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Ebrei e palestinesi nella storia:

miti e realtà

di Antonio Moscato

 

Alcune mistificazioni sulla storia antica dei due popoli

Ad esempio, c’è un diffuso luogo comune che afferma che gli ebrei sono tornati nella loro terra di origine dopo secoli di esilio forzato. Si tratta di una mistificazione basata su una interpretazione unilaterale della storia di quella terra. In essa, più o meno nello stesso periodo (1200 a.c.), arrivarono da Creta i palestinesi (philistim) e gli ebrei guidati da Mosé provenienti dall’Egitto. In quella terra vivevano già altri popoli, che continuarono a coesistere anche nell’unico periodo in cui ci fu il regno ebraico di David e Salomone (durato solo dal 998 a.c. al 926 a.c.). Su parte del territorio, per qualche decennio prima di David, c’era stato il regno di Saul. Dopo la morte di Salomone i suoi figli costituirono due regni separati - rivali e vassalli l’uno dell’Egitto, l’altro dei sovrani mesopotamici - che sono esistiti ancora fino al 721 a.c. (Israele) e al 586 a.c. (Giuda). Non erano tuttavia Stati dei soli ebrei: la stessa Bibbia rivela che Saul, David e Salomone erano figli di donne non ebree ed erano sposati con donne di altre religioni. A parte la divertente considerazione sul fatto che dal punto di vista dei rabbini di oggi non sarebbero stati considerati ebrei (conta la madre, non il padre), e che almeno Salomone non era neppure troppo in regola dal punto di vista religioso, visto che sacrificava agli dei delle sue molte mogli, il dato conferma che in quella piccola terra la popolazione era assai variegata. Anche quando, dopo vari secoli, per un breve periodo (140-63 a.c.), c’è stato un altro piccolo regno ebraico, quello dei Maccabei, sotto l’influenza romana, gli ebrei osservanti erano piuttosto pochi, per la permanenza di popoli con altre religioni e perché molti nel corso dei secoli avevano lasciato la religione originaria, sicché ci furono perfino circoncisioni forzate per riportarli alla condizione di ebrei. In ogni caso, sui 7.000 anni in cui ci sono tracce di insediamenti umani in quella terra, gli ebrei hanno dominato politicamente solo per pochi secoli, senza essere mai i soli occupanti del territorio.

 

Ma la Palestina non può essere definita la terra di origine degli attuali ebrei israeliani per parecchie altre ragioni. Nell’antichità c’era un popolo ebraico in una terra abbastanza delimitata, con una religione che non faceva proselitismo e che era esclusiva di quel popolo e di quella terra. Nella parte più antica della Bibbia risulta che gli ebrei dovevano venerare Jahvè e non gli dei di altri popoli, di cui non si negava tuttavia l’esistenza.

Nell’Antico Testamento gli ebrei risultano agricoltori, pastori, guerrieri, non commercianti. Più o meno questa è la composizione degli ebrei in Palestina, e tale risulta da altre fonti nel I secolo a.c. in gran parte delle zone in cui sono emigrati (Egitto Libia, Italia) o in cui erano stati inizialmente deportati, come la Mesopotamia (attuale Iraq), ma in cui erano rimasti anche dopo avere ottenuto di poter tornare. Le deportazioni, compresa quella successiva alla distruzione del Tempio di Gerusalemme, nel 70 d.c., riguardavano comunque solo lo strato alto della popolazione, e in Palestina era rimasta una cospicua comunità ebraica.

Tuttavia, nei secoli immediatamente successivi - in coincidenza con il diffondersi del cristianesimo e la sua trasformazione in religione di Stato che perseguita le altre religioni - avviene un processo che trasforma gli ebrei in quello che Abram Léon ha chiamato un “popolo-classe” specializzato nel commercio. Da un lato, la maggioranza degli ebrei dediti all’agricoltura nel Nord Africa e nella stessa Palestina si convertono più o meno spontaneamente al cristianesimo e, dopo la conquista araba, all’islamismo; dall’altro, commercianti non ebrei (ad esempio i siriani e i fenici) si convertono all’ebraismo.

La ragione principale è che questa religione consentiva di eludere il precetto, tratto dal Deuteronomio e fatto proprio per molti secoli dal cristianesimo e poi dall’Islam: “non presterai ad usura al fratello tuo ma solo allo straniero”, precetto che di fatto condannava non solo l’usura ma ogni forma di commercio. E dopo il crollo dell’impero romano e poi ancor più dopo la divisione del bacino mediterraneo in due aree ostili in seguito all’espansione dell’islam, lo scarso commercio che vi rimaneva diventava sempre più rischioso, per cui chi investiva in esso doveva ottenere una ricompensa per il rischio, che le due grandi religioni dominanti vietavano e definivano “usura”. Il commercio, anche se ridotto a pochi generi di lusso (stoffe pregiate, metalli lavorati, gioie, spezie), era in realtà indispensabile e quindi veniva consentito agli ebrei e ai convertiti all’ebraismo (divenuto ormai una religione non più legata a un territorio), che erano praticamente gli unici “stranieri” esistenti, sia nel mondo cristiano sia in quello islamico, e che svolgevano una funzione di ponte grazie alla conoscenza delle lingue e al fatto di non essere legati al potere dei paesi rivali.

 

Altre conversioni all’ebraismo in ambiente cristiano erano invece dovute a fattori religiosi. Il cristianesimo nel Medioevo era diventato di fatto sempre meno monoteista, per l’esasperato culto dei santi, delle loro immagini e reliquie; questo spinse diversi uomini di chiesa, nell’Europa occidentale e poi nella Russia ortodossa, verso l’ebraismo, aderendovi o accogliendone alcuni elementi. È il caso della cosiddetta “eresia giudaizzante” della Russia del Quattrocento, che determinerà in quel paese persecuzioni e divieti rigorosi al proselitismo ebraico.

Ci sono state anche conversioni in massa di interi popoli come i Chazari o una parte degli arabi yemeniti, in seguito alla scelta dell’ebraismo da parte dei sovrani locali (dovuta probabilmente alla necessità di resistere alla pressione degli adiacenti imperi cristiani o islamici). Anche l’origine dei falashà etiopici, che pretendono di essere discendenti della regina di Saba, che aveva visitato Salomone a Gerusalemme, può essere ricondotta a un fenomeno analogo.

L’insieme di questi fattori ha provocato una forte trasformazione delle comunità ebraiche nel mondo; grazie alle conversioni e alle assimilazioni, esse si sono molto differenziate tra loro, fino al caso limite degli ebrei etiopici, i falashà, di pelle nera, di quelli indiani e cinesi, che hanno i tratti somatici degli altri abitanti della regione e in genere parlano la lingua locale, pur mantenendo l’ebraico antico per il culto e due grandi lingue franche, l’yiddish nell’Europa centro orientale, e il ladino, derivato dallo spagnolo del XV secolo tra i sefarditi, che costituiscono lo strato superiore delle comunità ebraiche nell’impero ottomano (erano gli ebrei cacciati dalle persecuzioni cristiane che seguirono la reconquista alla fine del XV secolo). La prima lingua, una derivazione del tedesco medievale, trascritta in caratteri ebraici e naturalmente con molti vocaboli ebraici e anche parecchi termini di origine turca (frutto dell’assimilazione dei Chazari), rivelava il processo di fusione delle piccole arretrate comunità locali di quelle che sono oggi la Polonia e la Russia con gli ebrei più colti cacciati dalla Germania al tempo delle Crociate che, dovunque passavano - dalla valle del Reno a Praga alla stessa “Terra Santa” - lasciarono una traccia sanguinosa di feroci persecuzioni antiebraiche.

 

È bene ricordare questo dato per sfatare la leggenda dell’intolleranza dell’Islam: nel mondo islamico ebrei e cristiani, i “popoli del Libro”, godevano di certi diritti, compreso quello di amministrare al proprio interno la giustizia, anche se erano esentati dal servizio militare. L’intolleranza è invece tipica del mondo cristiano, soprattutto quando vi compaiono mercanti locali che aggirano i vecchi divieti religiosi e non vogliono concorrenza (in Italia sono le Repubbliche marinare le prime a cacciare gli ebrei, anche se più tardi Venezia ne ammetterà un certo numero per assicurare le sue relazioni con l’Oriente ottomano, da cui è stata cacciata militarmente). Lo stesso Dante, che pure deve tanto alla cultura araba, colloca Maometto a capofitto nel più profondo dell’Inferno, mentre l’Islam considera Gesù come un profeta, un precursore, e ha in molte zone una vera venerazione per Maria (ad esempio a Efeso, nell’attuale Turchia). 

 

Questa ricostruzione sommaria permette di dire che, se esisteva nell’antichità un popolo ebraico, quello descritto dall’Antico Testamento, esso è praticamente sparito nel corso dei secoli successivi, mentre la religione ebraica ha assorbito per ragioni diverse molti strati di altra origine dediti al commercio. La pretesa dei sionisti di “ritornare nella loro terra ereditata dai padri” è dunque basata su un mito infondato. La maggior parte di essi non discende affatto da quei “padri”. Paradossalmente, è molto probabile - viceversa - che una parte degli attuali palestinesi siano discendenti proprio degli ebrei convertiti all’islam nel corso dei secoli.

 

Altri miti: l’identificazione tra ebraismo e sionismo

I mass media influenzati dai sionisti tendono a creare un’identificazione totale tra “ebraismo” e “sionismo”. Vedremo che essa è storicamente infondata, per molte ragioni, e che ancora oggi molti ebrei si oppongono al sionismo, il quale è semplicemente una proposta politica specifica, rimasta tra l’altro minoritaria perfino in gran parte delle comunità ebraiche europee fino a quando l’avvento del nazismo l’ha resa più credibile e trasformata in una specie di zattera di salvataggio.

Vediamo su quali argomenti si basa questa identificazione.

 

Gli ebrei – si dice - per secoli hanno pregato e hanno ripetuto: “l’anno prossimo a Gerusalemme”. È vero, ma in realtà la maggior parte di essi, se si spostavano dal paese in cui vivevano, raramente cercavano Gerusalemme. In genere, si trattava dell’auspicio di un “ritorno” (che per molti - abbiamo visto - non lo era affatto) in una terra mitica “di latte e miele”, in un regno di pace e di giustizia, che sarebbe stato realizzato dal messia delle profezie: un sogno millenaristico, che trovò in varie epoche profeti e “falsi messia” che tentarono di realizzarlo, su un terreno puramente religioso; ma non era un concreto progetto politico. Il sionismo, senza alcun fondamento, si presenta come il coronamento di quel sogno.

Nel corso dei secoli, per ragioni diverse, alcuni uomini politici hanno proposto l’immigrazione degli ebrei in Palestina, sempre senza successo. Alla metà del secolo XVI vi aveva provato José Nassi, un ebreo portoghese sfuggito alle persecuzioni e alle conversioni forzate rifugiandosi alla corte di Istanbul, e diventato duca di Naxos e signore di Tiberiade; ma gli ebrei a cui offriva rifugio preferivano andare a Istambul, Smirne, Salonicco, Alessandria, non nella misera Tiberiade o in una Gerusalemme in cui la comunità ebraica era ridotta a poche centinaia di pii rabbini, che facevano discussioni interminabili, ed erano giunti lì soprattutto perché volevano essere sepolti in quella terra. Anche Napoleone, quando dall’Egitto giunse in Palestina, fece un appello agli ebrei europei perché vi si recassero: anticipava così il progetto sionista, sperando di costituire una base d’appoggio per la penetrazione francese; ma rimase inascoltato, e vedremo perché.

 

Come, dove e perché nasce il sionismo? Il sionismo nasce negli ultimi decenni del XIX secolo nelle grandi comunità ebraiche annesse all’impero russo dopo la spartizione della Polonia. La funzione tradizionale (e scomoda) di mercanti e intermediari tra proprietari terrieri e contadini si era esaurita con l’abolizione della servitù della gleba e l’introduzione accelerata del capitalismo. Il sionismo nasce come risposta alle persecuzioni e ai massacri (i pogrom) organizzati dalla polizia zarista, che considera gli ebrei in blocco rivoluzionari e al tempo stesso li addita ai sottoproletari incolti come sfruttatori e nemici. In realtà, rivoluzionari sono diventati alcuni giovani, che hanno rotto con il loro ambiente, la famiglia, la religione, diventando gli “ebrei non ebrei”, come Marx, Rosa Luxemburg, Trotskij. Il sionismo inizia come progetto culturale e diventa poipolitico quando l’antisemitismo promosso da settori reazionari del potere si estende dalla Russia alla Germania, all’Austria e perfino alla Francia con il famoso processo Dreyfus. Il fondatore del “sionismo politico”, Theodor Herzl, propone di cercare una “terra senza un popolo” in cui costruire uno Stato ebraico e in cui rifugiarsi per sfuggire alle persecuzioni. Pensa dapprima all’Uganda, all’Argentina o all’Uruguay, ma alla fine il progetto si trasforma e viene motivato con il “ritorno” in Palestina, la “Terra d’Israele” promessa da Dio al suo popolo. Come gli altri paesi prescelti, non si tratta di “una terra senza un popolo”; ma questo non conta, anzi. Herzl offre il suo progetto a diversi sovrani (dall’imperatore di Germania allo zar, allo stesso Vittorio Emanuele III), ma alla fine trova un punto di intesa con la Gran Bretagna: “saremo un baluardo dell’Europa contro la barbarie asiatica, dichiara, cioè contro i popoli coloniali. Herzl inoltre chiede appoggio per il proprio progetto, specialmente ai ministri antisemiti dello zar, come Witte e von Plehve, mettendo in evidenza che loro avrebbero il vantaggio di liberarsi degli odiati ebrei, aiutandoli a farsi una patria ben lontano. È evidente che il sionismo non era un movimento di liberazione, ma era anzi strettamente collegato al progetto coloniale che si affermava in tutta l’Europa negli ultimi decenni del secolo XIX e alla vigilia della Grande Guerra. Herzl discusse il suo progetto col grande razzista britannico Cecil Rhodes, di cui fu amico ed estimatore, e il suo successore Weizman lo concretizzò, smettendo di cercare aiuto indistintamente presso tutti i sovrani, compreso il sultano di Costantinopoli, e puntando decisamente su una stretta alleanza con l’imperialismo britannico.

1.        Comunque la maggioranza degli ebrei europei e la quasi totalità di quelli del mondo arabo-islamico rimasero contrari o indifferenti al sionismo, fino a quando l’arrivo al potere di Hitler con un programma ferocemente antisemita cambiò la situazione, almeno in Europa. Ci sono molti elementi che lo confermano: ad esempio, nelle numerose elezioni tenutesi in Polonia tra il 1918 e il 1939 i voti della consistente comunità ebraica si divisero tra comunisti, socialisti e Bund (“Lega”, un’organizzazione legata alla socialdemocraziae che difendeva i diritti culturali ed economici della popolazione di origine ebraica, ma era contraria al progetto di emigrazione dei sionisti), mentre i partiti sionisti restavano nettamente minoritari.

2.        Ancora più significativo è il dato delle correnti migratorie nei primi cinquanta anni dopo l’esplosione dell’antisemitismo: tra il 1881 e il 1929 (la prima data è quella dei primi pogrom, la seconda quella della crisi mondiale del capitalismo e quindi dell’inizio della “resistibile ascesa” di Hitler), 3.975.000 ebrei lasciarono le tradizionali zone di concentrazione tra Polonia, Russia, Romania, ecc. Di essi 2.885.000 hanno scelto gli Stati Uniti, 210.000 l’Inghilterra, 180.000 l’Argentina, 125.000 il Canada, e così via, ma solo 120.000 hanno accolto la proposta sionista andando in Palestina (e molti non hanno retto più di un anno in quella terra inospitale, che aveva già un popolo che vi risiedeva e non voleva esserne cacciato, e si sono quindi spostati verso altri paesi). Si trattava dunque di un’emigrazione non diversa da quella di italiani, spagnoli, irlandesi, e con forti motivazioni economiche, anche se era stata accelerata dall’intolleranza e dalle persecuzioni.

3.        Successivamente i rapporti privilegiati con il colonialismo britannico faciliteranno questa immigrazione in Palestina: durante la prima guerra mondiale Lord Rotschild ottiene dal ministro degli Esteri britannico Balfour la famosa dichiarazione che promette un “focolare ebraico in Palestina”, sia pure con il “rispetto delle minoranze”. Ma i palestinesi non erano una minoranza bensì la stragrande maggioranza degli abitanti, e la Palestina promessa ai sionisti apparteneva ancora all’impero ottomano. Una promessa senza fondamento giuridico, quindi.

4.        Sarà l’ascesa e poi l’avvento del nazismo, che coincide non a caso con la grande crisi economica, a sospingere un maggior numero di ebrei verso la Palestina, sia perché più gravemente minacciati, sia perché l’enorme disoccupazione fa chiudere le porte dell’immigrazione negli Stati Uniti e in altri paesi. Questa nuova immigrazione comprende anche ebrei tedeschi ricchi (prima il loro sionismo consisteva nel pagare il viaggio in Palestina a quelli poveri), che acquistano terre e imprese di trasporti, allontanando i palestinesi che vi lavoravano. La rivolta araba del 1936-1939 protesta contro le autorità britanniche, ma anche contro questa conquista economica del paese, e chiede il blocco dell’immigrazione ebraica. Essa viene repressa congiuntamente dalla polizia britannica e dalle milizie sioniste. È questo che scava un solco definitivo tra le due comunità e innesca quello che stupidamente viene chiamato dai mass-media “l’odio millenario” tra arabi ed ebrei. In realtà, fino a quel momento, in Palestina e in tutto il mondo arabo, i rapporti erano in genere di amichevole convivenza.

5.        Dopo la rivolta palestinese, i britannici, che devono fare i conti con una forte componente araba o comunque islamica nelle loro colonie e protettorati, nel 1939 pongono limitazioni all’immigrazione sionista. Una parte del movimento sionista, guidato da Jabotinskij, Shamir, Begin e a cui si riallaccia poi Sharon, stringe rapporti con Mussolini, che ne ospita un congresso in Italia e addestra militarmente gli ufficiali della futura marina israeliana. Alcuni esponenti, durante la guerra, cercarono contatti persino con i nazisti (in Ungheria), proponendo uno scambio tra l’emigrazione in Palestina della locale comunità ebraica e una grossa fornitura di automezzi militari. La destra sionista comincia a combattere i britannici (anche in piena guerra), con un feroce terrorismo che fa molte vittime anche palestinesi ed ebree, ad esempio facendo saltare in aria nel 1946 l’hotel King David a Gerusalemme (anche l’ambasciata britannica a Roma viene demolita da un terribile attentato). La stessa maggioranza laburista è ormai in rottura con i britannici e punta sull’imperialismo USA, ma ha anche uno strano alleato: il Sudafrica razzista, sul cui territorio verrà allestita l’aviazione sionista, che interverrà con forze preponderanti nella guerra del 1948-1949. D’altra parte, anche i paesi del blocco sovietico forniscono armi all’esercito sionista, illudendosi di approfittare delle tensioni con la Gran Bretagna.

 

Miti e realtà sulla formazione dello Stato di Israele.

Un luogo comune diffusissimo è che il conflitto sarebbe diventato insanabile perché “i palestinesi hanno rifiutato una ragionevole spartizione proposta dall’ONU nel 1947”. Si tratta di una tesi che non si regge, basata su falsi e forzature. Esaminiamoli.

  •  La divisione era ingiusta: i sionisti nel 1947 erano ancora circa un terzo degli abitanti, ma veniva assegnato loro il 56 % del territorio (con una forte minoranza palestinese incorporata), mentre la grande maggioranza dei palestinesi dovevano accontentarsi di un’area frammentata che copriva circa il 40 % del paese; Gerusalemme doveva restare “zona internazionale” sotto controllo dell’ONU. Era comprensibile rifiutare questo piano, che calpestava i diritti dei due terzi degli abitanti. Ma vediamo chi lo ha rifiutato.

  •  Non potevano farlo i palestinesi, che dopo trent’anni di occupazione britannica e la feroce repressione del 1936-1939 non avevano una rappresentanza democraticamente eletta. Il rifiuto venne dai regimi arabi adiacenti, tutti asserviti all’imperialismo britannico: in Giordania, in Iraq, in Egitto, per non parlare dell’Arabia Saudita, c’erano sovrani feudali sotto tutela britannica, e con eserciti diretti da ufficiali inglesi. La Gran Bretagna era interessata a scatenare un conflitto tra arabi ed ebrei, che forniva un buon diversivo ai corrotti sovrani su cui si appoggiava in quell’area. D’altra parte, il metodo era costante: si pensi al conflitto sanguinoso tra musulmani e indù innescato per tentare di mantenere il controllo sul subcontinente indiano.

  •  Ma i sionisti, oltre a vincere la guerra grazie a una netta supremazia militare sia sul piano dell’addestramento sia su quello dello stesso armamento (supremazia che hanno sempre cercato di occultare presentandosi come David contro Golia), realizzarono i loro fini occupando un’area molto più ampia di quella assegnata loro dall’ONU, proprio grazie all’accordo segreto con uno di quei sovrani feudali, Abdallah di Transgiordania, che consentì la spartizione definitiva lungo i confini rimasti in vigore fino al 1967. In questo modo i palestinesi rimasti fuori da Israele finirono sotto una tutela a loro sgradita. La loro percentuale nello Stato di Israele, in origine vicina al 50%, fu drasticamente ridotta cacciandoli con il terrore e le minacce. I profughi finirono in Cisgiordania e in altri Stati arabi, ammucchiati in miseri campi. Il conte Bernadotte, il rappresentante dell’ONU che aveva proposto tra le condizioni di pace il ritorno dei palestinesi, fu assassinato da un commando sionista.

  •  Se già nel 1948-1949 sul piano militare non era Israele ad essere la parte più debole, nelle guerre successive il rapporto divenne ancor più squilibrato. Nel 1956 l’aggressione israeliana all’Egitto, in appoggio alle forze di invasione colonialiste franco-britanniche che rifiutavano la nazionalizzazione della Compagnia del Canale di Suez, fu all’origine della cacciata degli ebrei dai paesi arabi. In Iraq, dove la maggioranza della ben inserita comunità ebraica - la più antica della diaspora - non voleva partire, una serie di provocazioni e alcune bombe messe nelle sinagoghe da agenti israeliani accelerarono l’esodo, di cui il regime reazionario di Bagdad approfittò per incamerare le proprietà di chi partiva (come i sionisti si erano impossessati di terre e case dei palestinesi cacciati).

  • Quanto alla cosiddetta “aggressione araba” del 1967, si tratta di una leggenda senza fondamento: i regimi arabi, a partire da quello egiziano, facevano dichiarazioni infiammate in difesa dei palestinesi, ma non si erano preparati affatto alla guerra, che durò solo sei giorni proprio perché l’aviazione egiziana, siriana e degli altri paesi fu distrutta negli aeroporti senza neppure riuscire a decollare. Fu quella guerra, condotta a tradimento (e presentata in tutto il mondo come difensiva), che portò all’occupazione della Cisgiordania e della striscia di Gaza, creando le basi delle tragedie successive, compresa quella odierna.

  •  Da allora è sempre stato negato il diritto a ritornare a chi era nato in Palestina e ne era stato cacciato, mentre lo Stato di Israele ha continuato a incoraggiare le conversioni, per compensare la scarsa affluenza dalle più grandi comunità ebraiche, soprattutto degli Stati Uniti. Un caso limite è quello della comunità neoebraica sorta spontaneamente tra i contadini cristiani di San Nicandro Garganico negli anni Trenta, spinti poi ad emigrare in Israele negli anni Cinquanta, senza che avessero la più lontana ascendenza ebraica (ma servivano braccia…). Anche una parte cospicua degli immigrati provenienti dall’URSS negli anni Settanta e Ottanta non avevano una sicura ascendenza ebraica, e volevano solo sfuggire alla crisi del loro paese.

 

Origine, ascesa e declino dell’OLP

Fino al 1967 i palestinesi non avevano avuto una rappresentanza autonoma, ed erano oppressi sia da Israele, sia dai regimi arabi, che ne assumevano per esigenze interne una poco efficace difesa, prevalentemente verbale. Formalmente l’OLP (Organizzazione di Liberazione della Palestina) era stata costituita nel 1964, ma era un organismo burocratico - creato soprattutto dall’Egitto - alla cui testa era stato collocato Ahmed al-Shuqeiri, un personaggio senza credibilità, che non esitava a riprendere vecchi argomenti della propaganda antisemita fascista. È proprio dopo la penosa sconfitta dei paesi arabi nella guerra del 1967 che emerge al Fatah, guidata già allora da Yasser Arafat. Il suo nucleo centrale si era formato al Cairo nel 1957, sotto l’impressione della sconfitta militare egiziana (il successo iniziale di Israele era stato però fermato dalla resistenza delle masse egiziane, e dall’intervento politico dell’URSS e degli Stati Uniti). Peserà anche molto l’esempio della lotta armata algerina, iniziata subito dopo la sconfitta francese a Dien Bien Phu nel Vietnam. Al Fatah conquista un grande prestigio con qualche azione di guerriglia fin dal 1965 (in particolare il sabotaggio degli impianti israeliani per la deviazione delle acque del Giordano), e poi nel 1968 con la battaglia di Karameh, che ferma una colonna israeliana entrata in Giordania, e rappresenta l’unica azione militare vittoriosa realizzata dagli arabi in quella fase.

Conquistata la direzione dell’OLP, Arafat cerca di coinvolgere altre organizzazioni, come il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina di George Habbash (FPLP o più brevemente FP) e il Fronte Democratico Popolare di Liberazione della Palestina di Nayef Hawatmeh (FDPLP o FD), entrambi laici e di tendenza più o meno marxista. Il rapporto sarà sempre difficile, con frequenti rotture e nuove convergenze; le divergenze sono sulle tattiche di lotta, ma anche sulla necessità di sottrarre i palestinesi alla tutela dei regimi reazionari arabi. L’OLP si trasforma presto in un grosso apparato statale senza uno Stato, e ha quindi sempre più bisogno di contributi da parte dei paesi della Lega Araba, soprattutto dell’Egitto, dell’Iraq e dell’Arabia Saudita. In questo contesto i contributi dei palestinesi della diaspora, alcuni dei quali hanno raggiunto posizioni di rilievo soprattutto nei paesi del Golfo, diventano determinanti non solo per la sopravvivenza dell'apparato, ma anche per l'accettazione da parte dell'OLP delle pressioni dei paesi arabi"

Così, per non irritare i regimi che finanziano il costoso apparato, la maggioranza dell’OLP guidata da Arafat teorizza la “non ingerenza” negli affari interni dei paesi arabi che, oltre ad essere in stridente contraddizione con le diffuse aspirazioni all’unità araba, è praticamente impossibile, soprattutto in Giordania, dove i palestinesi sono la maggioranza della popolazione e influenzano inoltre i settori giordani più avanzati, mentre il re Hussein (nipote di quell’Abdallah che era stato scelto dagli inglesi) si appoggia solo sulle armatissime tribù beduine, come lui fatte venire dal cuore dell’Arabia saudita.

Il risultato è che i palestinesi vengono ugualmente coinvolti nei conflitti interni, risolti da Hussein facendo bombardare i quartieri poveri di Amman nel settembre 1970 (la risposta palestinese, tardiva ed esasperata, sarà l’ondata di terrorismo in tutti i paesi che hanno protetto Hussein, e prenderà il nome di “settembre nero”).

La stessa situazione si riproporrà nel fragile Libano, dominato da uno strato reazionario e filoimperialista, che ha chiesto aiuto alla flotta e ai paracadutisti degli Stati Uniti nel 1958 (quando una sollevazione popolare aveva spazzato via il sovrano filobritannico dell’Iraq, e la rivoluzione araba sembrava dilagare ovunque). Israele prepara pazientemente una rete di notabili al suo servizio e, nel 1978, in concomitanza con le trattative di pace con l’Egitto, creerà un sedicente “Libano Libero”, affidato alle feroci milizie del maggiore Haddad, un disertore libanese armato e stipendiato dal governo di Tel Aviv. La zona occupata da Haddad e dagli israeliani arriva al fiume Litani, ricco di acque che vengono dirottate verso la parte settentrionale di Israele, che è al contrario piuttosto arida.

 

La propaganda sionista e reazionaria ripete che Arafat è un terrorista e un estremista. È semplicemente assurdo: all’inizio della sua attività politica, Arafat ha scelto la lotta armata perché non aveva altra scelta, e perché aveva di fronte a sé l’esempio di come i sionisti si erano impossessati della sua terra, con la lotta armata e un terrorismo spietato verso le truppe di occupazione britanniche, i palestinesi, e anche tra le stesse formazioni sioniste concorrenti. Ma ha scelto poi la strada della trattativa, della ricerca di un’intesa anche attraverso un compromesso, al punto di provocare lacerazioni tra gli stessi palestinesi. Arafat può essere definito “un terrorista” come lo è stato Nelson Mandela nei ventisette anni detenzione, fino al giorno in cui la classe dominante bianca ha dovuto tirarlo fuori dalla prigione e chiedergli di tenere a bada le masse africane (rimaste prive del potere economico, proprio grazie alla buona disponibilità di Mandela e degli altri dirigenti neri dell’ANC all’accordo e alla coesistenza basata sullo status quo).

Per questo gli israeliani, che lo attaccano sui mass media istericamente, hanno evitato di ucciderlo, pur avendo i mezzi per farlo, come hanno fatto con tanti suoi collaboratori. Lo hanno fatto nel 1983 con Issam Sartawi (che era per giunta un uomo che cercava l’intesa con le componenti più ragionevoli della società israeliana), nel 1988 con Abu Jihad, e con moltissimi altri, anche in questa fase; ma hanno evitato di ucciderlo sapendo che, morto Arafat, anche le masse palestinesi più moderate esploderebbero in una rivolta esasperata e distruttiva.

 

Arafat è responsabile dell’integralismo islamico? In un certo senso sì, ma non in quello riproposto sistematicamente dai mass media. L’integralismo islamico si è sviluppato nella società palestinese, che era la più laica di tutto il mondo arabo, come reazione alle sconfitte subite per effetto della linea troppo conciliante dell’OLP controllata da Arafat, che aveva rinunciato molto presto alla lotta armata, ricercando una soluzione diplomatica e illudendosi che questa si potesse ottenere solo grazie alle pressioni dei regimi arabi filoimperialisti (Egitto, Arabia Saudita e la stessa Iraq prima della Guerra del Golfo, che la trasformò in “nemico assoluto”). È sintomatico che, quando si è sviluppato, l’integralismo islamico ha potuto realizzare un’alleanza con il FP e il FD, le due organizzazioni di sinistra, laiche e con leader che, oltre ad essere marxisti, sono anche di origine cristiana. La sua crescita era legata alla necessità di continuare la resistenza, che Arafat manteneva a parole ma di fatto bloccava per non urtare i suoi protettori legati agli Stati Uniti.

D’altra parte, i sionisti non hanno il diritto di parlare dell’integralismo islamico, per molte ragioni. Oggi, per loro, l’integralismo è un grosso problema, che non sanno come affrontare e con cui è difficile una trattativa, ma per anni lo hanno incoraggiato - soprattutto nella striscia di Gaza - per dare fastidi all’OLP, il cui laicismo e non confessionalismo creava problemi a Israele, Stato confessionale e integralista. Nella direzione dell’OLP ci sono infatti musulmani, cristiani, marxisti, anche ebrei come Ilan Halevy. Per la stessa ragione, gli israeliani hanno puntato da sempre alla decomposizione del Libano che - sia pure in una forma un po’ macchinosa, escogitata dalla Francia quando aveva creato questo paese staccandolo dalla Siria dopo la prima guerra mondiale, con un mandato della Società delle Nazioni (ma in realtà in base alla spartizione del Medio Oriente con la Gran Bretagna sancita dagli accordi Sykes-Picot) - aveva una Costituzione che assicurava la collaborazione tra cristiani maroniti e ortodossi, musulmani sciiti e sunniti, drusi, ecc. Per Israele, l’uno e l’altro caso facevano scandalo e potevano dare un “cattivo esempio” alle minoranze non ebraiche prive di diritti.

 

Abbiamo definito Israele “Stato confessionale e integralista”. Va detto che una risoluzione dell’assemblea generale dell’ONU del 10 novembre 1975, basandosi sulla legislazione e la pratica dei governi sionisti, sugli stretti rapporti con il Sudafrica dell’Apartheid e sulle analogie tra i due sistemi di dominazione, ha definito il sionismo “una forma di razzismo e di discriminazione razziale”.

Naturalmente questa è una delle tante risoluzioni dell’ONU rimaste senza conseguenze. Non era mai stato seriamente imposto a Israele di attenersi alla spartizione decisa con la risoluzione n. 181 del 1947, ingiusta ma che le assegnava “solo” il 54 % della Palestina, mentre se ne era presa l’80% fino al 1967 e poi tutta, più alcuni pezzi di territorio strappati al Libano e alla Siria. Mai si è tentato di tradurre in pratica la risoluzione n.242 del 22 novembre 1967, che chiedeva il ritiro dai Territori Occupati, ecc.

Privo di conseguenze pratiche anche l’invito ad Arafat a parlare all’assemblea generale dell’ONU il 13 novembre 1974: l’effetto psicologico fu grande, perché Arafat aprì il suo discorso dicendo: “porto in una mano un ramo d’ulivo, e nell’altra il mio fucile di combattente. Non fate che il ramo d’ulivo cada dalla mia mano”. Egli presentò inoltre il progetto dell’OLP di “uno Stato democratico in cui cristiani, ebrei e mussulmani vivano in giustizia, uguaglianza e fraternità”, un progetto che, pur riducendo il problema etnico a quello religioso, aveva una notevole forza morale, ma senza risultati concreti, nonostante di fatto Arafat avesse fatto cadere dalla sua mano non l’ulivo ma il fucile.

A quel risultato si era arrivati dopo la guerra arabo-israeliana dell’ottobre 1973, l’unica effettivamente scatenata per iniziativa dei paesi arabi, che colsero di sorpresa Israele, mettendola in difficoltà (fu salvata soltanto da un massiccio aiuto degli Stati Uniti). Anche l’avvio di una riduzione della produzione di petrolio aveva messo in difficoltà i paesi capitalistici, soprattutto perché coincideva con una recessione economica di notevole portata.

Ma quella guerra, che fu definita “di regolamentazione”, venne usata dall’Egitto per preparare una pace separata. Il successivo viaggio di Sadat a Gerusalemme nel novembre 1977, e poi gli accordi di Camp David del settembre 1978, furono salutati come un passo verso una soluzione generale del problema del popolo palestinese, che fu invece abbandonato dall’Egitto, mentre Israele, garantito sul fianco Sud, poteva cominciare la penetrazione e poi il tentativo di conquista del Libano per cacciare anche da quel paese i palestinesi.

Alcune voci, dalla sinistra marxista palestinese, avevano denunciato quella manovra, ma senza successo. I regimi arabi avevano dato all’OLP un premio di consolazione, riconoscendola nel vertice di Algeri del 27 novembre 1973 “unica rappresentante del popolo palestinese”, con una formulazione più che discutibile, perché in realtà molte organizzazioni rimanevano al di fuori dell’OLP e i criteri di formazione del gruppo dirigente erano sempre meno democratici, basati sulla cooptazione senza nessuna elezione dei rappresentanti dei gruppi che accettavano la linea di Arafat. Paradossalmente l’OLP veniva riconosciuta “unica rappresentante” proprio quando non lo era più.

Anche la Siria, che pure criticava duramente l’opportunismo egiziano, già delineatosi subito dopo la guerra del 1973, approfittò della situazione per impossessarsi nell’aprile 1976 del Libano, dove rimane tuttora. La Siria tra l’altro puntellò le forze della destra falangista (armate e istruite da Israele), che stavano soccombendo nella guerra civile, di fronte a una coalizione tra palestinesi e progressisti libanesi. In quella fase i falangisti furono lasciati liberi di assediare per 52 giorni il campo profughi di Tel al-Zaatar, dove massacrarono sotto gli occhi della Croce rossa internazionale 6.000 palestinesi, tra cui moltissimi bambini, donne, vecchi inermi. Lo stesso Sharon ammise poi la partecipazione di ufficiali israeliani a quell’eccidio. Ma la Siria fu complice della strage.

La tragedia si compirà nel 1982, con l’invasione israeliana e il nuovo feroce massacro compiuto dalle milizie falangiste al servizio e sotto la diretta e personale protezione di Sharon (ma con l’avallo dell’intero governo Begin) nei campi di Sabra e Chatila. Durante l’invasione del Libano le milizie palestinesi, a differenza dell’esercito regolare libanese, infliggono forti perdite agli israeliani, ma l’abbandono del campo da parte di Arafat innesca una guerra civile tra i palestinesi. Contro Arafat si schierano sia le formazioni filosiriane, sia una parte di al Fatah.

Inoltre, una volta scacciati anche dal Libano, come nel 1970 dalla Giordania, i palestinesi non hanno più un territorio da cui possano colpire lo Stato di Israele con vere e proprie azioni militari. Sono per giunta sempre vessati dai regimi arabi, che li ospitano, ma che spesso costituiscono per i loro fini piccoli gruppi in polemica con l’OLP (in primo luogo la Siria, ma anche la Libia). Non possono quindi più decidere se scegliere di far cadere il ramo d’ulivo o il fucile. Rimane solo la possibilità di azione diplomatica, ma non hanno più i mezzi per imporla. Continueranno, sospinti dall’URSS - a cui si sono allineati totalmente anche i due gruppi marxisti - a chiedere vanamente una conferenza internazionale. Sotto la pressione della direzione sovietica, FP e FD accettano di rientrare a pieno titolo nell’OLP, nel CNP di Algeri dell’aprile 1987, lasciando carta bianca ad Arafat che, pure, aveva tentato un assurdo accordo con re Hussein (il boia di Amman) e che subito dopo riprende i contatti con l’Egitto, il quale ha riconosciuto Israele, senza una discussione preliminare in seno al massimo organismo dell’OLP. Una scelta che mette in difficoltà sia il FP e il FD, sia il PCP (il piccolo Partito comunista palestinese), che era stato accolto nel CNP per far piacere a Mosca, sia pure con una rappresentanza di appena la metà di quella assegnata a una frazione integralista islamica.

Negli anni tra il 1982 e il 1987 la soluzione della questione palestinese appare in ogni caso sempre più lontana. Molti commentatori parlano apertamente di “armenizzazione”, alludendo alle vicende del popolo armeno al quale, dopo i massacri operati dalla Turchia durante e dopo la prima guerra mondiale, non è rimasta altra risorsa se non quella di sporadici ricorsi ad attentati alle sedi diplomatiche turche in molti paesi, senza che nessuno se ne preoccupi troppo.

 

Ma nel dicembre 1987 esplode improvvisamente l’Intifada, la grande rivolta degli abitanti dei Territori occupati (letteralmente il termine vuol dire: “scuotersi di dosso” o “sollevazione”), innescata da una provocazione di un colono sionista che ha investito e ucciso con un autocarro quattro lavoratori palestinesi del campo profughi di Jabaliya. Coglie di sorpresa gli israeliani, ma anche i dirigenti dell’OLP. È guidata da una rappresentanza locale che non risponde direttamente all’OLP, anche se non le si contrappone. L’Intifada attacca l’esercito di occupazione con pietre e disobbedienza di massa, il boicottaggio di prodotti israeliani, il rifiuto di pagare le tasse, molti scioperi (tra cui uno commerciale protratto per ben due mesi). Ad alimentarla è una nuova generazione, in gran parte nata dopo l’occupazione del 1967, che rifiuta l’attendismo di Arafat e organizza la popolazione in forma democratica, con un ruolo inedito e di grande rilievo delle donne. Le più giovani partecipano agli attacchi con le pietre, o deridono e insultano i soldati; le altre organizzano orti, forni e altre attività che assicurano la sussistenza della popolazione, assediata dalle truppe nei villaggi, senza rifornimenti e senza potersi spostare (per lunghi periodi anche i lavoratori pendolari non possono più raggiungere i posti di lavoro in Israele).

L’Intifada era stata preparata sia da un gran numero di iniziative spontanee (tra l’aprile 1986 e il maggio 1987 si erano registrati ben 3.150 incidenti nei Territori, che andavano dal lancio di sassi contro i blocchi stradali dell’esercito ad attacchi con esplosivi o armi da fuoco), sia sul terreno politico, con una serie di interventi che criticavano il carattere disperato (per la netta sproporzione dell’armamento delle due parti) di molte azioni violente spontanee e proponevano la rinuncia alle armi, cioè una specie di “non violenza tattica” che mettesse a nudo la brutalità degli occupanti e aprisse contraddizioni all’interno della popolazione e degli stessi militari israeliani, togliendo ad essi la giustificazione di combattere per salvarsi da un nuovo “olocausto”. Effettivamente molti soldati, dopo avere ubbidito agli ordini di sparare o spezzare le braccia ai giovanissimi che lanciavano pietre, dovettero ricorrere a cure psichiatriche, mentre una minoranza rifiutò di partecipare alle azioni nei Territori, pur accettando di prestare servizio all’interno di Israele, come altri nel 1982 avevano rifiutato di combattere nel Libano, preferendo il carcere alla partecipazione a una guerra non difensiva.

L’Intifada si è protratta per molti anni, almeno fino alla Guerra del Golfo, con varia intensità e moltissime vittime: nei primi tre anni sono morti 900 palestinesi, assassinati dai militari occupanti o dagli armatissimi coloni oltranzisti. Il 25% dei caduti era sotto i 16 anni; sull’altro fronte, nello stesso periodo, si registrano una sessantina di morti tra militari e civili israeliani (tra cui 16 occupanti dell’autobus Tel Aviv-Gerusalemme, fatto precipitare in una scarpata da un palestinese di Gaza, che ha inaugurato la serie degli attentati suicidi nel luglio 1989).

Molte delle vittime israeliane sono cadute sotto i colpi della cosiddetta “Intifada dei coltelli”, consistente in gesti disperati di giovani palestinesi che - soprattutto nell’ultima fase di frustrazione per la mancanza di risultati visibili - si impossessavano di un coltello in una macelleria e colpivano a caso i presenti, per vendicare amici o parenti uccisi. Inoltre, sono state eseguite sommarie condanne a morte nei confronti di circa 350 palestinesi collaborazionisti, o sospettati di esserlo. Molte decine di migliaia di palestinesi sono stati arrestati e detenuti senza processo; oltre 1.400 case sono state demolite, per rappresaglia contro la partecipazione di un abitante a una sassaiola; 85.000 alberi - in gran parte ulivi - sono stati sradicati.

Ma i risultati ci sono stati. Israele è stata gravemente screditata e costretta a non partecipare alla Guerra del Golfo, per non provocare reazioni troppo forti tra la popolazione dei paesi arabi, i cui governi hanno partecipato alla squallida impresa in cambio della cancellazione del debito o di concessioni di aiuti di vario genere.

Da quella guerra lo Stato di Israele è uscito indebolito. Il suo punto di forza, già dal progetto iniziale di Herzl, era presentarsi come “baluardo” dei paesi imperialisti in quell’area, contro la rivoluzione araba. Ma da chi avrebbe dovuto salvare l’Occidente, dopo che tutti i paesi arabi hanno partecipato alla crociata contro l’Iraq? Rimaneva certo una lobby israeliana negli USA - composta anche da non ebrei e perfino da convinti antisemiti - molto importante nelle scadenze elettorali di quel paese, ma il suo peso politico era comunque ridimensionato.

È questo che ha consentito agli Stati Uniti di esercitare una pressione sui governi israeliani, imponendo l’apertura della trattativa culminata nei cosiddetti accordi di Oslo, che non hanno portato a una vera pace ma hanno obbligato Israele a fare alcune concessioni (accettate dall’OLP, ma inaccettabili per il popolo palestinese e, al tempo stesso, sgradite agli oltranzisti israeliani, che hanno lavorato per dilazionarne l'attuazione).

 

Scheda

Gli “accordi di pace” da Madrid a Camp David

Negli ultimi dieci anni gli Stati Uniti, insieme ai paesi imperialisti europei, hanno più volte cercato di far giungere a un accordo Israele e i palestinesi. Alla fine della guerra del Golfo (nell’ottobre del 1991), sotto gli auspici degli Usa e dell’Unione Sovietica, ancora per poco guidata da Gorbaciov, si apre a Madrid con grande clamore coreografico una conferenza di pace. Il tentativo è quello di spingere i palestinesi a firmare comunque un accordo, anche molto insoddisfacente, vista la debolezza della leadership di Arafat. Ma questa conferenza, pur avendo il titolo ambizioso di  “pace in cambio di territori”, nasce già morta a causa dell’accettazione del diktat israeliano di non ammettere la presenza di una delegazione palestinese. Arafat ne resta escluso. Abdel Shafi e Hanna Ashrawi vengono inseriti nella delegazione giordana.

Mentre a  Madrid si consumava il fallimento della conferenza ufficiale, le trattative segrete tra Arafat e Peres spianavano la strada agli accordi. Le sessioni segrete di colloqui si svolsero ad Oslo e in poco meno di due anni portarono alla stretta di mano fra Rabin, diventato capo del governo israeliano nel 1992, Peres e Arafat, sul prato della Casa Bianca il 13 settembre del 1993.

Gli accordi cosiddetti di Oslo, però, creeranno più problemi di quanti non ne volessero risolvere. Nella “Dichiarazione di principi” sull’autogoverno palestinese tutti i veri nodi (colonie, liberazione dei detenuti politici palestinesi, gestione delle risorse d’acqua, confini del futuro Stato palestinese) vengono rinviati a colloqui “definitivi”, di cui non viene mai indicata la data.

Nel 1994 due nuove sessioni di accordi (Parigi e Il Cairo), tentano di trovare dei modi di applicazione della dichiarazione di principi del 1993. Sempre nello stesso anno, la Giordania firma il primo accordo economico “ufficiale” con Israele, dopo decenni di accordi sottobanco.

In questo contesto di sostanziale fallimento, riemerge ancora più rafforzata l’ala islamica del movimento palestinese – Jihad e Hamas - grazie al fatto che Arafat accetta il ruolo assegnatogli da Israele: quello del “poliziotto di Gaza” Sono gli anni delle grandi retate fatte dalla polizia palestinese contro chiunque si opponeva agli accordi, con l’alibi della lotta all’integralismo islamico. Nonostante tutto ciò, nel settembre 1995 Rabin e Arafat firmano a Washington dei nuovi accordi (Oslo II) che concedono ad Arafat e all’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) l’amministrazione su una parte minima della Cisgiordania. Accordi particolari nel 1997 riguardano la città di Hebron, dove oltre 20.000 palestinesi sono ostaggi di 400 coloni oltranzisti. Questi accordi dividono in tre zone la città, trasformando la zona antica (palestinese) nei fatti in un ghetto.

Ancora nel 1998(accordi di Wye River) il ridispiegamento, non ritiro, dell’esercito israeliano dalle zone A, sotto controllo palestinese, viene rinviato continuamente. Ad Arafat viene chiesto di accrescere la repressione, in cambio di un 1% della Cisgiordania.

Nel 1999 (un anno prima dello scoppio della rivolta) i nuovi accordi di Sharm el Sheik “ridefiniscono” il calendario di Wye River, giungendo alla conclusione che il ridispiegamento dovrà avvenire non oltre il 13 settembre 2000. Questa data, come le altre stabilite, non sarà rispettata, provocando frustrazioni e la fine dell’entusiasmo che aveva salutato le prime notizie delle intese raggiunte a Oslo.

(Scheda a cura di Cinzia Nachira)

 

La guerra del Golfo ha comunque peggiorato ancor più la condizione dei palestinesi. Non è vero che Arafat avrebbe sostenuto il suo vecchio protettore, Saddam Hussein (che era stato utilizzato d’altra parte fino a pochi anni prima dagli Stati Uniti e dai regimi reazionari del Golfo contro la rivoluzione iraniana, e a cui era stato perdonato il massacro di curdi e sciiti); tuttavia, ha effettivamente cercato, non meno dell’URSS, un’impossibile mediazione per evitare il conflitto. In realtà, sono stati i palestinesi dei Territori occupati e quelli dei campi, frustrati dal mancato sbocco positivo dell’Intifada, a esultareper i modesti e imprecisi missili iracheni che passavano sulle loro teste, e a pagare per questo un prezzo altissimo. Ancora più pesanti le ripercussioni sui palestinesi che lavoravano – spesso con incarichi qualificati e ben retribuiti– nei paesi del Golfo, che sono stati quasi tutti licenziati ed espulsi, facendo così mancare le loro importanti rimesse ai familiari e alla stessa OLP.

Dopo la guerra del Golfo l’Intifada conosce molte difficoltà e un sostanziale declino; aumenta il peso dell’integralismo islamico, ma è anche frequente il ritorno a gesti disperati di terrorismo individuale, tra cui gli attentati suicidi.

 

È questo contesto che va tenuto presente per capire e non demonizzare il terrorismo che dilaga nei momenti di sconfitta e di frustrazione. Il primo elemento che va tenuto presente è che il terrorismo palestinese è frutto quasi sempre della disperazione, mentre si trova di fronte un terrorismo di Stato che, ad esempio, pratica sistematicamente massicce rappresaglie su familiari o concittadini sicuramente innocenti come ritorsione al gesto di una singola persona. Il fatto che si usino cannoni, aerei ed elicotteri o missili invece di un candelotto di dinamite non toglie certo responsabilità, anzi le aggrava. Lo Stato di Israele ha più volte abbattuto o dirottato aerei in tempo di pace, ha perfino attaccato nel 1967 la nave spia statunitense Liberty, fingendo di credere che fosse egiziana, provocando 34 morti e 75 feriti e danneggiandola gravemente per impedire che controllasse i suoi movimenti. L’alleanza non era evidentemente ancora consolidata, ma già era tale che gli Stati Uniti finsero di credere alle scuse dell’aviazione israeliana; solo quest’anno si è ammesso che in realtà erano consapevoli, e preferirono tacere.

Fin dal 1948 Israele ha praticato la distruzione di interi villaggi, uccidendo una parte della popolazione e mettendo in fuga con il terrore i sopravvissuti e gli abitanti dei villaggi vicini. Il 9 aprile toccò a Deir Yassin, con un bilancio di circa 250 morti. Altre distruzioni “per rappresaglia” vi furono nel 1953, a Qibya (60 morti, per reazione alla morte di tre israeliani, uccisi non si sa da chi), mentre 500 civili furono assassinati a freddo durante la conquista di Gaza nel 1956, 200 a Khan Yunis e altrettanti a Rafa, e 49 contadini furono sterminati mentre tornavano dal lavoro ignari del coprifuoco imposto da Israele a Kfar Qasim. Queste operazioni furono compiute direttamente da militari israeliani. Alcuni di essi furono sospesi dal servizio quando scoppiò lo scandalo sulla stampa di Tel Aviv, ma furono successivamente richiamati e continuarono la propria carriera avanzando normalmente nei gradi. Più noti i massacri che nel Libano furono delegati ai mercenari falangisti.

In varie occasioni furono dirottati aerei, o anche abbattuti, nella convinzione di trovarvi dirigenti palestinesi (come Habbash nel 1973), o generali egiziani ritenuti particolarmente capaci. In vari periodi vi furono assassinii di dirigenti palestinesi con pacchi bomba o perfino telefonini bomba, o con commandos che colpirono a Beirut o a Tunisi (dove un bombardamento del Quartier generale palestinese provocò decine di morti civili).

Il terrorismo del Mossad (il servizio segreto israeliano) ha poi colpito con particolare accanimento gli esponenti palestinesi più impegnati nel dialogo con i pacifisti dello Stato di Israele, a partire da Said Hammami, rappresentante dell’OLP a Londra, assassinato il 4 gennaio 1978. Un altro diplomatico mederato, ‘Izz al-Din Kalak, fu ucciso a Parigi il 3 agosto dello stesso anno, e il 10 aprile 1983 fu eliminato in Portogallo Issam Sartawi, erede di Hammami e principale sostenitore del dialogo con i pacifisti israeliani. Al suo posto Arafat nominò Ilan Halewy, un ebreo di origine yemenita che dopo avere militato nel Matzpen, l’organizzazione della sinistra rivoluzionaria di tendenza trotskista, aveva deciso di lasciare Israele e mettersi a disposizione dell’OLP.

Quattro dirigenti palestinesi, d’altra parte, sono stati assassinati anche in Italia: tra essi, già nel 1972, il rappresentante dell’OLP a Roma Wael Zwaiter, che aveva stabilito importanti rapporti con molti ebrei italiani. Gli altri tre, tutti uccisi in una Roma in cui il Mossad scorrazzava indisturbato, erano Majed Abu Sharar, responsabile del dipartimento dell’informazione dell’OLP (9 ottobre 1981), Kamal Hussein, vice-responsabile dell’OLP in Italia e Nazih Maitar, giornalista (17 giugno 1982, nei primi giorni della guerra del Libano).

Meno noto, ma emerso da testimonianze di protagonisti sulla stessa stampa israeliana, è il fatto che il terrorismo del Mossad colpì anche ebrei, per esempio a Bagdad, per indurli a emigrare in Israele. Un altro episodio sconcertante aveva provocato una grave crisi politica in Israele (“l’affare Lavon”, dal nome del ministro che risultò il mandante), quando alcuni ebrei egiziani furono scoperti nel 1954 mentre mettevano ordigni esplosivi in centri culturali britannici e statunitensi al Cairo e ad Alessandria, per addossarne la responsabilità al governo locale e preparare psicologicamente l’opinione pubblica occidentale all’intervento, che poi vi fu nell’ottobre-novembre 1956. Sulla grande stampa italiana e mondiale questo non sarebbe terrorismo: esiste solo quello palestinese!

In realtà, è proprio l’esempio del feroce ma efficace terrorismo con cui i sionisti hanno conquistato il loro Stato, e poi lo hanno consolidato, che ha spinto chi è esasperato da tante sconfitte e da tanti lutti a cercare questa strada.

Il terrorismo palestinese di oggi è tuttavia condannato dalla direzione dell’OLP e forse da una parte notevole della stessa popolazione, che ne subisce le conseguenze, con i bombardamenti, le distruzioni di case, ecc. Ed è tanto più assurdo - oltre che immorale e giustamente paragonato ai metodi dei nazisti - il metodo della rappresaglia sulla popolazione civile sicuramente innocente, dal momento che è evidentemente inefficace come deterrente. Chi, spinto dalla disperazione e dalla rabbia per le ingiustizie subite, è pronto ad allacciarsi una cintura di esplosivo alla vita per morire insieme ai propri nemici (come fece Sansone con tutti i filistei) non può certo essere fermato dall’esempio delle rappresaglie che hanno seguito gli attentati precedenti edè anzi esasperato da queste e sospinto ancor più decisamente su questa strada, che innesca una spirale tragica. È scandaloso che dopo ogni attentato suicida di un integralista palestinese la cosiddetta “opinione pubblica” occidentale condanni chi lo ha compiuto e non chi lo ha provocato, o almeno li metta sullo stesso piano (come fa buona parte della stessa sinistra italiana), dimenticando che la responsabilità degli israeliani è senza dubbio collettiva e ben maggiore di quella di chi reagisce individualmente ai bombardamenti e agli altri atti di rappresaglia dell’esercito, compiuti su una popolazione che spesso non ha nulla a che vedere con l’integralismo e soprattutto con il singolo “kamikaze” che si è fatto saltare in aria in un locale pubblico o ha fatto precipitare l’autobus su cui viaggiava in un burrone.

Scheda

La seconda Intifada

Il 28 settembre 2000 Ariel Sharon, all’epoca leader dell’opposizione al governo del socialdemocratico Ehud Barak, entra, circondato dalle telecamere di tutto il mondo e da un cordone di sicurezza imponente, nella Spianata delle Moschee. L’operazione, mediatica più che politica, di Sharon ha l’obiettivo - primario in quel momento - di sottolineare il fallimento di Barak, che nel luglio non è riuscito ad imporre ad Arafat la resa incondizionata.

La reazione palestinese è scontata, la repressione anche. Ma molte volte durante i sette anni di tregua di Oslo si sono avuti dei momenti di tensione. Nessuno, dentro e fuori i territori occupati, si aspettava che da quella scintilla venisse fuori una rivolta che, per molti aspetti, risulta essere più imponente ed importante della prima Intifada del 1987, anche se per altri aspetti più debole politicamente.

Il primo fattore che emerge è che Arafat, tornato trionfante dal rifiuto opposto a Camp David, è costretto a cavalcare la rivolta. Il secondo elemento di novità è l’unità dei palestinesi, non solo tra quelli residenti a Gaza e in Cisgiordania, ma anche con i “palestinesi israeliani (ossia rimasti tenacemente nello Stato d’Israele, soprattutto in Galilea, al momento della violenta espulsione degli altri) e con quelli della diaspora (Paesi arabi, Usa ed Europa). Il terzo fattore è l’emergere di una leadership palestinese formatasi negli anni di tregua. I veri dirigenti della lotta sul campo sono dirigenti locali, in gran parte legati ad al Fatah, che di fatto hanno costretto Arafat a non usare la polizia palestinese contro le manifestazioni.

L’aspetto di debolezza di questa rivolta sta nella mancanza di un programma reale e concreto. La reazione israeliana alla rivolta è stata bestiale: i morti dall’ottobre 2000 ad oggi sono oltre 700, i feriti non si contano più, gli alberi sradicati dalle ruspe sono quasi centomila, le case abbattute sono molte centinaia, il blocco totale dei territori ha prodotto una disoccupazione che supera il 70% a Gaza e si avvicina al 50% in Cisgiordania.

Dopo la prima fase di entusiasmo e mobilitazioni massicce, il bilancio della repressione porta a una nuova crescita degli attentati suicidi da parte di militanti integralisti islamici, che irrigidisce la politica del governo israeliano e rende più lontana una soluzione politica anche parziale. Gli accordi precedenti sono stracciati da violazioni del pur limitato territorio assegnato all’Autorità palestinese, invaso da carri armati, mitragliato e bombardato da elicotteri da combattimento. Una “nuova” forma di repressione è l’eliminazione con attacchi ad hoc di militanti e dirigenti palestinesi. Codificata “ufficialmente” da Sharon, divenuto capo del governo il 6 febbraio 2001, è stata una caratteristica che ha contraddistinto anche il governo Barak. Tabhet Tabet, noto medico di Nablus e dirigente della rivolta in quella città, e il direttore della televisione palestinese, assassinato in pieno giorno in un ristorante di Gaza City, sono solo due dei quasi venti dirigenti assassinati in questi mesi. L’obiettivo che il governo di Sharon, ma prima ancora quello di Barak, hanno perseguito con l’attuazione di questi metodi terroristici è la decapitazione dell’organizzazione che in questi mesi si sono data i palestinesi.

Gli integralisti islamici, nei primi mesi cruciali della rivolta, sono rimasti di fatto ai margini. Non a caso nei primi quattro mesi i morti israeliani sono stati solo 50, contro 400 palestinesi. È solo nella fase successiva che le perdite israeliane sono cresciute, per la ripresa degli attentati suicidi.

Chi voleva spacciare la rivolta come un colpo di coda del “nuovo nemico islamico” è rimasto deluso. Sicuramente, d’altronde, le migliaia di giovani che in questi mesi hanno affrontato l’esercito israeliano a mani nude o poco più sono gli stessi che negli anni della delusione e frustrazione seguita ad Oslo riempivano le moschee e rispondevano agli appelli degli Imam.

La rivolta del 2000 ha dimostrato che l’ascesa di consenso - sociale prima che politico - registrata dall’integralismo è legata alla mancanza di una sponda politica. In questo senso i Tanzim (una organizzazione nata nel 1995 all’interno di al Fatah), hanno nei primi mesi ridato espressione politica e organizzativa a ciò che covava sotto le ceneri e che solo gli illusi pensavano potesse spegnersi con l’acqua di nuovi accordi al ribasso. Successivamente l’autorganizzazione si è estesa anche alle altre forze politiche, islamici compresi, con la creazione dei Comitati popolari presenti capillarmente nelle città e nei villaggi.

Ogni qualvolta Arafat ha tentato in questi undici mesi di accettare accordi che, come di norma, prevedevano da parte palestinese impegni sulla “sicurezza” (ossia repressione) e da parte di Israele dichiarazioni di buone intenzioni (nessun impegno sullo smantellamento delle colonie, nessun impegno sui confini, ecc.), le organizzazioni di base hanno semplicemente ignorato le sue indicazioni. Le ritorsioni terroristiche ad atti individuali, per quanto devastanti, hanno innescato una spirale che non è semplicemente di “vendette reciproche”. In questo senso l’occupazione della Orient House e la chiusura di una decina tra uffici e sedi umanitarie a Gerusalemme Est, insieme al tentativo di assassinare con un missile Mustafa Barghuti, principale leader dell’Intifada e possibile successore di Arafat, dimostra il fatto che Sharon e Peres (sulle cui “posizioni alternative” abbiamo seri dubbi) puntano ancora una volta sulla debolezza politica di Arafat.

L’entrata dei carri armati a Jenin e l’accerchiamento di Betlemme dimostrano che la volontà politica del governo israeliano è quella di mettere nel modo più brutale la parola fine non solo a questa rivolta, ma alla “questione” palestinese. Peres (incantando ancora una volta parte della sinistra europea) si è affrettato a dire che non c’è in programma la “rioccupazione” dei Territori (ma li hanno mai abbandonati?). È chiaro che il dilagare dei carri armati e dell’esercito a Gaza e in Cisgiordania comporterebbe un coinvolgimento ben superiore degli stessi soldati israeliani, che finora si sono “limitati” a bombardamenti indiscriminati di civili e ad “assassinii mirati” di singoli militanti palestinesi, ma anche di bambini sopra e sotto i dodici anni.

(Scheda a cura di Cinzia Nachira)

 

Il ruolo dell’opposizione israeliana

Dell’opposizione interna a Israele si parla poco e spesso a sproposito, ma esiste. Solo che in alcuni momenti è stata isolata dall’opportunismo dei laburisti, che in molti periodi, come quello attuale, non hanno esitato a collaborare a governi di coalizione che hanno compiuto crimini gravissimi (d’altra parte era stato lo stesso Rabin, che dopo la sua uccisione da parte di un estremista di destra fu esaltato in tutto il mondo come uomo di pace, a impartire l’ordine di spezzare le ossa delle braccia ai ragazzi palestinesi che tiravano pietre).

Ad esempio, all’inizio della guerra del Libano Peace Now, il famosissimo movimento pacifista egemonizzato dai laburisti, teorizzò che non bisognava fare manifestazioni per non indebolire lo sforzo bellico, così le prime proteste raccolsero poche centinaia di militanti della vera sinistra antagonista, che venivano represse non solo dalla polizia ma dagli stessi concittadini, che li accusavano di essere traditori e “servi di Arafat”. Tuttavia, quando i caduti israeliani in quella guerra cominciarono ad essere tanti (circa 600, molti di più che in tutti gli attentati palestinesi dei quindici anni precedenti), le manifestazioni crebbero e coinvolsero anche i moderati, che alla fine portarono in piazza duecentomila persone. (Per capire l’ambiguità e le contraddizioni dei laburisti, e dei minori partiti di sinistra, è utile pensare ai DS di fronte a Genova: quando sono stati premuti da una sinistra antagonista che incideva sulla loro base hanno finito per aderire alle manifestazioni, salvo immediati pentimenti e conseguenti lacerazioni).

Ma la coraggiosa sinistra antagonista israeliana, che ha cercato sempre il dialogo con i palestinesi a partire dalla solidarietà con le vittime di soprusi, a cui ha assicurato ad esempio la difesa legale, è poco conosciuta nel mondo, mentre ogni blanda e ambigua dichiarazione laburista viene amplificata dall’Internazionale socialista (quindi in Italia dal PCI-DS, e a volte, per forza di inerzia, anche da una parte del PRC) e da tutti i mass media. Bisogna quindi assolutamente sostenere i militanti israeliani che si oppongono da sempre alla politica criminale (e in prospettiva suicida) dei loro governi, e prima di tutto farli conoscere. Sono loro che potranno garantire, un giorno, la pacifica convivenza tra israeliani e palestinesi.

 


 

L’inconsistenza dell’Onu

Abbiamo più volte ricordato come le poche prese di posizione corrette dell’ONU non sono state applicate. Ciò si deve in primo luogo al peso schiacciante degli Stati Uniti attraverso il Consiglio di Sicurezza in cui hanno diritto di veto, ma anche alla subordinazione di tantissimi governi di paesi ex coloniali all’imperialismo. Per questo non ci sono state che blande proteste quando all’inizio della guerra del Libano i carri armati israeliani hanno spazzato via le forze di interposizione delle Nazioni Unite, o quando nell’aprile 1996 l’aviazione sionista ha attaccato una caserma dell’ONU, uccidendovi oltre 100 civili libanesi che vi si erano rifugiati.

Non può quindi essere una soluzione quella di richiedere un maggiore intervento dell’organismo internazionale: per renderla possibile e utile bisogna creare nel mondo un movimento di solidarietà con il popolo palestinese ben più forte e cosciente di quello oggi esistente. A questo, per quanto ci riguarda, abbiamo cercato di contribuire anche con questo opuscolo informativo.

 

 

 


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