Materiali / Recensioni - 3

 

 

 

AREA

Arbeit macht frei - Cramps (1973)

 

Sono nati da circa un anno, ma la loro formazione ha già subìto numerosi cambi (vedi anche le mininotizie di questo stesso numero), cosicché due soli dell'originaria formazione sono i superstiti.

Gli Area sono comunque il gruppo più interessante venuto alla ribalta in questo 1973 in Italia, ed il loro difficile album conferma le belle premesse di tanti spettacoli e di tanti inviti (ricordo fra parentesi che hanno suonato in tour con i Gentle Giant, i Soft Machine, gli Atomic Rooster, i Faces, sono stati invitati alla Biennale di Parigi ed alla Triennale di Milano, ecc.).

Dall'iniziale free jazz, orientato verso i Nucleus o i Soft Machine, gli Area si sono spostati verso una ricerca più attenta di contenuti e di effetti sonori, attingendo alla musica popolare, in modo particolare a quella greca ed araba, ed alle esperienze concreto-contemporanee con le quali sono venuti a contatto: Luigi Nono, Luciano Berio, l'ungherese Gyorgy Ligeti, il greco Yannis Xenakis fra i principali. La loro musica vuole essere assolutamente di "rottura", radicale nelle intenzioni dei musicisti e di chi li guida.

"Arbeit macht frei" significa in tedesco "il lavoro rende liberi", ed era lo slogan posto all'entrata dei campi di concentramento nazisti. I sei brani che compaiono sull'album sono legati da un filo ideologico simboleggiato appunto dalla consapevolezza del carattere totalitario dell'affermazione.

Il contenuto del LP si ispira a riflessioni sulla violenza e sul terrorismo: ma scelte orientative come l'introduzione di una recitazione in lingua araba, i richiami al folklore mediorientali trasfigurati, le citazioni si Smirne o di Settembre nero, sono da una parte la logica conseguenza della provenienza (greca) del leader Demetrio Stratos, dall'altra tendono a sottolineare un percorso storico-geografico della violenza: dai campi nazisti agli ebrei, al mondo arabo, turco, greco, russo.

E la musica è violenta, aggressiva, specie nella struttura volutamente caotica di certi momenti, nelle sofferte interpretazioni vocali, alcune delle quali recitative, di Demetrio. Così il brano conclusivo, "L'abbattimento dello Zeppelin", dal sapore sinistro e provocatorio, sottolineato da effetti particolari dell'uso della voce, che segue le indicazioni di Berio nell'affiancamento voce-musica elettronica, ha un doppio senso: da un lato l'abbattimento di una realtà difesa dai miti; dall'altro un chiaro attacco alla musica pop tradizionale, individuabile in quel momento nei Led Zeppelin.

Tutti i brani sono ad alto livello: "Luglio, agosto, settembre (nero)" con la voce araba che introduce una melodia orientaleggiante; "Arbeit macht frei" di sapore più tipicamente jazzistico, come pure "240 km da Smirne", esclusivamente strumentale, un pezzo fra i migliori anche eseguito secondo schemi piuttosto classici di free, Infine "Le labbra del tempo" si presenta più varia e contorta, un insieme di sensazioni e di voci che si accavallano e si divaricano con particolare cura degli effetti.

Complessivamente la ritmica si rivela particolarmente efficace: Ian Patrick Djivas, neo acquisto della Premiata Forneria Marconi, suon un basso Fender Precision privo di tasti ed il contrabbasso, rivelandosi un solista instancabile e fantastico. Latro musicista di spicco è Eddy Busnello, un sassofonista già con una lunga esperienza alle spalle.

Ma anche tutti gli altri si muovono con attenzione giungendo a risultati ricchi di potenza e di fantasia, come Stratos, che opera alle percussioni, suona l'organo con il compito principale di creare un continuum di fasce sonore per gli altri solisti, ed utilizza la voce alla maniera tipica e significativa di uno strumento.

                                  Enzo Caffarelli

 

 

 

ACQUA FRAGILE

Omonimo - Numero Uno (1973)

 

Sicuramente uno dei migliori gruppi italiani venuti alla ribalta nel corso dell'anno, l'Acqua fragile, si presenta con tutte le carte in regola: scoperti dalla PFM, coadiuvati dal produttore Claudio Fabi, con testi in inglese (molto belli) scritti da un membro del gruppo, e tradotti sulla copertina.

In data recente hanno accompagnato i Gentle Giant in tour, e mi sono sembrati diversi da quelli conosciuti attraverso il disco. Sinceramente preferisco parlare dell'album.

"Morning comes" sembra uscire dal repertorio dei Genesis. Mi si perdoni i paragoni che spesso uso per i gruppi italiani, ma tutto sommato una simile affermazione può esser anche un complimento. La voce del cantante è vicina a quella di Peter Gabriel, ed anche la costruzione armonica del brano è tipicamente alla Genesis: lo stesso accade, in parte, per "Song from a picture" e per "Education story". Le tastiere, usate in funzione orchestrale, infondono un tono vivace e a un tempo solenne alla musica dell'Acqua fragile.

"Comic strips", "fumetti", è significativa parodia degli ultimi Gentle Giant: azzeccato il titolo, dato l'evidente tentativo dei fratelli Shulman di dare un'idea visiva dei loro brani, colonna sonora ideale per cartoni animati.

"Science fiction suite" e "Going out" sono su di un altro piano: l'impasto chitarristico ed il tipo di coro, trasferiscono l'asse di orientamento in America. E si realizza così, su scala, quella elegante fusione fra musica inglese ed americana che ha negli Yes i maggiori portabandiera.

In genere il suono è ricco, le melodie ben congegnate, le esecuzioni impeccabili. Notevole la padronanza degli strumenti da parte del quintetto, compresa la sezione ritmica, in genere carente nelle formazioni nostrane. Molto gusto, e non c'è quella frammentarietà di colori e di tempi cui tanti altri gruppi ci hanno abituato.

                                            Enzo Caffarelli

 

 

 

BALLETTO DI BRONZO

YS - Polydor (1972)

 

Dà un tantino l'idea della Divina commedia la serie di quadri che compongono l'album: "Primo incontro", "secondo incontro", ecc., e l'originale miniaturismo delle pagine interne della confezione, ma Dante Alighieri non è stato scomodato, ed il Balletto di bronzo ha creato, al di là dei riferimenti culturali che non ci sono e al di là dei testi, un album musicalmente ottimo, grazie ad un ritmo sorretto da una vitalissima sezione che non cade mai nell'hard rock, e grazie alle numerosissime tastiere di Gianni Leone, che opera al piano, all'organo, al mellotron, alla celeste, alla spinetta ed al Moog.

Il Balletto è stato uno dei primo gruppi in Italia a portare avanti un discorso nuovo, ma come quasi tutti i gruppi nati intorno al 1968-69, hanno incontrato difficoltà insormontabili per sfondare, al contrario dei più fortunati gruppi del periodo immediatamente successivo. Il gruppo napoletano ha ora le carte in regola per un successo di gran lunga più ampio, e l'album "YS" è un primo esempio di capacità e di idee che sicuramente possono essere potenziate e sviluppate.

Da un punto di vista strumentale, il Balletto si presenta omogeneo e tecnicamente dotato, specie quando l'atmosfera si fa lievemente jazzata, ed assai pregevoli sono i passaggi alle tastiere, ad esempio nella seconda parte della lunga "Introduzione", e nella porzione a cavallo fra il "Secondo" ed il "Terzo incontro" e nell'"Epilogo". Anche i testi sono interessanti, ma per il Balletto vale la legge della difficoltà di accoppiare la lingua italiana con il ritmo del rock, che sembra nato apposta per le lingue anglosassoni. E' forse l'unico neo del gruppo di "YS" come di tante altre formazioni, in parte sormontabile soprattutto se si pensa che la musica esclusivamente strumentale non è più tabù

                                        Enzo Caffarelli

 

 

 

DE DE LIND

Io non so da dove vengo e non so dove mai andrò. Uomo è il nome che mi han dato - Mercury (1973)

 

Corro il rischio di non trovare più che cosa scrivere intorno ai gruppi italiani, i quali nonostante il momento buono più volte sottolineato, si ripetono in una maniera incredibile.

Dopo il successo clamoroso e, per la maggior parte dei casi, meritato, di alcuni gruppi nostrani, le case discografiche ed i managers, fino a quel momento drasticamente chiusi ad ogni tentativo di novità, ad ogni esperimento che portasse una ventata di freschezza all'asfittico panorama italiano, hanno creduto di scoprire l'oro e si sono buttati a testa bassa sul materiale giovane, spendendo tempo e danaro sull'etichetta "underground italiano" (ammesso e non concesso che buona parte delle persone che in Italia tengono in mano  il mercato discografico, siano in grado di selezionare il buono dal cattivo, e di distinguere ciò che non capiscono da quello che definiscono underground. Purtroppo la nuova generazione di tecnici e discografici giovani si sta imponendo solo lentamente).

E' un breve monito questo che vorrebbe richiamare ad una certa prudenza, a contenere un fenomeno che rischia  la più ridicola delle inflazioni. Non è un discorso che serve ad introdurre specificatamente i De De Lind, gruppo nuovo che tutto sommato conosce il fatto suo e si esprime in termini accettabili, facendosi apprezzare moderatamente per questo suo esordio, senza raggiungere tuttavia traguardi troppo ambiziosi e lodevoli.

I De De Lind sono in cinque, con la tipica strumentazione ricchissima del nuovo prototipo di gruppo italiano: un cantante che scrive i testi e suona la chitarra acustica, due ritmi, due solisti che si alternano al flauto, al sax, al pino, all'organo, alla chitarra elettrica. Niente di nuovo sotto il sole: le solite melodie acustiche alternate a ritmi incalzanti e a brevi episodi di rock più duro, con testi difficilmente imponibili alle esigenze metriche delle melodie, e strutturati al solito modo ed introno agli stessi argomenti di introspezione personale che finiscono per essere fatalmente i più banali (benedetti ragazzi, sarete i duecentocinquantesimi ad usare titoli come "Fuga e morte", "Smarrimento", "Voglia di vivere", "E poi...", e meno male che non c'è accenno a "Sogno e risveglio", "Incubo" e "Illusione!").

Qualche influenza classicheggiante, e tante idee appena abbozzate ed ancora da sviluppare compiutamente. E' un album dal titolo chilometrico che ha la funzione principale di creare una base, sia pure con qualche trave traballante, per un edificio futuro forse ricco di buoni risultati. Tra le due facciate, migliore la prima.

                                    Enzo Caffarelli

 

 

 

SHOWMEN 2

Omonimo - B.B.B. (1972)

 

Gli Showmen tornano sulla scena contrassegnati dal numero due, dopo un lungo periodo di stasi successivo alla dipartita di Elio D'Anna, ora con gli Osanna, e con parecchie idee nuove e interessanti.

Sono ancora in sei, ma più della metà degli elementi non sono più quelli che alternavano R&B commercialoidi a ripescaggi degli anni Quaranta.

L'album è inciso per l'esordiente etichetta B.B.B. (Beautiful black butterfly), e si presenta con una confezione elegantissima, e completa di note, testi, adesivo e manifesto. Ma quello che conta maggiormente è la musica, un tipico pop-jazz che gli Showmen hanno sicuramente imparato dai Chicago (l'ultima volta che apparvero alla televisione, se non vado errato due anni or sono, suonarono proprio la "Introduction" da "Transit authority"). Il sestetto ricorda i Chicago per l'impostazione degli ottoni, la cui sezione è guidata dall'ottimo italo-americano James Senes, rimasto portabandiera della vecchia guardia. Ma per buona parte il disco si muove su orientamenti personali, e sicuramente lascia intravvedere un futuro ancora migliore.

Come tutti i gruppi interessanti usciti negli ultimi tempi in Italia, due sono le preoccupazioni di base del gruppo: scartare a priori una supina imitazione dei modelli stranieri riagganciandosi alla tradizione italiana; e creare dei testi originali e validi, cercando di adattarli nel migliore dei modi al linguaggio del rock.

I problemi sono stati risolti abbastanza bene, anche se forse troppa importanza è stata fatta per tempo e per spazio alla parti cantate, tuttavia giustificate da una serie di testi molto buoni ("Epitaffio", "E la vita continua", "Lo zio Tom").

Un album dunque con un certo coraggio e degno di essere ascoltato. Un'altra prova inoltre dell'importanza di Napoli (Osanna, Balletto di Bronzo, ecc.) nel discorso pop italiano, con un invito per gli organizzatori di concerti a tenere maggiormente in considerazione la candidatura della città partenopea.

                                        Enzo Caffarelli

 

 

 

ALAN SORRENTI

Come un vecchio incensiere all'alba di un villaggio deserto - Harvest (1973)

 

Credo che Alan Sorrenti sia uno di quei personaggi su cui ci si troverà costantemente in disaccordo, pronti ad esaltarlo da una parte come il personaggio più nuovo ed importante fuoruscito dalla nostra scena, o come un discreto musicista, dall'altra, ma abile mistificatore prima di ogni altra cosa.

Di questo secondo LP del cantautore anglo-napoletano abbiamo già abbondantemente detto in anteprima. Se il carattere peculiare del personaggio risiede nell'avere ribaltato il concetto tradizionale dell'uso della voce, per primo in Italia, se pure sulla scorta di illustri esempi stranieri (Tim Buckley, Shawn Phillips, lo stesso Peter Hammill), Alan si conferma altresì compositore eccellente, al di là dell'uso (e dell'abuso in più di un'occasione) dei suoi indiscutibili mezzi vocali.

Naturalmente non tutto è farina del suo sacco: la presenza di gente matura, si solisti capaci di qualsiasi improvvisazione e variazione al suo fianco, gli consentono una coralità espressiva intelligente ed affascinante: nel primo album era il sol Jean-Luc Ponty l'uomo di "punta". Qui sono presenti un Dave Jackson in grande forma, che alle fughe rabbiose del sax preferisce quelle più dolci ma non meno inquietanti di uno splendido flauto ("Serenesse" ed "Oratore"); Francis Monkman pianista e sintetizzatorista (VCS3) essenziale complemento all'organico; Toni Marcus violinista piena di grazie ed eleganza; Ron Matthewson al contrabbasso in un brano e Victor Bell al violoncello in un altro; infine la coppia italiana (D'Amora - Esposito) certo non disprezzabile.

La prima facciata, suddivisa in cinque pezzi, è senza dubbio la più convincente, la meno forzata e la più varia. Alan sfrutta la voce nei canali della grande arte, e si sforza di autoesaltarsi nel limite del lecito, mediante anche testi significativi e pregni di simbolismi. Rispetto al precedente LP "Aria", c'è proprio una maggiore maturità espressiva complessiva, una struttura portante melodica e ritmica più compatta e meno egocentrica, parole meno decadenti e più realistiche.

"Serenesse", "Una luce si accende", "A te che dormi", quest'ultima per sola voce e chitarra acustica, sono degli autentici capolavori.

La lunga suite che occupa per oltre ventitré minuti la seconda facciata, "Come un vecchio incensiere all'alba di un villaggio deserto", risente invece del progetto troppo ambizioso e forzato dell'impiego della voce, naturale o filtrata attraverso il sintetizzatore. Anche l'orchestrazione si fa più povera, e si entra nel delirio, perdendo spesso la lucidità: si tenta di creare una nuova atmosfera, una serie di sensazioni prive di aggancio con la realtà, e la musica si disgrega in una serie di suoni e rumori illogici. Solo la strofa cantata (con un testo assai bello) e la parte finale, dove l'abilità vocale si risolve più che altro in qualche giuoco acrobatico, riscattano l'incensiere.

Un disco notevolissimo che imporrà definitivamente Sorrenti presso il pubblico italiano.

                                                Enzo Caffarelli

 

 

 

ALLUMINOGENI

Scolopendra - Fonit (1972)

 

Gli Alluminogeni fanno parte di quel gruppo ci complessi nati tre o quattro anni or sono con la lodevole intenzione di rinnovare il mercato italiano, ma incapaci di costruire in pratica grandi cose. Fra i tanti anzi, il trio piemontese ha sempre mantenuto il ricordo di una melodicità tutta italiana, un po' come più tardi avrebbe fatto, ma sinceramente ad altro livello, il Banco del mutuo soccorso.

In questo senso la musica italiana viene automaticamente a svincolarsi dai modelli stranieri. Ma probabilmente non è questa l'intenzione racchiusa nelle ultime righe della presentazione del disco: "Non parole estetizzanti senza significato, ma liberazione dalle caverne dell'inglese da cui prima ci giungevano i suoni". Se si allude alle tematiche musicali, alla ricerca strumentale basata soprattutto sulle tastiere, non mi sembra allora che tale allontanamento sia profondo come si vorrebbe far credere.

Patrizio Alluminio, occhialuto leader del gruppo, sciorina con abilità i suoi preferiti, che vanno dal Winwood di "Glad" in apertura, al piano elettrico, all'organistico Jimmy Smith di "Cosmo". Spinti come sono verso l'elettronica e l'uso delle tastiere e degli effetti in generale, gli Alluminogeni si son edificati in album "spaziale" ("La natura e l'universo", "La stella di Atades", "Cosmo", "Pianeta") rivelando purtroppo ancora una volta la grande crisi di testi che esiste in Italia.

La musica propone immagini ed invenzioni (- questi suoni che ascolterete - dicono le note - sono già dentro di voi. Erano chiusi dentro - ). Ma a mio avviso "Scolopendra" è un album sì piacevole, ma irrimediabilmente appartenente alla generazione precedente e non attuale del pop italiano. 

                                            Enzo Caffarelli

 

 

 

FRANCHI GIORGETTI TALAMO

Il vento ha cantato per ore tra i rami dei versi d'amore - Produttori Associati (1973)

 

Il disco di un esordiente trio di chitarristi italiani si presenta in maniera curiosa e provocante , con la copertina che contiene viti, bulloni, puntine, molle, una manciata di terra e perfino un peperoncino verde, tutto vero, e con il discorso principale che concerne la situazione e le possibilità della musica italiana in questo momento.

Scrive nella presentazione del disco Roberto Dané, che è anche il produttore delle incisioni: "La difficoltà sta nel non rifare un qualsiasi disco americano o inglese, ma nel tenerne ben conto, perché, tramontati Puccini o Leoncavallo, la musica viene di lì, come son venuti i jeans, i capelli lunghi, le chitarre, le bombe, il pacifismo, la droga, gli hot pants di cagionevole ma contagioso gusto e tutte le altre porcherie-bellezze che ci manda zietta anglosassone tutte le mattine. Se poi la musica pop italiana è di derivazione angloamericana, chi se ne frega, l'ispirazione non paga diritto d'autore, ancora. Se poi si può stravolgere la fanfara dei bersaglieri o un vecchio canto alpino o l'inno americano per fare un giro di musica pop, ben venga, è un'operazione bieca e divertente e di tutto riposo per la coscienza".

Tale introduzione, che prosegue sottolineando la difficoltà dei testi in lingua italiana, serve tutto sommato a creare un alibi convincente per una eventuale imitazione dei modelli stranieri, che comunque in Franchi-Giorgetti-Talamo non è evidente e certamente non intenzionale. Danilo Franchi è di Fiume, Vittorio Giorgetti di Varese e Oliviero Talamo di Napoli, tutti e tre studenti universitari e studiosi di musica folk e classica.

L'album, registrato con l'aiuto di una sezione ritmica e dell'orchestra pittorescamente intitolata "Unione fraterna e artigiana", affronta un discorso esistenziale basato su quattro tempi: l'oppressione, la liberazione mancata, l'intolleranza e l'amore, ciascuno svolto in due o più episodi. I testi rivelano un notevole impegno poetico ed anche la musica riflette la necessità di recuperare con un linguaggio nuovo qualcosa della tradizione italiana, come hanno fatto, in un differente contesto, le Orme tanto per fare un esempio.

Non è musica progressiva e non c'è nulla di trascendentale, però è un disco degno di menzione nell'attuale panorama italiano.

                                      Enzo Caffarelli

 

 

 

MARIO BARBAJA

Megh - Gnomo (1972)

 

Barbaja (vero nome Barbaglia) è un cantautore milanese di ventidue anni, chitarrista e sitarista, innamorato delle filosofie e della musica indiana, con "Megh" al secondo album, dopo un primo intitolato "Argento" non molto interessante ed anzi passato del tutto inosservato.

Semplice, poetico, toccante Barbaja trae ispirazione soprattutto da Donovan, che egli ha imitato fin troppo fedelmente nella prima esperienza, ma del quale neppure con "Megh" riesce a disfarsi, specie nel timbro della voce e nell'andamento cantilenante delle melodie così tipico del menestrello scozzese, soprattutto in brani come "Sono stato" e "Una promessa".

Altrove l'amore per l'oriente e le atmosfere eteree e rarefatte fanno pensare al compagno di etichetta Claudio Rocchi, complice il fatto che buona parte degli accompagnatori sono gli stessi che comparivano in "Volo magico n. 1": così "In quella città " e "Non dire mai", dove Barbaja ricorda Rocchi anche per l'impostazione delle liriche.

"Megh" è una parola indiana che significa pressappoco "Raga dell'autunno, del vespero, delle cose semplici". I nove brani complessivamente raccolti sono introdotti e conclusi dal suono d'un carillon napoleonico, che vuole probabilmente significare come tutta la musica sia nell'attimo di una nota di un organino meccanico, fuori dal tempo, senza dimensione.

Nei brani, registrati con la produzione di Massimo Villa ex Stormy Six e sapientemente  arrangiati, abbondano i riferimenti orientali, sia per la strumentazione che per i testi (le note che accompagnano il disco parlano di sistemi dialettici nella filosofia zen). "In quella città (la leggenda)" si distingue da tutte le altre perché è una libera jam, rielaborata con particolari effetti elettronici e sovraincisioni (voci al contrario, piatti della batteria a velocità rallentata, ecc.).

Accanto all'album di Franchi Giorgetti e Talamo, di cui si parlava sopra, anche Barbaja va tenuto in considerazione come esempio di folk italiano credibile e ricco di spunti interessanti.

                                               Enzo Caffarelli

 

 

 

PREMIATA FORNERIA MARCONI

Per un amico - Numero Uno (1972)

 

Se una conferma era necessaria da parte della Premiata, il secondo album è esattamente ciò che ci si poteva attendere: più curato del precedente, meno immediato ed appariscente, sicuramente avrà una funzione importantissima nell'abituare l'orecchio del consumatore medio italiano a discorsi più impegnati.

Per la sua raffinatissima costituzione, l'album avrebbe bisogno di un buon impianto stereofonico per essere pienamente gustato; perfette sono le registrazioni, cui ha collaborato Claudio Fabi. La musica è a tinte tenui, pallide, sempre rigorosamente calibrata ed intimista, stilisticamente eclettica al massimo, e proprio per questo tipicamente indicata ad esprimere compiutamente le esigenze artistiche di questo periodo di transizione.

Le due facciate sono divise complessivamente in cinque titoli. "Appena un po'" parte come collage di frammenti di musica classica, posti in un mosaico policromo, a somiglianza dei Gentle Giant, il gruppo che pare avere sostituito King Crimson nella funzione di ispirazione del quintetto. La tradizione italiana, quegli accenni di tarantella e di canto popolare che nle primo album venivano calati nel linguaggio meravigliosamente moderno del gruppo, in un magma sonoro che cresce e scompare, si dilata e di restringe, è qui ancora presente, sotto forma prevalentemente di tradizione classica (Sei e Settecento), varie citazioni sottilmente legate fra loro da episodi di mellotron o di sintetizzatore. Con questo brano la Premiata ripropone l'atmosfera fiabesca dei migliori gruppi inglesi e del primo LP "Storia di un minuto".

"Generale" imprime alla raccolta una maggiore vitalità, e si rilevano gli interessi per il jazz, che viene tuttavia a combinarsi con altre forme espressive; l'impasto fra piano, violino e chitarra, interrotto da una marcetta militare in sintonia con il titolo, rappresenta la parte migliore del brano.

"Per una amico" somiglia forse troppo ai Gentle Giant, sia nella strumentazione che si basa sostanzialmente sul pianoforte, sia nella melodia che nell'uso delle voci, ma vorrei precisare che il confronto con il gruppo fedele discepolo di Francois Rabelais e dei menestrelli medievali non li fa affatto sfigurare. Il brano è indirizzato a tutti i sedicenti pacifisti, a coloro che avvertono l'urgenza dei problemi e ne denunciano la gravità in una sorta di mistica estasi, senza diretto intervento, caso frequente anche fra i musicisti. Il brano che dà il titolo all'intero album (forse il destinatario è Claudio Rocchi) dice fra l'altro: "Non domandarmi se un giorno cambierà, comincia a fare qualcosa... tu scappi e ti nascondi e non si può, tu vivi i tuoi compromessi e non si può... non è più tempo di sogni ma di realtà... ".

"Il banchetto" presenta una prima parte cantata, con un breve e pregnante testo contro l'asservimento allo stato costituito ("Sire, maestà, riverenti come sempre siamo tutti qua; sire, siamo no, il poeta, l'assassino e sua santità, tutti fedeli amici tuoi, o maestà" e poi ancora: "Tutti sorridono, solo il popolo non ride ma lo si sa, sempre piagnucola, non gi va mai bene niente, chissà perché , chissà perché... "). La seconda parte è strumentale, con il moog che introduce e coordina vari strumenti classicheggianti (fra l'altro la PFM utilizza il clavicembalo, la spinetta, vari flauti, il mandoloncello).

Infine "Geranio" è la più intima e cerebrale fra le cinque composizioni, quasi impercettibile nelle sue sottili evoluzioni, nei suoi contrasti chiaroscurali e nella sua fine struttura, con un maestoso finale dove il moog, come altrove, riesce a dare l'idea della grande orchestra.

                                               Enzo Caffarelli

 

 

Ciao 2001