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1° BE-IN A NAPOLI

WIGHT A CASA NOSTRA

di Fiorella Gentile, Dario Salvatori, Maurizio Baiata. Foto di Piero Togni (dal "Ciao 2001" n. 27 del 8 luglio 1973)

 

 

A distanza di tre anni dall'ultimo festival di Wight, non ho ancora dimenticato l'emozione di vivere un avvenimento tanto più grande di me. 60.000 persone, l'enorme arena recintata , il timbro corolato d'ingresso sulle mani, le bandiere variopinte e i venditori ambulanti di yoghurt, hot dogs e altre gioie varie: la notte e la silhouettes danzanti, mille sacchi a pelo e un immobile palcoscenico di stelle. Le file allucinanti, che si snodavano per chilometri, le bancarelle assurde e la violenza di mille odori. E Grande, su tutto e su tutti, la Musica. E' vero: Wight is Wight.

Eppure i tre giorni passati al be-in napoletano non sono stati meno belli, meno coinvolgenti, anche se ogni cosa mi sembrava, rispetto a quella esperienza, in tono ridotto, quasi senza amplificazione. Pesava favorevolmente sulla bilancia la tenerezza d'aver visto finalmente nascere in Italia qualcosa che altrove è già finita, forse per l'oscura volontà di chi non ha mai potuto sentirsene parte.

Sembrava di assistere alla proiezione di un film, al quale si poteva partecipare indifferentemente nel ruolo di protagonisti o di spettatori. Ogni cosa aveva un preciso senso artistico, anche le scaramucce nel retro-palco per gli strumenti o la posizione dei furgoni, gli anacronistici divismi di certi artisti arrivati solo per la loro esibizione e subito ripartiti (lasciandosi dietro una scia di profumo alla "Greta Garbo") sotto gli sguardi commiseranti di chi quei tre giorni se li stava godendo sin dai primi attimi di tensione.

E poi il lento ma costante fluire di ragazzi con in mano le coperte e sul viso una espressione di incertezza circa quel che poteva accadere, e di speranza che fosse quello che era stato promesso. Eddie Ponty, il gigante buono, sempre in attività, a difendere. sostenere. accusare, con una lucidissima percezione del pubblico; Danilo (Rustici), a grandi passi per il campo, messaggero degli Dei; Angelo Del Giudice (uno degli organizzatori), sempre sorretto, nei piccoli come nei grandi problemi, dal sorridente fatalismo napoletano; Elio (D'Anna), mollica di pane sotto una colonia di formiche, sempre a spiegare, discutere, convincere disteso solo mezz'ora prima della fine del be-in, quando già nasceva il rimpianto e faceva dimenticare la stanchezza; Tony Marcus, come un sogno ricorrente, col suo cappello a falda larga e la custodia del violino in mano; Lino (Vairetti) in mezzo alle sue sculture nell'assurdo giardino del ristorante. Tutto aveva un senso preciso. Anche la bottiglia volata via improvvisamente, le grida confuse da cui si distinguevano solo "compagno" e "fascista", le persone che si muovevano come palline di ferro in un campo magnetico e la calma che è seguita, quando ci si è accorti che quel gioco era vecchio e fuori luogo, lì. Il sole che intorpidiva gli animi e i corpi e la musica, bella e brutta.

Il rock invecchiato e distillato dei complessi "divi", il canto dissacrante e bellissimo di Peter (Hammill), "il profugo"; l'energia ritmica dei Jumbo; il sound "genesiano" di alcuni complessi nuovi; i De De Lind originali e precisi; Claudio Rocchi con due splendidi bambini, tirato fuori da un quadro bucolico; il favoloso incanto della musica del Perigeo; Alan (Sorrenti)  sensibilissimo, ma temporaneamente senza voce e, purtroppo, senza più Tony.

E poi, meravigliosa, la jam session da annali del pop, L'Uomo e la Donna (Elio e Tony) che dialogavano coi loro strumenti: il flauto accattivante e aggressivo, il violino pazzo e remissivo. Una straordinaria intesa musicale, che si traduceva in movimento fisico, in sguardi e sorrisi, nel diffuso rossore di lei e nella prepotente personalità di lui. Il gioco infantile di due artisti eccezionali, alla riscoperta dell'essenzialità musicale. Dietro, un solido mantello ritmico: la chitarra di Danilo, la batteria e il basso (Atomic Rooster) che stavano alle regole, pur abituati a tutt'altro, le altre due chitarre (De De Lind e Living Music) docili, il flauto intimidito (Quella Vecchia Locanda) e il sintetizzatore (Battiato) a volte efficace, altre fastidioso, in mezzo a tanta armonia, come un gesso sulla lavagna, e ridondante.

25.000 presenze registrate nei tre giorni, un'atmosfera sempre più compatta, i poliziotti annoiati all'uscita, la folla ormai contenta, il sole patrocinante, gli amici: peccato per chi non c'è stato.

Unico grosso rammarico l'ho avuto nel constatare l'egocentrismo di alcuni artisti, che non hanno capito assolutamente niente dello spirito della manifestazione e si sono impossessati del palco come se fosse stato allestito per loro soli. Cosa che purtroppo ha sottratto tempo a quanti ancora avrebbero dovuto suonare e non hanno potuto (come i Metamorfosi).

Anche Vittorio e Francesco del Banco erano intenzionati a fare un jam session con gli Osanna e altri musicisti, se ne avessero avuto la possibilità. Neanche gli organizzatori hanno potuto offrirla loro non volendo cadere in pesanti discussioni.

                                                                                          Fiorella Gentile

 

E' L'ORA DEL POP

Grazie al primo be-in il rock italiano ha fatto un grosso passo in avanti. forse non tutti se ne sono accorti ma sicuramente se ne parlerà molto in futuro. Infatti grazie all'organizzatore Angelino Del Giudice (chiamiamolo pure "organizzatore" anche se suona male, ma state tranquilli che si distacca completamente da tutti gli altri del settore, sia per metodi di lavoro, sia per un'innata umanità), il rock è entrato per la prima volta sotto l'ala di un'Azienda di Cura e di Soggiorno. Ciò è importantissimo. E' un dato di "ufficialità" che non dobbiamo assolutamente lasciarci sfuggire di mano. Fino ad oggi soltanto il jazz (dopo tanti anni riconosciuto a livello serio e qualificante) era riuscito ad abbinare le sue manifestazioni con enti ufficiali; anzi spesso la sua vitalità e l'organizzazione di rassegne a livello europeo dipendevano soltanto da questo. Ora sembra arrivata anche  l'ora del rock. Dopo tanti patimenti, dopo tanti permessi revocati, dopo mille ghettizzazioni di ogni sorta, qualcuno pensa bene di riconoscere la nostra musica. A parte i soliti dieci anni di ritardo con cui si arriva a capire certi fenomeni, nulla in contrario. Attenzione però! Stiamo attenti a chi andrà in mano la gestione di tutto ciò...

Il festival è stato indubbiamente bello ed interessante, vivacizzato da polemiche sul prato e al microfono, che tutto sommato non hanno guastato per niente. Bello il posto. Il Villaggio Kennedy di Camaldoli era in pratica una pista di go-karts, con erba e asfalto. In certi momenti si aveva l'impressione di essere ad Altamont; per sfortuna sono mancati i Rolling Stones, per fortuna sono mancate le coltellate.

L'acustica era la solita delle manifestazioni all'aperto, l'organizzazione sonora aveva ogni tanto momenti di crisi.

Il pubblico napoletano ha mostrato di gradire forse più di ogni altro Claudio Rocchi, sempre presente a certe manifestazioni, che ha riproposto brani tratti dal suo ultimo long playing. I ragazzi del Perigeo hanno suonato, devo dire con molto impegno, alcuni titoli del loro primo long playing "Azimut", fra cui "Grandangolo", riproponendo infine un pezzo particolarmente caro a Giovanni Tommaso, "Tutti hanno un blues da piangere", brano che già code di una buona popolarità senza essere mai stato inciso.

Solita divisione di pubblico con l'esibizione del Rovescio della Medaglia, gruppo romano che si è presentato con l'organico esteso. Grossa gioia per gli amanti dell'hard, mentre gli altri devono ammettere che il Rovescio è un grosso set, voglio dire che indipendentemente dai singoli gusti, rimane un gruppo organizzato, preciso, costituito da professionisti e in grado di offrire un grosso show da palcoscenico. Bravissimi gli Osanna, a cui si deve in parte l'allestimento del be-in. Ottima resa dal vivo ancora una volta del loro "Palepoli" naturalmente senza maschere e scenografia.

Altra divisione di pubblico per il Living Music; c'era chi applaudiva e chi rideva. Ho scoperto che questo gruppo non è molto amato dal pubblico impegnato, quelli cioè che parlano di profanazione di Allen Ginsberg, e da una fetta di critica che mette in discussione la serietà e l'autenticità dei componenti. Vorrei soltanto suggerire di ascoltare più umilmente, di ricordarci che siamo italiani e che viviamo in Italia e, infine, che all'interno del Living Music c'è tanto amore.

Mi è poi piaciuto molto Tito Schipa, un ragazzo indubbiamente dotato e ricco di contenuti. Il guaio di Tito è che essendo un poliedrico si dedica contemporaneamente alla musica, al teatro, alla regia, alla recitazione, senza riuscire a mettere a fuoco tutti questi lati con lo stesso successo. Bella reazione del pubblico al suo "Combat". Ancora bravi i Garybaldi, Mauro Pelosi, Tempera, Bennato, Cervello e Oro. Meno bravi i Semiramis, i De De Lind, poco sincera Rosa Balistreri.

Assolutamente strepitosa la gente sul prato. In questo senso Napoli è un po' la California della situazione. Elisir magici del prato, Raffaele Cascone, lo sballato, sul palco, Eddie Ponti, fratello maggiore, istituzione da palcoscenico, con il microfono in mano, ci hanno aiutato a stare meglio, ad "esserci", a contarci, a vedere e a constatare che la prossima edizione dovrà essere ancora più bella.

                                                                                                                                                                   Dario Salvatori

 

SHAWN E GLI ESCLUSI

Parlare di deliri e di tristezze, ad un tempo, è cosa per lo meno strana in un contesto prettamente musicale, soprattutto se si ritrovano caratteri di positività e di negatività in una stessa ambientazione, nel nostro caso la occasione  del be-in di Napoli.

Due sono i motivi che a mio avviso è importante far rilevare in questa sede: il primo, il viso di Shawn Phillips, la rada barba bionda, i capelli incredibili e gli occhi buoni e giusti proiettati verso il cielo di Napoli, e la sua musica magica, irreale, altezzosa quasi nella sua limpidezza e cristallinità; il secondo, di tutt'altra natura, legato a vicende molto più terrene, che è doveroso segnalare e forse anche denunciare, giacché rispecchiano un po' la vita dei nostri complessi, minori e non, alle prese con il mondo manageriale e di interessi della nostra pop music.

Preferisco ricordare e toccare ancora una volta con mano la delirante personalità di Shawn dai lunghi capelli, giungo nuovamente a aNapoli dopo un periodo di qualche mese trascorso in America per una serie di concerti che lo hanno imposto come figura di primissimo piano fra i cantautori della sua terra, mentre qui lo andiamo scoprendo lentamente, a viva forza taluni perché violentati dal suo dire sin nel midollo, lenti a convincersi altri, perché una voce-galassia a volte sconcerta e prima di essere amata va capita. Shawn, un furgone, la gioia negli occhi, la mano sul volante e sulle miriadi di chitarre che lo accompagnano da un milione di anni. il sorriso dolce sulle cose e sugli uomini, la parola semplice, Texas e Palepoli nella gola: un uomo che ormai molti di noi conoscono.

Accompagnato da Tony Walmsly, Shawn ci ha dato un cuono a fiotti, nervoso, irreale, fino ad ora sconosciuto; le sue celebri chitarre a doppio braccio respiravano attraverso un sintetizzatore, sonorizzavano la atmosfera palpando l'oscurità, bagliori distinti ed accecanti erano quel suono mozzafiato: il pubblico sconcertato, le gambe polli per l'emozione, mentre già Sorrenti aveva calcato il palco, con "Serenesse" nella voce ed il pensiero di Phillips nella mente, indubbiamente.

Bello e giusto e sacro, nell'atmosfera chiesastica che si era fatta attorno alle luci della sua figura, era il racconto di Shawn, maestro e gran cantatore di California e di Positano: "She Was Waiting For Her Mother...", meglio conosciuta come "Woman", a spalancare il cuore verso l'amore e la purezza, e le travolgenti espressioni di "Second Contribution" gettate in faccia agli emisferi dell'armonia, qualcosa di incredibile, indescrivibile tanto il linguaggio, ogni nota, l'espressione di Phillips superano il semplice ascolto musicale, per giungere a penetrare i nostri cervelli e le nostre anime.

Mentre la favola continuava per opera di un soffio d'America, il sottobosco dei giornalisti, degli addetti e non, degli organizzatori, dei complessi e dei lori impresari, si ingegnava tutto a raccogliere le trame del lavoro che gli aveva portati sino al primo "Be-in", e forse il tutto poteva apparire squallido, ma dietro le quinte l'occhio dell'appassionato sincero sapeva distinguere lo sporco dal puro, sempre si tratti della sua musica, o che un ideale venga frustrato, o che, come nel nostro caso, e precisamente nel corso di entrambe le dua occasioni napoletane (Avanguardia e Be-in) alcune formazioni non abbiano avuto la possibilità di esprimersi, per ragioni varie che non staremo a discutere, o non sono state segnalate dalla critica dei quotidiani e non, pur avendo numeri di indubbio interesse.

Vorrei parlare dei Pholas Dactylus e dei Metamorfosi che, nel corso della serata finale del Be-in si sono visti negare la gioia del palcoscenico ed il rendere giustizia, oppure al limite vanificare dei loro sforzi per la troppa goliardia o il mancato rispetto di artisti senz'altro più affermati, ma che non avevano il diritto di esibirsi per un'ora e più. Lo stesso Shawn ha esagerato, trascinato in un orgasmo furibondo di suoni e colori, e Alan ha gettato alle ortiche anche gli sforzi dei suoi compagni che tentavano di frenarlo e seguirlo in una sorta di giusto delirio, bello sì ma inutile nei confronti di chi era lì per le stesse ragioni. Stesso comportamento da parte di altri: quello che è accaduto per i Pholas Dactylus ed i Metamorfosi non si deve assolutamente ripetere, come non deve passare senza l'interesse di alcuno il discorso intrapreso dal gruppo Abramo Lincoln, con il buon senso alle spalle ed il jazz davanti agli occhi.

Vorrei terminare con un breve discorso inerente proprio ai Pholas: il loro suono è ancora acerbo, ma le idee sono completamente nuove; con racconti che si snodano attraverso l'abbattimento delle barriere temporali e spaziali, per mezzo della percezione extrasensoriale proiettata nel futuribile e nella scienza del fantastico, nella filosofia cosmica, e nella cosmogonia degli eterni e degli inconoscibili. Dal canto, che è più giusto definire narrazione pura di una concretezza ideale che non ha riscontro almeno a livello di testi, alle più semplici costruzioni armoniche, il gruppo dimostra un carattere proprio ed una limpidezza d'intenti non comune.

Con il beneplacito di chi regola le segrete cose della musica pop italiana, questo modo di gente coraggiosa e reale merita la nostra partecipazione e la nostra fiducia per il futuro.

                                                                                                                                        Maurizio Baiata

                                                                                                                                                                      Foto di Piero Togni

 

 

Ciao 2001