagna, l’assente infine ritrovata. Elisabetta aveva previsto il peggio, e il peggio si è verificato. Aveva cantato la fine dei mondi, e l’Europa agonizza. Mai più il galoppo dei lipizzani porterà lontano la fuggitiva. Lui non è più un imperatore, lei non è più un’amazzone. Giacciono entrambi nella Cripta dei Cappuccini, accanto a Rodolfo.

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