Toumbin Story La rocchetta '47-'57 I primi passi del clan La Freccia Rossa
Pubblicazione per il 50° del Clan “La
Rocchetta”
In occasione dell’ annuale incontro al
Santuario della Madonna della Rocchetta del 18/19 Ottobre 1997 si e’
celebrato il 50° di fondazione del
Clan del Milano 1°, Clan che prese il nome dall’ omonima chiesetta
e dalla Torre di ultima resistenza del Castello Sforzesco
Il programma dell’ uscita che era
particolarmente dedicata all’ occasione, ha riunito i membri del Clan del
momento assieme ad un certo numero
di coloro che, nel corso dei decenni precedenti, hanno avuto l’ opportunita’
di
vivere quella particolare esperienza che
e’ il Roverismo.
La gioia d’ incontrare nuovamente compagni
di strada e d’ avventura, il condividere ancora emozioni gia’
vissute ed ancorpiu’ la constatazione
che gli ideali di un tempo sono ancora attuali, se pur inseriti in una
società dai
valori “aggiornati”, hanno fatto nascere,
in alcuni dei presenti, l’ idea di raccogliere testimonianze della ”strada”
percorsa, della storia vissuta,
dei pensieri e delle emozioni del tempo della vita di Clan e di quella
a seguire.
Naturalmente tutto questo vale anche per le sorelle Scolte del Fuoco della Torre Saracena successivamente unitosi alla Rocchetta
L’ iniziativa e’ stata lanciata nella speranza
di lasciare una “traccia” in grado di ricostruire la storia
del Clan/Fuoco, dei suoi Valori iniziali, di quelli presenti
e di quelli attesi dal futuro a cui si preparano gli attuali rovers/scolte
del Clan
della Rocchetta e del Fuoco della Torre
Saracena.
Il risultato di questa impresa “in sordina”
vuole essere un documento (cartaceo ed informatico, visti
i tempi) in
grado di comunicare, a chi vorra’ esserne
partecipe, le esperienze ed i valori che hanno guidato e guidano
tutti
coloro che hanno contribuito e stanno
contribuendo a “costituire” il Clan/Fuoco con la “comunicazione”
delle sue
realtà attese e vissute,
delle fatiche e delle gioie della partecipazione al progetto di costruzione
dell’ “Uomo” cui
tende il Roverismo. (e’ doveroso ribadire
che l’ “Uomo” qui richiamato comprende “esseri maschili e femminili” –
per fortuna !)
Per rendere piu’ agevole l’ attivita’ (sfruttando
anche la memoria storica dei piu’ volonterosi) e’ stato deciso di
costituire una serie di gruppi di lavoro
suddivisi per decenni di vita delle Unita’; ai coordinatori di tali gruppi
si chiede
di far pervenire le varie
testimonianze e/o documenti disponibili.
Ad oggi (marzo 2000) sono giunti ad alcuni
dei gruppi di lavoro numerosi documenti dal contenuto di carattere sia
storico sia di commento/comunicazione
di esperienze vissute, ma risulta decisamente esiguo il numero delle
testimonianze che si riferiscono agli
ultimi due decenni della vita di Clan/Fuoco.
Il desiderio di completare l’ impresa
con l’ aiuto e la partecipazione dell’ intero Clan/Fuoco, ci spinge a
rilanciare (in forma anche tecnicamente
piu’ consona ai tempi) il richiamo a suo tempo diffuso, riportando la
circolare di avvio dell’ attivita’
ed il documento guida messo a punto per l’ occasione.
Qualunque forma di partecipazione (comprese
note di dissenso, peraltro gia’ pervenute) indirizzata ad una
qualsiasi delle persone indicate
nell’ apposito elenco piu’ in la’ riportato( e disponibili ad ogni forma
di incontro) sara’ particolarmente utile ed apprezzata.
Buona Strada
Il gruppo di coordinamento
Milano, marzo 2000
- Antefatto -
Correva Fanno 1947. La guerra era finita da due anni, lo Scautismo iniziato . o meglio "ripreso" pure da due , così come ce lo avevano preservato e tramandato le mitiche "Aquile randagie" che avevano consentito di formare già nel '45 i primi Reparti di entusiasti giovani che scoprivano un modo, sino ad allora sconosciuto/ di vivere la loro gioventù: desideravano l'AVVENTURA.
E l'avventura, alla base del grande gioco e della formazione Scout., ebbero.
Prima., tra i boschi ed i monti. nelle uscite di Reparto e di squadriglia, nei Campi di San Giorgio, al primo Jamboree a Moisson, nella preparazione e nella conquista del brevetto di seconda classe. Ben presto però ai ragazzi, di quattordici sedici anni'. che nel `45/46 abbracciarono lo scoutismo, le attività di reparto e di squadriglia andarono strette: volevano PIU' AVVENTURA.
Lo scoutismo aveva già la risposta pronta: la vita di CLAN, il ROVERISMO. Due parole, due concetti magici ignoti ai più, a quei tempi.
Don Andrea Ghetti detto Baden Suo fratello Vittorio. detto Cicca, (insieme costituivano la "Càghetti") e Michel Dubot cominciarono., all'apertura dell'anno scout 1947, a riunire una trentina di scouts, irrequieti e pronti a maggiori avventure, provenienti da vari reparti milanesi (il I°- V° - VI° - VII° -VIII° e IX°) La cosa non fu certo facile; non tanto per mancanza di aspiranti Rovers quanto per la comprensibile ritrosia dei
Capi reparto ed Assistenti a privarsi dei
loro ragazzi più anziani e preparati sui quali già contavano
per ampliare i quadri dei reparti in espansione Ma la consumata diplomazia
della Premiata Càghetti e la consapevolezza che non potevano osteggiare
la naturale prosecuzione della formazione scout dei loro ragazzi, fece
si che tutti furono d'accordo di formare il primo embrione di Clan milanese.
All'inizio dell'Anno Scout 1947/48, in ottobre, una trentina di scouts
lasciarono le unità che li aveva formati sino ad allora.
Il nome non c'era ancora ed ognuno portava
le insegne del proprio Reparto di provenienza. Ora non c'era che da riunire
ed amalgamare l'eterogenea Banda. Cosa poteva esserci di meglio dell'avventura
?
- Fatto -
La prima avventura propostaci dai nostri nuovi Capi fu la discesa dell'Adda da Lecco a Milano usufruendo della via navigabile Lago di Como - Milano, voluta dagli Sforza e progettata da Leonardo,, che comprende nell'ultimo tratto il Naviglio della Martesana., con sbarco a Porta Nuova (non meravigliatevi: allora la pulitissima Martesana non era coperta e la Via Melchiorre Gioia era una stretta Alzaia, con una bella balaustra il granito, che costeggiava il naviglio sino ai bastioni dove sono ancora visibili i vecchi portoni delle conche che hanno anticipato il Canale di Panama) Pare che la cosa fosse già stata recentemente fatta, in canoa, da 2 o 3 vecchi scouts che ne raccontarono le meraviglie ad Andrea e Vittorio Ghetti. Con perfetto stile scout passammo dal progetto all'esecuzione in un batter d'occhi. Due grossi gommoni da sbarco USA, tipo "D Day" per intenderci, con circa 10 posti ciascuno e 20 pagaie al posto delle eliche, furono spediti ai nostri amici di Lecco che li custodirono sino a un sabato di fine ottobre quando arrivammo, tutti pimpanti, nel primo pomeriggio. Eravamo 17 ragazzi (per gli amanti della cabala è importante).
I Comandanti della flotta erano Vittorio
e Michel. assente giustificato Baden. Gonfiammo i due canotti, e fu il
primo grosso esercizio fisico dell'avventura, li varammo, li armammo e
alfine partimmo. Era ormai buio, o quasi. Proprio come la fuggiasca Lucia,
scendemmo per un po' l'Adda a Pescarenico e poi il laghetto di Garlate,
quando, nel buio più profondo, sentimmo un forte scrosciare d'acqua:
erano le chiuse di Garlate, che regolano il flusso dell'Adda e quindi il
livello del Lago di Como. delle quali i più ignoravano del tutto
l'esistenza. Nel buio ci eravamo avvicinati troppo. Non fu affatto un problema
di poco conto allontanarci dalla zona delle chiuse data la velocità
della corrente e l'afflosciamento del tubolare dì un gommone che
certo non aiutava la manovra. Segni premonitori?
Alfine approdammo a Garlate, si trovò
un vulcanizzatore che si prestò volenterosamente a riparare il tubolare,
e noi pure "riparammo" nell'oratorio dove srotolammo i nostri sacchi a
pelo su soffici pavimenti di cemento. Nessuno ci cantò la ninna
nanna.
L'indomani, di buon mattino. Santa Messa
colazione e via. Finalmente eravamo veramente in navigazione sul filo della
placida corrente dell'Adda, immersi in un paesaggio pastorale estremamente
suggestivo fatto di acque,di monti, di boschi e prati. Inimmaginabile se
non lo si vede dal fiume. Facevamo forza sulle pagaie, ed avevamo nei cuori
una gioia incontenibile: coi nostri nuovi compagni, che sarebbero presto
diventati i nostri migliori amici per la vita, avevamo iniziato l'AVVENTURA,
lo sentivamo.
Pagaiando pagaiando arrivammo tranquillamente
al ponte in ferro di Paderno d'Adda e, poco più in là, l'Adda
spariva.
E non fu una sorpresa da poco! Andava
sottoterra, sotto la scoscesa riva di destra.
E noi? In secca! Ci sentivamo truffati.
In fondo al canalone scavato dal fiume
dove noi eravamo. avevamo di fronte una larga diga in travi di legno, appoggiate
ai piloni di un ponte in pietra ad otto archi, che deviava tutta l'acqua
del fiume sotto gli archi alle estremità di destra e di sinistra
dove iniziavano due brevi canali artificiali. Il canale di sinistra portava
ad una delle prime centrati idroelettriche lombarde la 'Semenza" di Calusco
dAdda. (che, pur essendo stata costruita solo 25 anni prima, ai giorni
nostri è già classificata come '.archeologia industriale")
Essa è parte del /sistema idroelettrico dell'Adda' che, letteralmente.
ci travolse tutti di lì a poco.
Il canale di destra portava metà
dell'acqua fluente nel fiume al portone di una conca, chiuso, e ad una
piccola costruzione ove erano installate tre chiuse, aperte (che bel bisticcio),
che regolavano il flusso di quella enorme massa d'acqua che si gettava
nel canale del nostro destino: largo circa 6 metri, profondo anche di più
e con una velocità intorno ai 15/20 chilometri orari. La descrizione
è certamente prolissa ma necessaria per capire e valutare quanto
poi successe e come successe.
Lo spettacolo era bello, ma non avevamo
l'animo per gustarlo come meritava: l'Adda era pressoché senzacqua,
e anche se la corrente non fosse stata deviata dalla diga, il letto era
diventato una forra disseminata di rocce,ed appunto per questo Leonardo
fu incaricato dal Moro di costruire un canale a conche., come la Martesana,
che permettesse la navigazione anche in questo tratto tormentato che la
precludeva (si dice che Leonardo apprezzò talmente questo paesaggio
da dipingerlo come sfondo alla sua Gioconda). Purtroppo per noi il " canale
navigabile" tale non era più per mancanza di manutenzione, di utenti
e soprattutto per le necessità idroelettriche che utilizzavano l'intera
corrente del fiume. Le opzioni rimasteci erano trasportare i due canotti.,
del peso di circa trecento chili ciascuno - pagaie e zaini compresi -,
con un camion o un carretto., o fare come i "marines" e trasportarli a
spalla, in due riprese, sino a quando avremmo ritrovato navigabile l'Adda....
circa quattro chilometri a valle. Nessuna delle due opzioni era praticabile.
La prima non lo era per la totale mancanza di mezzi in vista, la seconda
per la prevedibile mancanza di fiato dei "rnarines" col cappellone. La
necessità è vero che aguzza l'ingegno, ma può anche
essere cattiva consigliera. E lo fu.
- Fattaccio -
A risolvere la situazione, si fa per dire,
spuntò in quel mentre il "cattivo consigliere" . Aveva le sembianze
d’un onesto carrettiere vestito per la festa. Infatti era Domenica. Ma
il cappello nascondeva le corna e i pantaloni la coda a freccia. Per comprenderne
il linguaggio mettemmo insieme un team composto da un milanese, un monzese
e, determinanti, un bergamasco ed un brianzolo.
Il nostro uomo,. alle domande debitamente
tradotte, rispose che o si portava il tutto a spalle sino alla prossima,
si fa sempre per dire, Centrale di Porto d'Adda, dove l'acqua lì
sottratta veniva restituita al fiume dopo aver fatto il dover suo, o raggiungevamo
la Centrale servendoci del canale che stava proprio dinanzi a noi, a tre
metri. Come resistere alla tentazione? Era proprio quello che speravamo
e nello stesso tempo temevamo dicesse! Pur già determinati a seguire
il consiglio, chiedemmo maggiori dettagli e, con ricchezza di particolari,
ci raccontò che lui stesso, con carretto e cavallo/ aveva seguito
parecchie volte, e anche recentemente, quel percorso per fare manutenzione
quando cera "la sùta" ovverosia quando il canale era in secca ed
il fondo si trasformava in autostrada. Semplicissimo! Ci disse pure che
il canale per tre tratte scorreva in galleria ma che dai segni che l'acqua
lasciava sulle pareti in muratura, il livello si manteneva sempre almeno
ad un metro e mezzo sotto la volta delle gallerie.
Una volta raggiunta la Centrale poi, non
ci sarebbe stato alcun problema a sbarcare in quanto .... di fronte alle
prese delle condotte forzate era posta una robusta e fitta griglia per
proteggere le turbine dai rami portati dalla corrente e, a volte, da qualche
annegato, ma di rado.... In definitiva bastava avere una pila elettrica,
che avevamo, e un po' di prudenza, che .... E poi il RISCHIO non era parte
integrante dell'Avventura, del nostro Grande gioco? Se ben valutato ed
affrontato nel modo giusto, non era parte determinante della formazione
del Rover e dell'Uomo che doveva allenarsi ad affrontare e dominare ogni
situazione anziché subirla? Non avevamo forse già ricercato,
affrontato e superato altri Rischi? Ci sentivamo, un po' troppo spavaldamente,
ed anche superficialmente, pronti a correre e superare anche questo. Si
tenne un rapido consiglio intorno ai canotti I. il che ebbe il suo peso,
e via! Dietro di noi lasciavamo la prospettiva di una sfacchinata senza
gloria e dinanzi avevamo la visione di una diritta via: l'Avventura.
Preparammo in un attimo due ancore tipo
"età della pietra". (anche perchè le fabbricammo con due
ciottoloni di fiume legati in croce con la fune scout d’ ordinanza). Pensavamo
di rallentare la corsa dei canotti, che era facile prevedere piuttosto
allegra, trascinando le due pietre sul fondo.
Rimettemmo in acqua, a valle delle chiuse,
i due gommoni, ci rimettemmo dentro i nostri zaini, legammo a poppa le
rispettive "ancore",accendemmo due pile elettriche e, prese le pagaie,
mollammo gli ormeggi ringraziando e salutando a gran voce il nostro carrettiere-consigliere.
Solo quando si scappellò per salutarci a sua volta, vedemmo spuntare,
ritte, due ombre: le corna?
Immediatamente la corrente ci prese e
ci trascinò, le pagaie erano del tutto inutili se non per tenerci
in mezzo al canale, la velocità era, più che allegra, esilarante
malgrado le due ancore di pietra che ci trascinavamo sul fondo, e che comunque
perdemmo dopo non più di trenta metri facendoci guadagnare ancora
un po' di velocità. Ma ecco dopo un centinaio di metri profilarsi,
sull'erta riva boscosa, una volta in mattoni che ingoiava il canale. In
omaggio al buon senso, ed a scanso di responsabilità, l'Azienda
Elettrica Municipale di Milano aveva fatto tendere, da una sponda all'altra
del canale, una robusta catena con appesi un paio di cartelli metallici
con la scritta: VIETATO PASSARE PERICOLO; era tutto in regola. La catena
era alta sul pelo della corrente circa un metro, i tubolari dei gommoni
sui quali eravamo seduti erano alti più o meno cinquanta centimetri,
noi sporgevamo quindi per altri sessanta/settanta centimetri. Arrivammo
velocissimi alla catena e, senza ragionare troppo su quanto era scritto
sui cartelli, che leggemmo a malapena, distinto ci abbassammo sui tubolari
dei canotti e passammo sotto la catena ed i suoi cartelli come se niente
fosse. Dopo venti metri fummo ingoiati dal buio e dal rumore infernale
d'acqua scrosciante della prima galleria. Non si ebbe il tempo di aver
paura perchè in un attimo ne fummo fuori. La galleria era diritta
e lunga non più di duecento metri. Felici nel vedere quanto fosse
facile e veloce navigare in quel benedetto canale che ci evitava la sfacchinata.,
intonammo un liberatorio "E NOI
NAVIGHIAMO E NOSTRO E' L'AVVENIR!!"
E l'avvenire nostro era appena più in là, subito dopo una
dolce curva verso sinistra. La storia si ripeteva: una catena tesa tra
le due rive del canale coi soliti cartelli tanto per far paura. Questa
volta però era un po' più bassa sull'acqua: appena ottanta
centimetri, lasciandone per i pagaiatori solo trenta. Quelli più
a prua, con maggior visibilità, o si buttarono sui paglioli o appoggiarono
il palmo della mano alla catena alzandola di quel tanto che bastava per
passarle sotto. Due dei nostri a poppa, tra i quali l'amico di sempre Ugo
Zatterin, il biondino, alla catena invece si aggrapparono e furono di colpo
strappati via dai canotti. Li vedemmo penzolare dalla catena, immersi sino
al petto nella veloce corrente. Il primo pensiero che mi venne fu: "poveretti,
che fregatura, adesso si devono fare tutta la strada bagnati e a piedi
….mentre noi…. " mentre noi entravamo subito dopo nella seconda galleria.
Lì il rumore dell'acqua era veramente mostruoso, entrava nel profondo
di noi. Un istante dopo: un urto, l'acqua si alzò sul nostro fianco
sinistro in una grande onda che entrò nel canotto poi, in rapida
successione, il fondo del canotto sparì di sotto i piedi e noi occupanti
ci trovammo schiacciati, all'altezza del torace, tra i due tubolari del
canotto, immersi nell'acqua che cercava di strapparci via, nel buio quasi
assoluto e con un rumore tale da rendere
quasi incomprensibili le nostre voci, anzi, le nostre grida. Che successe?
Appena dopo l'ingresso, dieci/quindici
metri, la seconda galleria piegava decisamente verso sinistra e, dopo altri
sei/sette metri, la volta era attraversata, a pelo d'acqua, da una "catena",
ovvero da una robusta sbarra di ferro da parete a parete come si vedono
in tante vecchie Chiese e palazzi. Il primo gommone l'aveva urtata fermandosi
di colpo, il secondo urtò il primo, si mise di traverso bloccandosi
a sua volta e dovette reggere l'enorme spinta della corrente su tutta la
lunghezza del suo fianco sinistro. Per una decina di secondi l'acqua scavalcò,
entrando ed uscendo dall'altra parte, entrambi i tubolari del gommone.
Poi il pagliolo, o fondo in legno a listoni per i non addetti, che resisteva
sul fondo del canotto alla pressione esercitata sui tubolari dalla corrente
a monte ed a quella del primo gommone a valle, di colpo lacerò la
tela gommata tutt'intorno al fondo del canotto: il pagliolo, le pagaie
e gli zaini sparirono da sotto e noi, prima di fare la stessa inevitabile
fine, fortunatamente fummo schiacciati tra i tubolari che si erano riuniti
come due wúrstel in un panino per effetto della pressione .
Noi del secondo gommone, facendo forza
sui due galleggianti come fossero le parallele, riuscimmo a fatica ad uscire
dalla morsa che ci schiacciava il torace ed il bacino sedendoci poi sui
due galleggianti saldati dalla corrente che continuava a sommergerli per
venti-trenta centimetri.
Dopo un minuto di sbalordimento cominciammo
a renderci conto della situazione. Gli occhi cominciarono a percepire un
bagliore che penetrava dall'imboccatura della galleria, al di là
della curva. e perveniva sino a noi. Ci contammo: mancavano Meo Barbieri
e Sessarego! L'urto li aveva sbalzati nella corrente. Con angoscia mi chiesi:
l'avventura continuava ad essere tale?
Il primo gommone era rimasto pressoché
diritto e affiancato alla parete di sinistra mentre il secondo, completamente
di traverso e senza fondo gli faceva da riparo e continuava ad essere semisommerso
dall'acqua veloce. Per prima cosa parte dei rimasti passarono sul primo
gommone alleggerendo il secondo che cominciò a rimanere. sia pure
di pochissimo, sopra il pelo della corrente. Vittorio e Michel presero
in mano la situazione e fecero subito assicurare i gommoni, con le poche
funicelle a disposizione, ad un isolatore elettrico (senza il relativo
cavo ... ) che spuntava dalla parete di sinistra ed alla catena che aveva
arrestato la nostra corsa. Si cominciò quindi ad urlare tutti insieme
e a dar fiato ai fischietti, con l'esse o esse in morse, nella speranza
che Ugo e l'altro, rimasti appesi alla catena tesa prima dell'ingresso
alla seconda galleria potessero udirci. Ci udirono. Avevamo stabilito un
contatto col mondo esterno. Solo che il contatto era molto ma molto difficile
per noi dato il rumore che sovrastava ogni suono coerente. Loro però
ci sentivano meglio, stando sull'ingresso della galleria, e compresero
il senso dei nostri messaggi morse, inoltre, essendo dei ragazzi intelligenti,
ben immaginarono che là dentro, dove noi eravamo, le cose non stessero
andando per il verso giusto.
Uno dei due si precipitò a chiedere
soccorso ai contadini di una cascina dei dintorni che, pur "saraccando"
per la nostra sconsideratezza (mi dissero che però loro usarono
vocaboli, ben più coloriti ed aderenti alla situazione), corsero
con scale e fascine., le prime cose galleggianti che si trovarono sottomano.,
verso la galleria che ben conoscevano, pericoli compresi dato che non eravamo
proprio i primi ad entrarci. Arrivati all'ingresso della galleria, i soccorritori
lanciarono nella corrente scala e fascina legati ad una robusta corda nell'intento
di farle giungere sino a noi per poi trainarci fuori facendo forza sulla
fune. Ma s'accorsero subito di non poter controllare assolutamente i rudimentali
galleggianti data la velocità della corrente e l'onda provocata
dalla parete in curva. Ben presto abbandonarono l'impresa e corsero verso
la "Semenza", la Centrale a monte, per cercare aiuti "più tecnici".
Saggia e risolutiva decisione. La Semenza contattò la Centrale di
Porto d'Adda, a valle.
Intanto all'interno della galleria il
"Comitato di Crisi" aveva deciso di capire cosa c'era aldilà della
catena che ci sbarrava il passo. Capire cioè se dopo la prima v'erano
altra catene o se era l'unica superata la quale si poteva proseguire. In
caso contrario, pensavamo allora, l'unica via per uscire era quella imboccata
entrando. Vittorio Ghetti e Pippo Benetti Genolini, formarono l'unità
esploratrice. L’ intento finale era di arrivare là dove fosse possibile
organizzare soccorsi, ignorando che già stavano apprestandoli. Non
sapevamo che fine avessero fatto, e dove fossero arrivati Barbieri e Sessarego,
i nostri compagni portati via dalla corrente al momento dell'impatto con
la maledetta catena.
Vittorio e Pippo annodarono le stringhe
degli scarponi e se li misero al collo, poi, con una pila in bocca, che
si spense subito, e detta una breve preghiera, si lasciarono andare nella
rapida, fredda e frastornante corrente verso il buio più completo.
Dopo un attimo sentimmo gridare che vera un'altra catena e che loro procedevano.
Debbo proprio dire che ci volle coraggio e determinazione da parte loro.
Nessuno sapeva cosa ci fosse due metri
più in là: un salto d’ acqua, un mortale sifone, un abbassamento
della volta altrettanto mortale? Andavano incontro, per soccorrere tutti
noi, volontariamente, ad un pericolo mortale avvolti, se ciò non
fosse bastato, da un buio, da un rumore e da una solitudine veramente angoscianti.
La galleria, si seppe poi, era lunga oltre un chilometro e di catene ve
n' era una ogni setto/otto metri . Furono costretti. essendo a livelli
leggermente diversi, a superarle scavalcandole o immergendosi, il più
delle volte dopo averle urtate nella folle corsa sul filo della corrente
e SEMPRE NEL BUIO COMPLETO. Soffermandomi ora a pensarci, solo la determinazione
e la forma fisica, indubbie. non potettero bastare a far approdare vivi
loro ed i due che li precedettero involontariamente ed ancora più
scioccati. Certamente Qualcuno li vide e sorresse anche nell' oscura profondità
della terra.
Noi intanto, condannati all'immobilità,
recitavamo il Rosario.
Vittorio e Pippo, nel frattempo, erano
usciti all'aperto ma non riuscirono subito a salire sulla riva giacché
le pareti del canale erano di liscio cemento e la velocità travolgente.
Scorsero una scaletta fatta di pioli cementati. Pippo fu svelto e fortunato:
ne afferrò uno, uno strattone fermò la sua corsa, prese fiato,
si issò sfinito sulla riva erbosa mezzo metro più su. Vittorio
mancò la prima scaletta (non vera posto che per uno solo) ma, vista
una seconda scaletta ad un centinaio di metri, questa volta non la perse
(dopo un'altra scaletta la corrente entrava nella terza galleria: la più
lunga e pericolosa dato che molte catene erano rotte e potevano seriamente
ferire chi vi s'avventurava. Barbieri e Sessarego, sbalzati via dai gommoni
al momento dell'urto, la percorsero tutta, indenni …..però Sessarego
non fu più visto al Clan …..).
Riunitisi , Vittorio e Pippo, raggiunsero
la Centrale di Porto d'Adda. I soccorsi si fecero più febbrili.
Il Direttore, prendendosi una grossa responsabilità, dato che avrebbe
fatto mancare l'Energia a parte della rete tranviaria di Milano alimentata
da quella Centrale (ignoro come mai non fosse collegata in parallelo ad
altre fonti di Energia), ma certo non sottraendosi all'altra ben più
grave necessità di toglierci dai guai, diede immediate disposizioni
ai suoi collaboratori riservandosi di regolare poi i conti con chi aveva
provocato tanto scompiglio ed ambasce.
Le famose chiuse che avevamo baldanzosamente
scavalcato all'inizio dell'avventura, vennero man mano abbassate. Ed anche
il livello dell'acqua nel canale si abbassava. L’ acqua respinta dalle
chiuse si riversava 1 come previsto in simili occasioni, in un canale scolmatore
e di lì nel letto del fiume. Una parte però dovette sfiorare
sopra la diga in travi di legno, e questo pare non fosse previsto.
Ovviamente l'acqua cominciò ad
abbassarsi anche all'interno della galleria dove noi eravamo sempre a mollo.
Dopo qualche minuto di comprensibile entusiasmo, si presentò subito
un problema, un’ altra incognita. L’ acqua si abbassava ma la velocità
diminuiva di pochissimo. Cosa sarebbe accaduto quando i gommoni non sarebbero
stati più trattenuti dalla catena? E' vero che li avevamo assicurati
con qualche fune, ma sarebbero bastate? Bastarono.
Dopo circa mezzora i gommoni erano scesi
mezzo metro sotto la catena, dopo un altro quarto d'ora : un metro. Bastava
per poter navigare. Noi del secondo gommone, sventrato, riprendemmo posto
mettendoci a cavalcioni sui galleggianti e segnalammo ai soccorritori,
a voce e col fischietto, che eravamo in grado di partire. Ci dettero il
benestare e noi, pur ancora timorosi, mollammo, anzi tagliammo, gli ormeggi.
1 due canotti schizzarono via, sia pure ad una velocità ormai ridotta,
e noi, aiutandoci con le pagaie a mantenerli diritti, in cinque minuti
fummo di nuovo in vista della luce . La baldanza della gioventù,
il pericolo vissuto ed ormai quasi del tutto passato, e forse anche il
bisogno di ridare fiato ai polmoni (l'avevamo trattenuto per tanto di quel
tempo....) intonammo d'istinto un formidabile `E NOI NAVIGHIAMO" che certo
aiutò noi ma che lasciò piuttosto interdetti i soccorritori,
fattisi ormai piccola folla, schierati sulla riva e che, lanciate alcune
funi ci assicurarono ai pioli delle scalette. Scalette che salimmo
veloci ad abbracciare Vittorio, Pippo, i due amici rimasti appesi alla
catena e tutte quelle meravigliose persone, che il pomeriggio di quella
Domenica si preoccuparono e faticarono per prestare aiuto ad un gruppetto
di sconosciuti ragazzotti, vestiti in una foggia strana e mai vista che
si erano comportati in un modo non condiviso. I giovani, alcuni ci guardavano
con simpatia altri, come spesso accadeva, con un sorriso un po' canzonatorio;
i più anziani, che potevano esserci padri, avevano sguardi che sapevano
di disapprovazione e di rampogna ma erano quelli che più ci abbracciavano
stretti dandoci teneri scappellotti e pacche, raccontandoci di quanto fossero
stati in pena per noi e di quanto fossimo fortunati dato che, a loro memoria,
ben pochi, forse nessuno, era uscito vivo da quelle gallerie. Probabilmente,
dissero i più pii, ed erano tanti, la Madonna della Rocchetta ci
aveva dato una mano.
LA MADONNA DELLA ROCCHETTA? mai sentita
prima d' allora! Ma L'avremmo risentita. Sovente.
Tra loro. che si tenevano però
un po' discosti, quasi a fargli corona, v'era un signore distinto,
col volto più serio di ogni altro: l'ingegnere, il Direttore della
Centrale. Era l'ingegner Righini, che di aver la faccia seria aveva tutte
le ragioni giacche più di ogni altro aveva sopportato le responsabilità
e l'ansia delle decisioni prese e delle manovre eseguite in quelle ultime
due ore: non ci lesinò i rimproveri ma divenne subito il nostro
miglior amico e difensore (giacché di problemi con l'AEM poi ce
ne furono ….). In seguito, la grande umanità e diplomazia di Baden
ampliarono e consolidarono per sempre questo meraviglioso rapporto con
noi e con tutti i ragazzi col Cappellone Boero che negli anni successivi
passarono da quelle parti.
In un attimo tirammo in secca i gommoni
sulla riva, e un soccorritore con un casolare nelle vicinanze., sull'alzaia,
si offerse di ricoverarceli sino al giorno del recupero.
Ora sentivamo il freddo nelle ossa giacche
eravamo ancora tutti bagnati e l'appetito, passato il pericolo, si faceva
prepotentemente sentire nei nostri giovani corpi. L'ingegner Righini ed
altri soccorritori se ne resero conto e c’ invitarono tutti nelle loro
case a riscaldarci ed a rifocillarci. Raggiungemmo l'alzaia del naviglio,
sempre rigorosamente secco, e c'incamminammo veloci verso la Centrale.
V'e' da dire che noi del secondo canotto eravamo "particolarmente fortunati",
in questa fase dell'avventura, giacché camminavamo leggeri avendo
perso i nostri zaini nella corrente (ma come dirlo ai nostri genitori?....
In famiglia s’ erano dovuti fare dei piccoli sacrifici per farci un buon
corredo scout ……il sacco a pelo e la giacca a vento poi......E che dire
del magnifico zaino col bastino ? - tutti residuati U.S.Army comprati alla
"fiera di Sinigaglia" - Cominciavano i pensieri!)
Ma erano pensieri "grassi" se confrontati
a quelli "magri" appena terminati.
Strada facendo qualcuno ci indicò,
là in alto, sulla sinistra, in cima ad un cucuzzolo roccioso a picco
sul fiume e al termine di una lunga scalinata in mattoni, una Chiesetta
un po' mal messa ma molto suggestiva e ci sussurrò: "è quella
la Madonna della Rocchetta...." ed ognuno, a modo suo, La ringraziò.
Noi tutti sapevamo ....
Sapevamo anche che Barbieri e Sessarego
erano salvi.
Arrivati alla Centrale di Porto dAdda
ci fu gran festa: eravamo di nuovo tutti insieme. Abbracciammo i nostri
amici che avevano battuto ogni record facendosi a nuoto anche la terza,
e più terribile galleria (chissà com’ era! Certo doveva essere
ben brutta . vista la reazione di Sessarego).
Avemmo modo di vedere lo scenario che
si presentò loro quando sbucarono dalla terza galleria nel piccolo
bacino artificiale che stà appena sopra la centrale:
- Alle spalle la ripida riva dell'Adda
dove si staglia il buco nero della galleria dalla quale erompe una gran
massa d’ acqua che s'allarga e si calma un po' nel bacino;
- a destra e sinistra del bacino una larga
banchina in cemento;
- di fronte, sulla sinistra, un salto
d'acqua da dove, a gradoni, precipita per almeno venti metri, spumeggiando,
l'acqua in eccesso non utilizzata dalle turbine. Sulla destra una robusta
grata di barre di ferro verticali e leggermente inclinate all'indietro.
larga quanto è larga la Centrale (30/40 metri?) messa a riparo delle
condotte forzate che portano l'acqua alle enormi turbine.
In piedi, sulla banchina che gira su tre
lati del bacino, e massimamente sopra la grata delle condotte, alcuni uomini
muniti di lunghe pertiche in legno con un grosso uncino ad una estremità.
Pronti ad "arpionare" e tirare in secco sulla banchina i cadaveri degli
annegati (non sto affatto esagerando: obiettivamente la situazione era
quella ) che dovevano certamente arrivare di lì a poco visto il
gran numero di zaini, indumenti i più svariati, pagaie, paglioli
di imbarcazioni (non vi erano salvagenti perchè ... non ne avevamo)
che man mano uscivano a tutta birra dalla galleria che, ben sapevano, non
aveva mai (o quasi) perdonato chi vi entrava. Si può ben immaginare
lo sconcerto e la lieta sorpresa, di veder spuntare prima Sessarego e poi
Barbieri che sputavano acqua, sfiniti, MA VIVI!!
Noi recuperammo i resti del naufragio
sparsi sulle banchine del bacino, ben contenti del ritrovamento dei nostri
piccoli quanto indispensabili tesori. Le famiglie dei nostri soccorritori,
sollecite, ci reclamavano nelle loro abitazioni poste in una grande casa
a fianco della Centrale. Prima fra tutte la Famiglia Righini. Ci fecero
spogliare, ci dettero abiti asciutti, ci posero accanto alle stufe, naturalmente
elettrice. ci dettero quanto era stato preparato per il pranzo domenicale,
lasciato in fretta e furia. Si fecero raccontare ogni cosa, e neppure ci
rimproverarono, se non alludendo ai "pensieri" che, a volte, i ragazzi
davano alle proprie famiglie . Ma noi capivamo bene quel che volevano dire:
avevano ragione, avevamo veramente strafatto! E il nostro pensiero correva
alle nostre famiglie che ancora ignoravano ogni cosa.
Passata un'oretta, durante la quale si
divenne più che amici (ci rivedemmo in seguito svariate volte).,
ci rivestimmo delle divise che finimmo di asciugare col nostro calore durante
il ritorno in treno, ed ognuno rientrò .... a fare i conti coi propri
genitori, che furono tutti però più generosi d'abbracci che
di "cicchettoni" (da alpino poi ho sentito usare, per queste occasioni,
altri termini, più diretti)
Certo è che qualche "defezione"
tra i futuri Rovers ci fu.
E sembra, a sentire Achille Fossati che
si bagnò con noi, che qualche" cicchettone "volò anche subito
dopo in Commissariato
La fonte è sicura dato che papà
Fossati era il Commissario Regionale.
Mi fermo qui (era ora!). Ho raccontato
dei fatti, descritto delle situazioni ed espresso delle emozioni così
come li ho visti, vissuti e provate io (con lacune, errori e distorsioni),
calandomi nell'età che avevo allora e coi ricordi che conservo io.
Altri cari amici e compagni d'avventura avranno visto altre cose, ricorderanno
altri momenti e vissuto altre emozioni.
Di proposito non ho interpellato nessuno,
a costo di essere meno completo e preciso.
Questa non è LA STORIA ma solo
LA MIA STORIA del Tombino
Di CONCLUSIONI poi non voglio trarne. Certamente ce ne sono di negative. (Non ho sottaciuto i molti errori fatti - quello basilare/ a parer mio, fu la mancata preventiva esplorazione del percorso - ) ma anche molte in positivo. Ognuno, se proprio lo vorrà, potrà trarle sulla base della mia cronaca. ATTENZIONE PERO': ho appena detto che la storia contiene "errori, distorsioni e lacune" non fidatevi quindi troppo a trarre conclusioni, è facile sbagliare.
E' un fatto che non ci abbandonammo ad
isterismi o sconforto, reagimmo facendo tutto quanto ci era possibile fare
in quelle circostanze.
L’ avventura da noi vissuta. che serbo
tra i ricordi più cari della mia vita, certamente cementò
un gruppo eterogeneo di giovani in un "CLAN", quello della ROCCHETTA.
E non fu poco per il roverismo e scoutismo milanese e lombardo.
Buona Strada! R.S. Tino Vanzini
30 novembre 1997
Partecipanti all'avventura, dei quali ricordo il nome, in
ordine sparso:
Vittorio Ghetti Michel Dubot Ceci Fabozzi
Pippo Benetti Genolini Giuliano Barbieri
Sessarego
Giuseppe Professione Achille Fossati Ugo
Zatterin
Umberto Zennari Gianni Baglioni Tino Vanzini
più altri cinque amici coi quali
mi scuso vivamente e che invito a "dichiararsi".
Clan La Rocchetta - 1947 - 1957
Questo primo decennio è stato piu' dei successivi dominato dalla figura di Baden in gran parte delle sue principali manifestazioni e attività.
Ne sono stato testimone ma non sono certo di essere, In grado di riferire analiticamente e ordinatamente i singoli avvenimenti: posso dire però dì essere fermamente convinto e di poterne descrivere alcuni aspetti particolari che ritengo, significativi, in quanto in realta' la posizione dominante di Baden è riconosciuta come ovvia
DIREZIONE
Nel decennio sono passati numerosi e indimenticabili capi clan, maestri dei novizi ed equipes, e tra essi voglio ricordare Michèl Du Bot, Vittorio Ghettti, Nando Paracchini, John Garlaschini, Gege Ferrario, Guido Vegni con i quali ho collaborato.
Le loro personalità spiccate non erano certamente subalterne a Baden, ma ne subivano fortemente l'ispirazione.
E ciò realizzava in modo laico e religioso al tempo stesso lo scoutismo cattolico, confessionale nell'ispirazione rma non clericale nell'azione.
GRUPPO MILANO I°
Parlero’ di due soli argomenti, molto
lontani nel tempo, Ad uno e cioè la
fondazione dei Branco Milano I°, Lupo di Gubbio, Intorno al Novembre 195 U ho preso parte in primo persona.
Baden nell'estate 1950 intendeva sviluppare
intorno al Clan la Rocchetta
un Gruppo Scout completo, unendo li reparto
Milano I° Mafeking gia' esistente anche un branco di lupetti.
-
lo, quale novizio rover chiedevo un servizio in una unitá, possibilmente tra i Lupetti ma non mi sentivo di assumere la responsabilita' di Capo Branco. Baden mi invio' allora ai Milano 13°. per svolgere un tirocinio di un anno onde poi fondare il 8ranco Milano 1°.
Ebbi quasi subito due aiuti, Alberto Locatelli e Nando Fagioli, e In seguito Paolo Kuhn.
Alla prima riunione erano presenti 6 Lupetti Giorgio Boselli. i tre fratelli De Micheli;. Carlo De Angeliso, e Franco Ceni; poi Guido Zanetti Polzi, Gabriele Bongiorno e altri.
Ho anticipato questo semplice schema operativo
per mostrare la metodologia chiara e organica di Baden che rendeva facile
ogni pur complessa operazione associativa
LA FRECCIA ROSSA
L'IDEA
l'idea è nato dall'amicizia di Baden quote assistente Nazionale della Branca Rover con don Carlo Gnocchi assistente dell'ente "mutilatini" che raccoglieva le vittime degli ordigni esplosivi residuati dalla guerra Mondiale del 1940-45
Tali piccoli micidiali e insidiosi congegni si presentavano come penne. matite o altre strane forme di giocattolo e attiravano sopratutto i bambini.
Bastava toccare qualche punto sensibile per farli esplodere in faccio o sul corpo .
Migliaia sono stato le vittime di essi:
successivamente al primo dopoguerra altre cause hanno poi determinato le
mutilazioni e le paralisi dei bimbi : malattie, incidenti. malformazioni
ecc., tali mutilazioni comportavano
abbandoni da parte della famiglia, isolamenti
da parte dei compagni e amici e altre forme di escIusione."L'incontro o
la convivenza tra individui portatori di un medesimo problema negli ultimi
anni 40 è apparsa la soluzione ideale.
Don Gnocchi si era fatto carico di questo
problema ed aveva attrezzato il suo istituto a tale scopo, ma aveva
anche cercato di internazionalizzarne l'interesse.
Una prima missione intercontinentale era
stata presentata attraverso un raid aviatorio chiamato "L'Angelo dei bimbi".
Baden ha proposto una seconda missione europea.
Fa sorridere il confronto con attribuzione del Nobel per la pace 1997 proprio ad una persona che si è dedicata all' identico problema e cioè alla lotta per delle mine antiuomo, con la partecipazione di Lady Diana.
LO STILE - L'IMPRESA DI CLAN
Il tessuto dell'idea doveva essere ritagliato come un vestito su misura del Clan La Rochetta, reduce da attività rudi e impegnative.
L'interprete di tale configurazione stilistica, destinato ad un pubblico internazionale non poteva essere che Michèle Du Bot, francese, con esperienze militari e Rover. pubblicitario, organizzatore meticoloso, atletico, portatore di una notevole manualità e di un' intransigente capacità ed comando e di signorile convincimento.
Attorniato dal gruppetto degli anziani come Ceci Fabozzi. Pippo Genolini, Giuliano Barbieri, Achille Fossati e altri, a me. novizio e un po' maldestro, nel primi tempi appariva come "lo stato maggiore”.
La fisionomia dell'impresa si delineò rapidamente: uniforme, fazzoletto, tute, 25 guzzini 65 cc, portapacchi posteriori con borse laterali coperte da pelliccia, marcia in perfetta formazione anche nel traffico cittadIno: una missione sportiva in piena regola.
ATTUALIZZAZIONE
Il calendario mondiale scout convocava
il Rover-moot e cioè l'incontro internazionale dei Rovers, ai primi
di agosto 1949 a Skiak in Norvegia, poco sotto il circolo polare artico.
Cio' consentiva di abbInare un raid
di propaganda di pace ad un importantissimo incontro scout.
Venne cosi' definito l'Itinerario attraverso I principali stati europei, con tappo significative, predeterminate rigorosamente nel percorso, orario, tabella di marcia, appuntamenti con personalità politiche, e possibilmente vitto e alloggio nelle tende portatili
Furono 42 giorni di massacrante ma esaltante
percorso. I dieci giorni di sosta al Rover moot non furono diversi
perchè sempre movimentati da parate e sfilate motorizzate, spegnimento
di un incendio del bosco,
puntata verso Il polo, incontri con la
babele cosmopolita dei campo.
Solo i Bergamaschi come Finassi e Carlo
Fustinoni riuscivano a dialogare con tutti nel loro dialetto come gli apostoli
nel giorno della Manzoniana Pentecoste: "L' Arabo, Il Parto, il Siro in
suo sermon l'udi'
ESITO
Se la struttura era solida e rigorosa la cronaca era imprevedibiIe nelle mani e negli occhi dì Baden capace di cogliere tutte le occasioni di burlarsi dei più solenni formalismi. Quante risate, quanti scherzi specie nei momenti difficili.
VI furono molte interviste presso i giornali locali nella serata dopo l' arrivo nelle varie città straniere.
Tutti i partecipanti tornarono con una marcia in piu', per la capacità di resistere al sonno, di programmare al minuto, di non possedere una spazio fermo, in altra parole di essere un po' più poveri... almeno nello spirito.
"Il Figlio dell' Uomo non ha dove posare il capo"- "La vita comoda senza la lotta...porta alla gotta
Fu un'ottima occasione per accorgesi di poter fare a meno di questo e di dover mettere in comune quello.
Baden predicò a lungo lo spirito
di povertà e credo che tale messaggio non sia andato perduto pur
nella immersione nella vita borghese.
AUTUNNO
1947: NASCITA E PRIMI PASSI DEL CLAN "LA ROCCHETTA"
Appunti di Franco Quattrocchi
Come in tutto il Nord Italia nel 1945,
finita la guerra, anche a Milano si costituivano Branchi per lupetti e
Reparti per esploratori con ragazzi di età sino ai 15 anni, grazie
alla abnegazione e generosità di uomini provenienti dalle "Aquile
randagie" (cfr. "R-S Servire" mag/giug. 96). Solo il MI IV°, che aveva
iniziato clandestinamente l'attività nel 1940, potè mettere
in piedi oltre al Branco e al Reparto, anche un Clan annoverando nelle
sue fila giovani oltre i 15 anni (cfr. "Percorsi" febb. 97).
Già nel 1946, alcuni responsabili
del Commissariato ASCI cittadino, sentivano l'esigenza di "sistemare" i
ragazzi dopo l'attività nel Reparto ma non c'era una chiara visione
del metodo per la terza branca anche perché era un'esperienza che
le vecchie Aquile Randagie non avevano praticato, in quanto per quasi vent'anni
la loro attività clandestina fu di "scouting". Lo stesso Giulio
Uccellini (mitico fondatore e capo delle Aquile randagie) non considerava
la terza Branca. Da qui (con in prima fila i fratelli don Andrea e Vittorio
Ghetti) la responsabile corsa ad aggiornarsi e documentarsi su quanto era
stato fatto all'estero, specie in Francia, vuoi per l'affinità con
quella nazione, vuoi per la facile possibilità di leggere in francese
le loro pubblicazioni scout, vuoi per la fortuita presenza a Milano di
alcuni cittadini francesi, fra i quali cito Michel Du Bot, Paul Rama, Paolo
Sagoleo, che mettevano a disposizione la loro esperienza di Capi Scout,
di "routiers". Fu subito chiaro che, in quella fase, un singolo Reparto
non aveva un numero sufficiente di giovani per poter fondare e alimentare
noi nel breve un Clan, oltre alla già detta mancanza di esperienza
e Capi competenti. Fu quindi attivata la possibilità di fondare
un Clan cittadino. Almeno due tentativi morirono sul nascere principalmente
per il "boicottaggio" e
l' "ostruzionismo" dei Capi Reparto (come
detto, con abnegazione, avevano ripreso il timone) che puntavano sui loro
esploratori più anziani per passare le consegne, sia pure con gradualità
e dopo un'esperienza di Aiuto-Capo Reparto. Vedendoli allontanarsi dall'Unità
d'origine paventavano poi un non ritorno.
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Il terzo tentativo parti dunque nell'autunno
del 1947:
a) voluto per la tenacia di don
Andrea Ghetti e la condiscendenza di suo fratello Vittorio, (che si prestò
con umiltà a fare da spalla all'effettivo Capo Clan che inizialmente
fu Michel Du Bot)
b) tra il "mugugnare" dei Capo Reparto
(ai quali fu comunque assicurato che nel giro di due/tre anni avrebbero
avuto di ritorno Capi efficienti e preparati)
c) vide radunato, nei locali sopra la
sacrestia della centralissima chiesa di San Gottardo al palazzo, un venticinque
anzianotti esploratori provenienti da vari Reparti milanesi e aree limitrofe
quali Sesto Sangiovanni e Monza.
In quella prima riunione i tre (i fratelli
Ghetti e Du Bot) esposero alcune idee guida, delinearono un programma,
lanciarono alcuni canti di route, trascinarono all'entusiasmo e infine
si dichiararono pronti ad ascoltare.
Rimane nel ricordo la domanda di Franco
Q. che (interpretando le obiezioni dei Capo Reparto) voleva chiedere: "Ma
noi che lasciamo alle spalle un nostro Reparto - in alcuni casi in dissenso
con il nostro Capo - venendo qui quali GARANZIE abbiamo che si riesca a
formare un nostro nuovo gruppo? Non verremo poi lasciati in mezzo ad un
guado, con difficoltà e disagio per un rientro nelle nostre Unità
d'origine? E quindi perdiamo ciò che ora abbiamo e tutto lo scoutismo
per noi finisce?"
Si è scritto F.Q. "voleva chiedere"
perché appena pronunciò la parola "garanzie" fu interrotto
da Du Bot che - dando alla domanda una diversa interpretazione - nel suo
italiano con forte accento francese declamò: "Garanzie? Nessuna
garanzia, voi con me marcerete nella BUFERA, nella neve, sotto la pioggia
e sotto il sole ecc. ecc.". Questa risposta fece epoca, divenne e rimase
(mantenendo anche l'accento francese) per anni lo slogan del clan.
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La prima "uscita" fu con i due canotti.
Quando dopo parecchie ore di navigazione l'Adda fu trovata con secche e
non percorribile e notato un canale parallelo dichiarato "navigabile" da
un contadino interrogato sul posto “l’ uscita" è ... finita come
poi tutti sanno (cfr. "R-S Servire" mag. giug. 948).
Il "clirna" del costituendo Clan si andava
cosi formando, idem l'entusiasmo, idem l'unione e i legami. Si cominciò
a parlare di nome del clan e colore del foulard. E ci si "scaldò"
da parte di alcuni almeno per un paio di settimane. Alcune proposte: "Clan
del tombino" - "Clan delle acque scure”, - "Clan cittadino" -"Clan delle
acque sporche" - "Clan Madonna della Rocchetta" (dalla cappella con quel
nome scoperta nella zona qualche settimana dopo l'avventura dei canotti).
Ci si impuntava nelle scelte (anche per il foulard) fin quasi paradossalmente
al litigio.
Una sera, dopo una conversazione a quattr'occhi
fra EQ. e don Ghetti, questi concluse: «D'accordo con te nello scartare
i nomi ricbiamanti acqua e tombini, ma non mi piace neppure "Clan della
Madonna...'. Tu proponi nella prossima riunione "Clan della Roccbetta"
motivando:
a) si richiama il nome (sia pure sottinteso)
che possiamo dire ci ha dato anche più di una mano nel salvarci;
b) b) questo è t'ultimo tentativo
che si fa per mettere in piedi un clan cittadino, è l'ultimo baluardo
per formare dei rovers, non dobbiamo fallire e resistere agli attaccbi
di chi invece vorrebbe si naufragasse.
E' come l’ ultima resistenza che facevano
gli Sforza nel castello assediato, concentrati nel cortile della Rocchetta.
Io durante la riunione ti appoggerò con forza e sosterrò
la tua proposta.
Però tu mi devi promettere che
dopo non ti intrometti nella discussione sul colore del foulard.
Anzi, tu devi appoggiare la tesi di Guido
Cenderelli: colore verde e nero che sono poi i colori delle aquile che
volano alto come anche noi vogliamo e dobbiamo volare. Aquile che ci richiamano
alle "aquile randagie" grazie alle quali tu e molti altri (che alla rinascita
del 1945 non avevate più l'età per fare la promessa) oggi
siete scout».
Va qui ricordato che nella successiva riunione di clan fu disegnato anche lo stemma di Clan e applicato sul foulard: oltre al profilo geometrico della "forcola" è riportato un torrione del castello sforzesco col biscione.
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Il nucleo dei giovani scout era fortemente
motivato, unito, aveva già una sua piccola storia, si era dato un
nome, era in grado di apparire con una sua identità, come una Unità
con lo stesso foulard: poteva presentarsi ai propri genitori.
E noi del nucleo iniziale ricordiamo infatti,
sempre nei locali della sede, la riunione di presentazione con i genitori,
di fronte ai quali i rovers erano schierati, in piedi, in divisa, mimando
una marcia e iniziando col coro parlato (che avevamo preparato in un paio
di giorni): «Siamo molti, abbiamo vent'anni, vogliamo entrare nella
vita, siamo giovani, entriamo nella vita..."
CANTO
LE MOTO PIETOSE E IL CAPITANO ......
Nessuno scorderà i grandi personaggi
del Clan e gli ispiratOri della Freccia Rossa,che dei Clan è senza
dubbio l'impresa più leggendaria.
L' ispiratore è stato Don Carlo
Gnocchi, che già aveva lanciato il raId aereo "L'Angelo dei Bimbi"
Il progettista dei raid con i Guzzini
è stato Baden, il direttore Tecnico, Gaetano Dubot detto Michel,
e lo stilista Vittorio Ghetti.
lo con queste righe voglio ricordare l'orgoglio
l'entusiasmo e la gioia dei due bergamaschi, Carlo Fustinoni e Finassi.
Carlo può definirsi il Torquato
Tasso, il cantore della Gerusalemme Liberata o il Macchiavelli, cioè
lo scrivano Fiorentino, quello che ha raccolto nel modo più organico
il materiale iconografico di tutta l'impresa, dai primi allenamenti all'
eco di stampa del glorioso ritorno
Non mancano nel grande libro:
- la benedizione dell' allora nunzio apostolico
di Parigi Giovanni Roncalli, poi Giovanni 23°.
- le relazioni di tutte le tappe e delle
giornate ppiù significative dei Rover Moot,
- il primo incontro dei Rover di Tutto
il Mondo dei dopo guerra,,
- fotografie sui giornali locali con didascalIe
in lingue diverse, riscontri sui giornali italiani, complimenti di
parenti e amici,
- con esclusione soltanto degli scambi
con le fidanzate lontane, che in realtà avrebbero integrato
l' atmosfera.
La partecipazione orgogliosa della città
di Bergamo è ben documentata.
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Ma questo non esaurisce l'argomento: io
ricordo i brividi che mi hanno più volte percorso la schiena quando
Finassi armato di un vistoso coltello da caccia andava "a change " di fregi
e distintivi. Cedendo i popolarissimi italiani con quelli più rari
del resto dei mondo.
Il suo occhio acuto avvistava , l' incontro
fulmineo, l' offerta del fregio, il coltello staccava il "change" con un
sol colpo dal petto dello straniero, o come più spesso avveniva
della straniera.
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E come dimenticare il viaggio al cimitero
delle Alci ove ognuno di noi ha colto un più o meno piccolo corno,
ma dove Carlo si è diretto senza esitazione verso quelle più
monumentali dell'ultimo grande re delle Alci..., le ha issate sul portapacchi
'facendole aleggiare da quel momento per tre quarti della carreggiata durante
tutto il ritorno con terrore di tutti quelli che lo incrociavano o venivano
superati sulle strette strade della Norvegia.
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La lingua non era un ostacolo per i Bergamaschi
che in tutto il raid da "Milano a
Skiak hanno solo parlato in dialetto bergamasco e sono sempre stati capiti
e puntualmente serviti con invidia di tutti i poliglotti del clan..
Cesarino Rossi era il mago dei motori "Io
la mia moto l' ho vigliaccata", Achille il paziente restauratore.
Ceci Fabozzi era il "servizio tappe" e
cioè il navigatore delle carte e degli itinerari. Altri erano i
ricercatori degli alloggiamento e dei viveri.
Duccio doveva andare presso le redazioni
dei giornali a spiegare lo spirito della missione... Ognuna delle 5 pattuglie
era composta di 5 membri.
Tutti quindi avevano un compito essenziale
Troppi sono gli aneddoti , di fronte al
municipio di Lione al termine dei viale vi era una lunga scalinata: invece
di deviare Zambianche l' ha salita fino a metà, prima di abbattersi
al suolo.
Sonno, pioggia vento tempesta alternata
coi sole erano pane quotidiano, ma ogni sera si accendeva il fuoco di bivacco
tra le tende, qualche battuta, canti benedizione e riposo, e la mattina
dopo Michel grida. "Signori, alle macchine!"
L' arrivo al Rover-Moot è stato
salutato come quello dei Crociati a Sionne.
Abbiano sfrecciato in 25 per il campo
come trionfatori fedeli al motto italiani chiassosi.