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 Attraverso lo specchio oscuro
 Intervista a Franco Pezzini
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franco pezzini
Franco Pezzini è autore di un erudito saggio intitolato Cercando Carmilla. La Leggenda della Donna Vampira, pubblicato da Ananke nel 2000. Partendo dal racconto di Le Fanu e delle successive rielaborazioni filmiche e letterarie, l’autore ha diligentemente ricostruito le origini del mito della donna vampira fornendone un’analisi storico-sociologica e psicologica. Muovendosi attraverso gli indizi contenuti in Carmilla (considerando anche, con particolare attenzione, proprio gli “anagrammi del sangue”), nella biografia dello scrittore irlandese ed anche nel Dracula di Bram Stoker; questa ricerca porta alla luce la figura di Barbara di Cilli che, insieme alla contessa Bathory, può essere considerata il personaggio storico che ha contribuito alla nascita della contessa di Karnstein. Il Catafalco lo ha intervistato per voi.

Catafalco: Come mai hai scelto Carmilla come tema del tuo saggio?
F. P.: Diciamo che la storia di Carmilla mi ha sempre affascinato, fin dai primi riassunti incontrati in qualche testo sui vampiri e in seguito, a maggior ragione, dopo aver letto lo splendido racconto di Le Fanu. È difficile non rimanere colpiti da questa fanciulla seducente e malinconica, dal vorticoso gioco di doppi e raddoppiamenti intrecciati nella vicenda, dalla sua stessa narrazione elegante, in punta di penna. Tuttavia l’idea di dedicare uno studio vero e proprio all’argomento è sorta dopo essermi casualmente imbattuto in uno strano libretto francese, Dracula et les vampires di Jean-Paul Bourre, un autore legato al mondo dell’esoterismo nero d’Oltralpe: in mezzo a una vera lanterna magica di tesi curiose, di notizie sconosciute e magari azzardate, vi si sosteneva la derivazione del personaggio di Carmilla di Karnstein da una Barbara “de Cilly” sposa dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo e riemersa dalla tomba grazie ai riti della Magia sacra di Abramelin, un grimorio (cioè testo di magia cerimoniale) di pretesa origine medioevale. Barbara, come Carmilla, veniva tra l’altro da una nobile famiglia della Stiria, la regione oggi divisa tra Austria e Slovenia: donde l’idea di una “pista stiriana” che permettesse di collegare la vampira letteraria, la sua presunta matrice e i primi progetti per il Dracula di Stoker (che in seguito, invece, optò per la collocazione transilvana del Conte non-morto). Tutti i commentatori di Carmilla sembravano considerare la Stiria una regione particolarmente vessata dalle superstizioni sul morto-che-torna, ma nessuno sapeva fornirmi elementi più calzanti – qualcosa, insomma, che permettesse per Carmilla un’operazione parallela a quella svolta da McNally e Florescu sulle origini di Dracula. Pazientemente, seguendo il filo del vecchio grimorio e delle riletture nell’ambito del moderno occultismo francese, della storica Barbara di Cilli (cioè Celje, nell’attuale Slovenia) imperatrice e alchimista cofondatrice dell’Ordine del Dragone, delle stesse fonti a disposizione di Le Fanu, è stato possibile ricostruire lo sviluppo di un mito moderno, articolato in poco più di cent’anni (dalla stesura del racconto, 1871): e risulta particolarmente interessante scoprire quanto vi abbiano avuto parte dati folklorici o storici reali, e quanto invece preconcetti, interpretazioni azzardate, equivoci, vere invenzioni. A fronte di ciò che è avvenuto per un mito “piccolo” e recente quanto quello di Carmilla, resta solo da domandarsi quali percorsi devono essersi intrecciati in epopee di maggiore ampiezza e antichità, come per gli eroi dell’Ellade o per Artù.

C.: Quale, fra le produzioni moderne, secondo te, è riuscito a sfruttare nella maniera migliore l’eredità di Carmilla per quanto concerne il “perturbante”?
F. P.: Occorre dire subito che, al di là delle fuorvianti indicazioni di qualche titolo recente, del racconto di Le Fanu non esistono grandi riletture con pretese filologiche quali il Bram Stoker’s Dracula di Coppola o il Frankenstein di Branagh: esistono però alcune buone versioni, fedeli in misura maggiore o minore alla trama originale. Per motivi sentimentali e di forte impatto del tema su un pubblico popolare, penso anzitutto a una pellicola della mitica casa britannica Hammer, The Vampire Lovers (Vampiri amanti), 1970 di Roy Ward Baker, con Ingrid Pitt nel ruolo di Carmilla e Peter Cushing in quello del generale Von Spielsdorf. Forse più attenti a una dimensione autenticamente perturbante – per quanto reinterpretata in termini piuttosto liberi – citerei altri film, l’italo-iberico La cripta e l’incubo, 1964 di Mastrocinque (con Christopher Lee nel ruolo del Conte Karnstein e una straordinaria Adriana Ambesi come Laura sua figlia), e La novia ensangrentada (Un abito da sposa macchiato di sangue), 1972 di Vicente Aranda. Resta il fatto che l’accentuata, aggressiva fisicità sessuale delle riletture cinematografiche ha in parecchi casi lasciato in ombra la più sfuggente ambiguità intessuta nel testo, quell’inquietudine legata al familiare e al rimosso che serpeggia sullo sfondo del legame erotico tra la narratrice e Carmilla – degradando in sostanza la figura di quest’ultima a banale stereotipo di affamata vampira lesbica.

C.: In un capitolo di Cercando Carmilla troviamo citato Kim Newman con Anno Dracula, in questo romanzo si muove una di quelle vampire che hai definito “postmoderne”; cosa può accomunare Carmilla ad un personaggio come Geneviève?
F. P.: Letteratura e cinema hanno modellato, nel tempo, alcuni modelli fondamentali di vampire, più o meno irrigidendoli (appunto) in stereotipi o contaminandoli l’uno con l’altro, ma con tratti distintivi di fondo abbastanza netti. Con la definizione di vampire postmoderne – che in parte si riallaccia alle analisi di Massimo Introvigne – ho cercato di differenziare da quei modelli “classici” la variegata pluralità di nuove figure di vampire, accomunate da una complessa, problematica, spesso sofferta dignità di personaggi e da un rapporto di forte identificazione e simpatia con il pubblico: un rapporto, in qualche modo, di specchio oscuro, secondo la suggestiva immagine biblica che Le Fanu richiama nel titolo (In a Glass Darkly) della raccolta cui Carmilla si lega. Di volta in volta dinamiche o frustrate (pensiamo a Claudia, la succhiasangue-bambina di Anne Rice), coraggiose (appunto Geneviève), magari nevrotiche, le vampire postmoderne appaiono del tutto irriducibili alle connotazioni mostruose del vampiro classico, anche per l’eclissi di un sistema etico-religioso tradizionale sullo sfondo, e notevolmente più vicine al mondo di emozioni e sentimenti degli uomini. Con le sue impennate ideali e le ventate di malinconia, le frustrazioni e la solitudine nello scontro coi mortali (la sua spettrale famiglia non pare interessata né in grado di aiutarla), con lo stesso sapore tragico di una sconfitta cui non corrisponde alcuna vera salvezza per la vittima-amante, Carmilla può ben considerarsi un’ideale progenitrice di questi nuovi personaggi femminili.

C.: Nel tuo saggio dedichi spazio anche alla figura del cacciatore di vampiri “classico”. Adesso il cacciatore non ha più i connotati del “dolce vecchio”, ma appare sotto forma di muscolosi guerrieri nelle cui vene scorre, in parte, sangue di vampiro oppure come un’apparentemente innocua ragazzina liceale. Secondo te quali sono le cause che stanno alla base di questa metamorfosi e le ragioni del successo che hanno avuto i cacciatori in questi ultimi anni?
F. P.: È una domanda interessante. Sicuramente l’eredità del grande Peter Cushing risulta difficile da raccogliere, il Van Helsing di Anthony Hopkins non rappresenta una figura “seriale” e Christopher Plummer (che ben prima di Dracula’s Legacy impersonava un vampirologo in Nosferatu a Venezia) sembra destinato a ruoli di sconfitto: ma il motivo, evidentemente, non è solo questo. Se partiamo dalle fonti, il vampirologo è spesso “anziano”, a cominciare da Apollonio di Tiana che esorcizza l’Empusa nella narrazione di Filostrato; in Carmilla il conflitto vede contrapporsi il mondo dei vecchi (quasi tutti i personaggi) e quello dei giovani (Laura e la vampira suo specchio), mentre in Dracula un gruppo di giovani guidati da Van Helsing, il vecchio buono, lotta contro il Conte, il vecchio cattivo. In seguito il cinema riproporrà enfatizzandolo il medesimo schema: nel capolavoro della Universal, Dracula-Lugosi è trafitto non dai giovani ma dall’anziano professore, e un ruolo anche maggiore avrà Van Helsing-Cushing nella produzione Hammer. A proposito di tale fenomeno narrativo, Moss parla di “svirilizzazione dell’eroe”: già secondo schemi classici, la figura anziana risulta non solo ricca di maggiore esperienza e conoscenze tradizionali, ma più “fredda” e ascetica, impermeabile a passioni e pulsioni – e proprio la lotta contro voluttuose, desiderabili vampire porrebbe a rischio gli eroi giovani. Al punto che nel romanzo è Van Helsing a decapitare le tre “sorelle” del Castello Dracula, lasciando ad Harker e compagni la lotta contro il Conte: ma la quasi riuscita seduzione di Van Helsing-Hopkins da parte di Mina vampirizzata rappresenta in Bram Stoker’s Dracula il segno d’una consumata crisi del modello citato. Negli ultimi decenni, infatti, più o meno in parallelo al sorgere delle vampire postmoderne, una nuova generazione di cacciatori è apparsa nei romanzi e soprattutto sugli schermi: figure anticanoniche come le graziose fanciulle dal paletto facile, o invece radicate (almeno virtualmente) nelle categorie preletterarie del sordido, allucinato mondo delle grandi epidemie vampiriche settecentesche, con bruti prezzolati che spalancavano tombe e decapitavano cadaveri. A fronte dei vecchi, freddi asceti dalle inesorabili scelte morali si stagliano ora personaggi “impuri” sia in senso biologico (si pensi al recupero dell’antico dhampiro folklorico, figlio del non-morto e di una mortale, in fortunate epopee del fumetto, o al motivo del sangue vampirico riciclato da Van Helsing-Plummer in Dracula’s Legacy) sia del comportamento, come nel caso dei cacciatori coraggiosissimi, sporchi e puttanieri in azione nel Vampires di Carpenter. D’altro canto, se già il febbrile Van Helsing di Hopkins si muoveva sul limite sottile del delirio, la deriva è ormai compiuta in Nadja di Almereyda, 1994: Peter Fonda vi figura nel doppio ruolo di un Van Helsing sporchiccio e capellone e di un Dracula ormai privo d’incanto come (viene detto) l’ultimo Elvis. Ciò che rimanda, in fondo, a qualcosa intuito da sempre dai lettori più attenti, cioè a quel rapporto ancora di specchio oscuro, di somiglianza e opposizione speculare che lega non solo la vampira alla vittima-amata, ma lo stesso Dracula al suo principale nemico: immagine, ancora, di una stessa duplicità feroce che rechiamo in noi stessi. Che nel grande teatro irrazionalistico dell’oggi il cacciatore di vampiri divenga nuovamente un “modello” non deve stupire, tanto più nei termini disinvolti dianzi citati. D’altra parte, il Van Helsing che risulta in preparazione potrebbe modificare e magari invertire tali tendenze nel senso di un ritorno all’eroe anziano, asceta e compassato – vedremo.

C.: Hai altri saggi vampireschi e non in cantiere?
F. P.: Scaramanticamente, preferirei non entrare in dettagli… Posso comunque dire che, insieme a una giovane studiosa molto brava, siamo in effetti al lavoro.

C.: Molti saggisti italiani si sono cimentati con la figura del vampiro: cosa pensi della scena editoriale italiana per quanto riguarda la saggistica di genere? Non trovi strano che da firme italiane provengano più saggi sui vampiri che non opere letterarie?
F. P.: In effetti la produzione saggistica nazionale è di altissima qualità, sia per quanto attiene agli studi generali sia per le monografie su temi specifici, e connotata dalla ricchezza di approcci diversi – dall’antropologia religiosa alla storia dell’immaginario, alla letteratura in senso stretto… Per quanto riguarda la produzione letteraria italiana, il vampiro è stato in realtà molto frequentato da prosa e poesia di diverso livello, soprattutto in passato: per opere classiche degli ultimi decenni ricorderei Anemia di Abruzzese e le straordinarie epopee vampiriche di Gianfranco Manfredi, col sinistro reviviscente di Magia rossa e la deliziosa raccolta Ultimi vampiri. Un capolavoro assoluto resta poi L’ultima notte di Furio Jesi, mitologo per cui nutro una particolare venerazione (mi trovo tra l’altro a frequentare il suo stesso luogo di lavoro, in UTET, a distanza di vari decenni): la vicenda dell’ultimo tentativo concesso ai vampiri di dominare la Terra, strappandola a una razza umana immeritevole, e lo scontro spiato dai quartieri e dalle piazze della Torino dell’autore (e mia) è intessuta d’una tale vertiginosa serie di suggestioni mitologiche e antropologiche da avere finora scoraggiato, a quanto pare, qualunque commento analitico. Per l’oggi, l’opera geniale di Valerio Evangelisti mostra frequenti attenzioni al tema vampirico (i miti del sangue, la figura di Lilith, ecc.), come del resto risulta dal suo ruolo nella rivista Carmilla – al cui proposito, anzi, non dovremmo dimenticare la vitalissima presenza di autori giovani di diversa notorietà, per quanto estranei ai grandi circuiti editoriali. Considerando poi il fiorire di siti – anche in Italia – attenti al filone di cui stiamo parlando, mi pare possibile che grosse sorprese possano sorgere anche sul piano narrativo, in raccordo o meno con il mondo del revival neogotico.

C.: Chi è il vampiro per Franco Pezzini?
F. P.: Un personaggio affascinante protagonista di storie affascinanti e, appunto, uno specchio oscuro in cui ritrovare l’inconfessabile su me stesso – ma reso innocuo dalla distanza mitica, e dunque contemplabile. In ogni caso, la figura simbolica più potente d’una dimensione di confine – tra vita e morte, corpo e spirito, piacere e dolore, desiderio e paura, bellezza e bestialità, persino tra mondi culturali diversi – che l’uomo contemporaneo ritrova costantemente nella propria vita. L’arcaicissimo vampiro, arconte dell’indecidibile e signore dei mass-media in un mondo di fedi oscurate, rappresenta paradossalmente un’espressione forte della modernità: cioè, in pratica, di noi e dei nostri malesseri, delle nostre seti e lacerazioni profonde. Un’immagine circonfusa di leggenda, ma con un contenuto esistenziale serissimo.

C.: Come mai una figura tanto sfruttata dai media come quella del vampiro continua ad affascinare scrittori e registi (oltre al loro pubblico, ovviamente)?
F. P.: Proprio per la possibilità che il vampiro permette di evocare istanze di rilevante profondità simbolica e insieme effetti facili, di immediato impatto sul pubblico. Tra i miti orrifici, quello del vampiro ha mostrato più di altri (lo scienziato pazzo, l’uomo-lupo, la mummia…) potenzialità spendibili in letteratura: i temi del contagio, della sopravvivenza post mortem, dei confini estremi dell’erotismo. Per il cinema, poi, è un veicolo straordinario di inquietudini e suggestioni d’epoca, che permette di richiamare e insieme nascondere (a fini di fascinazione più che di censura) la celebrazione di temi caldi – la sessualità libera e non riproduttiva, l’omosessualità, il sadismo e il feticismo, ma anche il timore dell’AIDS e le varie forme di dipendenza. Pensiamo ai film della Hammer, che tra gli anni Cinquanta e i Settanta, con una squadra affiatata come una buona compagnia teatrale e capitali limitati, riportarono a un pubblico popolare i grandi miti del gotico attraverso una serie di “cicli” e un’articolata galleria di personaggi – vere e proprie (pseudo)sacre rappresentazioni, misteri pagani dai ruoli rituali fissi (il mostro-Lee, il sapiente-Cushing, ecc.) dove sangue e erotismo in modicissime dosi svolgevano una funzione a un tempo liberatoria e tranquillizzante sul pubblico e le sue pulsioni. D’altro canto i temi vampirici della bellezza e della seduzione, della libertà da coordinate del quotidiano (etiche o biologiche che siano) risultano altrettanto funzionali a una logica critica, poeticamente provocatoria: il vampiro fu molto amato dai surrealisti, e certi poemi filmici di Jean Rollin hanno recepito tale retroterra persino a dispetto di critica e pubblico. Con l’ambiguità della sua statura mitica, il vampiro sfugge in realtà alle stesse intenzioni dei suoi cantori – ciò che rappresenta, mi pare, un ulteriore motivo di fascino. È senz’altro vero che dell’ormai strabordante produzione filmica a livello planetario una consistente parte si consuma in storiacce di sesso e sangue scurrilmente miscelati: ma resta pur sempre una quota apprezzabile di pellicole interessanti – se non per la felicità dell’esito, almeno per i contenuti.

C.: Negli ultimi anni i romanzi vampireschi più venduti portano delle firme femminili: Anne Rice, Poppy Brite, Suzy McKee Charnas, Jeanne Kalogridis… Cosa ne pensi della rivoluzione al femminile del romanzo di Vampiri?
F. P.: Un fenomeno benvenuto, di notevole interesse e senz’altro in relazione con l’accennato emergere dei nuovi modelli di vampire (anche se i due insiemi non sono totalmente sovrapponibili): in gran parte alle letture al femminile va attribuito l’avvicinamento psicologico del vampiro al suo pubblico, la caduta d’una distanza che lo definiva negli schemi del mostro. Un fenomeno da raccordare, peraltro, al più ampio successo di firme femminili in ambito fantastico (pensiamo a Marion Zimmer Bradley) e, in molti casi, alle peculiarità di una “via americana” con elementi di notevole fortuna per l’elasticità delle trame – per esempio, il motivo ricorrente dell’avventura attraverso i secoli, quasi a compensare una certa “giovinezza” della storia americana. Un fenomeno, ancora, in rapporto dialettico con tutto un filone di studi femminili sulla vampira – ricorderei la brava critica e antologista Pam Keesey – in chiave di attenzione al lesbismo e alle mitologie femminili. In un’affascinante tesi reperibile sul web, Women with Fangs, Carrye L. De Mers ha comunque dimostrato come la rivoluzione femminile del romanzo di vampiri trovi radici già a partire dal XIX secolo, attraverso una produzione meno nota ma robustamente alternativa all’horror vampirico maschile coevo.

C.: Classici e moderni: quali sono i tuoi film e romanzi di vampiri preferiti?
F. P.: In materia letteraria devo ammettere la mia preferenza per i classici – Dracula e Carmilla in prima linea – che riservano sempre qualche sorpresa. Tra i moderni mi hanno entusiasmato Anno Dracula e, tra gli italiani, le opere citate di Jesi e Manfredi (a parte Evangelisti, cui sono totalmente devoto). Confesso che invece mi lascia un po’ freddo Anne Rice, pur ammettendone la bravura e l’originalità. Per quanto riguarda il cinema, nutro venerazione – si sarà capito – per i film della Hammer, e in generale trovo particolarmente suggestive le produzioni degli anni Settanta – l’età d’oro delle vampire lesbiche, come qualcuno li ha definiti. Il “mio” Conte transilvano resta Christopher Lee, anche se ogni tanto mi piace rivedere Bram Stoker’s Dracula, un film molto riuscito e godibile.

C.: Ci racconti il tuo primo “incontro” con il vampiro?
F. P.: Quand’ero bambino, ovviamente mi incuriosivano le immagini di vampiri – la copertina d’un Dracula Longanesi, i cartelloni d’un film con Christopher Lee – ma nella biblioteca di famiglia il genere non era rappresentato. Solo più avanti, dopo aver letto qualche articolo su giornali illustrati – in occasione, credo, dell’uscita del famoso Alla ricerca di Dracula di McNally e Florescu, e in seguito col lancio turistico della Romania di Ceaucescu – ricordo d’essere andato a scavare in una libreria della zona: il volume dei due studiosi c’era ancora, e l’ho portato a casa trionfante. Così è cominciato tutto…



* Intervista rilasciata l' 11-08-2002.





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