Circolo Culturale Albatross: Stig Dagerman
Il viaggiatore


Stig Dagerman


La copertina del libro


Stig Dagerman

Ho fatto una scoperta interessante: digitando il nome di Stig Dagerman, una delle figure di maggior spicco della letteratura svedese, e nordica in generale, di questo secolo, non in uno ma in più motori di ricerca, mi sono stati indicati solo due siti italiani (tra l'altro non proprio eccezionali, se scusate l'eufemismo)
Il risultato è stato ben diverso facendo una ricerca estesa a tutti i siti del web: i siti di Dagerman, tra l'altro tutti rigorosamente in svedese e tutti rigosamente a me incomprensibili, fiorivano come il mio glicine in primavera…una moltitudine di informazioni, di commenti, forse anche di testi.
A mio modo di vedere tutto questo ha un suo razionale, e dirò di più, una sua necessità: Dagerman è stato veramente un grande scrittore, uno di quegli scrittori di cui difficilmente ci si stanca, di cui ci si annota il modo di scrivere, alcune frasi, il pensiero. Geniale e maledetto dotato di una capacità stilistica davvero notevole (e dicendo questo mi accorgo di quanto mi dispiaccia non conoscere lo svedese).
Autore più che altro di racconti, Dagerman si fa il portavoce del disagio verso un mondo dilaniato non solo dal conflitto mondiale, ma soprattutto dal conflitto sociale tra i ricchi e i poveri, che sono contrapposti come modelli di un'umanità diversa eppure sempre irrisa dal destino, irrimediabilmente tragico.
Questo destino drammatico e ineluttabile ci viene rovesciato addosso, a volte anche dalle prima pagine o anche solo dalle prime righe (come in quel brevissimo racconto che è "Uccidere un bambino" e che riassume in modo impeccabile gra parte della concezione sia poetica che della vita di Dagerman): siamo di fronte a un racconto che sa di cinematografia, siamo anche noi spettatori, consapevoli, a differenza dei protagonisti, di un destino che attende i personaggi e che non potrà in nessun modo essere cambiato. Vediamo così i personaggi dirigersi incontro al dramma che da subito è sviscerato: eppure questo da al tutto un pathos incredibile.
Non c'è spazio però per la disperazione, la tensione drammatica è resa con lucida consapevolezza, con disillusione: come se non valesse neppure la pena lottare per cambiare le cose, in un clima di rassegnazione, che solo poche volte viene vinto. Ognuno si dirige stancamente, più o meno conscio di ciò che lo aspetta, verso un destino tragico-ironico, che porta sempre l'opposto di ciò che si ricerca.
Dagerman rivolge il suo sguardo soprattutto sui bambini, presenti nei suoi racconti come "dannati dal destino", impossibilitati sia a dare che ad avere, ma soprattutto disillusi come gli adulti, senza più sogni, senza possibilità di uscire dalla loro statica condizione, assillati dal proprio dramma a causa di una maggior sensibilità che li porta a sentirsi essi stessi sbagliati, con il rimorso di vivere.
Ma il dramma vero sembra essere soprattutto la mancanza di comunicazione, il restringimento degli affetti, l'incapacità di mettersi in comunione profonda. (La scacchiera, A casa della nonna)
Persino all'interno della propria famiglia non ci si (ri)conosce: forse perché ognuno non conosce neppure se stesso. (Una tragedia minore, La notte di San Giovanni)
In realtà Dagerman è molto più sottile: non ci conosce infatti perché è sbagliato l'oggetto del conoscere, perché si va a analizzare la materialità. Sono le cose che ci dicono chi siamo? Potremmo mettere questa frase un po' come una provocazione, anche oggi molto attuale.
Dagerman si fa allora specchio critico di una società profondamente malata dalla ricerca della felicità nelle cose, dimenticando gli affetti, i rapporti, ma mostra al contempo l'impossibilità di trovare davvero la felicità, perché il mondo è assurdo e drammatico anche per i ricchi.
Insomma un pessimismo cosmico che fa pensare anche se con molte diversità a Leopardi, e che Dagerman visse sulla sua pelle, giungendo a suicidarsi giovanissimo, all'apice del successo.

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