Ci sono
uomini che trascorrono tutta una vita operosa ricoprendo importanti
cariche pubbliche senza peraltro lasciare di sé una traccia ai
posteri; altri, invece, dominano per anni, decenni la scena politica
con alterne vicende, meritando gloria e vituperio insieme, intricato
miscuglio di grandezza non priva d'infamia (Napoleone, per esempio).
C'è infine chi rimane nella storia per un unico episodio ma
fondamentale, decisivo per il destino di popoli interi.
Quest'ultimo
caso s'attaglia alla personalità di Sebastiano Venier, che volle e
vinse la più grande battaglia navale dell'età della marina a remi. In
poche ore, dall'alba al tramonto del 7 ottobre 1571, a Lepanto, egli
annientò la flotta di Alì Pascià impedendo che il Mediterraneo
diventasse un lago turco; sfatando la leggenda, nata nel XVI secolo,
dell'imbattibilità dell'Impero ottomano; salvando la Cristianità da un
disastro irreparabile. I quadri celebri rimasti a immortalarlo ce lo
mostrano tutti in questa occasione, in età molto avanzata (73 anni),
patriarca maestoso dalla lunga barba bianca, l'espressione sicura e
serena del giusto.
Proveniva dai Venier (Venerii), famiglia patrizia veneziana, le cui
prime tracce appaiono nell' XI secolo. Famiglia che prima di lui aveva
già dato alla Serenissima due dogi: Francesco (nel 1554) e più
indietro ancora (1382) Antonio, famoso per la sua inflessibile
dirittura morale: fece imprigionare fino alla morte il figlio Alvise,
reo di aver ingiustamente offeso i membri di un nobile casato della
Repubblica di S. Marco.
Sebastiano nacque nel 1496, primo figlio di Mosè Venier e di Elena
Donà. Crebbe alto, robusto, abile nel mestiere delle armi quanto nella
conoscenza della cosa pubblica; forte nel fisico e nel morale.
Abituato alle spartane rinunce ma capace, all'occorrenza, di gustare
la compagnia lieta, la buona tavola, le avventure galanti . I suoi
biografi « a posteriori » passano sotto silenzio le lunghe diatribe
che ebbe con fidanzati e mariti traditi, la sua abilità nel sottrarsi
ai legami duraturi. Soltanto nell'età matura scelse una giovane e
bella dama, Cecilia Contarini, e la sposò a quarantotto anni, quando
i suoi coetanei erano già padri da un pezzo, e magari nonni. Proprio
col matrimonio cominciò la sua brillante carriera pubblica. Due anni
dopo le nozze venne eletto duca di Candia, dove rimase sino al 1551.
Divenne quindi capitano a Brescia, deputato alla definizione di
vertenze confinarie nel Friuli, podestà a Verona. Richiamato a
Venezia, fu di seguito insediato « avogador di Comun », Savio grande,
provveditore generale alle fortezze, procuratore di San Marco. Dal
marzo 1570 designato provveditore a Corfù e subito dopo provveditore
generale di Cipro. Dimostrò capacità, lungimiranza, spirito aggressivo
nei confronti dei nemici della Serenissima.
La
declinante Repubblica era decisa a conservare amichevoli rapporti con
l'Impero ottomano, che si estendeva tra Africa, Asia ed Europa. Impero
immenso, creato da Solimano il Magnifico, che il 6 Settembre 1566
moriva a 71 anni combattendo, com'era vissuto. Venezia, pur di
conservare la libertà di commerci e i possedimenti nel Mediterraneo
orientale versava alla Sublime Porta un tributo annuo di 8500 ducati.
Le interessava in particolare Cipro, centro vitale tra l'Europa e
l'Asia, isola produttrice di metalli, vini e di una qualità di
zucchero molto ricercata in tutto l'Occidente. Cipro, a 2000 miglia
dalla Laguna, circondata dai turchi, era peraltro molto difficile da
tenere. Per di più i successori di Solimano, temendo d'essere
ingannati dalla neutralità di Venezia, inviarono un ambasciatore con
questa intimazione: « Vi domandiamo Cipro, che ci darete per amore o
per forza. Guardatevi dall'irritare la nostra terribile spada,
altrimenti muoveremo contro di voi guerra crudelissima in ogni parte;
né confidate nella ricchezza del vostro tesoro, perché faremo in modo
che esso vi sfugga di mano come torrente ».
Un
linguaggio del genere non poteva essere tollerato; il Gran consiglio
lo respinse e, preparandosi alla lotta, si rivolse al più esperto, al
più risoluto dei suoi comandanti, appunto Sebastiano Venier. Questi,
alla vigilia dì compiere 75 anni, il 13 dicembre 1570 fu nominato «
Capitano generale da mar » e senza indugio si mise all'opera
riordinando l'armata, iniziando l'assedio di Durazzo. Venier comprese
subito che il nodo della vicenda andava districato con uno scontro
decisivo in mare. Preparò la sua arma segreta: sei super‑galere dette
galeazze o maone che erano una via di mezzo tra la galea e i grandi
vascelli a vela che si andavano costruendo
in quel secolo, ma con un potenziale di fuoco del tutto insolito per
le navi dell'epoca. Autentiche « fortezze galleggianti » con tre
alberi, 23 remi per parte a ciascuno dei quali erano preposti 6
uomini, 70 pezzi d'artiglieria tra cui il cannone centrale di prua che
lanciava una palla di ferro di quasi 40 chili. Ai lati di ciascun
banco di rematori, una petriera o bombarda che lanciava palle di
pietra pesanti fino a 25 chili.Intanto, per iniziativa principale di
Pio V, si era creata la Lega sacra tra la Chiesa, Spagna, Venezia
e alleati minori con lo scopo di perseguire « la rovina e la
distruzione del Turco » (il trattato della potente coalizione anti‑ottomana
fu firmato il 20 maggio 1571). Il comando generale dei collegati
toccò a don Giovanni d'Austria, il ventitreenne figlio naturale di
Carlo V fratellastro di Filippo II. Don Giovanni ebbe dei gravi
contrasti con Venier circa la data e il luogo dell'attacco ai
Turchi; il primo avrebbe voluto |
Sebastiano Venier nacque a Venezia nel 1496 e morì il 3 marzo 1578.
Nove mesi prima di spirare venne eletto doge della Serenissima. Qui lo
vediamo nel celebre ritratto che ne fece il Tintoretto. |
attendere un'occasione propizia, l'anziano comandante veneziano si battè, e la spuntò, per
giungere allo scontro il più rapidamente possibile. Inoltre alla
vigilia della grande prova Venier fece impiccare un capitano e tre
marinai al soldo della Spagna, colpevoli di aver ucciso alcuni
veneziani: e don Giovanni lo minacciò di fargli fare la stessa fine. Il 7
ottobre la più grande flotta mai schierata dalla Cristianità muove
incontro alla flotta turca che aveva lasciato l'imboccatura di
Lepanto, presso le Curzolari, nella zona di mare greco che divide il
golfo di Patrasso dal golfo di Corinto. Le forze
sono all'incirca pari. La flotta turca, agli ordini di Mehmet Alì
Pascià, comprende 222 galee e 60 galeotte, con 750 cannoni e 88.000
mila uomini.
La flotta cristiana è
costituita da 202 galee, 6 galeazze, 30 navi minori; ha meno uomini
(74.000) ma più cannoni (1815). Venier comanda le 105 galee e le 6
galeazze veneziane. Fa rimorchiare per prime incontro al nemico queste
« fortezze galleggianti », che quando vengono affiancate dalle navi
turche fanno tuonare le petriere delle fiancate improvvisamente,
provocando squarci, devastazioni, morte. I vascelli musulmani, benché
scompigliati, proseguono la loro rotta verso la « Reale » di don
Giovanni, che è affiancata dalle navi ammiraglie di Venier e del
pontificio Marc' Antonio Colonna. Sebastiano Venier, con accanto il
giovane nipote Lorenzo, ha indossato una pesante corazza e calzato
delle leggere « pianelle » per muoversi con maggiore agilità.
Partecipa direttamente al combattimento ravvicinato, lanciando palle
di ferro con una balestra che un servente è pronto ogni volta a
ricaricare li Capitano «generale da mar» è il fulcro della lotta con
l'esempio e con gli ordini fulminei. Accortosi che l'ammiraglia
ottomana di Alì Pascià cerca di abbordare la « Reale » spagnola, la
investe all'altezza dell'albero maestro. Divide i soldati per far
fronte alle altre navi nemiche che cercano di circondarlo, ordina agli
archibugieri di battere con un tiro fitto e preciso la galea del
comandante turco. Poi, l'arrembaggio.
I giannizzeri, per
difendere la vita del loro capo, oppongono una disperata resistenza a
poppa, dietro una barricata di Iegnami e materassi. Venier spazza
quest'ultima barriera facendo sparare un colpo di petriera caricata
con pezzi di ferro e catene. Mehmet Alì Pascià, ferito, viene
catturato dai marinai, decapitato, e la sua testa issata su di una
picca affinché tutti i vicini, amici e nemici, possano scorgere il
macabro trofeo. E' la fine per gli ottomani superstiti: chi cerca
scampo nella fuga e chi s'arrende. La battaglia, mentre
scende il tramonto, è vinta. Bilancio: tra i Turchi 8.000 morti,
10.000 prigionieri, 50 navi affondate e 117 catturate; tra gli alleati
15 galee e 7.500 uomini perduti, tra cui Agostino Barbarigo, che
comandava l'ala sinistra cristiana (alla destra era il genovese Gian
Andrea Doria). Tra i cattolici feriti, un giovane volontario spagnolo,
Miguel Cervantes, futuro autore del Don Chisciotte (perderà per sempre
l'uso della mano sinistra). Don Giovanni chiama accanto a sé il «
leone di Venezia », lo abbraccia alla presenza delle truppe esultanti.
Sebastiano Venier, al
ritorno, ebbe gli onori del trionfo. La sua fama si propagò in tutto
il mondo occidentale, suscitando
le invidie della potentissima Spagna. Il Senato fu costretto, per
tacitare i grandi spagnoli, ad affiancargli un altro capitano
generale, lacopo Foscarini. L'episodio non impedì il più giusto dei
riconoscimenti: Venier fu nominato doge (l' 86°) dall' 11 giugno 1577
al 3 marzo del 1578, giorno in cui morì.
Lasciò
di sé una grande memoria. Come uomo, i veneziani suoi contemporanei lo
ricordarono per la affabilità bonaria, non disgiunta da un severo
rispetto per le cariche ricoperte più che per le dignità che ne
derivavano alla sua persona; e per il senso della giustizia, il fiero
coraggio mai ostentato ma sempre presente nei momenti decisivi, l'amore
per Venezia manifestato dall'attaccamento ai valori patriottici della
Serenissima e alle sue tradizioni più antiche e schiettamente popolari.
Come comandante, il giudizio su di lui fu affidato specialmente ai
posteri: i quali poterono valutare le sue eccezionali doti di
ammiraglio, il dono di saper amalgare sotto la sua ferrea guida ciurme e
capi di flotte diverse, espressioni di stati spesso divisi da rivalità
politiche e da ambizioni di primato. A Lepanto la cristianità prevalse
sui turchi perché Venier seppe dare un senso unitario alla lotta e
coinvolgere idealmente i combattenti, persuadendoli
che si battevano sotto una sola bandiera. Il resto lo
fece la sua maestria di capitano di mare.