Materiali / Recensioni - 2

 

 

 

NEW TROLLS

Searching for a land - 2 LP Cetra (1972)

 

Uno dei caratteri distintivi di noi italiani è quello di essere un popolo demitizzatore per eccellenza, pronti ad infierire ogni qualvolta qualcuno alzi la cresta, ed a ridimensionare senza scrupoli qualsiasi divismo precedentemente edificato, sia esso nel mondo dello sport, della canzone, dello spettacolo in genere.

In fatto di musica pop la critica spietata, il gusto della competizione e della classifica, la diffidenza reciproca sono purtroppo ancora all'ordine del giorno: e un po' tutti dovremmo recitare un mea culpa.

Cosicché era invevitabile giudicare con il naso un tantino arricciato quest'ultimo disco dei New Trolls, gruppo che non possiamo dire abbia sempre fatto professione di modestia, e per giunta con un titolo e tutti i testi in inglese, quasi per snobbare il pubblico nostrano. Ma in fondo non è così.

Le musiche sono costruite in piena libertà, e se puri di tanto in tanto odorano di saggio dimostrativo, non sono irritanti come talora è parso dal vivo, e confermano la maturità artistica versto la quale si avviano i New Trolls, ben arricchitisi di esperienze d'oltremanica, e ben forniti di spunti classicheggianti e pseudojazzistici. In quanto ai testi, non potendo negare che la lingua inglese, per motivi puramente fonetici, si adatta meglio di qualsiasi altra alle sonorità del rock, i New Trolls hanno agito in questo modo al fine di prepararsi un lancio adeguato e con le maggiori probabilità di successo nei paesi anglosassoni, dove la lingua nazionale è obbligatori. Del resto non possiamo che lodare il tentativo di portare qualcosa di nostro al di fuori dei confini italiani, specie perché il precedente "Concerto Grosso" ha fatto conoscere ed apprezzare il gruppo genovese in Francia e soprattutto in Germania.

Un disco è stato registrato in studio, l'altro dal vivo. Tra l'altro si tratta di uno dei primissimi dischi italiani dal vivo a parte i cantanti tradizionali, i New Trolls si sono allineati con tanto di mellotron e di sintetizzatore, e si fanno apprezzare soprattutto nei periodi acustici e nei brevi tocchi classici, un po' meno quando la solista distorta di Nico diviene la protagonista.

L'iniziale "Searcin'" e "A land to live a land to die" sono i pezzi distudio più pretenziosi, con il piano e l'organo rispettivamente in bella evidenza; altrettanto valide alcune melodie intimiste, come "Once that I prayed", la medievaleggiante e breve "Giga" (la giga era appunto uno strumento a corde del Trecento), "To Edith", e fra i brani dal vivo la lunga "Lying here", che occupa l'intera quarta facciata, con vari flauti e cori gregoriani in apertura.

Il titolo, "cercando un terra" allude alla ricerca esistenziale propria di ogni uomo, e si realizza in quadri diversi per i testi dovuti al nuovo bassista, italo-canadese, della formazione.

"A land to live a land to die" canta la ricerca di un popolo intero, costretto da secoli a migrare, un popolo che cerca "una terra per vivere e una terra per morire". "Percival" è il personaggio reale partito alla volta di terre del sogno, attirato dalla pietra filosofale per non invecchiare, che tenta la strada dell'amore, poi quella della scienza, infine quella della fede. La ricerca religiosa è sentita anche in "In St. Peter's day" ed in "Once that I Prayed", mentre "To Edith" è tratta da una poesia di Bertrand Russell, non soltanto per rendere omaggio all'illustre filosofo e matematico, ma anche per sottolineare il suo messaggio indicante nell'amore valido e consapevole un porto all'angosciosa ricerca dell'umana esistenza.

                                        Enzo Caffarelli

 

 

 

DELIRIUM

Dolce acqua - Fonit (1971)

 

Per chi è rimasto al "Canto di Osanna", devo immediatamente precisare che i cinque Delirium valgono assai di più, e che anzi sono sicuramente fra i nomi che danno maggiore fiducia e maggiore speranza per il futuro della musica italiana.

Dopo gli Osanna, anche i compagni di scuderia Delirium hanno costruito quello che in Inghilterra chiamano un "album concept", in altri termini una raccolta di brani legati da un tema conduttore: tema conduttore che è ancora una volta l'uomo, compresso dal particolarismo e minacciato dall'alienazione, in un viaggio di sensazioni che lo conducono dalla paura alla speranza, attraverso l'egoismo, il dubbio, il dolore, l'ipocrisia, la verità, il perdono e la libertà.

Musicalmente il gruppo preferisce una strumentazione acustica, basata sull'ottimo flauto di Ivano Fossati, l'autore più prolifico del quintetto, e sul piano di Ettore Vigo. Possiede inoltre più di una bella voce, elemento purtroppo assai raro fra i nuovi gruppi italiani, ed un'impostazione di base che consente loro di affrontare con felice risultato il jazz, con accenni alla musica sudamericana, e senza dimenticare nel frattempo un tipo di canzone che ricorda molto da vicino i migliori cantautori italiani.

Dopo il Preludio ed i primi due Movimenti, l'album offre un piacevolissimo intermezzo jazzistico. Il brano è dedicato a "Satchmo", "Bird, ed un altro indimenticabile amico", ma, come specificano le note dell'album, vuol essere puramente ispirato al mondo musicale del jazz, senza accenni espliciti allo stile di Louis Armstrong o di Charlie Parker.

la seconda facciata offre una prima parte volutamente semplicistica, quasi in corrispondenza con un sentimento quale la sincerità, mentre la musica si fa più complessa e violenta con "Johnnie Sayre", personaggio tratto dall'antologia di Edgar Lee Masters, la stessa che ha dato lo spunto a De André per il suo ultimo LP. La "Favola o storia del lago di Kriss" è un dialto immaginario fra la luna, il vento ed un lago che vorrebbe uscire dai propri argini per conoscere.

La conclusiva "Dolce acqua" è il ritrovamento della speranza alla fine del viaggio musicale, e gli autori puntualizzano che potrebbe essere intesa nella sua dimensione ecologica come riscoperta dei valori più puri della natura.

L'album mi sembra uni dei migliori italiani da un anno a questa parte. Anche i testi sono poetici ed incisivi. Non c'è proprio nulla in comune con i Chicago, i Blood Sweat & Tears ed i Colosseum, come un po' superficialmente scrive Lilian Terry per le note di copertina di "Dolce Acqua". Ma forse proprio qui è il bello; non c'è la solita imitazione del gruppo straniero, di fronte al quale si finisce fatalmente per fare una magra figura, ma c'è un discorso molto personale, forse ancora troppo poco elaborato e maturo, che porterà però sicuramente il gruppo a vertici altissimi.

                                             Enzo Caffarelli

 

 

 

BANCO DEL MUTUO SOCCORSO

1° - Ricordi (1972)

 

Nome, copertina ed etichetta originalissimi per una formazione romana sicuramente fra le più personali tra tutte quelle emerse alla ribalta nazionale nell'ultimo anno. Il loro organico presenta chitarra, basso, batteria, piano, organo (sono molto rari i gruppi con piano ed organo insieme, ricordi i Procol Harum che sono stati i migliori con le due tastiere), più un cantante eccellente, il panciuto Francesco Di Giacomo, dai toni vocali molto originali.

L'album del Banco del Mutuo Soccorso è personale ed originale non solamente nel panorama italiano (sono compagni di management della Premiata Forneria Marconi, ma non le somigliano affatto). Ma non offre neppure facili agganci con gruppi stranieri, e questo per ovvie ragioni è un immenso bene. In fondo il sestetto ha superato a pieni voti il consueto "salto" che ogni gruppo italiano deve affrontare quando abbandona il repertorio inizialmente, di solito, preso in prestito dagli americani o dagli inglesi, ed entra in una fase assolutamente creativa e propria.

Il Banco torna sul tema dell'uomo angosciato ed alienato di fronte alla realtà circostante, il tema che gli italiani hanno maggiormente affrontato negli ultimi tempi. Lo fanno con liriche simboliche molto belle, favolistiche, ariostesche forrei dire tenuto conto dell'accenno iniziale ad Astolfo e all'ippogrifo, sognanti, accoppiate con atmosfere melodiche e intimiste, con il piano sempre in bella evidenza, e con un organico complessivamente capace e creativo. "R.I.P." (Requescant in pace) e "Il giardino del mago" i pezzi migliori.

                                        Enzo Caffarelli

 

 

 

TRIP

Caronte - RCA (1971)

 

I complessi italiani continuano a darsi da fare per creare anche presso di noi una musica interessante: il 1971 ha segnato alcuni risultati estremamente positivi, come la piena conferma delle Orme, il primo album degli Osanna, quello non ancora edito dei Panna Fredda, la nascita della Premiata Forneria Marconi.

I Trip, due ragazzi inglesi, un piemontese ed un ligure, tutti residenti in Italia ed operanti per una casa discografica italiana, sono al loro secondo LP.

Il primo, chiamato semplicemente "The Trip", denunciava un'accurata ricerca soprattutto di effetti sonori, affidata al leader musicale del quartetto, l'organista e pianista Joe Vescovi. Anche in "Caronte" c'è una palese volontà di rinnovamento, e solo raramente i musicisti si limitano a mettere insieme espressioni ed influenze dei gruppi stranieri, dei modelli inglesi in particolare modo, com'è d'obbligo in questo momento.

Quello che interessa con immediatezza è il fatto che l'album raccoglie cinque brani mantenendo un tema unitario, più che altro da un punto di vista psicologico, perché i testi sono pochi: è il tema di un viaggio immaginario, di tipo dantesco. La copertina riporta disegni infernali, e gli stessi musicisti sono fotografati in costumi antichi nelle acque di un stagno. Caronte, il mitologico traghettatore delle anime perdute, è qui l'allegoria dell'ipocrisia di coloro che, secondo gli stessi autori, condannano i loro "fratelli" morti, come Jimi Hendrix, il più di moda nelle celebrazioni.

A livello espressivo non c'è però dark sound, ma un rock meno effettistico, ricco di spunti pregevoli, specialmente negli impasti fra l'organo di Vescovi e la solista di William Grey, che costituiscono senza dubbio la nota più tipica del sound del quartetto. "Caronte I", che apre la raccolta, è un episodio esclusivamente strumentale di fattura violenta, mentre "Two brothers", con il testo completamente in lingua inglese, dopo un inizio di strani rumori si snoda in un crescendo di organo e chitarra fino alla porzione vocale, a metà strada fra i Led Zeppelin delle ultime esperienze ed i King Crimson di "21th century schizoid man", sicuramente uno dei pezzi che ha più influenzato la scena musicale degli ultimi due anni. Ci sono rapidi cambiamenti di tempo, come caratteristica di tutto l'album, e si segnala il basso creativo di Arvid "Wegg" Andersen.

La facciata B comprende la melodica "Little Janie", poi l'"Ode a Jimi Hendrix", un susseguirsi di ritmi violenti e di episodi pacati, avvincenti nella seconda parte che si apre con un organo da chiesa e poi si continua con la solista distorta celebrante una specie dei marcia funebre su di un background percussionistico particolarmente "heavy".

                                    Enzo Caffarelli

 

 

 

METAMORFOSI

...E fu il sesto giorno - Vedette (1972)

 

Da qualche tempo a questa parte i gruppi italiani hanno capito soprattutto una cosa: l'importanza di svolgere un discorso musicale il più possibile personale, lasciando da una parte le imitazioni da modelli stranieri, anche se la tecnica e la padronanza degli strumenti non ha ancora raggiunto la perfezione.

Su questa linea la formazione che con i risultati più positivi ha saputo accoppiare allo stile modernissimo e all'avanguardia un gusto ed una sensibilità tutta italiana è stato il Bando del Mutuo Soccorso, l'autentica rivelazione dell'ultimo anno, premiati al 2° festival di avanguardia e nuove tendenze.

Allo stesso festival si sono segnalati, e sulla medesima strada paiono operare con successo, i Metamorfosi. A mio parere questi sono i gruppi che in ultima analisi stanno raccogliendo l'eredità delle prime formazioni italiane del periodo beat e folk-protesta, cioè i musicisti che per primi seppero allinearsi con le esigenze rinnovatrici dei mercati di oltremanica e di oltreoceano, pur mantenendo un proprio volto italiano. Con la differenza che allora il proprio mezzo espressivo era limitato al 45 giri e troppo spesso le canzoni venivano tradotte direttamente dall'inglese; ed ora viceversa si ha il 33 giri, e si ha soprattutto l'esperienza di tanti altri anni, che si traduce in una strumentazione più ricca e più impegnata, in un discorso artistico più ampio e non militato alla semplice musica, e soprattutto in un esigenza di riscatto dopo le scure stagioni del pop nel nostro paese.

Tutto questo per dire che il quintetto delle Metamorfosi non si ispira affatto a gruppi stranieri, e a costo di cadere di tanto in tanto in qualche episodio semplicistico, è voluto restare fedele ad un'impostazione italiana, senza tuttavia risultare banale o scontato.

Il significato dell'album è ancora una volta l'uomo, le sue paure, le sue ansie, il suo riscatto finale attraverso le immagini evangeliche del Cristo salvatore. I Metamorfosi hanno per altro vasti interessi letterari (pare abbiano già pronto materiale per un doppio album intorno alla Divina Commedia), e sono riusciti con abilità a risolvere il consueto dramma per motivi di metrica e diciamolo pure per ragioni di interpretazione (sono pochi in Italia i cantanti capaci di guidare un gruppo) al ritmo del rock.

L'album "...E fu il sesto giorno" contiene sette brani, fra i quali segnalo "il sesto giorno", "...E lui amava i fiori", "Nuova luce" e "Sogno e realtà".

Un plauso alla Vedette che ha creduto in questi cinque ragazzi, ed un invito a continuare su questa strada.

                                        Enzo Caffarelli

 

 

 

I TEOREMI

Omonimo - Polaris (1972)

 

I complessi italiano ancora non esistono per taluni, indaffarati nello scovare ed esaltare i più strani e sconosciuto gruppi stranieri, e propensi a snobbare e declassare qualsiasi cosa venga prodotta qui da noi. E' un discorso che poteva essere considerato valido fino ad uno, due anni fa. E' bene quindi presentare un po' tutti i nuovi gruppi italiani, che vogliono dire qualcosa di interessante.

I Teoremi si presentano con un quartetto tradizionale, ma non suonano il solito hard caotico: sperimentano atmosfere più impegnative, presentano una tecnica individuale e di gruppo non comuni, e offrono complessivamente un album intelligente ed accettabile.

Le parti cantate - questa osservazione ha un carattere generale - appaiono nei gruppi italiani sempre meno piacevoli dei corrispettivi inglesi, Il fatto è che la lingua italiana non è mai riuscita ad adattarsi, proprio per la sua struttura, al linguaggio del rock; da cui uno dei problemi fondamentali per la musica progressiva italiana, specie in un momento in cui tutti si stanno orientando verso testi significativi.

I Teoremi si avvicinano ad un certo gruppo di giovani artisti italiani, quello che fa capo ai Trip, al Rovescio della Medaglia, ai Garybaldi. Manca ancora loro un pizzico di originalità, che potrà essere acquisita con una ricerca protratta nel tempo.

                                                Enzo Caffarelli

 

 

 

OSAGE TRIBE

Arrow Head - Bla... bla (1972)

 

Gli Osage Tribe hanno scelto una denominazione presa in prestito dalla storia degli indiani (si tratta di una tribù), ed il loto singolo grafico è stato sin dal primo disco una testa mozza di una bambola indiana, che vuol rammentare la dispersa civiltà, di quel popolo in chiave sociale e politica.

Anche a livello di testi, essi si ispirano alle storie nate nel popolo Osage, ricche di esperienza popolare e ataviche tradizioni, storie che parlano di "presa di coscienza", di "armonia con l'universo", di "un mondo fatto a pagamento, dove le mani sono piene di soldi e gli stomaci di whisky", del "dio della vita che dà luce alle menti", di "cerbiatti d'argento che saltano fra nuvole di giada". E' un linguaggio antico, ma è il linguaggio di pace nella battaglia esistenziale di tutti i giorni, e dunque un messaggio sempre valido.

"Arrow head", vale a dire "punta di freccia" è il primo LP del gruppo, per il momento ancora un trio, con Marco Zoccheddu, ex chitarrista della Nuova Idea ed autore della maggior parte dei pezzi, "Cucciolo" alla batteria, e "Callero" al basso. la musica degli Osage parte da una base di rock tradizionale, sul quale però i musicisti si sforzano di inserire, con successo, le loro vibranti emozioni jazzistiche: li ascoltiamo ad esempio in "Cerchi di luce", dove riescono a fare del buon jazz con la semplice formula chitarra-basso-batteria.

Le cose più notevoli sono accompagnate da musiche più commericali, ma ormai non è più tempo di compromessi di questo genere neppure in Italia, e gli Osage, che sono musicisti molto intelligenti, stanno tentando (aggiungendo una tastiera ed un fiato) di spostarsi verso un modo più libero e più jazzistico. La sezione ritmica è già quella giusta per questo programma. E l'etichetta Bla... bla, la stessa di Franco Battiato (con il quale gli Osage Tribe hanno suonato per qualche tempo), e dei Capsicum Red, è fra le più attente e all'avanguardia nel nostro paese.

Sei sono i pezzi complessivamente, tre per facciata. Molto bella la confezione dovuta allo studio al.sa. La copertina esterna è dedicata agli indiani, quella interna rappresenta un originale flipper trasformato per l'occasione.

                                         Enzo Caffarelli

 

 

 

ALAN SORRENTI

Aria - Harvest (1972)

 

Chi lo ha già ascoltato è assolutamente d'accordo sul fatto che Alan Sorrenti rappresenta la figura musicalmente più originale espressa dal nostro paese da tanti anni a questa parte. E chi non lo ha ascoltato, non so quanto potrà ricavare dalle mie parole, data l'estrema difficoltà di cogliere perfettamente nel segno e di descrivere dettagliatamente questo strano personaggio spuntato fuori dal golfo di Napoli, e asceso in volo fra le note della sua "Aria".

"Aria" p la suite che occupa l'intera  prima facciata, ed anche la composizione più ambiziosa di Sorrenti. L'album è stato registrato in parte in Italia, in parte in Francia, con alcuni sessionmen francesi, e con sopite d'eccezione Jean-Luc Ponty, il numero uno del violino jazz. La casa discografica ha visto giusto fin dal principio, ha creduto nel ragazzo e gli ha dato carta bianca, per di più confezionando una bella copertina con tanto di testi e di note, mentre l'etichetta è una delle più illustri inglesi, la Harvest. Un autentico successo, dunque, su tutti i fronti.

Alan suona la chitarra acustica, compone, arrangia. E' un cantautore del tutto particolare: la sua forza sta innanzi tutto nella voce, carezzevole e metallica, aspra e dolcissima a turno, che egli utilizza come un vero e proprio strumento, una voce personalissima e duttile, che si assottiglia e riprende corpo, si plasma secondo la nota, l'allunga e la tiene sospesa salendo le scale più alte, poi la getta e la raccoglie di nuovo rimodellandola accuratamente. A qualcuno rammenta Peter Hammill dei Van der Graaf Generator, specie nell'uso del semiparlato, ma lo stile di Alan è meno aggressivo, ed ancora più raffinato e dettagliato; e mentre Hammill guida con la voce gli strumenti, Alan li precorre ed in un certo senso ne resta al di fuori.

"Aria" è appunto un giuoco di voce, con il tema lacerato, ridotto a brandelli, poi ripreso, e solo in rarissimi casi con l'aiuto di distorsioni od effetti elettronici. Dietro suona l'ottimo complesso, con Vittorio Nazzaro al basso e a dare una mano ad Alan con la chitarra classica. Antonio Esposito alla batteria, Albert Prince al piano, all'organo, al sintetizzatore ed al mellotron, le cui aperture dolcissime interrompono e congiungono i vari momenti della composizione. Sullo sfondo i musicisti francesi, due fiati, un contrabbasso, e Ponty lucido maestro come di consueto con il violino stregato.

Non si può parlare di disco sperimentale, perché Alan è già in possesso dei mezzi e delle capacità espressive necessarie per un discorso formato e compiuto. I temi confluiscono uno dopo l'altro secondo una concezione modernissima, senza troppi compiacimenti melodici, né con eccessiva insistenza sulle frasi ritmiche, talora semplicemente abbozzando delle idee che viceversa avrebbero potuto essere realizzate su maggiore scala. Eccellenti dialoghi violino-voce, o negli episodi in cui domina la possente costruzione dell'organo, o l'uso raffinato e jazzistico del piano.

La seconda facciata contiene tre pezzi: "Vorrei incontrarti" è l'unico brano di stampo tradizionale, che si avvicina al modello più conosciuto di cantautore; "La mia mente" è una ricerca cerebrale nei meandri del proprio cervello, con le medesime caratteristiche formali di "Aria", ed anzi con i toni ancora più esasperati; e "Un fiume tranquillo" ripropone l'accostamento a Peter Hammill, e si presenta come un altro tipico episodio di Sorrenti, con i fiati ed il sintetizzatore in evidenza, e con una linea melodica nel complesso più facile e comprensibile degli altri.

"Aria" è un disco che difficilmente piacerà al primo ascolto, e che verrà tacciato anche di mistificazione. Secondo me sarebbe stato un disco interessantissimo anche se fosse stato soltanto strumentale. In più c'è la voce di Alan, il vero carattere determinante ed originale, e naturalmente non è facile accettarla immediatamente. Ma facciamo in modo che il detto "nemo propheta in patria" per una volta non abbia valore.

                                      Enzo Caffarelli

 

 

 

CERVELLO

Melos - Ricordi (1973)

 

Melos è il personaggio della mitologia greca che rappresenta il canto, ed è il protagonista di questa ricostruzione del clima della tragedia e del mito che il Cervello ha voluto offrire al suo esordio.

Il quintetto napoletano usa un linguaggio volutamente ricercato, arcaicizzante fino all'esasperazione, ma immediato, senza rifiniture barocche, costituito di immagini rapide e folgoranti, una descrizione verbale tesa a provocare, secondo il programma dei musicisti, visioni altrettanto immediate nell'ascoltatore. Le parti cantate sono porzioni di un tutto musicale, senza interrompere lo svolgimento armonico del brano: c'è una sapore dodecafonico e di antichi canti che si mescolano e rendo l'operazione difficile e particolarmente interessante, anche se dura al primo ascolto.

Musicalmente il Cervello presenta una certa autonomia dai modelli stranieri: è forse un momento di sintesi delle cose migliori offerte dal panorama italiano, dalla PFM al Banco, agli Area; soprattutto agli Osanna, cui il Cervello è doppiamente legato: in quanto Corrado Rustici, chitarrista, è il fratello minore di Danilo, e perché lo stesso Danilo insieme ad Elio D'Anna sono stati i produttori dell'album e le attente guide del gruppo costituito da giovanissimi (età media diciannove anni).

Il recupero della tradizione mediterranea, e greca in particolare, vuol essere un fatto ispirativo, non di ricostruzione neoclassica: anzi le figure di Euterpe, la musa del canto, o del Satiro, dello stesso Melos, ambiguo, portavoce delle contraddizioni della realtà di ogni tempo, sono osservate attraverso un diaframma critico. Del rito dionisiaco viene esaltata la potenza energetica, ma condannata la forma. Gianluigi di Franco (flauto e voce) e Corrado Rustici hanno composto i brani, anche se sul disco figurano due prestanome.

Ci sono degli episodi acustici, tipicamente pastorali, come scenografia richiede, ma c'è soprattutto un rock-jazz libero, fluido, con atmosfere galattiche. L'uso del mandolino, del vibrafono e di vari tipi di flauto danno particolare ricchezza e corposità al suono. In alcuni brani si osserva proprio una crescita da momenti tradizionali verso la conquista progressiva di un linguaggio concettualmente più moderno.

                                               Enzo Caffarelli

 

 

 

VINCE TEMPERA

Art - Harvest (1973)

 

Vincenzo Tempera, milanese, ha fatto un po' di tutto prima di registrare questo disco che potrebbe essere il passo più importante della sua già lunga carriera artistica: ha diretto l'orchestra al festival di Sanremo, ha curato gli arrangiamenti per Nomadi, Giganti, Guccini e tanti altri, ha inciso "Love story" e "Anonimo veneziano", si è dato da fare come sessionman, specie nell'ultimo anno.

Pianista di razza, diplomato in conservatorio, Vince ama il jazz ed il classico, il soft rock californiano e la ballata tradizionale, un po' come uno dei suoi idoli, Keith Jarrett, ed offre in questo album un volto eterogeneo che risponde perfettamente al personaggio.

"Art" è stato registrato metà in studio e metà dal vivo al Number One di Sanremo. La cosa più importante è che Tempera si presenta ad un pubblico difficile come il nostro con il solo pianoforte, senza accompagnatori. La sua inventiva, il vigore che costantemente sorregge l'opera, la tecnica eccellente che egli ha saputo sviluppare con entrambe le mani, gli consentono giuochi armoni e ritmici godibilissimi, per cui la musica non viene a soffrire della presenza di un unico strumento.

Per Vince il pino è uno strumento da trattare con forza e vigore, strumento melodico e ritmico a un tempo. La sua tecnica è precisa, asciutta, con una chiara predilezione per il tocco breve, misurato, senza barocchismi di sorta.

Nei pezzi più vicini al rock, egli sembra aver tratto la stessa lezione di Elton John e di Leon Russell, che discendono in fondo dai rockmen della prima ora: così ne "Il mio cane si chiama Zenone", già registrata nel "solo" di Alberto Radius ed in "Space captain", un brano reso celebre da Joe Cocker in "Mad dogs".

"Here comes the sun" è un omaggio ai Beatles, ampliato da qualche fugace citazione di "Eleanor rigvy" e di altri pazzi celebri. "Cerveza" prende le mosse da un jazz di vecchio stampo, e si sviluppa sino a far individuare le influenze di Jarrett, mentre "Goin' on" e "Gabbia di città" si rifanno più da vicino ad Herbie Hancock, l'Hancock di "Maiden voyage".

"Gabbia di città" in particolare, la composizione più ambiziosa del LP, riassume il carattere complessivo di Tempera: un saggio a metà strada fra il colore debussyano e la costruzione armonica gershwiniana: descrizione breve di frasi, poi rimescolate come in un caleidoscopio, armonie sviscerate e dissolte, poi ricostruite dall'interno, sfruttando piccoli frammenti tematici. Una della migliori improvvisazioni del pianista.

                                               Enzo Caffarelli

 

 

Ciao 2001