Laura Montingelli - Eleonora Fiorani, o del pensiero vigile

 

 

       

Un breve profilo biografico

Nata a Milano, Eleonora Fiorani ha studiato filosofia della scienza con Ludovico Geymonat. Epistemologa e saggista, dopo alcuni libri sui temi del materialismo ha discusso, fra l'87 e oggi, le questioni fondamentali delle nuove scienze del territorio, della cognizione e della mente, delle forme e dei linguaggi della comunicazione, per una ridefinizione dei saperi e dell'analisi critica dello stato del mondo. Opera pertanto con le scienze di confine, tracciando nuovi percorsi e intrecci disciplinari tra epistemologia, antropologia e semiotica.

La sua attività di scrittrice è stata, negli anni, ininterrotta e intensissima, e prosegue tuttora. Ha fondato diverse riviste ed ha collaborato con altrettante, spesso insieme a Francesco Leonetti. Molti titoli si potrebbero ricordare, ci limitiamo a citarne alcuni: Il naturale perduto (ed. Dedalo), Selvaggio e domestico (ed. Muzzio), Il mondo senza qualità (1995), La comunicazione a rete globale (1998), Grammatica della comunicazione (II ed. ampliata e aggiornata, 2002), Leggere i materiali (2000), Il mondo degli oggetti (2001).


Incontro con Eleonora Fiorani

Il mio primo incontro con Eleonora Fiorani non è avvenuto quest’anno, bensì nel 1990, al Liceo Musicale del Conservatorio “G. Verdi” di Milano, dove ho studiato e dove lei è stata, per tre anni di cui conservo straordinari ricordi, la mia insegnante di filosofia e storia.

Personalità intellettuale unica e affascinante, non fu allora per me solo una docente fra gli altri, ma una guida formidabile nel mio primo incontro con saperi totalmente nuovi, un mentore che ha lasciato, nel periodo cruciale della mia formazione, tracce profonde, come pochi sanno fare.
A distanza di anni, il Cerchio Azzurro mi offre lo spazio e l’opportunità di incontrarla nuovamente, e di farla incontrare e conoscere (o conoscere meglio, per i più informati) a chi segue il nostro sito.

Il breve profilo biografico sopra esposto non rende certamente giustizia alla vastità ed alla complessità degli argomenti filosofici, storici, letterari affrontati dalla Fiorani nella sua lunga ed intensa attività di pensiero.

Desidero sottolineare quanto contributi culturali ed intellettuali come il suo siano oggi, nella difficile situazione di appiattimento e “perdita del centro” che stiamo attraversando, più che mai indispensabile e preziosa testimonianza di un pensiero vigile. Quel pensiero che sa ancora contrastare, con forza instancabile, il “vuoto che avanza”, e nel quale risiede senza dubbio la possibilità del riscatto dai minimi termini culturali che caratterizzano questi anni.

Con la modestia e la naturalezza delle persone che non hanno bisogno di ostentare la propria statura, la Professoressa Fiorani ha accolto con grande disponibilità la mia richiesta di rivolgerle qualche domanda, e mi ha aperto, in uno dei roventi pomeriggi del luglio scorso, le porte della sua casa. Una casa dove, lo ricordavo da tanti anni fa, sono i libri e gli oggetti d’arte etnica e contemporanea a predominare nello spazio domestico, e a colpire l’attenzione dell’ospite.

Una tazza di refrigerante Karkadè, la compagnia di un cocker pigro e sonnacchioso, qualche momento concesso al riassunto dei nostri avvenimenti recenti, e poi ha avuto inizio l’intervista.

Vorrei innanzitutto, se Lei è d’accordo, tracciare sinteticamente un profilo della Sua riflessione filosofica, dagli inizi della Sua attività sino ai tempi più recenti, per dare ai frequentatori del nostro sito la possibilità di orientarsi su chi è, cosa ha fatto, cosa fa Eleonora Fiorani.

Sono nata filosoficamente come epistemologa e filosofa della scienza, infatti ho studiato e mi sono laureata alla Statale di Milano con Ludovico Geymonat, che era appunto epistemologo.
Ho svolto inizialmente la mia riflessione filosofica in stretto contatto con il movimento operaio e con i grandi fenomeni di trasformazione sociale che si stavano avviando in quegli anni. Mi sono laureata proprio nel ’68, anno in cui ha avuto inizio il movimento della contestazione studentesca, e la mia è stata la prima tesi “non istituzionale” alla Statale. Ho affrontato argomenti rispetto ai quali la sinistra, fino a quel momento, non aveva alle spalle una propria tradizione.
Dunque il mio interesse si volgeva verso le cosiddette discipline “dure” della filosofia, ma anche verso la società e le sue profonde trasformazioni; orientavo quel tipo di studi verso la dimensione del sociale, in piena fase di mutamento, per capire cosa stava accadendo.
Questo periodo è durato circa dieci anni, nel corso dei quali ho scritto diversi libri.

In seguito, ho aperto un nuovo filone di ricerca e di pensiero, che andava a considerare il vegetale e l’animale, andava a recuperare cioè le dimensioni “altre” rispetto all’Uomo, ciò che lo circonda e con cui egli si rapporta e si confronta. Ho voluto occuparmi del territorio e del paesaggio: le piante, gli animali, l’acqua, tutto ciò in cui l’Uomo immerge il proprio corpo.
Questo voleva dire, naturalmente, soffermarsi sulla memoria del passato remoto dell’Umanità, il tempo che viene prima della storia, studiare e capire le tracce di questa antichità remota sotto le apparenze dell’Uomo attuale, le tracce che portiamo su di noi.
Sono riaffiorati, in questo contesto, ricordi di giovinezza, ad esempio la figura di Anati, studioso che affrontò per primo un’analisi scientifica dei graffiti della Val Camonica e che fondò in quella zona il grande Centro Mondiale della Preistoria, oggi riconosciuto come patrimonio dell’umanità.
Sono passata insomma sul terreno di quelle che i francesi chiamano “scienze molli”, ossia quelle discipline che non utilizzano categorie rigorose di pensiero, ma categorie più fluide, mutuate spesso da altri ambiti. Ho approfondito la botanica, la zoologia, l’etnologia, ho anche portato in Italia alcune discipline che qui non ancora non esistevano.

E’ stato un viaggio affascinante in queste dimensioni dell’Umano, il corpo, il corporeo, non come li vediamo adesso, come li abbiamo intorno (quello è un corpo truccato, manipolato, esibito), ma invece il corpo come dimensione essenziale e profonda dell’Uomo.
I libri che ho scritto su questi argomenti e in questo secondo periodo sono molto diversi, nello stile di scrittura, dai precedenti. Anche Il mondo senza qualità, uno dei miei lavori più recenti, vive di una doppia dimensione, si organizza su due piani, quello del pensiero e della ragione e quello dell’emozione e del sentimento; questo secondo piano era, prima, occultato, nella convinzione della forza assoluta dell’espressione del concetto.
In tutti questi libri più recenti comincio ad utilizzare la prima persona, mentre prima essa non compariva, quasi ci fosse in me il timore di espormi emotivamente e di mostrarmi in ciò che io stessa scrivevo.

Un altro ambito di cui mi sono sempre occupata è quello delle arti, ed anche da questo punto di vista ho analizzato la relazione Uomo/ambiente. Ad esempio, Arnaldo Pomodoro (lo scultore romagnolo ma lombardo d’adozione, da tempo grande amico di Eleonora Fiorani, n. d. r.) ha realizzato una scultura, l’Arco-in-Cielo (un arcobaleno verde-azzurro che cambia colore a seconda della luce) che ha poi collocato all’interno del parco termale ischitano di Negombo, su cui io ho teorizzato e che è stato progettato da uno dei più grandi architetti del paesaggio, Ermanno Casasco.
Casasco ha recuperato e trasformato un’area coltivata dell’isola in un immenso giardino botanico diviso in aree diverse, in cui si trovano specie vegetali mediterranee e tropicali; è un giardino delle delizie, dell’Eros, che nasce da una lettura narrativa dello spazio naturale, come il giardino orientale.
Fra l’altro l’Arco-in-Cielo è un’opera particolare nella produzione di Arnaldo, in quanto realizzata in ceramica.
Pomodoro adesso è anche in esposizione alla Torre di Michelangelo di Ischia, con una mostra essenzialmente antologica molto suggestiva, in questo posto bellissimo che guarda verso il Castello, detto Torre di Michelangelo perché pare che lui avesse lì degli incontri amorosi, una di queste leggende che sono sempre affascinanti… (la mostra si è tenuta ad Ischia, alla Torre di Guevara, fino al 20 luglio, varie informazioni al riguardo sono reperibili in Internet facendo una ricerca con Google, n. d. r.).

Dopo questo lungo periodo, sono tornata ad occuparmi della società attuale e delle nuove, epocali trasformazioni in atto.
Sono andata a rileggere i contributi di diversi autori degli anni ’60/ ’70, fra cui ad esempio Adorno e Horkheimer, e ovviamente di quello straordinario personaggio che fu Walter Benjamin, nonché altri studi più recenti, per tornare a considerare la società e le sue trasformazioni rispetto ai modi del vivere e alla comunicazione. Ho ritrovato e riscoperto cose estremamente interessanti scritte in quegli anni.
Mi sono quindi riaccostata allo studio del “qui e ora”, sentendo l’urgenza di capire in quale mondo stiamo vivendo, di trovare delle risposte, comprendendo che il pensiero filosofico vola alto, ma deve poi anche spostarsi “rasoterra”, deve occuparsi delle cose reali, occorre applicarlo alla dimensione del reale.
Ero però, a quel punto, anche forte delle esperienze di studio degli anni immediatamente precedenti. Quindi ho continuato a considerare gli aspetti inerenti il corpo e la fisicità, a maggior ragione tenendo presente che la nostra è una società che è andata sempre più orientandosi verso l’esteriorità, l’estetica, ciò che si vede.
Mi sono interessata anche al rapporto che viene a stabilirsi fra l’Uomo e gli oggetti, dopo aver studiato i meccanismi di relazione fra l’Uomo e i materiali; tutto cambia, infatti, quando i materiali si fanno oggetti, diventano oggetti…


E’ poi così vero che nel nostro modo di vivere noi instauriamo dei rapporti spasmodici con gli oggetti, che questa dimensione è preponderante? Quanto c’è di autentico in questa affermazione e in quanta parte invece essa è divenuta, forse, luogo comune?

Il grande punto di snodo e di cambiamento si ha nel momento in cui l’oggetto cessa di essere l’oggetto arcaico dell’Uomo preistorico, e diventa oggetto – merce.
Quello è il punto nodale, e lì cambia tutto.
In parte il nostro attuale modo di rapportarci agli oggetti è quello “consumistico”, come si dice, quello caratteristico della “società dei consumi” (che in realtà è qualcosa di più complesso e articolato di questa definizione), ma noi abbiamo molti modi di confrontarci con gli oggetti, perché gli oggetti possono essere per noi molte cose, a seconda delle situazioni. Solo in parte l’oggetto è oggetto – feticcio.
Un oggetto non è soltanto tale, in realtà noi ci confrontiamo con esso perché rappresenta il veicolo attraverso cui comunichiamo e cerchiamo il contatto con noi stessi e con gli altri.

Cerchiamo gli oggetti perché, in qualche modo, essi vengono a sostituire, nella società attuale, le istituzioni che non esistono più e che erano punto di riferimento per le comunità. Le comunità oggi hanno bisogno degli oggetti per coagularsi, per ritrovarsi, per comunicare, sia in luoghi reali sia in luoghi virtuali come Internet, ed anche nei cosiddetti non-luoghi, quelli teorizzati e descritti da Augé, che in realtà sono adesso delle aree in cui avvengono delle cose straordinarie, pur senza che per questo essi perdano le loro caratteristiche di non-luoghi.
Quindi chi crea nuovi oggetti nel nostro mondo, li crea sempre meno come oggetti – funzione, e sempre più, invece, perché essi inneschino il meccanismo del riconoscimento, ed anche della ritualità che viene a crearsi intorno agli oggetti stessi (che possono essere l’indumento, il telefono, una squadra calcistica ecc.). Da qui poi il concetto del nome particolare, della marca.

Ho dovuto recentemente occuparmi di queste tematiche anche a causa della mia attività di insegnamento al Politecnico e all’Istituto Europeo di Design di Milano, dove sono a contatto con studenti che si occupano di estetica prima di tutto, persone che studiano la moda, il design, fanno gioielli eccetera.
In tali contesti sono stata stimolata a riflettere anche su questi argomenti, e ho scritto dei libri che dovevano servire come materiali di studio per gli allievi, che altrimenti facevano fatica a reperirli all’interno di mille testi diversi. E’ nata così, ad esempio, la Grammatica della comunicazione.

Ha senso, secondo Lei, sottoporre ad un giudizio “morale”, tra virgolette, l’attuale nostro rapporto con gli oggetti? In altre parole, non è che effettivamente le masse siano oggi, nei loro comportamenti, ancor meno intelligenti di quanto siano mai state nelle epoche passate?

Questa è un’impostazione del problema di tipo adorniano.
Io credo che il giudizio morale sui fenomeni debba venire dopo la loro comprensione. Noi dobbiamo prima di tutto capire, per poi poter eventualmente anche giudicare.Se constatiamo che le persone si comportano in determinati modi, dobbiamo pensare che esse lo facciano non per stupidità, ma perché si manifestano in loro delle necessità, delle esigenze, dei bisogni profondi che non possono evidentemente essere ignorati, né possono rimanere inevasi.

Infatti, io constato tutto questo su me stessa (è osservando i miei stessi comportamenti che spesso inizio a pormi delle domande). Quando io compro un oggetto, a prescindere dal fatto che l’abbia desiderato tanto, poco o così così, io vivo (anche se per quanto tempo duri questo sentimento poi è da vedere) una felicità vera, autentica, tale da indurmi a chiedermi se essa si possa davvero considerare, forse riduttivamente, come una risposta ad una sollecitazione che mi proviene dall’esterno, o non sia piuttosto una risposta ad un bisogno profondo che nasce in realtà dal mio interno, non mi viene indotto da fuori.

Il discorso è precisamente questo, cioè dobbiamo capire che le strutture esterne lavorano sulla nostra interiorità, sulla nostra dimensione profonda, generando in quella sede i nuovi bisogni.

In realtà, però, i veri bisogni, le vere necessità, restano insoddisfatti.

Restano insoddisfatti. Noi infatti, nella situazione attuale, siamo sempre più circondati da oggetti, ma in realtà siamo sempre più poveri, poveri rispetto alla capacità di comunicare, di elaborare stimoli, di interpretare ciò che ci circonda, pur nell’iperstimolazione che ci proviene dalle parole e, ancora di più, dalle immagini.
Certamente io sono dell’idea che le cose vadano molto male; penso che quello che sta capitando è che stiamo cercando di fare a noi stessi quello che abbiamo fatto alla Natura, vogliamo dimenticarci la nostra dimensione originaria, remota, e questo mi fa molta paura, mi spaventa molto.
Vogliamo cercare di adeguare i ritmi umani, biologici, del corpo, che hanno i loro tempi, ai ritmi dell’artificiale, mentre sarebbe giusto vivere anche, ma non solo, la dimensione artificiale e tecnologica.

Noi pensiamo di manipolare le macchine, ma in realtà anche le macchine manipolano noi, agiscono su di noi; non è mai un rapporto unilaterale, ma di scambio.
E’ il problema della cosiddetta “deriva tecnologica”, cioè la tecnologia che non è più in funzione dell’Uomo ma del mercato, ed è questo che non funziona. Non è la tecnologia in se stessa ad essere un male, ma il modo in cui la società la vive e la gestisce.

A questo punto io Le chiedo: come crede che si uscirà da questo empasse? Da dove verranno le soluzioni?

Noi non abbiamo che noi stessi. Le risposte devono venire da noi stessi. Certamente stiamo attraversando un periodo molto difficile, di transizione, che non sappiamo quanto potrà durare e dove ci porterà; io non ho delle risposte ma so che non abbiamo che noi stessi, non c’è niente e nessuno che può aiutarci.

Noi ci siamo portati in questa situazione e noi ne dovremo uscire, insomma…

Sì, “noi” che non vuol dire “noi qui” e basta… pensiamo che esiste anche il Terzo Mondo, a cui l’Occidente ha creato dei problemi…

Certo, ci sono anche altri che ultimamente, diciamo, “si stanno un po’ arrabbiando”, giustamente…

Appunto, è un discorso allargato.

Ma se io Le chiedessi se si può ancora pensare, come è stato detto “romanticamente” in altre epoche, che “l’arte ci salverà”, Lei cosa mi direbbe al riguardo?

Che non lo credo, anche perché non vedo per quale motivo l’arte dovrebbe assumersi l’ingrato compito della salvezza del mondo.
Questo poi è indubbiamente un momento molto difficile anche per l’arte; ciò non vuol dire che non ci sia più niente da fare e da comunicare in tale ambito, non sto dicendo questo, ma l’arte senz’altro non sta attraversando un momento facile.

Lei negli ultimi anni è entrata in contatto con diversi artisti, ed è intervenuta come commentatrice e critica a varie mostre di giovani sul territorio milanese. Quale opinione si è fatta dello stato dell’arte attuale? Ritiene che ci sia, attualmente, dell’arte “di qualità”?

Non sono la persona adatta a cui rivolgere questa domanda, perché non ho competenze tali da poter giudicare a questo livello, anche se negli ultimi tempi mi ha interessato molto il lavoro di diversi artisti e in varie occasioni mi è stato chiesto di scrivere o fare degli interventi critici; erano amici, e agli amici non si può dire di no…
In giro si vedono molte cose brutte, in effetti, c’è poco di interessante; tuttavia è un momento di passaggio in cui stanno accadendo anche cose rilevanti, è un periodo di sperimentazione.
Il problema è che non siamo più nel ‘900, che è stato caratterizzato da una predominanza dell’arte nel contesto sociale; ora siamo nel secolo della tecnologia, ed è come se l’arte fosse stata relegata in un cantuccio, per così dire. Naturalmente mi aspetto una sua alzata di capo, magari nel senso che essa sarà in grado di fagocitare la tecnologia o comunque di stabilire un dialogo maturo con essa, ma saranno processi molto lunghi. L’arte ha ancora bisogno dei suoi tempi per confrontarsi con la tecnologia e assorbirla al proprio interno, trovare degli equilibri rispetto alla componente tecnologica.

Mi pare proprio che senza farLe tutte le domande che avevo preparato, Lei abbia spontaneamente toccato tutti gli argomenti su cui avrei voluto una Sua opinione.
Adesso stavo riguardando le mie domande, la seconda ad esempio concerneva proprio l’esperienza di docente…

Io ho sempre insegnato, e insegno tuttora, anche se potrei non farlo più, perché per me insegnare è sempre stato un modo per confrontarmi, perché solo gli studenti potevano offrirmi determinati spunti e determinate occasioni di riflessione; non ho mai insegnato solo perché era il mio mestiere e per vivere, o per trasmettere delle informazioni, ma perché questa attività era ed è vista da me in termini di scambio.

Le è piaciuto insegnare al Liceo Musicale del Conservatorio?

Molto, perché mi ha riavvicinato a una dimensione diversa, che non avevo avuto negli anni precedenti, avendo insegnato in contesti anche molto difficili, ad esempio Quarto Oggiaro, con ragazzi anche più piccoli con i quali, chiaramente, lo scambio non poteva avvenire nella stessa misura.
L’allievo di Conservatorio era un tipo di allievo molto interessante e particolare, essendo già fortemente motivato nello studio, non dicendo “chissà cosa farò” ma avendo invece un obiettivo preciso, e vivendo in maniera totale la dimensione della musica, anche se poi naturalmente c’era anche molta fragilità…

Quello che Le posso dire è che ancora oggi, quando mi capita di incontrare qualche compagno di allora e di parlare del Liceo, il Suo nome viene sempre fuori e tutti si ricordano delle Sue lezioni.

Perché quello che si coglieva era il fatto che la persona era lì a parlare di qualcosa in cui credeva fortemente, e non soltanto per spiegare.

Mi ricordo in particolare la lezione sul Mito della Caverna, quella su tutte le possibili implicazioni del Flauto Magico, quelle su Giordano Bruno e su Walter Benjamin; in generale, comunque, più quelle di filosofia che quelle di storia, forse perché in filosofia Lei affrontava gli argomenti per grossi blocchi monografici. In storia però ricordo, ad esempio, lezioni molto dettagliate sulla Restaurazione.
Spesso comunque erano temi al di fuori del programma previsto…

Certo, spessissimo.
Io poi non mi attengo mai rigorosamente ai programmi, e le lezioni stesse non sono pianificate. Oggi, ancora più di allora, io non preparo le lezioni ma decido al momento cosa dire; è un pensare ad alta voce, anche perché ogni volta che si affrontano gli argomenti il modo di affrontarli cambia, non può essere identico. Ogni volta ti accorgi, parlando, di un particolare a cui non avevi pensato, come quando si guarda lo stesso quadro in momenti diversi: vedi sempre qualcosa di diverso e di nuovo. Oppure (tu lo sai, avendo studiato musica), è come suonare lo stesso pezzo più volte, due esecuzioni non saranno mai identiche, se così è vuol dire che è soltanto tecnica, ma non c’è niente, non viene fuori niente.

Intervista curata da Laura Montingelli