Prima parte del libro

Elettrodomestici spaziali: viaggio nell'immaginario fantascientifico degli oggetti d'uso quotidiano

autore Fabrizio Carli

diritti Castelvecchi Edizioni

2000


Elettrodomestici e destinazione d'uso


Capitale Ergonomico: la biosfera


(1) La funzione dell'oggetto che ho dinanzi è alquanto incerta: riconosco un cilindro plastico ed un pulsante. Quest'ultimo mi suggerisce la natura elettromeccanica dell'oggetto in questione: lo premo ed un motore nascosto inizia a scaldarsi. Le eliche poste nella cavità dell'oggetto cominciano a girare, generando un moto d'aria dal centro del cilindro. Potrei servirmi di quest'aria per asciugare delle parti del mio corpo? No. Si dà infatti il caso che l'elettrodomestico da me azionato non sia un asciugacapelli ma un frullatore. Evidentemente sto interpretando in maniera errata la DESTINAZIONE D'USO di quest'oggetto.

Lo spazio d'incertezza interpretativa che può generarsi tra l'elettrodomestico e il suo utilizzatore è un ottimo punto di partenza per indagare la natura degli oggetti semiautomatici d'uso quotidiano. Accade di continuo nell'esperienza quotidiana di verificare l'ambiguità progettistica di oggetti elettromeccanici: ricordo, ad esempio, l'imbarazzo di un utente in età avanzata alle prese con il design di un apparecchio telefonico che integrava tutto il dispositivo elettrico entro una struttura a forma di cornetta. Questo dispositivo era dotato di un pulsante posto alla base dell'involucro in plastica che si premeva automaticamente, disattivando la comunicazione, se poggiato su una superficie piana. Al termine della telefonata, l'utente rimase interdetto dall'impossibilità di riporre nella tradizionale forcella quella che lui interpretava come un altrettanto tradizionale cornetta e per istinto intraprese la ricerca di un oggetto (il resto del telefono) che non esisteva ma a cui la conformazione dell'apparecchio rimandava.

Ambiguità di questo tipo sono parte integrante dell'evoluzione tecnica ed estetica degli elettrodomestici.

La conformazione di un oggetto elettromeccanico è frutto di un processo dinamico determinato dall'interazione di oggetti semiautomatici (recanti certe funzioni e attitudini [1] complesse impegnate nello sfidare più di una legge fisica) con un ambiente cognitivo mutevole. Nello specifico, la mutevolezza di quest'ultimo appare rilevante se letta nella sua modalità di consapevolezza dell'esistenza di un processo di proliferazione di oggetti semiautomatici al suo interno. Il risultato di tale interazione si concretizza nell'emergere di narrazioni che accompagnano (al modo di un'informazione genetica) l'elettrodomestico determinandone profilo evolutivo e parametri interni d'autoselezione. Questi ultimi sono organizzati secondo modalità tecniche (la fisica immanente all'oggetto per cui, ad esempio, una ventola senza pale non produce aria e ogni tentativo in questa direzione, per quanto oggi ne sappiamo, è destinato a fallire) e secondo modalità estetiche (la coerenza verso una estetica dominante: contagio e mimetismo).

In design che sottostà alla conformazione di un oggetto semiautomatico non è quindi il risultato di libere scelte da parte del progettista: esso è piuttosto il frutto di un'interazione tra l'oggetto e una certa configurazione dell'ambiente che produce linee tendenziali di sviluppo in sintonia negativa o positiva con le attitudini di un sistema semiautomatico.

Il caso precedente dell'utente alle prese con un telefono dai connotati ambigui, chiarisce come l'evoluzione di un oggetto semiautomatico non sempre assecondi le matrici cognitive di prefigurazione umana.


(2) Cosa accadrebbe se tutti i possessori di un frullatore decidessero d'utilizzarlo al posto di un asciugacapelli? In termini più generali, cosa accadrebbe al circuito di circolazione delle merci se il fenomeno del cambio di destinazione d'uso assumesse proporzioni rilevanti? In questo caso, una disciplina come l'ERGONOMIA SOCIALE e COGNITIVA [2] interverrebbe sugli elettrodomestici implicati (asciugacapelli e frullatore) al fine di ristabilirne l'originale destinazione d'uso. Con ogni probabilità, l'ergonomia cognitiva valuterebbe inappropriata la progettazione di questi elettrodomestici dal momento che essi hanno incoraggiato l'utente a farne un uso inadeguato e suggerirebbe ai progettisti un riesame dell'intera fisionomia dell'oggetto al fine di proporre dei vincoli d'uso (FUNZIONI DI SEGNALE) correttamente decodificabili. Ugualmente inappropriata è la possibilità di assicurare un cacciavite al perno rotante del motore di un frullatore così da ottenerne un improvvisato trapano elettrico. Sarà compito del progettista quello di rendere impossibile l'accensione del motore in assenza del contenitore sovrastante che, oltre a contenere l'alimento da frullare, cela la terminazione del motore a cui aderiscono le pale macinatrici. Si potrebbe osservare come, in questo caso, non si stia analizzando il corretto uso di un oggetto ma se ne stia valutando, piuttosto, la sicurezza affermando che la necessaria applicazione del contenitore al di sopra del vano motore concorra ad evitare pericolosi contatti tra l'utente ed un oggetto (la terminazione esterna del motore) operante ad alte velocità rotative. Ma come valutare allora l'architettura di un mescolatore ad immersione (ad esempio il Braun Minipimer) che presenta le lame in superfice e che altro non è se non il frullatore incontrato in precedenza che lavora in assenza di norme di sicurezza?

Non è mia intenzione negare un significativo sviluppo, peraltro evidente, in materia di prevenzione dei rischi nel campo della realizzazione d'elettrodomestici: nonostante ciò, al momento, mi propongo di dimostrare come la presenza di strategie di sicurezza entro un certo sistema d'oggetti sia solo in minima parte responsabile della configurazione di questi. Più in generale, è il caso di notare come la progressiva affermazione di norme, di segnali, di funzioni standardizzate entro lo spazio di usabilità di un oggetto risponda all'esigenza di stabilire un principio di realtà, ovvero alla necessità di confermare o di proporre l'inamovibilità di certi rapporti sociali mediante un ordine simbolico e una sequenza di operazioni d'utilizzo (che si traduce in un ordine mimico sull'utente) degli artefatti quotidianamente adoperati. L'ergonomia, da originaria scienza dello sforzo, è andata via via trasformandosi in disciplina sociale e cognitiva al fine di porsi come garante di questo ordine. Il suo campo d'intervento si realizza cognitivamente laddove, ad esempio, l'utente non decodifichi il corretto funzionamento di una porta scorrevole pretendendo di farla ruotare su di un perno. In questi casi l'ergonomia è chiamata a ripristinare una configurazione del reale violato da quell'utente che propone un'interpretazione alternativa e conflittuale dell'artefatto. L'ergonomia afferma, quindi, di occuparsi delle migliorie dell'artefatto in vista del suo uso da parte di un utente dalle fattezze antropomorfe. Per fare ciò essa si serve di un bagaglio di standard antropometrici (come ad esempio le impugnature sagomate antiscivolo o il riferimento a colori che rimanderebbero ad una naturale destinazione d'uso donna/uomo di un oggetto) che applica al fine di rendere l'oggetto meno opaco e immediatamente disponibile ad una corretta decodifica da parte dell'utente. L'utilizzo di un'impugnatura sagomata antiscivolo è, con ogni probabilità, necessaria per un oggetto che, a seguito dei frequenti spostamenti richiesti dal suo uso, potrebbe involontariamente sfuggire di mano (un ferro da stiro ad esempio). Ma allora perché l'impugnatura sagomata (prendiamo nel caso specifico una maniglia) è divenuta uno standard anche in oggetti stanziali come il frigorifero? Osservazioni come questa, di fatto, rendono problematico quello che l'ergonomia cognitiva individua come proprio campo d'intervento. In questo senso, l'apporto ergonomico (che tra le altre cose afferma di occuparsi d'interventi in vista della sicurezza dell'utente) non aumenta l'effettiva funzionalità di un artefatto ma si fa garante della presenza entro l'oggetto di codici di funzionalità che nel tempo si sono autoselezionati confermando, in ultima istanza, un'estetica della realtà. Dal momento che quella dell'ergonomia è una funzione «politica» di garanzia e di attribuzione di codici di funzionalità ad un sistema d'oggetti, il suo statuto, così come essa lo definisce, si disvela come ideologia. Di fatto, se accettassimo l'idea secondo la quale essa si occupa di disambiguare, di rendere visibile, una presunta naturale destinazione d'uso dell'oggetto, dovremmo convenire sul fatto che, ad esempio, un'impugnatura non sagomata sia difficilmente riconoscibile come artefatto con funzione d'impugnatura.

In generale, occorre chiedersi: come è possibile che un intero sistema d'oggetti costruito per uso terrestre da terrestri [3] necessiti d'essere sottoposto a verifiche rispetto ad un orizzonte antropologico? Sarebbe come dire che un asciugacapelli che non incorpora adeguate funzioni di segnale al fine di sottolineare efficacemente la propria destinazione d'uso non è leggibile come artefatto, mentre in realtà esso è semplicemente aperto ad una escursione più vasta d'usi. L'ergonomia quindi non si occupa affatto di interventi correttivi in materia di progettazione errata: l'oggetto che semplicemente non funziona non è di sua competenza. Le costrizioni che essa opera sono, invece, più sottili e insieme più profonde. Esse si rivolgono ad oggetti che funzionano in modo equivoco e che invitano l'utente a rimettere in discussione la configurazione del reale.

Il duplice compito dell'ergonomia consiste nel prevedere [4] e pianificare l'impatto di funzioni di segnale emergenti, in particolar modo, all'interno di un sistema di artefatti semiautomatici. Al contempo essa vigila sulla corretta applicazione di quelle funzioni già in opera confermando così all'utente, l'inamovibilità di certi rapporti sociali. Gli interventi «pedagogici» che l'ergonomia propone si realizzano immediatamente sulla fisionomia dell'oggetto. In realtà essi, proponendosi come rafforzamento di segnali e di norme, si rivolgono all'utente allo scopo di imporgli limiti di usabilità dell'oggetto. Sulla base di queste premesse diviene chiaro come l'ergonomia determini una costrizione dell'utente entro un range limitato e controllato d'opzioni d'uso. Questa restrizione ha il compito di socializzare l'utente alla funzionalità non sostituibile di un oggetto e tale operazione, fissa la concretezza e l'inamovibilità dell'esperienza del reale, pur realizzandosi, quest'ultima, come sceneggiatura arbitraria [5] di un sistema di dominio. E' infatti divenuto chiaro che l'ergonomia ha il compito di congelare certe configurazioni emergenti così da proporre un mutamento controllato della fisionomia degli oggetti. L'ergonomia non è quindi la garante super partes del riflesso dell'ordine antropologico sul sistema degli oggetti in quanto più sottilmente essa si presta a preservare, definendone limiti e specificità, questo ordine che rafforza inserendo un certo ordine di segni di funzionalità in oggetti per qualche ragione deselezionatisi dagli standard estetici predominanti in un dato momento.

Un frullatore usato come asciugacapelli non è un artefatto che funziona male quanto piuttosto un oggetto che tradisce le determinazioni coercitive della propria destinazione d'uso. Il non poco significativo fatto che quest'ultima disfunzionalità si innesti problematicamente sul mantenimento di certi rapporti sociali (disvelando l'arbitrarietà propria della destinazione d'uso e delle funzioni di segnale essa compromette, infatti, l'integrità e la credibilità del circuito di circolazione delle merci), ci condurrà a definire l'ergonomia in termini di «esercizio di potere».


(3) Il monitoraggio dell'ergonomia sui singoli oggetti è un'azione di tipo residuale che succede ad un processo d'autoselezione di funzioni di segnale compiuto dal sistema d'oggetti su se stesso procedendo alla saturazione e rimozione di pregresse configurazioni estetiche. Nel caso specifico degli oggetti elettrodomestici contemporanei, l'azione residuale si è resa necessaria a causa di una massa critica d'artefatti elettromeccanici e semiautomatici le cui attitudini sono andate evolvendo in direzioni diverse da quelle previste da una matrice cognitiva denominata «destinazione d'uso».

Come osserva Raffaella Poletti in un'analisi sul processo di elettrificazione della cucina: «L'acquisto e il consumo d'oggetti vengono caricati di significati che eccedono il valore d'uso» [6]. La reazione di carattere generale a questa eccedenza prenderà il nome di capitale ergonomico nella misura in cui quest'ultimo dispositivo ha funzionato da processo di valorizzazione di quelle funzioni di segnale candidate al recupero dell'eccesso di informazioni emesse dall'oggetto. Per comprendere come gli elettrodomestici abbiano potuto eccedere la propria destinazione d'uso occorre soffermarsi brevemente sul valore d'uso.

Jean Baudrillard muove una fondamentale critica all'antitesi marxiana tra valore d'uso e valore di scambio: «il valore d'uso ... proprio come l'equivalenza astratta delle merci è un rapporto sociale» [7]; «attraverso il valore d'uso ... il campo dell'economia politica diviene generale e si compie ... Ma occorre rendersi conto che il sistema del valore d'uso non è soltanto il raddoppio, la trasposizione o l'estensione del valore di scambio. Ne è in pari tempo la garanzia ideologica» [8]. Per Baudrillard, quindi, il valore d'uso è ancora, così come pensato da Marx, una mediazione ideologica che dissimula l'astrazione dei rapporti sociali attraverso una presunta irriducibilità dell'uso alla logica dell'equivalenza nello scambio. In altre parole, Marx sarebbe ancora portatore di una metafisica del valore d'uso: quest'ultima, a ben vedere, presenta interessanti analogie con il sedicente statuto delle attuali discipline ergonomiche.

All'inizio del XX secolo gli elettrodomestici hanno disvelato, eccedendola, l'ideologia che sorregge la simulazione del valore d'uso. Ciò è potuto avvenire proprio grazie a quel carico di surplus emozionale [9] a cui a accennato l'analisi proposta da R. Poletti. Nel concreto, l'attualizzazione di questo processo si realizzava, ad esempio, nel momento in cui, come ricorda Charles Panati a proposito del tostapane: «...molte delle famiglie più ricche ne installarono uno in ogni stanza da letto» [10], o ancora, in modo analogo riferendosi al frullatore: «la frenesia competitiva fece dei frullatori un simbolo di prestigio» [11]. Ma il discorso è generalizzabile per qualsiasi elettrodomestico: «Ciascun ambiente deve essere provvisto di numerose prese di corrente elettrica; la cucina, l'anticamera, il salotto, la sala da pranzo e persino la camera da bagno devono essere dotate di prese telefoniche, perché si possa rispondere alle chiamate da qualunque luogo» [12] .

Ai primordi della diffusione elettrodomestica questo sistema d'oggetti interagiva con un ambiente a basso controllo ergonomico producendo funzioni di segnale ambigue [13] (non ambigue sarebbero state quelle funzioni di segnale che avrebbero rimandato ad una collocazione del tostapane nella sola cucina) riconfigurandosi sotto forma di un'eccedenza di senso: di un surplus di informazioni che invitavano l'utente a ridefinire la destinazione d'uso del proprio elettrodomestico. Porre un tostapane in una stanza da letto significa, infatti, tradire una certa determinazione del valore d'uso e con essa dissimulare quell'ordine che spalleggia e fonda la necessità di un CIRCUITO DI CIRCOLAZIONE DELLE MERCI. Così, ad esempio, potrei utilizzare il calore emesso da un tostapane per aumentare la temperatura di una stanza (come avviene frequentemente con i forni nelle cucine poco riscaldate) o per riscaldarmi le mani, vanificando l'esistenza di altri elettrodomestici preposti a questo uso (stufe, scaldamani, scaldini, ecc.). Compito dell'ergonomia cognitiva è, in questo caso, quello di dissimulare queste equivalenze di funzioni stabilendo un ancoraggio tra la merce e una sua funzione specifica. Di fatto, l'ipotetica esistenza di una merce dalle funzioni troppo generiche, smentirebbe la necessità di realizzare oggetti troppo specifici (ammettendo, ad esempio, che un frullatore possa essere utilizzato anche come asciugacapelli) e con essi la stessa funzione e necessità di un circuito di circolazione delle merci.

Se in un primo tempo la penetrazione elettrodomestica entro lo spazio domestico produrrà una DESEMANTIZZAZIONE [14] del valore d'uso, in una seconda fase (quella della valorizzazione ergonomica di un sistema di funzioni di segnale candidate al recupero dell'oggetto desemantizzato) essa avrà sortito l'effetto di spianare la strada all'intervento dell'ergonomia entro la sfera privata e cognitiva dell'utente.

E' interessante notare come l'ergonomia delle origini, abbia talvolta frainteso il proprio ruolo intraprendendo «pericolosi» percorsi d'integrazione di funzioni che davano vita ad elettrodomestici più desemantizzati e disfunzionali di quelli che essa si prestava a disciplinare. Significativi appaiono taluni esperimenti come il Fornello-Refrigerante-Acquaio (1950 circa), elettrodomestico dalle funzioni di segnale estremamente ambigue perché integrava tre funzioni semanticamente incompatibili al fine di razionalizzare gli spostamenti della casalinga: «Il fornello-refrigerante-acquaio elimina ogni spostamento inutile» [15].

La preistoria della penetrazione del capitale ergonomico entro la sfera privata si inaugura esplicitamente con la strategia della vendita «porta a porta», ovvero con la penetrazione capillare della merce all'interno dell'ambito domestico ove si concretizzano situazioni specifiche d'uso: se originariamente il porta a porta emerse come specifico metodo di proliferazione delle nuove tecnologie elettromeccaniche d'uso quotidiano in quanto mobilità e adattabilità promuovevano un differenziale qualitativo che dotava l'elettrodomestico di una fisionomia propria, coerente con le attitudini e le connotazioni non-stanziali generate dagli oggetti semiautomatici, successivamente il training a cui il venditore porta a porta dovette sottoporsi al fine di riappropriarsi del significato di valore d'uso divenne momento particolarmente significativo dell'emergere del dispositivo di controllo che ho definito capitale ergonomico: il porta a porta è spia del fatto che l'utente necessita d'essere riconquistato e rieducato alla funzionalità dell'oggetto attraverso una dimostrazione di questo che si spinge fin dentro il suo domicilio.

Il porta a porta, non è l'unico precursore della penetrazione ergonomica entro la sfera privata dell'utente dal momento che questa trova significativi antecedenti in sperimentazioni cinematografiche come lo Psychorama molto in voga soprattutto negli anni Cinquanta. Si tratta di un insieme variegato di tecniche sublimali e di effetti speciali che, proprio come nella più nota pubblicità subliminale, sperimentano la coercizione direttamente sull'apparato sensoriale dell'utente. La strategia consiste nel realizzare una mediazione concreta (un effetto speciale che si materializza nella sala cinematografica [16], un frames subliminale che sottolinea inconsciamente un certo clima) tra l'oggetto da rappresentare e la sua raffigurazione cinematografica.


(4) Il monitoraggio ergonomico sull'uso e sulla decodifica degli artefatti non è un'invariante storica: l'attuale forma del capitale è coinvolta in una sorta d'emergenza ergonomica. Nel campo della circolazione delle merci la funzione dell'ergonomia è stata quella di colmare la desemantizzazione del valore d'uso, catturando tutte le varianti interpretative in merito alla merce, in modo da inserirle come segni controllati e organizzati all'interno del prodotto. Questi ultimi, dall'interno dell'oggetto, hanno svolto una funzione normativa segnalando sintesi di comportamenti la cui adozione ha determinato la conformità dell'utente ad un certo contesto mimico che oggi coincide immediatamente con la proposta di funzionalità dell'artefatto. Entriamo più nel dettaglio di quest'ultimo passaggio. Per comodità possiamo pensare alle funzioni di segnale come a dispositivi originariamente impegnati nella semplice visualizzazione di funzioni pratiche del prodotto: contrasti, delimitazioni di superficie, raggruppamenti di funzioni, consistenza della materia, segnalavano qualcosa all'utente che si sedimentava in seguito come destinazione d'uso dell'oggetto. All'ergonomia, o ad un qualsiasi altro sistema di controllo, spettava il compito di vigilare sulla replicazione più o meno esatta di quelle sedimentazioni. Gli slanci progettistici del design contemporaneo ci consegnano un sistema d'oggetti che, se letto attribuendo questo significato tradizionale alle sue funzioni di segnale, risulta di difficile disambiguazione. Non si tratta, come nel sistema degli oggetti elettrodomestici dei primordi, di un'incontrollata eccedenza di informazioni, dal momento che oggi si assiste piuttosto alla riproposizione di quell'eccedenza in un formato pianificato, capace in parte di integrare funzionalmente quelle variabili simboliche che all'origine resero opachi gli elettrodomestici: «Improvvisamente» scrive Baudrillard in Per una critica all'economia politica del segno «il campo dell'economia politica, articolato su due soli valori scambio economico e d'uso, esplode, e deve essere interamente rianalizzato nel senso di una economia politica generalizzata, che implicherà la produzione del valore di scambio/segno ... che in qualche modo produce anch'esso un plusvalore: il dominio che non va affatto confuso con il privilegio economico e il profitto» [17]. Analizzare il valore d'uso nella sua veste di valore di scambio/segno significa reinterpretare il contesto della destinazione d'uso implicando e valorizzando in esso l'intermediazione semiotica, il segno, nel rapporto tra utente e sistema d'oggetti. In questo senso, va assunto che la natura dell'oggetto contemporaneo si è fatta sostanzialmente narrativa avendo integrato e raccontato un maggior numero di modi di essere emersi originariamente con la fine dell'univocità della sua destinazione d'uso.

Oggi le funzioni di segnale coincidono in tutto e per tutto con degli apparati complessivamente informativi che istruiscono l'utente sul come rapportarsi alla merce al fine di assumere una certa identità. Non si tratta più di segnalazioni in merito a come un oggetto vada fatto funzionare o per quali scopi esso debba essere utilizzato: il suo corretto utilizzo deve piuttosto legarsi ad un valore d'uso che è tale nella misura in cui fornisce uno spessore «esistenziale» all'utente.

(5) Il sistema d'oggetti elettrodomestici con cui oggi interagiamo risente di un significativo intervento di pianificazione da parte del capitale ergonomico. Un percorso di normalizzazione delle funzioni è evidente, ad esempio, negli elettrodomestici multifunzione come il robot da cucina costretto a funzionare, pur nella sua poliedricità, entro un'escursione di selezioni d'uso limitatissime (le azioni connesse al frullare, sminuzzare, omogeneizzare, impastare, suonano quasi come sinonimi). Cerchiamo di leggere questo disciplinamento come dinamica più generale: nel 1994 Alberto Alessi, pronunciandosi in merito al design radicale degli artefatti prodotti dall'omonima impresa, promuoveva un'idea d'oggetto da cui era stato rimosso il primato dell'uso. La filosofia che spalleggiava tale rimozione veniva definita «Borderline», cioè progettazione fondata sull'innovazione tout court: «La nostra intenzione è stata di generare una nuova generazione di elettrodomestici che, pur mantenendo le caratteristiche di prodotti di grande serie, riuscisse tuttavia a svincolarsi dalla logica ferrea di quel mondo finora popolato di prodotti/individui troppo simili gli uni agli altri, spesso impoveriti nelle loro qualità costruttiva dall'ossessione della competizione sul prezzo, insomma piuttosto banali e noiosi quando non sgradevoli e un pò volgari» [18]. Più di recente lo stesso Alessi a proposito del «metaprogetto» «Family Follows Fiction» (che schernisce il motto del design funzionalista Form Follows Function) ha dichiarato: «Per F.F.F. ci siamo riferiti al pensiero di Winnicott sugli oggetti transazionali e alla teoria dei codici affettivi di Franco Fornari. L'idea di partenza era di riprodurre i processi di creazione e di animazione dell'oggetto comune al mondo dei bambini e alle culture primitive» [19] . Si può vedere come in tali filosofie sia assente il riferimento alla destinazione d'uso per gli oggetti progettati. Ancora più radicalmente, il problema «rozzo» della funzione è allontanato o significativamente reinterpretato perché ritenuto troppo volgare e inattuale. Su di un versante antitetico, un custode dell'equilibrio simbolico quale è l'ergonomo americano Donald A. Norman inveirebbe contro Alessi rivendicando per gli artefatti un design più aderente a certe funzioni di segnale. Nonostante ciò è il caso di domandarsi: fino a che punto queste due concezioni (Alessi vs Norman) sono antitetiche? Non è piuttosto che i due approcci vivono in un rapporto di invisibile complementarità? Il rapporto tra ergonomia e borderline sembra di fatto muoversi su questa seconda linea cooperativa: gli «eccessi» stessi del borderline appaiono possibili grazie alla costante opera di monitoraggio effettuata dall'ergonomia che, come abbiamo visto, è in grado di garantire una destinazione d'uso a qualsiasi oggetto inserendo o rafforzando in questo segni e codici (un colore, una striatura, un manuale d'istruzioni, un packaging). Questi si pongono come elementi di base nel rapporto con l'utente e si rendono disponibili per essere attrezzati di spessore narrativo (pubblicità, comunicazione sul prodotto) capaci di ancorarli a finalità di tipo antropologico (ad un colore possono essere attribuiti affettività, prestigio; un manuale d'istruzioni e una striatura può rimandare a stabilità e a sicurezza). Questi frammenti narrativi, interagendo con l'utente, si arricchiscono di ruoli antopomorfici specifici dando luogo a tematizzazioni, ad aderenze, a storie che si legano in modo specifico alla figura dell'utente (un colore-prestigio fa dell'utente un uomo prestigioso o, in caso di non aderenza, un anti-prestigio). Quest'ultime aderenze, si presentano come funzioni del poter-essere, ovvero come mete perseguite nell'atto dell'acquisto che vanno a sostituire le originarie destinazioni d'uso pensate come funzioni del poter-fare. Insomma, mentre l'originario valore d'uso si impegnava a stabilire l'utilizzo dell'oggetto solo ed esclusivamente per una certa funzione, il segno, ovvero l'intermediazione simbolica, racconta che l'ergonomica aderenza a quella funzione, magari il suo farmi risparmiare tempo nei lavori domestici, mi rende di nuovo affettivo, prestigioso, insomma umano. In questa accezione il Borderline si presenta come la punta più estrema della progettazione ergonomica, quella capace di simulare l'oggetto sempre più aderente alle specifiche esigenze dell'utente integrando la possibilità di sviluppare nuovi ma sempre circoscritti percorsi narrativi: nuove soggettività. Si tratta di quel processo definibile come «mutamento controllato» in cui la sperimentazione mostra, se confrontata con le estetiche disfunzionali degli elettrodomestici della prima metà del secolo, un azzardo quanto meno cauto. Nella sinergia Philips-Alessi volta alla costruzione di elettrodomestici dall'estetica innovativa (Alessi workshop), ad esempio, gran parte della progettazione Borderline recupera quelle estetiche nate tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta per concedere alle forme contemporanee un esotismo fuori dal comune. Si mettano ad esempio a confronto un bollitore odierno dalle forme bombate con un modello del 1940 o del 1950 anch'esso bombato. Rispetto a quest'ultimo l'innovazione introdotta dal design contemporaneo si concentra intorno alla filosofia ergonomica che supporta l'artefatto e che valorizza in esso elementi estetici rassicuranti (colori pastello, dettagli sproporzionati, ecc.) che smussano la tipica durezza delle tecnologie dei primordi. Lo stesso scopo di recupero «morbido» delle forme del passato è perseguito, nel caso specifico dell'Alessi, da un vero e proprio saggio (La cucina elettrica di R. Poletti da cui traggo tanto il testo di Alessi sul Borderline che le immagini di entrambi gli elettrodomestici citati). Ad esso è demandata la funzione di strumento di metadecodificazione (una sorta di manuale dei manuali per le istruzioni d'uso) per la spiegazione e la contestualizzazione degli oggetti Borderline.

La sperimentazione d'oggetti Borderline segue i principi di progettazione ergonomica (colori, funzioni di segnale, ecc.) in quello spazio di ideazione definito dal concetto di AFFORDANCE che indica il «tipo di operazioni e manipolazioni a cui si presta un particolare oggetto» [20]. Attraverso questa definizione l'ergonomia sottrae il mutamento del rapporto oggetto-uso dal contesto storico sociale, costringendolo all'interno di una falsa invarianza che impone, come naturali, correlazioni arbitrarie tra materia prima, forma e sua destinazione d'uso. Il concetto di affordance può essere sottoposto a quello stesso processo di revisione critica che portò Baudrillard a scoprire nel valore d'uso la dissimulazione di un rapporto sociale. Proverò ora a sottoporre l'elettrodomestico forno a microonde al «potere analitico» del concetto d'affordance. Il forno a microonde nasce casualmente nel 1948 all'interno di un laboratorio di sperimentazione sulle onde elettromagnetiche. Un fisico al lavoro su un generatore di campi elettromagnetici (un Magnetron già impiegato nella tecnologia radar) scoprì casualmente che l'emissione di onde aveva modificato la consistenza di alcuni alimenti presenti nel laboratorio. Da qui alla realizzazione del primo forno a microonde per uso domestico furono necessari circa sei anni e più di venti se si considera il periodo della prima significativa diffusione di questi apparecchi. Possiamo domandarci: in che modo si è generata la naturalità d'uso in un artefatto che deriva da campi di sperimentazione così distanti da quelli degli oggetti d'uso quotidiano? Attraverso quali percorsi manipolatori il Magnetron si è reso disponibile per un uso domestico?, e quindi: in che modo l'affordance del Magnetron ha tradotto questo oggetto in un elettrodomestico?

II Sistema degli oggetti contemporanei: la stratosfera

(1) Uno dei contesti più avanzati di sperimentazione in campo d'oggetti e di materiali è attualmente lo spazio di bassa orbitazione terrestre: un luogo, a ben vedere, non dissimile da quello che caratterizzava l'uso originario del Magnetron. Qui laboratori orbitanti e missioni spaziali hanno creato e tutt'ora creano nuovi oggetti, nuove configurazioni molecolari e nuovi artefatti progettati per resistere alle condizioni estreme e inospitali dello spazio.

Dallo spazio tali oggetti ricadono (SPIN-OFF AEROSPAZIALE) sulla Terra per essere industrializzati e commercializzati; un esempio per tutti: «Il vertice della Vaillant, leader europeo della produzione di caldaie ..., ha annunciato ... di aver messo a punto la centrale elettrica domestica del futuro ... Si tratta di un'applicazione del principio già noto della cella-combustibile, usata per la prima volta in astronautica» [21]. Il caso costituito dallo spin-off aerospaziale evidenzia con decisione il carattere arbitrario del sistema d'oggetti d'uso quotidiano e, di conseguenza, l'ideologia di un concetto che, come quello d'affordance, vorrebbe rintracciare negli oggetti e nei materiali una naturale destinazione d'uso.

Ad accogliere sulla Terra oggetti così distanti dalle caratteristiche fisiche terrestri (gravità, temperatura, pressione, ecc.) è di nuovo l'intermediazione ergonomica che, dopo un certo periodo di negoziazione tra le esigenze dell'utente e la conformazione dell'artefatto aerospaziale, quando la massa d'oggetti in questione si è fatta significativa, procede alla tematizzazione delle funzioni di segnale (la tematica dello spazio inserita nella vita quotidiana come spot pubblicitari, suggestioni, ecc.) così da socializzare l'utente terrestre a nuove segnalazioni e a nuovi oggetti. A questo scopo interviene sull'utente un imponente mole di lavoro riconfigurativo che con terminologia cara ad Umberto Eco, definirò di tipo PSICAGOGICO: «Con dolce violenza (anche se non mi rendo conto della violenza), sono portato a seguire le istruzioni dell'architetto, il quale non solo significa delle funzioni, ma le promuove e le induce (nello stesso senso in cui parliamo di persuasione occulta, d'induzione psicologica, di stimolazione erotica)» [22].

A partire dagli anni Quaranta, la disfunzionalità degli elettrodomestici iniziò a manifestarsi negli Stati Uniti attraverso la suggestione dell'OGGETTO VOLANTE NON-IDENTIFICATO. A ben vedere, il sistema d'oggetti UFO esaudisce un numero consistente di requisiti laddove si tenti d'immaginare un insieme d'artefatti automatici non ergonomizzati. In primo luogo esso si manifesta attraverso le caratteristiche, comuni a molti elettrodomestici, di campo magnetico prodotto da effetti di rotazione. Inoltre, ove si produca un'attribuzione extra-terrestre al fenomeno, esso si presenta come sistema altamente tecnologico non immediatamente riconducibile all'organizzazione produttiva terrestre e quindi, dal punto di vista della pianificazione delle funzioni d'uso, non ergonomizzabile: dunque necessariamente disfunzionale.

Dai primordi della cosiddetta CONQUISTA DELLO SPAZIO (1930 circa) fino all'evento in questo contesto finora più significativo, l'allunaggio del 1969, la tecnologia ha intrapreso un processo di evoluzione nella direzione di un adattamento alle condizioni extra-terrestri che mutuava di necessità da un originaria disfunzionalità delle tecnologie domestiche. La tecnologia di basso profilo, gli elettrodomestici, ha spinto l'evoluzione tecnologica nella direzione di realizzazione degli artefatti altamente tecnologici dell'era spaziale.

Quanto sostenuto risponde implicitamente al seguente quesito: perché ad un certo punto della storia i terrestri hanno sentito l'esigenza di oltrepassare i confini della biosfera? A ragioni d'ordine espansionistico connaturate alla logica del sistema di riproduzione sociale occorre, allora, aggiungere motivazioni d'ordine biopolitico. In un'ottica biopolitica la conquista dello spazio, l'invio di tecnologia terrestre nella stratosfera, risulta essere l'evoluzione di un ordine di attitudini proprie degli artefatti semiautomatici desemantizzati. Tra l'oggetto disfunzionale e l'oggetto spaziale esiste sì un certo grado di parentela, tuttavia essa è fortemente compromessa da una frattura di tipo ergonomico che ha reso il secondo un oggetto disponibile alla propria sistematizzazione entro una destinazione d'uso.

Mentre l'oggetto disfunzionale UFO ha rappresentato la direzione narrativa della desemantizzazione del valore d'uso degli elettrodomestici delle origini, lo spazio ha rappresentato la direzione di sviluppo tecnologico di un sistema d'oggetti all'origine connotatosi extra-territorialmente. La valorizzazione del capitale ergonomico volta al recupero dell'oggetto disfunzionale ha dovuto investire proprio sulla direzione dello sviluppo tecnologico, assecondandolo, nel tentativo di riinnestarvi il modello cognitivo del valore d'uso. Da quel momento i terrestri non hanno più abbandonato lo spazio di orbitazione mantenendovi un presidio simbolico. In questo quadro tecnologico, l'astronautica ha svolto, tra gli altri, il ruolo di intercettazione dell'oggetto disfunzionale operando nello stesso spazio di manifestazione di quest'ultimo. Oggi nello spazio si sperimenta e si configura il sistema d'oggetti più avanzato.

Naturalmente, la verifica di queste affermazioni non potrà che essere cercata nel campo dell'amministrazione aerospaziale statunitense. Robert L. Norwood direttore del Commercial Programs Division National Aeronautics and Space Administration afferma: «In 1958, a Congressional Mandate directed the National Aeronautics and Space Agency to ensure for the widest possible dissemination of its research and development result. Thus, the Scientifics and Technical Information (STI) Program was born. While this program adressed mostly the timely dissemination of information to NASA, NASA contractors, other government agencies, and the public, technologies were identified that were clearly transferable and applicable to industry for additional use in the development of commercial products and service. Such considerations spun off the Technology Utilization Program» [23].

Lo spin-off, il suo contestualizzare oggetti spaziali nel contesto della vita terrestre quotidiana, costituisce sicuramente la prova più determinante dell'ipotesi che interpreta la destinazione d'uso come pratica ergonomica di potere estranea alle caratteristiche dell'oggetto in sé. In alcuni momenti d'estrema lucidità, anche gli analisti del design contemporaneo sembrano concordare su questo statuto politico dell'ergonomia; Bernhard E. Burdek nel suo testo Design, afferma ad esempio: «Non si tratta di un adattamento diretto del prodotto alle condizioni antropometriche, ma di un'informazione per associazione ... è stato dimostrato che la massima adattabilità non porta obbligatoriamente con sé condizioni ergonomiche ottimali [allora, in mancanza di un parametro antropometrico certo] Il valore d'uso dei prodotti viene chiarito agli utenti tramite le funzioni di segnale» [24](nota tra parentesi mia).


(2) Agendo sulla composizione dell'ambiente, lo spin-off aerospaziale implica necessariamente un ripensamento radicale dell'ordine ecologico terrestre. Le sonde Mariner e Viking lanciate tra il 1969 e il 1976 per lo studio del suolo di Marte sono servite, secondo la NASA, a trarre utilissime informazioni per conoscere e gestire in modo sempre più preciso i fenomeni che interessano l'ecosfera terrestre. Quest'attività comparativa ha dato vita ad una nuova disciplina: la PLANETOLOGIA COMPARATIVA. Questa è portatrice di una precisa filosofia: «Su Marte ha avuto luogo una serie di processi biologici che hanno prodotto paesaggi alieni ma tuttavia familiari ... Nonostante queste differenze, abbiamo già appreso che la metereologia marziana è appassionante, complessa e in grado di essere compresa, ed una sua migliore conoscenza ci potrà insegnare molto sulla metereologia del nostro stesso pianeta» [25]. La planetologia comparativa si configura come la materializzazione più spettacolare dello spin-off aerospaziale. L'aspetto più interessante che essa ha sviluppato è quello del cosiddetto TERRAFORMING tradotto in Italia con il termine Terraformazione: «...the trasformation of Mars into a habitable planet [...]. The proposal may seem outrageously ambitious, but ambition is one attribute that today's space capitalist possess in abundance» [26].

Con il concetto di terraforming si è voluto illustrare la possibilità generale d'alterare il clima di un pianeta inospitale al fine di renderlo compatibile con le esigenze delle biologie terrestri. E' evidente tuttavia che il principio d'astrazione e di completa reversibilità, applicato in questo caso a Marte, è pensabile solo a patto di estenderlo alle biologie del pianeta Terra, ovvero a quegli organismi ritenuti adattabili alle condizioni di Marte: se infatti il terraforming si pone l'iniziale obiettivo di «...alterare le condizioni ambientali di un altro pianeta in modo da ... consentire la sopravvivenza della maggior parte, se non di tutte, le forme di vita terrestre» [27], esso finisce con il ritenere accettabili parametri ergonomicamente molto meno ambiziosi: «I primi coloni su Marte vivrebbero in un ambiente chiuso in cui ci sarebbe un'atmosfera a bassa pressione con un elevato contenuto d'ossigeno» [28].

In un romanzo del 1964, Noi marziani, lo scrittore di fantascienza Philip K. Dick analizza in maniera estremamente lucida i presupposti che fondano il progetto del terraforming mostrando come in realtà la terraformazione non riguardi tanto il pianeta ospite quanto le biologie che su di esso andranno a risiedere: «Penso che questa Scuola Pubblica su Marte e voi insegnanti meccanici stiate allevando un'altra generazione di schizofrenici: discendenti di gente che, come me, sta cercando di adattarsi a questo nuovo pianeta. State frantumando la psiche di questi ragazzi perché insegnate loro a credere in un ambiente che per loro non esiste, Non esiste neppure più sulla Terra: è roba vecchia» [29].

Esempi della modellizzazione terrestre ad opera di tecnologie e strategie aerospaziali non mancano: dalla missione Discovery STS-91 del giugno 1998, che ha portato nello spazio esperimenti sullo sviluppo cancerogeno perché, a detta dei suoi ideatori, lo spazio è ottimale per lo studio della curva di crescita delle cellule del cancro, fino al lancio dello Shuttle nel novembre 1998 con a bordo il settantaseienne John Glenn vera e propria cavia umana per lo studio degli effetti della mancanza di gravità sulle disfunzioni geriatriche. A detta dei suoi ideatori questo esperimento servirà a svelarci i segreti dell'invecchiamento terrestre. Ma chi sono gli ideatori degli esperimenti extra-terrestri? Non solo enti governativi: più in generale, la NASA si sta riconfigurando come supporto tecnologico al servizio di capitali privati che iniziano ad investire sempre più significativamente nello spazio, utilizzando quest'area come luogo di progettazione e sperimentazione di tecnologie d'uso terrestre. Naturalmente la «fuga di capitali» verso lo spazio è oggi solo all'inizio. La stessa NASA chiarisce che gli investimenti più significativi riguardanti lo spazio interessano ancora la zona di bassa orbita dove operano le tecnologie satellitari. Ciò nonostante, l'incremento di fondi riservati allo sviluppo di progetti spaziali è divenuto così importante da costringere la NASA ad appaltare parte della sua area di competenza ad aziende private. Questi appalti non si limitano ai soli folckloristici funerali nello spazio o all'invio di DNA terrestre in giro per l'universo. Space Dev, Kistler Aerospace Corp., Space System\Loral, Rotary Rocket, Interglobal Space Lines, Zegrrahm Space Voyages, LunaCorp, sono solo alcune delle aziende private che si propongono di sviluppare, o hanno già sviluppato, piani per lo sfruttamento minerario extra-terrestre, per la messa in orbita di satelliti privati e per il futuro turismo spaziale. Ecco cosa ha dichiarato Ed Stone, responsabile della Jet Propolsion Laboratory della NASA: «Il compito della NASA oggi è quello di allargare le frontiere: le frontiere fisiche, le frontiere del sapere, le frontiere della tecnologie e delle applicazioni. Perciò stiamo tentando di privatizzare le funzioni di normale amministrazione dello spazio. In questo modo possiamo liberare risorse per dedicarci a cose più impegnative, come esportare persone al di là dell'orbita terrestre e scoprire se c'è vita nel sistema solare. Non dovremo più occuparci di scaricare merci a pagamento nella bassa orbita terrestre né tanto meno di far funzionare lo Space Shuttle». Ecco, ancora una significativa affermazione con cui la NASA ha aperto nel 1998 il rapporto annuale sullo spin-off: «We revolutionize knowledge of the Earth and the Universe through scientific discovery from space the to enhance life on Earth» [30] .

In una direzione opposta rispetto a quella dello spin-off e del terraforming si muove la logica dell'oggetto volante non-identificato, l'oggetto disfunzionale, che ha risentito, tuttavia, dopo gli anni Settanta, dell'intervento del capitale ergonomico. In ufologia infatti l'attenzione rivolta all'INNESTOLOGIA (una branca dell'ufologia che si occupa dei presunti oggetti miniaturizzati di origine extraterrestre immessi dagli alieni direttamente nel corpo di rapiti con finalità di controllo e/o di condizionamento) reinterpreta acriticamente la pratica intrusiva del capitale ergonomico.


(3) Negli ultimi anni è andato incrementandosi l'interesse saggistico in merito agli oggetti d'uso quotidiano. Credo che la ragione di ciò graviti intorno alle trasformazioni estetiche e progettistiche di cui sono protagonisti gli artefatti contemporanei di cui gli elettrodomestici costituiscono il settore esemplare. L'interesse destato da queste trasformazioni affonda le proprie radici nella constatazione che gli artefatti si configurano, da tempo, come dispositivi che utilizzano il design per persuadere l'utente a fare qualcosa e ad agire in un certo modo. Se questa persuasione non è prerogativa esclusiva degli elettrodomestici, così come non lo è dell'attuale sistema d'oggetti, essi hanno tuttavia programmaticamente perfezionato il loro fare persuasivo. In ragione di ciò, desta un certo interesse il fatto che la progettazione di elettrodomestici, in particolar modo di quelli piccoli e medi da cucina, i cosiddetti «bianchi», svolga questa funzione sperimentando oggi la contaminazione con forme ormai desuete che appartengono ad un sistema d'oggetti accantonato (vivo solo ormai in ambito collezionistico) integralmente riproposto o reinterpretato in chiave contemporanea.

Questa visione di massima del fenomeno presuppone ciò che Fredric Jameson nel suo Il Postmoderno ha definito «collasso della catena significante» intendendo con ciò sottolineare, a proposito delle estetiche contemporanee, come in esse venga meno quella netta distinzione tra passato e presente in ragione di una globalizzazione culturale che ha mutato la tradizionale scansione locale del tempo sociale realizzando una complessa contaminazione di stili progettistici. Per fare solo alcuni esempi, indicative appaiono le scelte stilistiche della sinergia Philips-Alessi, la linea di frigoriferi della Smeg come il FAB28 dalle tipiche rotondità anni Cinquanta, i frullatori contemporanei di Hamilton Beach, i tostapane della Dualit, il frigo KDL 1952 della Bosch ed altri ancora. Meno esplicitamente, Zanussi, Ariete, Black & Decker, Ocean, Guzzini, Girmi, Kenwood, Merloni, Whirlpool, ammiccano a questo stile realizzando piccoli e medi bianchi dalle forme bombate e compatte. In alcuni casi, come per la Whirlpool ad esempio, la reminiscenza di tali forme è di fatto esteticamente irrilevante dato che essa non implica un vero e proprio ritorno ad estetiche passate. Nonostante ciò, il riferimento a quello stile è costantemente utilizzato al fine di attribuire elementi d'attualità ai propri prodotti: «Grazie alle loro linee bombate o all'innovativo design flat, ossia piatto, ...[i frigoriferi Whirlpool]... si inseriscono perfettamente all'interno delle cucine più moderne e sofisticate» [31].

Sono poche le aziende che si sottraggono a questa fascinazione del recupero: quelle che lo fanno, come la tedesca Braun e molta progettistica italiana (Ignis, Ariston, San Giorgio), sono le stesse protagoniste di una FRATTURA EPISTEMICA [32] (situata intorno alla fine degli anni Cinquanta per la Braun e a circa un decennio di distanza per le aziende italiane) con le concezioni del design estremo del trentennio compreso tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta. In questo contesto la Ignis, forse unica nel genere, continua a produrre frigoriferi con pannelli coprenti in simil legno tipici degli anni Settanta e, come vedremo, importantissimi dal punto di vista della mutazione dei canoni progettistici.

Nell'elettrodomestica, il settore da sempre più interessato alla sperimentazione è stato quello che, negli anni Sessanta, veniva definito della «microelettrodomestica»: rasoi, aspirapolvere, frullatori, mescolatori, ferri da stiro, asciugacapelli, food processor hanno mostrato, fin dalle proprie origini, una particolare attitudine alla variazione di modelli, colori, funzioni, arrivando ad essere diffusi, sempre negli anni Sessanta e soprattutto negli Stati Uniti, in vere e proprie «boutique del piccolo elettrodomestico» potendo contare sull'intervento estetico di stilisti come nel caso di Peter Max per la General Electric. Per assecondare quest'attitudine, il settore degli elettrodomestici è stato protagonista, più di ogni altro, del fenomeno della proliferazione delle sottomarche attraverso le quali un prodotto veniva sottoposto ad un'infinità di variazioni sul tema. Ciò è stato particolarmente evidente nel caso dei tostapane e dei ferri da stiro elettrici che hanno iniziato ad articolarsi come prodotti particolarmente significativi in questo campo.

In Europa, in particolare in Italia, il fenomeno della proliferazione delle sottomarche è stato in molti casi sinonimo di diffusione della standardizzazione del prodotto. Più che assecondare esigenze di sperimentazione estetica, esso ha funzionato, fino ad un certo punto, da spinta propulsiva per il settore elettrodomestico italiano che, attraverso la commercializzazione di elettrodomestici economici e senza marca (soprattutto lavatrici e frigoriferi) destinati ad assecondare le fasce d'utenza medio-basse di altre aziende europee, realizzava prodotti non sempre completamente soddisfacenti su cui altri marchi europei apponevano le proprie etichette. Aziende come l'olandese Philips e la svedese Electrolux hanno inaugurato o rafforzato la propria entrata nel bianco preferendo acquisire o appaltare ad altre marche europee (nella fattispecie alla Ignis e alla Zanussi) quei prodotti di cui erano fin dalle origini deficitarie. Se nel lungo periodo gli esiti di questa scelta di mercato si sono rivelati sconvenienti per il prodotto italiano (divenuto verso la fine degli anni Settanta qualitativamente non credibile) essi hanno tuttavia contribuito ad imporre internazionalmente uno stile progettistico, successivamente definito come «razionale», di grande importanza nel contesto di ciò che poco più sopra avevamo iniziato a vedere delinearsi nella forma di una frattura epistemica nel campo del design.

L'attenzione dimostrata dagli Stati Uniti e dal nord Europa per la tecnologia e per l'estetica degli elettrodomestici costituì, paradossalmente, una sorta di ritardo culturale rispetto al processo di razionalizzazione dei prodotti se, come abbiamo visto, questa in parte coincise con una dequalifica di quest'ultimi. Al contrario, l'industria italiana d'elettrodomestici, da subito interessata alla penetrazione entro i mercati con acquirenti con reddito medio-basso, promosse una efficace politica di abbattimento dei costi di produzione (agendo sulla qualità delle componenti elettriche e su quelle del rivestimento) così da conquistare fasce di mercato tradizionalmente lasciate scoperte. A differenza della maggior parte delle aziende italiane, gli Stati Uniti e i paesi del nord Europa si impegnavano in due direzioni di esplicita qualifica del prodotto attraverso: (I) la costituzione di speciali reti di vendita con concessionari esclusivi (come nel caso della Remington e della Siemens) e l'installazione di laboratori per l'assistenza; (II) l'attenzione con cui si evitò di cedere alla tentazione di rispondere alle commesse esterne e alla conseguente segmentazione interna per mezzo di sottomarche. Quest'ultima scelta caratterizzò anche le italiane Candy e Indesit oltre che le tedesche Miele, Bosch e la Hoover.

In linea generale, i grandi elettrodomestici come i frigoriferi e le lavatrici si sono dimostrati più restii a continui mutamenti del design. Per questo motivo, la presente analisi si concentrerà in particolar modo su quelli medio-piccoli e più in generale sul free-standing. L'innovazione del design elettrodomestico è una costante che si perpetua lungo tutta la storia di questo settore industriale. Nell'ultimo decennio, la sperimentazione di forme si è particolarmente accentuata; spesso essa ha assunto il carattere di un recupero o di una originale reinterpretazione di estetiche pregresse. Se ancora oggi, in forme e con contenuti nuovi, l'estetica degli elettrodomestici della prima metà del Novecento torna a confrontarsi con le esigenze di funzionalità e adattabilità contemporanea, la ragione non è d'ordine meramente stilistico. Più precisamente la trasformazione estetica degli elettrodomestici della fine degli anni Cinquanta ha richiesto una serie di interventi culturali i cui esiti sono tuttora, in ragione di una significativa riproposizione di quelle estetiche, in fase di verifica.


Funzioni simulacro e utente decompetentizzato

(1) All'inizio del 1900 gli elettrodomestici condividevano con il sistema delle macchine della fabbrica un profilo estetico simile. L'immagine riportata al lato evidenzia questa situazione mostrando le spropositate dimensioni di una pelatrice elettrica della Scaem (associata della Marelli) per uso domestico risalente alla fine degli anni Quaranta.

Questa, pur collocandosi temporalmente in un periodo di profonda innovazione dell'estetica elettrodomestica, non può non ricordare un macchinario della fabbrica. Tuttavia il contesto giornalistico entro cui quest'immagine è inserita si propone di illustrarne l'estrema maneggevolezza e adattabilità alle situazioni domestiche, così come di affermare la flessibilità dell'intero sistema di oggetti elettrodomestici a cui essa generazionalmente appartenne.
Un netto distacco dall'estetica delle macchine era necessaria agli elettrodomestici tanto per assumere una propria fisionomia autonoma di sistema, quanto per poter trovare definitivamente posto all'interno dell'ambiente domestico caratterizzato da oggetti recanti un'evidente cura estetica. Da questa interazione emerse un profilo elettrodomestico decisamente innovativo impegnato non solo nel ridimensionamento degli artefatti elettromeccanici ma soprattutto volto all'elaborazione di soluzioni estetiche sempre nuove capaci d'integrare le esigenze domestiche con le attitudini delle tecnologie semiautomatiche.
Caratteristiche di questo clima le critiche mosse all'innovativo robot multiuso della Kenwooddel 1947 per l'aspetto essenziale che ricordava le tecnologie della fabbrica. Questa direzione evolutiva si tradusse in un complesso lavoro sulla scocca coprente da cui emersero oggetti assolutamente innovativi che non trovavano in nessun altro sistema di artefatti pregresso un riferimento estetico immediato.

A partire dal primo decennio del XX secolo i risultati sul lavoro di riprogettazione della fisionomia elettrodomestica si addensarono intorno alla soluzione che, con terminologia contemporanea, potremmo definire "built-in": in altre parole gli elettrodomestici venivano integrati all'interno di mobilio appositamente studiato per occultarli. Prima della fine degli anni Venti, i telefoni sparivano generalmente all'interno di mobili e lo stesso accadeva per le apparecchiature della cucina (dotate, ad esempio, di componenti come cavi removibili per essere più agevolmente riposte dopo l'uso), per i televisori e per le radio. Quest'ultime, più di ogni altro elettrodomestico, necessitavano per motivi tecnici di essere celate all'interno di involucri protettivi: coltivare la passione per questo dispositivo elettromeccanico significava, agli inizi del secolo, dedicarsi ad un lavoro "esoterico" d'assemblaggio e di continua e attenta manutenzione date le non rare circostanze in cui la sua configurazione (un insieme di compenenti elettriche disposte su di un pianale) rilasciava liquidi corrosivi (contenuti nelle batterie) o innescava frequenti cortocircuiti. Ciò nonostante, la soluzione built-in proponeva problemi di spazio e di costi tali da dover essere ben presto abbandonata in favore della realizzazione di involucri dalle dimensioni più contenute all'interno dei quali disporre in maniera nuova le componenti elettriche che, nel frattempo, avevano iniziato a ridurre le proprie dimensioni.

Furono proprio le radio a porre per prime interessanti soluzioni in questo senso. La retorica dei primi del 1900 sottolineava spesso l'esigenza di saturare i vari ambienti della casa mediante tecnologie appositamente studiate per rendere più confortevole la vita dell'utente. A questo scopo, la pubblicità dell'epoca tendeva a soffermarsi non sul singolo oggetto ma a promuovere interi coordinati d'elettrodomestici il cui scopo sarebbe stato quello di conferire un'immagine nuova all'intero orizzonte casalingo. Per assecondare questa tendenza, nacquero associazioni come la Electrical Development Association (EDA) e la Electrical Association for Women (EAW) impegnate in modo specifico nella promozione attiva degli apparecchi elettrodomestici. La prima, in particolar modo, promosse nel 1914 l'idea di un Electric Breakfast che altro non era se non la proposta di concepire la colazione in modo integralmente elettrico sbarazzandosi degli utensili provenienti da un mondo pre-elettrizzato. L'enfasi di tali proposte gravitava intorno a concetti come velocità, igene, pulizia, che l'utilizzo di elettrodomestici avrebbe consentito d'ottenere rispetto all'impiego di strumenti a gas, legna, carbone, ecc.. Tali campagne promozionali avevano lo scopo, ad esempio, di demistificare l'idea secondo la quale nel cibo cotto o preparato mediante utensili elettrici permanesse un sapore decisamente elettrico. In questo contesto, il fine delle campagne pubblicitarie non era tanto quello di convincere dell'utilità di queste macchine quanto piuttosto quello di perpetuare un'emozione culturale che, soprattutto negli Stati Uniti, aveva fin dall'inizio accompagnato il processo d'elettrificazione. Tale emozione era quella del "flusso elettrico vitale" che fin dall'inizio della seconda metà del 1800 animava spettacoli (show elettrici, maghi elettrici, ecc.) e in quello delle applicazioni mediche parareligiose (curatori elettrici, terapie elettriche, ecc.).
Un esempio ci è fornito in elettrodomestica dalle lampade terapeutiche a raggi ultravioletti: su questi oggetti, posti a metà strada tra l'elettrodomestico vero e proprio e l'attrezzatura sanitaria, gravava una pesante ipoteca simbolica. Apparse verso la fine della prima decade del 1900, originariamente la loro funzione si rivolgeva esclusivamente ad applicazioni di natura medico-sanitaria. Circa vent'anni più tardi, quando la moda del tempo iniziò ad imporre le carnagioni abbronzate contrapposte al pallore del pigmento invernale, questi stessi dispositivi iniziarono a convertirsi in oggetti per la cura estetica del corpo. Tuttavia alla lampada veniva ancora attribuita l'originaria efficacia terapeutica dal momento che la carnagione elettricamente abbronzata era divenuta sinonimo di buona salute. La sovrapposizione tra abbronzatura e buona salute affondava, quindi, le proprie radici negli attributi magici che alla fine del 1800 erano riferiti ai dispositivi elettrici. Nella foto al lato (Courtesy of Schenectady Museum Archive) è possibile osservare l'illustrazione di una lampada a raggi ultravioletti della General Electric (1938) presentata esplicitamente per le sue qualità abbronzanti.

L'elettrodomestico in questione (date anche le dimensioni) si presenta per uno stile piuttosto essenziale in controtendenza con la linea impressa generalmente a questo tipo di dispositivo elettrico. In realtà tutta la produzione General Electric si distinguerà per la scelta di un design piuttosto sobrio. Vale la pena soffermarsi ancora sull'aspetto magico-terapeutico attribuito all'elettricità menzionando alcuni dispositivi elettrici studiati per curare i mali più disparati: traggo queste informazioni da un curioso articolo apparso nel 1949 sulla rivista "La scienza illustrata" dal significativo titolo Attenti ai ciarlatani della salute; come è possibile osservare dalla retorica proposta dal titolo ci collochiamo già in un periodo di disillusione informativa rispetto a questi dispositivi. Tra i vari strumenti elettrici presentati in questo articolo di denuncia troviamo: Il Cuore Meccanico (a sinistra)che "doveva compiere miracoli; in realtà dava una piccola scossa elettrica".

Il Cavo Vitale (a destra) che "comunicava una corrente di vitalità all'organismo umano. E ciò con alcuni bottoni, una spugna, un filo elettrico e un recipiente per pesciolini"; l'Horse Collar costituito da "una cavezza che magnetizzava il ferro del sangue e ridonava la salute".

la Luce Cosmica "una cassettina che, nella parte superiore, portava alcuni tubi al neon... Le virtù di questo apparecchio risultavano dall'impiego di luce colorata e dalla produzione di ozono. Il paziente dovena posarvi i piedi e fissare con gli occhi la luce colorata. Oltre alla pretesa di curare la paralisi infantile, la cecità ed altre affezioni era, si diceva, anche adatto a purificare l'aria degli ambienti, ecc. ecc."; la Lampada a clima del Deserto capace di guarire "le sinusiti, l'asma, i dolori lombari ed anche l'abitudine a russare" [30]. Di tenore decisamente diverso e con un destino non dissimile da quello della lampada a raggi ultravioletti si presenta la storia del vibromassaggiatore elettrico. Nato nella prima decade del 1900 in ambito medico-terapeutico al fine di favorire la riattivazione circolatoria, la stimolazione del tessuto muscolare e del sistema nervoso, ben presto si trasformò in un utensile personale da inserire nel parco elettrodomestici di ogni casa. Il massaggiatore Vibro-dux [vibropedia] è italiano d'importazione tedesca: databile, con una certa approssimazione, alla fine degli anni Trenta, costava 19.800 lire. Il design, che chiaramente si ispira a motivi futuristi dell'inizio del XX secolo, è decisamente innovativo soprattutto se confrontato con quello dei primi vibromassaggiatori elettrici con scocca generalmente in metallo e manico in legno che ispirano le forme degli asciugacapelli concepiti nella stessa epoca.

Il corpo è interamente in bachelite chiara con eccezione di due agganci in metallo che consentono l'applicazione dei vari accessori di cui il massaggiatore è corredato: "L'ultima invenzione del Vibro-dux consiste nel doppio sistema di massaggio che permette - con l'attacco laterale - di effettuare il massaggio a movimento vibratorio in profondità (percussione) e - con l'attacco in testa - il lento massaggio a movimento rotativo e ondulatorio" [31]. Il Vibro-dux è regolabile su due velocità di vibrazione, una alta e una bassa, ed è inoltre predisposto per l'allora rarissima tensione di 220. L'impugnatura sottile termina in un ovale che contiene il motore silenziosissimo e di dimensioni ridotte. Un pulsante regola l'accensione o lo spengimento, mentre uno switch seleziona la velocità da imprimere al massaggio. L'importanza del Vibro-dux risiede nell'esemplarità della situazione che esso evidenzia: la trasformazione tanto estetica quanto percettiva di oggetti para-medici in elettrodomestici è sinonimo, infatti, di una sempre più capillare diffusione delle tecnologie elettromeccaniche nella vita quotidiana. A questo scopo le funzioni si trasformavano e nuove destinazioni d'uso si innervavano con le originarie: "Nella cura dei capelli, il massaggio della testa con l'attacco n. 3 rafforza il cuoio capelluto, rende morbidi i capelli, ne aumenta la crescita ed impedisce la formazione della forfora"[32] . Come è possibile vedere, quindi, gli elettrodomestici da subito evidenziano un'estrema duttilità della propria destinazione d'uso. Naturalmente nel caso specifico del Vibro-dux, e della situazione italiana in cui esso si collocava, l'esemplarità di questa transizione (da oggetto medico a oggetto d'uso quotidiano) non è affatto generalizzabile: con ogni probabilità, visto il prezzo proibitivo, esso appartenne a qualche importante gerarca o nobile dell'Italia fascista.

(2) Con l'introduzione di scocche dalle dimensioni più contenute il sistema degli elettrodomestici potè intensificare il proprio programma di penetrazione e di proliferazione all'interno delle abitazioni: inaugurata con il porta a porta la proliferazione aveva iterato una strategia di estrema riduzione delle distanze prossemiche con l'utente che aveva sortito l'effetto di un contagio su tutte le tecnologie domestiche di allora. Se la prossimità con l'utente assecondava le attitudini non stanziali del nascente sistema d'oggetti semiautomatici, in parte questa stessa prossimità emergeva dall'inevitabile confronto con il sistema d'oggetti della fabbrica traducendosi in una vera e propria strategia d'autopromozione e di proliferazione degli elettrodomestici: le macchine della fabbrica attuavano a loro modo una prossimità con l'operaio caratterizzata dalla discontinuità prodotta da un macchinario che non seguiva mai l'operatore al di fuori del luogo lavorativo. In ragione di ciò, tale prossimità non suggeriva di risolvere problemi inerenti la restituzione di una gestualità fluida all'operaio, mimicamente meccanizzato dal lavoro con la macchina. L'elettrodomestico in rapporto di continuo contatto con l'utente necessitava, al contrario, di sollevare e di evidenziare il problema della sua "scomparsa dalla scena", del suo non interferire con la gestualità di quest'ultimo. Non si tratta di un problema reale dal momento che in nessun caso la mimica prescinde dal rapporto con un dato sistema di oggetti; si tratta piuttosto di una questione di differenziale semiotico evidenziata dal nascente sistema d'oggetti al fine di assumere un'identità precisa e ben distinta. I concetti differenziali che da allora affiancarono questo nuovo tipo di prossimità furono quelli di manovrabilità e di comfort che, a loro volta, proponevano di guardare prefigurativamente a se stessi nei termini evolutivi di una completa automazione delle funzioni. Se da un punto di vista filogenetico restituire una presunta gestualità naturale all'utente non significa nulla, ciò assunse il significato operativo di modellamento della sua cognitività rispetto ad un nuovo sistema d'oggetti. In questo senso, automatizzare una funzione non ha significato progettare algoritmi di funzioni tali da deresponsabilizzare l'operatore rispetto al risultato dell'attuazione di certe procedure: l'originaria automazione non è infatti una strategia emersa dal cervello di qualche progettista. Si è trattato, a ben vedere, di un processo d'autoselezione praticata dagli oggetti semiatomatici, disconnessi da un efficace dispositivo di contenimento (l'ergonomia), al fine di rendere opachi i propri processi evolutivi sottraendo l'onere della decisione in merito alla funzione alla sfera dell'agire umano: divergenza tra evoluzione tecnologica e aspettative. Il recupero ergonomico di questa direzione di sviluppo ha impostato il problema nei termini di un automatismo cauto dell'artefatto; se così non fosse sarebbe possibile porre la seguente domanda: perché, nonostante il quadro tecnologico lo consentisse, per molto tempo gli elettrodomestici hanno sistematicamente mancato l'obiettivo della completa automazione? Di fatto, molti elettrodomestici dell'ultima generazione appaiono come quasi totalmente autoregolamentati. Tuttavia, come vedremo, questo processo d'automazione è in realtà molto diverso da quello originariamente intrapreso dalle tecnologie domestiche. Per di più, la maggior parte delle tecnologie domestiche contemporanee è ancora portatrice di un automatismo cauto di tipo ergonomico: vediamolo a proposito di alcune lavatrici contemporanee. La Blue Star della Siemens ad esempio integra una funzione, detta Selectronic, capace di selezionare automaticamente programmi "consigliati" per il lavaggio di tessuti. Un analogo discorso vale per la lavabiancheria Margherita Dialogic dell'Ariston dotata di un controllo della delicatezza dei tessuti per "decidere da sola" il tipo ottimale di lavaggio. In queste due lavatrici siamo in presenza di un processo d'automazione che complessivamente prende oggi il nome di FRIENDLY, concetto con il quale si intende sottolineare la possibilità di realizzare un artefatto capace di eliminare in modo automatico certe decisioni tradizionalmente spettanti all'utente. Dovrà allora sorprenderci il fatto che in questi elettrodomestici, nonostante la dotazione friendly, permanga un'interfaccia a pulsanti piuttosto prolissa che consente all'utente di intervenire a sua discrezione in modo da programmare il tipo di lavaggio che ritiene essere più indicato. Ciò vale a dire che l'automatismo proposto è ridondante, non estensivo rispetto alle procedure attualizzabili dall'utente. In questi elettrodomestici sono stati assecondati filoni di sviluppo tendenziale degli artefatti semiautomatici compressi, però, entro configurazioni sclerotizzate: ergonomicamente contenute.

Una domanda lecita a questo punto sembra la seguente: è possibile ipotizzare che l'antica paura dell'espropriazione dalle connotazioni umane da parte delle macchine, così come l'antico terrore di un mondo governato dalla tecnologia nascondano, in forma romanzata, la più concreta paura di uno scollamento tra sviluppo tecnologico e modelli cognitivi sedimentati come ad esempio il "valore d'uso" e il "circuito di circolazione delle merci"? A ben vedere questo ridimensionamento del concetto d'automazione indica che l'aspetto promozionale di cui si fa carico la promessa di "liberazione dell'utente" non riguarda tanto il prodotto pubblicizzato quanto piuttosto la conformità mimica e interpretativa dell'utente rispetto alle funzioni e alla fisionomia di un certo sistema di oggetti, dal momento che, in questo caso, automatizzare e semplificare (a qualunque livello tecnologico essi operino) significa sottrarre all'utente la possibilità di verificare come la presentazione di certe funzioni e il loro concreto svolgersi lo spingano ad utilizzare il proprio artefatto. Naturalmente ciò non toglie che questo tipo d'automazione possa contingentemente semplificare la vita all'utente; ma questo è un aspetto accessorio, a meno che non si sia disposti a definire come un atto d'amicizia la tendenziale e forzata eliminazione di possibilità di negoziazione tra l'utente e l'artefatto. In ergonomia la transizione dall'artefatto non automatico a quello automatico e semiautomatico, è stato sottolineato, in rapporto al livello d'attenzione prestato al processo dall'utente, attraverso la formula: "dall'uomo che fa all'uomo che controlla"[33] . Così posta la questione sottointende una pregressa centralità e responsabilità dell'utente entro i processi decisionali che è tutt'altro che pacifica.

A mio avviso la critica più decisiva a quest'impostazione è stata fornita dal filosofo francese Michel Foucault e dai suoi studi sugli aspetti BIOPOLITICI del potere: in sintesi Foucault sostiene che l'elemento biologico, lungi dall'essere protagonista dei processi decisionali, si configura, invece, come l'obiettivo finale di certe pratiche e di certi flussi di potere divenendone prodotto stesso (prospettiva biopolitica). In questo senso, il corpo da sempre ricopre un ruolo che potremmo definire di "garante" rispetto all'esistenza stessa di certi rapporti sociali e la biologia diviene la condizione irrinunciabile, l'obiettivo materiale, dell'esercizio di un potere che attraverso questa si concretizza. Quando poi questa concretizzazione viene analizzata nel suo sedimentarsi entro il tessuto sociale, ecco riapparire l'ergonomia come intermediazione psicagogica posta tra l'utente e un sistema di oggetti che a questo confermano e ribadiscono un certo orizzonte sociale al modo di un campo tecnico ed estetico di contenzione. La centralità decisionale dell'utente è, quindi, una condizione mitica: essa sta al capitale contemporaneo come lo Stato di Natura stava al nascente ordine capitalistico. Sebbene si tratti di una simulazione psicagogica, questa sottrazione di incombenze è sottolineata tanto nella saggistica di settore (Norman è solo l'ultimo dei paladini di questa concezione) che dai più pragmatici manuali per le istruzioni d'uso: "Da oggi il suo telefono è più completo e le possilbilità d'utilizzo sono più ampie. Scoprirà il vantaggio di avere chi risponde per Lei quando non può o... non vuole rispondere. Questo apparecchio offre la massima affidabilità unitamente a funzionalità e semplicità d'uso e il suo design e la sua compattezza lo rendono adatto all'impiego in ogni ambiente". Proprio a causa di questo radicale concatenamento-sostituzione, la Telecom (la ditta produttrice della segreteria telefonica in questione) poco più avanti si premura di ricordarci che l'intervento dell'utente è comunque ancora necessario: "La registrazione dell'annuncio è obbligatoria per il funzionamento della segreteria"[34] .

(3) Benchè non ci sia stata alcuna deresponsabilizzazione dell'utente, l'ambiente in cui questo vive è stato realmente ridefinito dall'introduzione degli elettrodomestici: per coglierne gli aspetti costitutivi occorre muoversi in una direzione interpretativa opposta a quella proposta dalla contemporanea ergonomia. Essa ci mostrerà un territorio geografico (fatto di andirivieni domestici e di oggetti che rimandano l'uno all'altro) e sensoriale (fatto di segnali che dall'interno e dall'esterno degli oggetti istruiscono sui modi d'agire, e sulle aspettative che arricchiscono gli artefatti utilizzati) completamente mutato. Ecco come in una cronaca degli anni Cinquanta si presenta questo nuovo luogo: "...il focolare d'oggi non è più l'antro fumoso degli antichi tempi: è fatto di lucide piastre di metallo, levigate e laccate, di elementi cromati, di luci intermittenti, di oggetti nuovi e divertenti dal funzionamento semplice e pur misterioso, che costituiscono una vera e propria attrazione, esercitando sugli uomini, eterni bambini, il fascino del giocattolo"[35] . Emerge in maniera chiara l'aspetto evocativo innescato dalla diffusione degli oggetti elettrodomestici e questa cronaca risulta particolarmente significativa perché riassume molti degli elementi che torneranno come costante nell'analisi qui proposta: i metalli levigati, le plastiche lucide ed oscure, le manopole, i pulsanti, le cromature, l'intermittenza delle luci. Ma è soprattutto interessante l'opposizione ricavata dagli aggettivi "semplice" e "misterioso" che ci inserisce immediatamente all'interno dell'intricato aspetto sensoriale del territorio che ci apprestiamo ad indagare. L'estrema e violenta novità estetica ed emotiva introdotta dalla diffusione elettrodomestica sarà, infatti, la protagonista di un processo che porterà questi artefatti a desemantizzarsi divincolandosi, di conseguenza, dal proprio contesto d'uso per riorganizzarsi in forme originali e inusitate capaci di reinterpretare integralmente la propria destinazione d'uso.

La verifica analitica di questo territorio ha interessato designer e progettisti fin dagli anni Venti ma la prima vera svolta in questo campo risale al 1950 a quando, cioè, iniziò ad emergere ufficialmente la Scienza Domestica come campo d'indagine impegnato in complessi studi di razionalizzazione delle mansioni domestiche: "L'organizzazione razionale è stata oggetto di numerosi studi generali e particolari. Citiamo, ad esempio, il problema, ora finalmente risolto, della sistemazione razionale delle cucine" [36]; e ancora: "Sul piano sociale, la Svezia è all'avanguardia per il grande sviluppo che l'arte della casa ha raggiunto in questo paese. Qui infatti si è riusciti ad applicare su larga scala alla vita domestica tutti i concreti suggerimenti della sociologia, dell'economia e persino della politica"[37] . Questo processo di razionalizzazione non interessava i soli utensili elettrodomestici ma si estendeva all'intera configurazione della casa: "In una casa ben organizzata [...] l'adequate wiring (elettrificazione razionale) è problema di primissimo piano" [38]. L'impostazione topologica delle condotture dell'acqua e del gas, la progettazione di mobili da cucina capaci di prevedere lo spazio necessario alla collocazione di elettrodomestici, la disposizione delle prese, divengono varianti determinanti entro la stessa progettazione razionale degli edifici. Spesso l'ideazione architettonica dello stabile o la sua progettazione in vista di elettrodomestici si coniugava a valutazioni più di carattere emozionale che non di reale necessità abitativa: "la cucina, l'anticamera, il salotto, la sala da pranzo e persino la camera da bagno, devono inoltre essere dotate di prese telefoniche, perché si possa rispondere alle chiamate da qualunque luogo" [39]. Le abitazioni non sono le uniche strutture a subire un significativo condizionamento da parte della diffusione elettrodomestica in quanto l'impatto di questa diffusione si ripercuoterà su ogni aspetto dell'esistenza come dimostra il rilievo dato a questi argomenti da riviste di carattere scientifico come la citata "Scienza e Vita" che inizierà a contemplare, al proprio interno, riflessioni sugli aspetti razionali dell'abitazione moderna. Da questi articoli possiamo trarre tanto il carattere emozionale (l'entusiamo e lo stupore generatosi con la diffusione elettrodomestica), quanto le prime avvisaglie di una volontà di normalizzazione dello spazio domestico il cui equilibrio appariva compromesso dalla diffusione elettrodomestica. Di fatto, in questi articoli, stupore e volontà razionalizzatrice si intrecciano fino a confondersi, innestandosi sul tessuto di sottosviluppo dell'Italia del dopoguerra. Qui la trasmissione di questi aspetti emozionali funzionava d'avanguardia rispetto al nascente capitale ergonomico che da lì a dieci anni si sarebbe definitivamente insediato in tutta l'Europa. Nell'immagine al lato è possibile osservare una copertina della rivista "Scienza e Vita" del 1950. L'immagine rappresenta il laboratorio di prova e di controllo sulle tecnologie elettrodomestiche: il Good Housekeeping di New York.

Negli Stati Uniti la situazione era diversa: come ha bene dimostrato Carolyn Marvin nel suo Quando le vecchie tecnologie erano nuove [40], un'emozionalità ambigua e non ben delineata, generata dall'incontro tra utente e tecnologia casalinga, risale in questo paese all'inizio del secolo. Non a caso qui la necessità ergonomica emerge con una certa rilevanza già negli anni Trenta per mano di designer che, come nel caso di Henry Dreyfuss, proporranno innovativi canoni di progettazione sedimentando definitivamente l'idea d'industrial design. Come avrò modo di spiegare meglio più avanti, tale progettazione ebbe l'effetto di produrre soluzioni spesso opposte ai problemi sorti nell'ambito della razionalizzazione dello spazio domestico. I nuovi canoni di ideazione del prodotto industriale più che rendere gli oggetti dotati di una inequivocabile destinazione d'uso e realmente funzionali facevano sì che questi rimandassero a segni che già esprimevano un'idea sedimentata di funzionalità.
Funzionale per questi designer era ad esempio l'inequivocabile segno dell'affusolatura impressa sui propri prodotti: impugnature sinuose, scocche con terminazioni a punta, bombature, rappresentavano i segni dell'efficenza degli oggetti anni '30. Oggi, riosservando quelle estetiche, esse possono apparire eccessive e ingombranti dal punto di vista della loro funzionalità: insostenibili a prescindere dalla loro storicizzazione. Ilproblema della razionalizzazione degli spazi e degli oggetti domestici giunse in Italia in una fase già avanzata avendo saltato quella autoctona di "sperimentazione selvaggia" che aveva interessato altri paesi: Stati Uniti, Francia, Germania e Svezia. In Italia - siamo negli anni Cinquanta - il tenore dell'analisi assunse da subito il carattere di riferimento all'ordine estetico passato della fabbrica (importato soprattutto dal taylorismo di matrice statunitense) che qui apparve come il modello più spontaneo e immediato di riferimento. In questo paese si proporrà infatti, non senza una certa enfasi positivista, un netto parallelismo tra lavoro domestico e lavoro organizzato presso la catena di montaggio: "L'evoluzione delle nostre abitazioni segue insomma la medesima linea del taylorismo industriale, anche se meno rapidamente" [41]; ed è proprio in questa ottica efficentista che "la sociologia deve intervenire per far raggiungere alla società quel livello che è riservato oggi solo a pochi" [42] . Verso la fine degli anni Quaranta, la statunitense Westinghouse proponeva una disposizione della cucina ad "E"

in cui i due spazi ottenuti (i due rettangoli inscritti nella E) contenevano nettamente separati gli elettrodomestici della cucina da quelli della lavanderia. Nello stesso periodo, la General Electric proponeva una disposizione della cucina ad "U".
La configurazione ad U avrebbe consentito l'opposizione, su pareti parallele, degli elettrodomestici della cucina rispetto a quelli della lavanderia. In entrambi i casi, lo scopo era quello di ottenere una sistematizzazione degli spostamenti dell'utente alle prese con un impressionante quantitativo di tecnologie domestiche da dover azionare, pilotare e controllare.

Ancora più drasticamente, un non meglio precisato Ufficio delle Ricerche di Stoccolma proponeva, dalle pagine di "Scienza e Vita", la razionalizzazione ergonomica di tutti gli spostamenti dell'utente entro lo spazio abitativo. L'architettura del transito entro le pareti domestiche doveva basarsi sul raggruppamento strategico di coppie o di gruppi di elettrodomestici omologhi: "I due grafici rappresentano i risultati di un'inchiesta condotta dall'apposito ufficio di ricerche di Stoccolma, per stabilire la migliore disposizione da dare ai centri di lavoro in cucina. Il primo grafico indica la frequenza degli andirivieni tra i diversi mobili, utensili, apparecchi ecc., in un periodo di quattro settimane [...] Confrontando il secondo grafico con il primo, si osserva la diminuzione raggiunta nei movimenti di va e vieni, con notevole e sicura economia di tempo e fatica"[43].


A mio avviso, l'innesco di un'attenzione così evidente in merito al problema della razionalizzazione degli elettrodomestici (quella che più avanti definirò come vera e propria emergenza) oltre a segnalare un mutamento dei luoghi interessati alla diffusione e delle cognitività degli utenti coinvolti, era la spia di un malessere del circuito di circolazione delle merci che la nascente scienza ergonomica si proponeva di curare con strumenti psicagogici. La "cura", che a ben vedere intendeva riconfigurare in modo definitivo il rapporto tra l'utente e l'elettrodomestico, procedeva in due direzioni ben distinte: (I) verso l'ideazione di criteri nuovi di razionalizzazione dello spazio domestico che rispondevano alla necessità di inquadrare il sistema d'oggetti elettrodomestici (prospettiva emergente); (II) verso il tentativo di dare un senso al sistema elettrodomestico ispirandosi all'ordine pregresso del lavoro in fabbrica (prospettiva nostalgica). Se la prima prospettiva è sintetizzata dal Manifesto per una cucina futurista di Marinetti (1914), la seconda è ben rappresentata dallo scritto di C. Frederick The New Housekeeping: Efficiency Studies in Home Management (1913) impegnato nel proporre una revisione in stile taylorista dei lavori domestici. Sulla prospettiva emergente torneremo spesso in questo scritto, osserviamo ora, invece, due interessantissimi casi di prospettiva nostalgica tratti dal periodico "Scienza e Vita". In due schemi contenenti un certo numero di procedure da attualizare al fine di ottenere certi risultati di compressione dei tempi nei lavori domestici, portano i significativi titoli di: "Modo razionale di sbucciare mezzo chilo di patate" e "Un primato di velocità: come si rifà un letto ad un posto in tre minuti" [44]. Nella misura in cui quest'ultima prospettiva non apportava significative innovazioni all'assetto sociale rivelandosi, proprio per questo, insoddisfacente, la prima, nel tentativo di comprimere i tempi delle procedure e di razionalizzare le scenografie degli spostamenti in cucina, dava spesso vita ad artefatti più disfunzionali, dal punto di vista delle funzioni di segnale prodotte, di quelli che in teoria avrebbe dovuto correggere (vedi il Fornello-Refrigerante-Acquaio illustrato nel primo capitolo). La pericolosità di queste sperimentazioni risiedeva, come negli elettrodomestici delle origini, nell'esplicito invito alla violazione di caratteristiche estetiche fino ad allora ritenute ovvie per gli oggetti domestici. Vediamo un altro esempio appartenente allo stesso periodo: "Questo frullatore è stato ricavato da un originale apparecchio elettrico fornito di numerosi accessori che, secondo le esigenze, possono trasformarlo rapidamente anche in aspirapolvere, depuratore, asciugatore per capelli e lucidatrice" [45].

Nonostante goffagini e complicazioni progettuali come quelle appena illustrate, l'ergonomia degli anni Cinquanta si preparava a stabilire un ordine, entro il sistema degli oggetti, andato irrimediabilmente perduto nei primi cinque decenni del XX secolo. Retrospettivamente sarà possibile verificare l'inevitabile successo della prospettiva emergente che preso atto della natura biopolitica dell'oggetto ergonomizzato, da subito ritenne di dover intervenire come riconfigurazione psichica dell'utente (intervento sulle funzioni di segnale); tutto ciò lo si può osservare in affermazioni risalenti agli anni Cinquanta che, come quella seguente, coniugano problemi d'ordine ergonomico con valutazioni di carattere antropologico: "Il minimo numero di spostamenti che può essere ottenuto mediante una razionalizzaione sempre rigorosa e più perfetta dipende naturalmente non solo dall'attrezzatura della cucina, ma anche dalle consuetudini e dalle esigenze culinarie che sono quanto mai diverse nei singoli paesi"[46] . Si assunse, allora, che l'artefatto non necessitava di un complessivo adattamento ad estetiche pregresse capaci di tramandare uno stimolo automatico alla destinazione d'uso. Apparì, al contrario, sufficente lavorare sui segnali che l'artefatto emetteva chiarendo preventivamente all'utente il significato di quei segnali; in questo modo, fu possibile adottare una serie pressoché illimitata di forme scommettendo sulla stessa ambiguità dell'artefatto. La soluzione finale proposta nel campo della razionalizzazione del lavoro domestico sarà proprio quella di fare tabula rasa delle competenze che l'utente mutuava dal sistema d'oggetti pregresso e che implicavano, come vedremo, una certa mole di lavoro cooperativo. Tutto ciò si ottenne mediante l'adozione di una simbologia standardizzata che trasferiva fuori dall'utente le competenza in merito alla tecnologia trasformando quest'ultimo in un inetto in continuo stato d'apprendimento. Dato che questa figura ben si coniuga con la mobilità di un sistema di oggetti continuamente in mutamento e biopoliticamente fissato, essa appare come il modello generale d'utente: ho definito questo modello come utente decompetentizzato il cui statuto risiede in ciò che Martin Heidegger ha definito "essere gettati" in un complesso di oggetti il cui porsi come sistema gli preesiste. In ergonomia la concezione di utente inetto è stata resa esplicita: "produrre macchine a prova di idiota"[47] . Il capitale ergonomico si rivolgerà a questo idiota con una retorica che tornerà come costante all'interno dei manuali per le istruzioni d'uso; eccone un esempio: "Attenzione: non lasci alla portata dei bambini gli elementi dell'imballaggio in quanto potenziali fonti di pericolo"[48] , e ancora: "Non aprite mai da soli il vostro apparecchio: può essere pericoloso per voi o per il materiale"[49] . Se l'ergonomia contemporanea afferma di prendere le distanze dalla progettualità che vuole "costruire macchine a prova d'idiota" è tuttavia mia intenzione dimostrare come tale presupposto sia ancora attivo come suo orizzonte politico laddove essa promuove l'idea della deresponsabilizzazione del ruolo dell'utente (dall'uomo che fa all'uomo che controlla). Tale attribuzione è infatti un decisivo passo in avanti nell'atto d'imposizione di sistemi d'oggetti arbitrari che da questo momento in poi si sottrarranno a qualsiasi verifica da parte dell'utente inetto: decompetentizzato. Questo scarto di senso è ben visibile mettendo a confronto tra loro i criteri pubblicitari adottati negli anni Venti con quelli proposti negli anni Cinquanta. L'immagine riportata al lato (1920 circa) raffigura una cameriera alle prese con un ferro da stiro elettrico della AEG:
il ruolo dell'utente alle prese con l'elettrodomestico è ancora competentizzato, infatti la cameriera è portatrice di un sapere specifico in merito al lavoro domestico che svolge. L'elettrodomestico allevia il suo carico di lavoro ma ella resta l'unica a possedere un sapere domestico.

Gli anni Cinquanta vedranno la definitiva scomparsa di immagini di questo tipo: la servitù domestica sarà definitivamente sostituita da raffigurazioni di eleganti signore alle prese con i lavori di casa. La competenza dei servitori scomparirà in favore di un'immagine di utente sprovvisto di un sapere specifico in materia di governo della casa.

Dopo essere stato al centro dell'attenzione dell'ergonomia, l'utente oltre a non essere stato liberato dall'onere del lavoro domestico, sarà stato integralmente cancellato dalla scena tecnologica (decompetentizzato): "Così in ogni ramo della vita domestica la liberazione della massaia si estende sempre più. Ci limiteremo a citare le ricerche della marina e dell'esercito americani in materia di cucina. Esse sono giunte a creare, dicono, cucine di tipo nuovissimo, dove si può arrostire un pollo in 4 minuti e una salsiccia in 18 secondi. Si parla perfino di una macchina da cucire senza ago né filo [...] Un anno fa venivano segnalate dall'America le macchine per lavare e asciugare la biancheria, che automaticamente terminano tutte le varie operazioni del bucato [...] La morale di queste belle invenzioni è che la civiltà s'incammina verso officine senza operai e case senza massaie e qualunque lavoro viene man mano assunto dalla tecnica trionfante "[50]. Come è facile vedere in queste righe si concentra un misto di metafisica della tecnica con il sentore dell'avvio di un processo che condurrà alla perdita di competenze. Quest'ultima non è tuttavia l'unica operazione proposta dall'ergonomia contemporanea: come vedremo ad essere decompetentizzato sarà anche l'elettrodomestico stesso. La differenza tra "competenza" (intesa come campo d'attualizzazione delle virtualità dell'artefatto) e "funzione" (intesa come campo entro il quale l'artefatto deve operare) è di fondamentale importanza: ad ogni grado di competenza sottratta corrisponde infatti il rafforzamento di una specifica funzione. In questo senso, decompetentizzare un elettrodomestico significa rafforzarne le specifiche d'uso decise al momento della sua realizzazione.

Negli oggetti elettromeccanici contemporanei, questa differenza di potenziale (competenza/funzione) è particolarmente evidente e la incontriamo, ad esempio, nella produzione di oggetti da parte dell'azienda Fratelli Guzzini. Prendiamo la pubblicità di un oggetto come il mescolatore ad immersione della linea Gildo della Fratelli Guzzini disegnato da Dario Tanfoglio. Ecco cosa recita il messaggio pubblicitario: "Il dovere di ricercare, il gusto di conoscere, il piacere d'innovare [fin qui l'aspetto radicale del design e di seguito l'intervento di ergonomia cognitiva diviene inequivocabile] le chiavi del nostro successo stanno solo nelle FUNZIONI REALI di ogni nostro oggetto e in forme IN ARMONIA CON LE PERSONE" (maiuscoletto e note tra parentesi mie). Gli utenti raffigurati nella pubblicità, così come il contesto che realizza lo sfondo per l'elettrodomestico, esplicitano questo aspetto della decompetentizzazione rimandando ad immaginari (un aereo, una donna d'affari, una guardia del corpo) assolutamente non correlabili con la destinazione d'uso dell'oggetto pubblicizzato (un impastatore elettrico). Per quanto attiene alle funzioni, invece, il discorso si capovolge: esse sono iper-presenzializzate da una loro messa in atto che è divenuta tautologica. Lo spot si configura, infatti, come completamente reversibile dal momento che la sceneggiatura standard del suo testo è applicata a qualunque oggetto (sia esso un elettrodomestico, un bicchiere, un vassoio) con l'unica variante rappresentata da una targhetta che compare in modo sintagmaticamente casuale tra le parole e che riporta di volta in volta il nome dell'oggetto pubblicizzato. La standardizzazione del testo per oggetti così differenti dimostra l'assoluta inconsistenza delle funzioni che tuttavia non scompaiono divenendo, invece, tautologiche: a ben vedere, esse si sono trasformate in simulacri di funzioni. L'oggetto non deve più convincere l'utente in merito alla propria utilità ma rimandare a non meglio identificate "funzioni reali". La genericità e l'inconsistenza delle funzioni così proposte cela, inoltre, la decompetizzazione attivando ciò che con terminologia baudrillardiana definiamo uno scambio/segno: qui l'esplicito obiettivo è la proposizione di un insieme di funzioni che l'utilizzatore può ben decodificare ("le chiavi del nostro successo") ma la promessa implicita e quella di estrarre l'utente che farà uso del prodotto dalla massa generica degli utilizzatori inetti trasformandolo in una persona ("forme in armonia con le persone"). Le tre caratteristiche fondamentali iscritte in questo oggetto contemporaneo sono, quindi: simulacri di funzioni, presupposizione d'utenza decompetizzata, sceneggiatura completamente reversibile.

 

note

  1. L'attitudine in un oggetto è rappresentato dal campo di funzioni implicite per cui esso può essere utilizzato.

  2. In prima approssimazione è possibile definire tale disciplina come lo studio del rapporto uomo-prodotto-ambiente al fine d'ottenere dati, ed eventualmente intervenire per colmare carenze, sui segnali emessi dagli oggetti per chiarire all'utente la destinazione d'uso che il progettista ha previsto per quest'ultimi. L'utilizzo apparentemente ridondante della specificazione «terrestre» diverrà chiaro solo tra poco.
  3. Preliminarmente dirò che l'esercizio del potere, così come sta iniziando ad emergere non si arresta al di quà della crosta terrestre ma si estende oltre la biosfera. Si tratta, in altri termini, di un'operazione analoga a quella proposta dalla dottoressa Sandra Foster pagata dalla HiTek per scoprire l'origine spazio-temporale delle mode. Connie Willis, Il fattore invisibile, Milano, Urania, 1999.
  4. «Il termine arbitrarietà è assai impreciso nella teoria saussariana in cui designa il carattere non fondato, immotivato (cioè impossibile da interpretare in termini di causalità) della relazione che congiuge il significato e il significante». A. J. Greimas - J. Courtés, Semiotica Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Firenze, La Casa Usher, 1986, p. 34.Sarà il caso di ampliare il chiarimento sul concetto di realtà proposto da Greimas e Courtes affermando che: valore d'uso e «antroponimi [...] associati a toponimi e ai crononimi permettono un ancoraggio storico volto a costruire il simulacro di un referente esterno e a produrre l'effetto di senso di "realtà"», ivi, p. 34.
  5. R. Poletti, La cucina elettrica, Milano, Electa, 1994, p. 60.
  6. Baudrillard J., Per una critica all’economia politica del segno, Mazzotta 1974, op. cit., p. 136.
  7. Ivi, p. 145.
  8. Il «...problema legato alla pragmatica della cultura nasce dal fatto che il funzionamento del meccanismo culturale produce emozioni collettive spontanee, che non possono essere ignorate dal ricercatore quindi lo studio della semiotica della cultura ci conduce così alla semiotica delle emozioni culturali». Jurij Lotman, Semiosfera, Venezia, Marsilio, 1992, p. 145.
  9. C. Panati, Invenzioni e inventori, Milano, Armenia, 1996, p. 136.
  10. Ivi, p. 130.
  11. La tecnica nella casa, «Scienza e Vita», n. 3, 1949, p. 132.
  12. Utilizzo consapevolmente un termine impreciso come «ambiguo» perché esso rende bene la condizione d'incertezza generatasi con la diffusione degli apparecchi elettrodomestici.
  13. «La desemantizzazione è la perdita di certi contenuti parziali in favore del significato globale di un'unità discorsiva più ampia». A. J. Greimas - J. Courtés, Semiotica Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, op. cit., p. 100.Per quanto riguarda i motivi di tale desemantizzazione, nello specifico di questa trattazione essa appare come il risultato dell'immissione di artefatti semiautomatici in un ambiente a bassa incidenza di monitoraggio ergonomico.
  14. Attrezzatura domestica 1952, «Scienza e Vita», anno 1952, P. 211.
  15. Noti sono i gimmicks inaugurati dal regista William Castle (1958): «Nel 1959 il geniale William Castle per lanciare il suo La casa dei fantasmi inventò il trucco Emergo. In un momento cruciale del film, uno scheletro emergeva da una vasca piena di acido bollente. Chi vide il film nei cinema dotati dell'effetto Emergo ebbe la fortuna di assistere alla terrorizzante emersione di uno scheletro di plastica alto più di tre metri, scaraventato sul pubblico» J. Ross, L'incredibile storia del cinema spazzatura Milano, Ubulibri, 1996, pp. 158 - 159.
  16. J. Baudrillard, Per una critica all'econimia politica del segno, op. cit., pp. 114 - 116.
  17. A. Alessi, The Borderline Theory, in La cucina elettrica, op. cit., p. 180.
  18. A. Alessi, La fabbrica dei sogni, Milano, Electa, 1998, p. 132.
  19. D. A. Norman, Lo sguardo delle macchine, Firenze, Giunti, 1995, p. 25.
  20. Tratto da Il Sole-24 ore del 29 gennaio 1999. Umberto Eco, La struttura assente, Milano, Bompiani, 1968, p. 228.
  21. NASA Spin-off 1998.
  22. B. E. Burdek, Design, Milano, Mondadori, 1992, pp. 220 - 222 - 223.
  23. Arthur E. Smith, Pianeta Marte, Padova, Muzzio, 1989, p. 74.
  24. Mark Alpert, Making Money in Space, «Scientific American», volume 10, n. 1, 1999, p. 95.
  25. A. E. Smith, Pianeta Marte op. cit. p. 187. Ivi, p. 177.
  26. P. K. Dick, Noi Marziani Roma, Fanucci 1998, p. 112.
  27. NASA, Spin-off 1998, 1998.
  28. Forni intelligenti, per apprezzare oggi le tecnologie di domani, «Whirlpool Information Network», Febbraio 1999.
  29. Con il concetto di «frattura epistemica» tento di chiarire che l'innovazione non procede in maniera uniforme e non accumula sempre più sapere ma sperimenta delle rotture con cambiamenti radicali del modo di percepire e dare forme al reale. Nello specifico, la frattura epistemica rappresenta una rottura «tenuta sotto controllo».
  30. Gli ultimi cinque periodi entro i caporaletti sono tratti da: Attenti ai ciarlatani della salute in "La scienza illustrata", 1949.
  31. Vibro-dux. Il nuovo vibro-massaggiatore elettrico per la salute e la bellezza. Libretto allegato all'elettrodomestico.
  32. Ibidem.
  33. Alessandra Re, Ergonomia per psicologi, Milano, Cortina Editore, 1995, p. 22. Ecco come questo aspetto è sottolineato dalla rivista "Scienza e Vita" del 1949 nell'articolo La tecnica nella casa: "Nulla più impedisce alla donna di casa, pur continuando a sorvegliare i termostati o la batteria del bucato, di godere la vista dei fiori che ornano la tavola da pranzo", p. 139.
  34. Questo periodo e il precedente virgolettato sono tratti da: Telecom, Segreteria telefonica Bip 9050.
  35. G. B. Angeletti, Gli elettrodomestici, "Scienza e Vita", Gennaio 1954.
  36. La tecnica nella casa, "Scienza e Vita", n. 3, 1949.
  37. Ivi, p. 131.
  38. Ibidem.
  39. Ibidem.
  40. C. Marvin, Quando le vecchie tecnologie erano nuove, Torino, Utet, 1994.
  41. La tecnica nella casa, "Scienza e Vita", n. 3, 1949, p. 131.
  42. Ibidem.
  43. Ibidem.
  44. Attrezzatura domestica 1952, "Scienza e Vita", n.39, anno 1952.
  45. G. B. Angeletti Gli elettrodomestici, "Elettricità e vita moderna", 1954.
  46. La tecnica nella casa, "Scienza e Vita", 1949.
  47. Giuseppe Mantovani, L'interazione uomo-computer, Bologna, Mulino 1994, p. 53.
  48. Candy, Istruzioni per l'uso dell'AS 108.
  49. Telefunken, Manuale d'utilizzazione dell'M 9625.
  50. La scienza della casa, base di un nuovo saper vivere, "Scienza e Vita", n. 15, 1950.

 

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